IL GUERRIERO

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IL GUERRIERO

Mirko De Falco
Antonio Bottone

Mirko De Falco

Antonio Bottone

IL GUERRIERO

© 2024

Tutti i diritti riservati

Ogni riproduzione anche parziale è vietata

Editore Farvima Medicinali S.p.A.

Direttore Responsabile Simona De Falco

Curatrice Editoriale Valeria Scassa

Copertina Illustrazioni di Francesco Galano

Progetto Grafico A&B Studio

Stampa Legatoria Etrusca

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2024

All’amico, al padre, all’imprenditore

Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa.

Ferdinand Drucker

Introduzione

I. Panni stesi

II. L’incontro

III. La Vespa blu

IV. La lettera

V. Gli scacchi

VI. La regina e lo scugnizzo

VII. Ischia

VIII. Formiche

IX. Fabio

X. Le acquisizioni

XI. La morte, la vita

I fatti narrati in questo libro in alcuni casi sono arricchiti con episodi di fantasia, allo scopo di favorire la narrazione degli eventi.

Alcuni dei nomi citati sono inventati per tutelare la privacy delle persone coinvolte.

Ogni meritato successo del protagonista, della sua famiglia e delle loro aziende è reale.

INTRODUZIONE

Sono le diciannove. Con precisione svizzera i motori dei nastri trasportatori ripartono per la seconda volta in poche ore. La loro attività è incessante nei due turni di allestimento, alle dodici e trenta per tre ore e poi, appunto, alle diciannove sino al termine del servizio. Per tutto il tempo la struttura risuona di rumori meccanici, piccoli cigolii, suoni metallici, richiami costanti a un’attività che non si ferma mai, nessun giorno dell’anno, da quattordici anni in questo stabilimento, da ventotto nel territorio di Roma, da sessanta dall’inizio dell’azienda come la conosciamo oggi. Eppure sembra passata non più di una settimana o forse meno. Ciò che vedo intorno a me ha radici lontane, profonde e sofferte. Decido di uscire dal mio ufficio e scendere al piano terra. La mia stanza affaccia proprio sul centro della struttura, di fianco a molti altri uffici a schiera, tutti sullo stesso piano, tutti rivolti sul medesimo punto. La dirigenza e il comparto amministrativo hanno gli uffici proprio vicino al cuore dell’impresa, a quelle centinaia di metri quadri fatti di rulli, scatole e macchinari. Allora non si trattò di una scelta mirata ma di una casualità. La sorte volle che la più recente sede romana di Farvima, situata nella zona commerciale della Tiburtina, avesse una disposizione degli spazi tale da rappresentare lo spirito dell’azienda: dirigenti, impiegati e operai gomito a gomito, dove gli uni lavoravano al fianco degli altri stretti in un simbolico abbraccio a pochi gradini di distanza.

Scendendo le scale che portano alla base mi tornano in mente le parole di Renato: “Qualsiasi problema c’è stasera, domattina sarà risolto, fidati di me”. Questa frase me la ripeteva spesso, ogni volta che l’azienda si trovava ad affrontare un ostacolo rispetto al quale non vi era immediata soluzione. La sua reazione di fronte ai problemi non era mai di forte preoccupazione. Ogni

volta, dopo aver riflettuto, mi diceva: “Stasera ci penso e domattina avremo la soluzione”. Sosteneva che la notte gli portasse consiglio ma non poteva di certo essere solo questo, Renato aveva un’innata capacità nel trovare soluzioni efficaci in breve tempo.

“Dottor Bottone, che ci fa ancora qui?”. “Ciao André, niente di che, un po’ di lavoro arretrato, faccio un giro e poi vado anche io. Tu piuttosto? Non è finito il tuo turno?”. Mentre lo dico, so già cosa risponderà. È uno della vecchia guardia. Se li ricorda bene i tempi in cui non c’erano orari, in cui si faceva quello che si doveva fare e si andava a casa non prima di aver finito, nonostante la stanchezza. “Ho cercato di avvantaggiarmi un po’ per domani. Ho sistemato la merce arrivata in modo da risparmiare tempo nello smistamento”. Sorrido, senza replicare. Sarebbe inutile dirgli che avrebbe potuto fare la stessa cosa il giorno dopo, nessuno l’avrebbe rimproverato. Quelli come lui non lo fanno per sentirsi dire “Bravo”, ma perché credono nel loro lavoro e nel valore del servizio. Su questo, Renato era stato determinante. Era un esempio per tutti, il classico imprenditore che arriva in ufficio per primo e va via per ultimo. Sapeva bene che i dipendenti non fanno quello che il capo dice, ma quello che il capo fa. Io cercavo di imitarlo perché condividevo il suo pensiero: quando i propri collaboratori vedono nel capo un punto di riferimento, si diventa un esempio a cui ispirarsi.

Non dico nulla ad Andrea, mi limito a una pacca sulla spalla, immaginando che a breve anche lui tornerà a casa dalla sua famiglia come gli altri, mentre a me tocca ancora provare a ricordare cosa devo fare prima di andare via. Inizio a girare nei reparti. Una volta vi trascorrevo molto più tempo, soprattutto a riflettere. Allora c’era molto più spazio e molto meno rumore, adesso è tutto automatizzato e sembra davvero una di quelle fabbriche che si vedono in tv, piene di ingranaggi, schermi, luci e segnali acustici. Distribuire medicinali è complesso. Oltre novantamila referenze, da moltiplicare per i quantitativi che servono per evadere in una manciata di ore gli ordini di migliaia di farmacie, ovunque siano ubicate. Si tratta di un servizio essenziale, che trascende dalla mera operatività di una mansione. Nessuna farmacia, anche la più

grande e fornita, potrebbe funzionare senza la distribuzione intermedia, da cui effettua grandissima parte dei suoi acquisti. Quando un paziente chiede un farmaco che la farmacia non ha, il farmacista si impegna a garantirne la disponibilità entro poche ore. Qui entriamo in gioco noi. Quella promessa fatta dalla farmacista al cliente diventa nostra e per questo la prendiamo molto sul serio: da una parte la persona che ha richiesto il farmaco deve iniziare una terapia, dall’altra la farmacista attraverso il nostro servizio deve poter garantire l’efficienza che le è notoriamente riconosciuta.

Passeggio tra i corridoi, seguendo l’itinerario della rulliera che percorre il padiglione. Passo davanti agli scaffali. Innumerevoli referenze: farmaci salvavita, vaccini, stupefacenti, omeopatici, prodotti da banco, dispositivi medicali, nutraceutici, cosmeceutici, magistralmente ubicati che, in conseguenza degli ordini che giungono dalle farmacie, vengono prelevati, sottoposti a controlli manuali e robotici, freneticamente inseriti in casse che, scorrendo verso le baie di uscita, verranno sigillate e affidate ai corrieri per essere consegnate in tempo a tutte le farmacie, giorno dopo giorno, all’infinito. Mi soffermo a pensare a come fosse diverso il lavoro alla fine degli anni Sessanta, quando Renato iniziò la sua carriera e io cominciai a seguirlo in questa avventura.

Oggi ci sono computer, software di gestione, robot che organizzano le spedizioni. Nel 1967 c’erano Renato, un motorino, fogli di carta, e il sottoscritto a dargli una mano. Che bei ricordi!

Sessant’anni fa, a Napoli come altrove, la distribuzione dei farmaci era embrionale, caotica, poco organizzata. Allora come oggi, essendo insostenibili gli ordini diretti alle case farmaceutiche, le farmacie avevano vitale bisogno dei grossisti che, essendo poco strutturati, facevano salti mortali per dare un supporto logistico.

Gli ordini venivano dettati per telefono a persone che rifornivano le farmacie facendo la spola tra i grossisti. L’intermediario, faceva un viaggio al giorno. Quando il farmacista richiedeva un farmaco oltre il termine, la consegna slittava al giorno dopo. Renato decise che era tempo di organizzarsi per fare la spola tra farmacie e grossisti più volte al giorno, assicurando una più efficien-

te evasione degli ordini. L’intuizione e il guizzo di Renato, che replicai a Roma quando aprimmo la sede di Farvima nella capitale, furono preludio dell’impetuoso sviluppo realizzato negli anni successivi. Da allora si sono moltiplicati i depositi sul territorio, il volume degli affari, il numero di persone cui l’azienda dà lavoro. Non sono state rose e fiori! Ricordo i sacrifici, a ogni nuova acquisizione, per consolidare le quote di mercato e affermarsi in regioni diverse dalla Campania. Crescere significa impegnarsi senza distrazioni e Renato, nato con una fiamma che gli bruciava in petto, ha sempre saputo canalizzare la sua energia, senza mai gettare la spugna nei momenti più duri.

Mi avvio di nuovo verso le scale. Devo fare pace col fatto che non riuscirò ad afferrare quel pensiero che ancora mi sfugge. Salgo le scale, faccio per dirigermi verso il mio ufficio ma c’è qualcosa che mi porta altrove. Proseguo verso l’unica stanza che si trova in questa parte del fabbricato. Non è un ufficio qualsiasi, è l’ufficio romano di Renato De Falco. La porta è chiusa a chiave ma porto sempre una copia con me. All’interno trovo ciò che conosco, il suo ufficio è immutato. Quando morì, nel 2014, decisi che avremmo celebrato il suo ricordo anche attraverso la sua stanza. Trattenere la vita di un uomo come Renato in una stanza sarebbe impossibile. In quello spazio, però, si respira tutta la sua energia, linfa vitale per crescere e diventare grandi. In questa stanza, frequentata talvolta da Mirko, suo secondogenito e Amministratore Delegato dell’azienda, riesco finalmente ad afferrare il pensiero che fino a poco fa mi tormentava. Di colpo tutto si è illuminato, ciò che avrei dovuto fare ha acquisito contorni chiari, definiti. Avrei finalmente dato una risposta a un’urgenza tutta interiore, quella di lasciare impressi nelle pagine di un libro gli anni vibranti trascorsi insieme a Renato. Il racconto dei sogni e dei successi, delle cadute e delle risalite di un uomo che è stato e continua a essere nei miei ricordi un guerriero, sorridente.

I. Panni stesi

Sono nato il 31 gennaio 1950, in un pomeriggio di sole particolarmente caldo per la stagione. Napoli è una città che sa stupire e regalare giornate quasi primaverili anche in pieno inverno. C’è chi dice che quello degli anni Cinquanta sia stato uno dei periodi più belli per la città. Questo non posso saperlo ma so per certo che per me è stato il periodo della spensieratezza. Custodisco i miei ricordi con gratitudine ed un po’ di nostalgia. Chiudo gli occhi e mi immergo nella Napoli di settant’anni fa e provo a raccontare la storia di colui che sarebbe diventato mio amico, collega, cognato, Renato De Falco.

Di questo magico periodo mi tornano in mente i quartieri in cui ho vissuto con la mia famiglia. Come quando ci trasferimmo al Vomero. Ricordo ancora il giorno in cui visitammo la casa. Ci parve di vivere un sogno. Il trasferimento affinò il mio gusto per l’esplorazione, in bicicletta perlustravo il quartiere silenzioso e a bordo della carrozza della funicolare raggiungevo velocemente il centro di Napoli. Mia madre era una casalinga e mio padre era il proprietario del Bar Leda, situato in Piazza Matilde Serao, in quello che potremmo definire il quadrilatero del giornalismo. Testate del calibro de Il Mattino, Il Tempo, Il Corriere dello Sport avevano le sedi proprio qui. Se è vero che il giornalismo non dorme mai, il Bar Leda faceva lo stesso. Di giorno e di notte la vita entrava e usciva dal bar e mio padre per favorirne il passaggio aveva fatto rimuovere le porte. Quando si tratteneva nel bar tanto da perdere l’ultima corsa disponibile, cosa peraltro molto frequente, veniva in suo soccorso Mario, il barista, che a bordo della Vespa lo riportava a casa. Negli occhi e nel sorriso di Mario scorgevo tutto il rispetto e l’ammirazione che nutriva per mio padre, un uomo che si era fatto da solo e che aveva fatto della famiglia e del lavoro il centro della sua vita. Con il tempo avrei compreso che l’amore - forte e

puro - è proprio quello che nasce dall’ammirazione e genera affetto, una delle ricompense più preziose che un uomo può conquistare. Renato aveva il dono di saper trasferire entusiasmo, è così che riusciva ad esercitare un forte ascendente sugli altri e ad assumere il ruolo di guida senza alcun affanno, con estrema facilità.

Da un ricordo all’altro il cuore mi riporta all’immagine vivida di Renato a bordo della sua adorata Fiat 850 coupé giallo senape, tra i vicoli di Napoli. Ed ecco che il racconto della sua storia inizia a prendere forma. Se io alla fine degli anni Cinquanta abitavo al Vomero, un quartiere collinare che si stava progressivamente popolando dei passi eleganti di una borghesia nascente, lui abitava gli odori, le voci e i silenzi dalla Napoli del centro storico, quella di Eduardo De Filippo e Totò, un mondo di tradizioni curiose e di quartieri con i panni appesi a un filo. Sono proprio loro, i fili dei panni in comune, ad esprimere un senso di comunanza che si fa unico e irrepetibile in questa città dove si parla a voce alta e ci si serve del panaro per tirare su la spesa e pure i neonati. In passato e per certi aspetti ancora oggi, Napoli diventava il palcoscenico di un’autentica e quotidiana commedia, fatta di riti stravaganti e colorati. Ed ecco l’acquafrescaio, uno dei tanti mestieri che a lungo hanno caratterizzato la vita nelle strade di Napoli, in cui inventiva e originalità potevano segnare il confine tra avere qualcosa da portare a tavola e la fame. Mentre i sciuscià, invitavano i passanti a fermarsi per farsi lucidare le scarpe, il pazzeriello vestito di stracci e colori, annunciava a tutto il quartiere l’apertura di una nuova attività. Se la fortuna era dalla tua parte, potevi beccare i numeri della riffa e aggiudicarti uno tra i premi messi in palio dall’arriffatore nella sua grande cesta di vimini. Bisognava poi dare sempre retta alle filastrocche che lo scartellato declamava brandendo corna e cornetti, armi contro la malasorte. E poi la schiera di chi sapeva persuadere stuzzicando le gioie del palato con panini cicoli e ricotta, pizza fritta, bror ‘e purpo, more su foglie di gelso.

Se avessi chiesto a Renato un titolo per questa commedia tutta napoletana sono certo che mi avrebbe risposto l’arte di vivere: quella che è necessario

avere per portare a casa qualcosa da mangiare, quella che si deve coltivare per emanciparsi dal contesto in cui si vive se ci sta stretto, quella che si deve avere per saper lasciare andare le cose quando non è più possibile trattenerle.

Ed in questa cornice, come in una delle commedie di De Filippo, la mia vita e quella di Renato iniziavano a prendere forma, avvolti nella spensieratezza che solo i bambini conoscono, quella forma di leggerezza, ingenua ed innocente, estranea alle condizioni del contesto da cui provengono. Ma non tutto dura per sempre.

Mia madre di lì a poco si sarebbe ammalata ed io sarei cresciuto di colpo.

II. L’incontro

Era la primavera del 1961 quando mia madre si ammalò. Di giorno in giorno scorgevo i segni di qualcosa che in lei non andava ma che non riuscivo ad afferrare. Sebbene la malattia non la definisse, non riconoscevo mia madre nella stanchezza, nell’affanno, nella sofferenza che sembravano non abbandonarla mai malgrado ci regalasse sorrisi. Nulla poteva, però, dirsi cambiato almeno fino a quando non fu ricoverata in ospedale presso il Pellegrini a Pignasecca. Fino a quel momento la casa era stata affollata di amici, parenti, persone che nel quartiere le facevano visita. L’andirivieni cessò di colpo e tutto fu avvolto nel silenzio. Mio padre lottava contro il tempo per poter dedicare a lei ogni momento avidamente sottratto al lavoro, persino Don Nino, lo storico barbiere del quartiere, si dimostrava suo alleato in questa lotta passando ogni giorno per il retro del bar a fargli la barba.

Mia madre morì e nulla fu come prima. Io e mia sorella ci separammo, io andai a vivere da zia Rina e mia sorella da zia Maria a Pompei. I passi compiuti da casa mia a casa di zia Rina furono pochi ma significativi. Ad accogliermi trovai una famiglia per la quale diventai presto il terzo figlio, dopo Cinzia e Donatella, le figlie di mia cugina Franca e Giuliano che era proprietario di una delle pompe funebri più conosciute di Napoli. La morte di mia madre e il tempo trascorso con lui mentre era impegnato ora nell’allestimento dei carri funebri, ora nella vendita delle bare contribuirono a fornirmi il giusto equipaggiamento per esorcizzare la morte ed educarmi al distacco. Nonostante ciò, anni dopo, la morte di Renato mi trovò del tutto impreparato e il dolore assestò un duro colpo al mio equipaggiamento. Lui era per me dimora e la vita me la strappò via. Ho spesso sentito dire che il tempo distrugge tutto con lentezza, mina, consuma, sradica, allontana ma non strappa. Eppure io la

sua morte continuo a viverla come uno strappo che non è possibile ricucire. Così la memoria va verso il nostro primo incontro e senza accorgermene sulle mie labbra fiorisce un sorriso e le emozioni che provo nel rievocare il ricordo del ragazzo che era, arginano per un po’ il dolore. Era magro, di altezza media, con i capelli lunghi che cadevano su un lato, indossava un pullover beige e dei pantaloni neri, ai piedi un paio di polacchine che riprendevano il colore del maglione e una vistosa sciarpa giallo uovo piazzata lì con la sfrontatezza di una nota stonata che rompe la monotonia, rendendo tutto meno scontato e banale. Arrivò in compagnia di Gianni che lo presentò alla nostra comitiva “Ragazzi, lui è Renato”, e da subito catturò la mia attenzione. “Gianni, è un amico tuo?” gli chiesi mentre lo accompagnavo al bar. “Guarda, non sai che storia. Stavo facendo l’autostop al Vomero per arrivare qui e non si fermava nessuno. A un certo punto mi ero rassegnato a prendere la funicolare, quando finalmente si ferma una macchina. Era proprio lui e aveva deciso di darmi un passaggio” “E perché è qui?” replicai. “Perché gli ho parlato della Mela e del nostro appuntamento, ho notato che ne era incuriosito quindi gli ho proposto di unirsi a noi. Ho fatto male?” “No, no… Hai fatto bene… Hai fatto bene…” Probabilmente Gianni, meravigliato per il tono interrogatorio delle mie battute, aveva pensato che quella novità mi avesse infastidito. Non era così, c’era qualcosa in quel ragazzo che mi affascinava ma che non riuscivo ad afferrare. Solo più tardi riconobbi in quello sguardo, tanto sveglio quanto malinconico, la grinta e la voglia di crescere ed emanciparsi dal suo piccolo quartiere per vivere da protagonista su qualsiasi palcoscenico avrebbe calcato. Renato aveva conosciuto la fame e avrebbe continuato ad averne per diventare il leader che è diventato.

Quella sera era stato accolto, entrando a far parte della nostra cerchia. A distanza di tempo da quel nostro primo incontro, avremmo visto le cose sotto un’altra prospettiva, sarebbe stato lui ad accogliere noi nel mondo che stava costruendo e non il contrario. Eravamo troppo giovani allora per capirlo.

“Vieni Renato, facciamo due chiacchiere!”, gli dissi tornando dal bancone del bar. Parlammo tutta la sera di tantissime cose. Veniva dal quartiere Mater-

dei, proveniva da una famiglia numerosa e faceva un lavoro che non avevo ben compreso, complici la musica ad alto volume e il vociare delle persone. Fumava una Marlboro dopo l’altra, tenendola stretta fra le labbra. Era avvolto da una nube di fumo tale che, in certi momenti, a malapena riuscivo a vederlo attraverso. Ci scambiammo i numeri di telefono con la promessa di rivederci presto. Avevo 16 anni e vederlo salire su quella Fiat 850 coupé giallo senape che per tutti noi rappresentava il sogno che porta il nome di libertà, mi emozionò. Se ne andò ed io restai a guardarlo per un po’ per fissare quel ricordo che ancora oggi mi soccorre.

III. La Vespa blu

Le persone entrano ed escono dalla nostra vita continuamente, capitano a caso, quasi non vi fosse alcuna motivazione di fondo. Eppure io credo che non sia mai totalmente per caso, ci deve essere in qualche modo un filo sottile che unisce silenziosamente eventi all’apparenza lontanissimi. L’incontro con Renato ha conferito forza a questa mia convinzione. Io e lui ci siamo scelti in fretta ma la nostra amicizia è maturata lentamente ed io con lei.

Scoprivamo man mano cosa ci rendeva simili e al contempo rispettavamo ciò che ci faceva diversi. Sebbene albergasse in noi la consapevolezza che non avremmo sempre avuto le risposte ai dubbi e alle paure dell’altro, sapevamo che ci saremmo reciprocamente ascoltati, affrontando insieme gli ostacoli della vita. L’amicizia nasce spesso dal destino, ma per diventare sentimento irrinunciabile ha bisogno di grandi emozioni condivise e con lui se ne faceva incetta. Era benvoluto da tutti e si aveva sempre la sensazione che si trovasse esattamente dove voleva essere, che stesse facendo esattamente ciò che voleva fare. Era dotato della sopraffina capacità di soppesare e discernere ciò che era importante da ciò che non lo era, ciò che doveva essere trattenuto da ciò che poteva essere lasciato andare, nel lavoro come nella vita. Era il quarto di sei fratelli. Ersilia era la più grande, a seguire i gemelli Tonino e Gennaro, Consiglia e Dora. Vivevano tutti insieme ai Colli Aminei. Poco dopo la morte della madre, avvenuta troppo presto, il padre, Giovanni De Falco, si risposò e si trasferì in via Foria alle spalle dell’orto botanico della città.

Una figura singolare quella del padre di Renato, dal quale spesso ho avuto l’impressione volesse prendere le distanze. Avrei capito presto il perché, Renato aveva un profondo senso della famiglia che a Giovanni mancava del tutto o quasi. La costanza degli affetti in Renato era forte e potente. Il tempo

non l’avrebbe consumata ma rafforzata a tal punto da rendergli insostenibile l’idea di realizzare il suo sogno senza i suoi fratelli.

Ciononostante era stato proprio il padre a favorire il loro ingresso nel mondo della distribuzione intermedia del farmaco. Il signor Giovanni, infatti, non si occupava solamente di gestire una farmacia vicino piazza Garibaldi, ma curava direttamente la vendita di alcuni prodotti farmaceutici, grazie alle diverse rappresentanze di cui disponeva nella zona. Renato era ancora giovane, quasi un ragazzino, ma cercava di cogliere ogni segreto, ogni particolare del lavoro del padre per conoscerlo meglio, tanto da riuscire in poco tempo a gestire le relazioni con farmacisti e medici in modo autonomo e più proficuo. Fu quando il padre, come spesso succedeva, cominciò a cimentarsi in altri progetti lavorativi, che la distribuzione di prodotti farmaceutici divenne il suo lavoro. Gli piaceva tanto e aveva imparato a conoscerne le dinamiche così bene da essere consapevole delle enormi potenzialità inespresse del settore. Negli anni Sessanta gli ordini delle farmacie venivano trascritti su fogli di carta rettangolari, chiamati note. Era poi compito degli intermediari ritirarle e evaderle facendo la spola dalle farmacie al grossista, dal grossista alle farmacie fino a due volte al giorno. Sfruttando la rete di relazioni maturata nei primi anni di lavoro, quindi, Renato decise di creare un suo giro nella distribuzione di prodotti da banco e vi tirò dentro anche il fratello Tonino. Avevano affittato un piccolo locale nei pressi di Piazza Garibaldi, a cento metri dalla farmacia dove lavorava il padre. Si trattava di un locale molto piccolo, la cui funzione era prettamente logistica, il grosso dei medicinali infatti veniva ritirato giornalmente direttamente dai distributori del tempo: Rossi e Limone, che aveva un deposito in Via Duomo e uno a Caserta, e Ambra L’attività di allestimento degli ordini era frenetica e non prevedeva soste, iniziava al mattino presto e terminava soltanto a tarda ora nel pomeriggio per poi riprendere la sera e terminare quasi di notte. Di lì a poco, Renato iniziò a gestire i contatti direttamente con i produttori in modo da poter ottenere una marginalità maggiore. A questo si aggiungeva la capacità di tessere forti e durature relazioni con i farmacisti del territorio e con i produttori di

parafarmaci prima e farmaci poi. Il seme di quella che sarebbe diventata la sua azienda nel futuro era stato gettato. A nutrirne la crescita, non solo infinite ore di lavoro, ma anche tormentati pensieri ed indomite preoccupazioni. Sempre, fino all’ultimo giorno.

Lo scopo del lavoro dovrebbe essere quello di guadagnarsi il tempo libero. Per Renato, però, il prezzo del lavoro equivaleva a diventare poveri di tempo.

Le sue incursioni in Piazza Medaglie d’Oro e in Piazza Bernini dove noi ragazzi del Vomero eravamo soliti ritrovarci, si facevano sempre più sporadiche. Talvolta ci raggiungeva al biliardo di Don Vittorio, pur non amando il gioco ne risultava affascinato riconoscendone il valore insito nell’esercizio di chi prevede e mai rimpiange. Aveva fiuto, gli bastava assistere a una manciata di mosse per capire se era la mia serata e scegliere di investire su di me. Il che se da una parte mi inorgogliva, dall’altra mi metteva addosso non poca pressione. La verità è che aveva l’innato talento del leader, riconosceva e faceva emergere le qualità più profonde e inespresse delle persone, riuscendo a catturare da loro il meglio.

Da quando una ragazza di nome Elvira aveva fatto il suo ingresso in comitiva, Renato aveva iniziato a concedersi un po’ di più, almeno nel fine settimana. Può capitare di imbatterci in persone a noi assolutamente estranee, per le quali proviamo interesse fin dal primo sguardo e in maniera del tutto inaspettata, ancor prima che una sola parola venga pronunciata. È quello che accadde tra loro due. Lei, taciturna e riflessiva, proveniva da una famiglia medio-borghese, il padre lavorava presso la Grimaldi Lines e la madre ai Telefoni di Stato. La prima volta che si incontrarono, eravamo alle Arcate in Via Aniello Falcone. Elvira era insieme alla cugina Bice ma Renato vide solo lei, la ragazza dagli occhi di cielo e dai capelli color del grano d’estate, leggermente più alta di lui. Lui non la stava cercando ma l’aveva trovata e non l’avrebbe più lasciata, l’avrebbe amata di un amore che sarebbe rimasto giovane e inalterato nel tempo. Con Elvira, Renato si concedeva il lusso di deporre le armi del guerriero, era premuroso e morbidamente accondiscendente, come quando assaggiando la pastiera preparata dalla madre di lei non esitò a complimentarsi con la cuoca nonostante il prelibato dolce della tradizione napoleta-

na risultasse insolitamente salato. Ebbene la signora aveva sbadatamente scambiato lo zucchero con il sale con estremo disappunto del marito e un po’ di ilarità di Renato che continuava a tesserne le lodi nonostante tutto. Renato e Elvira coltivavano il loro amore come un’opera d’arte, complessa e delicata. Io ne ero allora spettatore, oggi ne sono il testimone. Ricordo la nostra gita a Sorrento come fosse ora soprattutto perché Renato in quell’occasione portò con sé la sorella più piccola, Dora. Dora mi piaceva ma non osavo dirlo al fratello. Lo avrei fatto ma non subito, intimamente ne temevo la reazione specie nel momento cruciale che stavo vivendo: avevo deciso di abbandonare gli studi e di iniziare a lavorare con lui.

Renato era una macchina da guerra, entrava e usciva dalle farmacie senza mai fermarsi, aveva compreso presto che il tempo nella distribuzione intermedia del farmaco è merce preziosa, forse la più preziosa. Non vi era spazio per le distrazioni. La velocità e la concentrazione governavano i suoi movimenti. Ritirava gli ordini dalle farmacie, passava da Rossi e Limone a prelevare la merce poi di corsa in Piazza Garibaldi. Mentre Tonino e Antonio D’Auria allestivano gli ordini, Renato munito della mitica Divisumma Olivetti GT24 faceva i conti con la destrezza di un pianista sui tasti di un pianoforte. Dal canto mio, attendevo in macchina il suo ritorno per consegnare la merce alle farmacie. Ne ero il custode poiché la macchina di Renato era perennemente parcheggiata male, anche questo era un espediente che adottavamo per rispondere alla tempestività, requisito essenziale del nostro lavoro. Ma Renato non si accontentava di svolgere al meglio l’ordinario, Renato era votato allo straordinario! Se un farmacista faceva fatica a reperire un farmaco, era disposto a visitare ogni farmacia di Napoli per reperirlo. La sua lungimiranza era tale per cui ciò che per gli altri era solo un inutile sacrificio, per lui rappresentava la chiave di volta per ottenere la fiducia del farmacista e ingranare la marcia per conseguire il vantaggio competitivo che alla lunga avrebbe portato i suoi frutti. Con la stessa tensione al miglioramento del servizio, aveva pianificato una consegna ulteriore oltre alle due consegne già in vigore. Oggi le chiameremmo strategie di differenziazione da adottare per fronteggiare i concorrenti.

Il tempo del lavoro, però, non ebbe sempre la meglio sulla nostra giovinezza. Essere stati giovani nel Sessantotto equivale ad essere stati parte di una vera e propria rivoluzione. Avvertivamo questa nostra identità come una specie di marchio di fabbrica, un segno distintivo che avrebbe accomunato tutti coloro che erano cresciuti nell’era delle ribellioni, delle rivoluzioni giovanili, dei grandi ideali. Le amicizie vibravano di autenticità e di spontaneità, ci si incontrava perché si conoscevano le abitudini gli uni degli altri o semplicemente perché ci si dava un appuntamento il giorno prima. Capitava raramente di fare una telefonata con il Duplex, il telefono fisso che rendeva possibile la comunicazione verso l’esterno a due abitazioni con una singola linea, oppure attraverso il telefono pubblico a gettoni. Eravamo soliti frequentare gli stessi locali a San Martino dal Seventy Sky, in Via Caracciolo da Il Rosso e il Nero e dallo Shaker, in via dei Mille dalla Mela, in un intricato intreccio di piccoli amori e grandi amicizie sbocciate tra le note dei favolosi anni ‘60. Sui palchi di quegli stessi locali molteplici artisti si contendevano la scena, da Peppino di Capri a Fred Buongusto, da Fausto Leali ai Ricchi e Poveri, così come l’Equipe 84 e gli Showmen. Sentivamo di essere figli di una città aperta e inclusiva e avvertivamo l’urgenza di viverla appieno.

Ci spostavamo sempre in gruppo per andare a giocare a biliardo, al cinema, a ballare, ad assistere alle corse soprannominate tirate ad Agnano e Piedigrotta. I due concorrenti, a bordo di motociclette o di autovetture truccate, gareggiavano per guadagnare qualche spicciolo e vivere un momento di gloria. Che fosse ad Agnano dove le autovetture sfrecciavano dall’Ippodromo alla Domiziana, che fosse a Piedigrotta dove le motociclette volavano nel tunnel che dalla chiesa portava a Fuorigrotta, quella che si consumava era un’adrenalinica attesa, accesa dal rombo dei motori che si faceva via via più assordante man mano che i contendenti si avvicinavano alla meta. Serate emozionanti che finivano il più delle volte a Mergellina di fronte ad un panino con salsicce e friarielli gocciolante di olio e avvolto nella doppia carta del pane, una birra e una Marlboro Rossa con la promessa di rivederci l’indomani a lavoro con una tabella di marcia serrata da rispettare. Spesso andavamo

allo Sferisterio Partenopeo a vedere giocare i professionisti di Pelota oppure al cinema. Provavamo a far entrare più amici possibile dopo che avevamo rimediato i soldi per acquistare un solo biglietto. La tecnica era sempre la stessa, chi era in possesso del biglietto avrebbe aperto la porta di uscita del cinema per permettere agli altri di imbucarsi approfittando del buio. L’operazione falliva miseramente, la maschera dopo averci scovato uno ad uno ci intimava di uscire dalla sala in malo modo.

Spesso l’amore viene paragonato ad un viaggio, ebbene quello tra Renato ed Elvira era destinato a durare. Renato aveva abbandonato l’abito da Don Giovanni e di lì a poco si sarebbe sposato. Dal canto mio, anche io continuavo a frequentare Dora all’insaputa di Renato. Ciò che cambiò in quel periodo l’assetto delle cose fu la mia prima automobile. Nel mese di febbraio presi la patente e mio padre mi regalò una bellissima Fiat Cinquecento di colore blu. Finalmente iniziai a muovere i primi passi sul lavoro da solo, fiducioso che tutto sarebbe andato per il meglio. Avevo seguito, osservato e ascoltato

Renato con attenzione e avevo avuto modo di mettermi alla prova visitando le farmacie dislocate nel quartiere. A bordo della mia Cinquecento, però, mi sentii padrone del mio destino anche al di fuori del Vomero. Talvolta, specie d’estate, ci capitava di girare insieme. Cercavamo, allora, di non farci fagocitare dal lavoro e di fare una capatina a Positano, a Sorrento, al mare. Avevamo il physique du rôle per sostenere le levatacce al mattino presto e tirare tardi la sera con gli amici. Ricordo però che in un’occasione, stremati dalla stanchezza decidemmo di accostare la macchina per riposare un po’, giusto il tempo di ricaricarci. Ci svegliammo il mattino dopo, sollecitati dai vigili urbani che ci ordinavano di liberare il parcheggio per permettere ai banchisti di allestire le bancarelle e iniziare a lavorare. Ci accorgemmo solo allora di aver parcheggiato sulle piazzole del mercato rionale! Ricordammo quell’episodio per anni, un po’ per sorriderne e un po’ per tenere desti nella memoria i sacrifici che avevamo fatto per consolidare e far crescere l’impresa.

Di lì a poco Renato avrebbe individuato un nuovo deposito in Via Duomo che, oltre ad essere più grande di quello di Piazza Garibaldi, contava su una

posizione ben più strategica data la vicinanza a Rossi e Limone, nostro primo punto di riferimento tra i grossisti. Gli spazi aumentavano e con loro il numero di persone che entravano a far parte della squadra. Tonino gestiva gli acquisti e Renato la parte commerciale, consolidando le relazioni con i clienti acquisiti e procacciandone di nuovi. Non era, però, lontano il ricordo del guerriero che reperiva merce dai grossisti e la consegnava alle farmacie a bordo di una Vespa, con i pacchi trattenuti tra le gambe o legati con lo spago al sellino posteriore. Nessun evento atmosferico aveva il potere di spaventarlo, neanche sotto la tempesta avrebbe fatto un passo indietro rispetto alla missione da compiere. Ripercorrendo le tappe degli spostamenti dei depositi si disegna il percorso fatto dall’azienda in meno di tre anni, da Via Santa Teresa degli Scalzi passando per Piazza Garibaldi per arrivare a Via Duomo dove le fasi del lavoro – ritiro degli ordini, allestimento e consegna – procedevano a ritmo serrato. Il sogno di Renato stava man mano diventando realtà, l’azienda cresceva e si stava preparando per spiccare il volo.

Prima, però, ci fu una battuta d’arresto che ebbe un forte impatto sulla nostra vita: era l’estate del 1969 e la lettera che ci chiamava al servizio militare congelò i nostri sogni.

IV. La lettera

Il mondo era nostro, questo è ciò che avvertivamo e ci raccontavamo. Eravamo dinamici, in piena espansione e pieni di speranza. Renato non godeva di pronostici a favore ma dalla sua aveva un fuoco che bruciava dentro e che avrebbe illuminato ogni cosa. Era una questione di tempo ma Renato, venuto dal niente, avrebbe cambiato la sua vita con la caparbietà e la costanza di chi è consapevole che a volte fare del proprio meglio non basta. È allora che si è chiamati a fare il necessario. Questa è la leva che muove chi vuole farcela ad ogni costo. Costi quel che costi.

Era inverno. Mi imbarcai per Trapani, una città sospesa tra il torpore delle isole e il fragore delle grandi città del Sud. La ricordo come una traversata di sguardi tristi e sospesi, di parole strappate qua e là e pronunciate in modo tanto diverso dal mio. Ragazzi di vent’anni che, come me, avvertivano quei quindici lunghi mesi che li attendevano come uno strappo, netto e inevitabile. Mi avrebbero assegnato il ruolo di guastatore assaltatore. Lo avrei svolto presso la Caserma Giannettino, dove seguii un addestramento tanto duro da lasciarmi sgomento. Le giornate erano scandite da ritmi monotoni, serrati, infernali. Dopo la sveglia che suonava alle sei, seguiva il primo compito della giornata - rifare il letto - ed era importante svolgerlo a dovere. Allora non ne compresi il senso ma oggi credo che quella esercitazione fosse finalizzata a educarci alla disciplina, certo, ma soprattutto all’importanza delle piccole cose. Al cubo, seguiva una corsa in cortile di circa quaranta minuti, una doccia rigorosamente fredda e solo a quel punto ci veniva concesso un caffè. Si riprendeva poi l’addestramento fino all’ora di cena. La monotonia, mista alla fatica, mi mandava ai pazzi. A tinte fosche dipingevo il mio soggiorno in caserma a Renato che ne risultava bonariamente divertito. Il percorso che

mi aveva portato dai morbidi mocassini in capretto ai duri scarponi di pelle suscitava in lui non poca ilarità.

“Inutile che ridi, guarda che fra qualche mese tocca anche a te. Se non ricordo male non ne eri felicissimo…”

Quando ricevette la cartolina gialla con la data di partenza si fece scuro in volto, taciturno, a tratti rabbioso. Non rispondeva alle mie domande. Mi preoccupava.

“Rena’ ma che hai?”

“Eh, che ho. È arrivata la cartolina, ecco che ho!”

“Che cartolina?”

“Del militare, Anto’, del militare. Devo partire a giugno…”

“Ah… E vabbè dai, lo sapevi che prima o poi arrivava…”

“Lo sapevo sì, ma speravo di no. Proprio mo’ che il lavoro stava ingranando, con tutto quello che dovrò lasciare… E poi c’è Elvira…”

“Non dirlo a me...”

“Perché mo’ pure tu tieni la fidanzata?”

Da quella domanda, repentina e pungente, capii che Renato aveva intuito qualcosa di me e di sua sorella Dora. Non risposi per evitare ulteriori fronti di guerra interiori oltre a quelli che stavamo già vivendo. Renato non era intimorito dalle privazioni che avrebbe vissuto in caserma, la vita lo aveva forgiato. Non voleva lasciare soli i fratelli, non voleva lasciare il lavoro ora che stava ingranando, non voleva lasciare l’amore.

Terminai la telefonata con una domanda che aveva tutto il sapore della retorica più disperata:

“Rena’ ma non è che conosci qualcuno che mi può aiutare a tornare a Napoli?”

“Sì, certo, non te l’ho detto? Ce n’è uno!”

“Chi è?”

“San Gennaro, Anto’, parla con lui!”

Ci salutammo con una fragorosa risata che ebbe il potere di rinfrancarmi e farmi sentire improvvisamente a casa. Non c’era niente da fare, Renato sapeva essere uno spasso. Una volta, prima di conoscere Elvira, mentre eravamo in macchina nei pressi della stazione centrale ci imbattemmo in due bellissime turiste francesi. Renato sfoderò uno dei suoi smaglianti sorrisi e improvvisò: “Aehm, D-muasel? Prenderòn le valigiòn, le metteròn sul macchinòn… E ce ne andròn!”. Risi a crepapelle ma apprezzai il tentativo di Renato di attaccare bottone facendo ricorso ad una lingua tutta sua, tra il napoletano e il francese, accompagnata da una gestualità plateale, tipicamente partenopea. Il suo impegno non fu premiato dalle turiste d’Oltralpe, ma ciò non ebbe alcuna importanza allora e ne ha ancora meno adesso. Quell’episodio mi ha regalato uno dei ricordi più divertenti di Renato.

Quanto a me, feci ricorso a non pochi espedienti pur di migliorare la mia condizione ottenendo un posto nell’ospedale della caserma. Quando mi fu accordato un mese di licenza, feci ritorno a Napoli, mentre Renato partiva per la Caserma dei Bersaglieri di Persano, poco distante da Salerno. Alla guida dell’azienda c’era Tonino che si occupava delle sue mansioni e di quelle del fratello, in attesa del suo rientro.

Riuscii ad ottenere un incarico presso l’Ospedale Militare di Napoli. La sera stessa Renato mi chiamò, mi raccontò che a Persano la vita militare era dura ma sopportabile. Ciò che non tollerava era la lontananza da Elvira e dal lavoro. Io avrei preso servizio a distanza di qualche giorno da quella telefonata. Non avrei più fatto ritorno a Trapani e questo mi bastava. Il mio ingresso presso l’Ufficio Osservazioni dell’Ospedale Militare di Napoli fu ovattato dalla presenza del Colonnello De Carolis che mi concesse tutto il tempo necessario per apprendere le mansioni che avrei svolto sotto la sua supervisione.

Avrei seguito l’iter burocratico delle licenze richieste dai militari a seguito di problemi di salute, la cui incompatibilità con l’adempimento dei doveri militari sarebbe stata via via oggetto di verifica. Nel mese di settembre ci fu una novità che era nell’aria, almeno dall’ultima telefonata avuta con Renato. A Persano si sentiva come un leone in gabbia alle prese con il ritmo cadenzato e lento di giornate tutte uguali. Ma anche nella monotonia Renato sapeva trovare gli stimoli per creare e trovare soluzioni. Questo breve scambio di battute fu la prova che aveva già un disegno per cambiare l’assetto delle cose.

“Ma se ti vengo a trovare? Così, per vedere come te la passi…”

“E vieni. Se trovi il modo, io qua sto!”

Qualche giorno dopo lo vidi, sorridente, percorrere il corridoio. A distanza ricambiai il sorriso. Riuscì a ottenere una decina di giorni di convalescenza. Fu solo l’inizio. Di lì a poco venne trasferito da Persano a Napoli, entrando a far parte, grazie alla mia intercessione con il Colonnello De Carolis, del reparto nel quale lavoravo. Ne conseguirono vistosi miglioramenti organizzativi. Renato era una saetta tra i reparti, un po’ come tra le farmacie del territorio e aveva la capacità di esercitare un ragguardevole carisma su chiunque gli fosse a tiro. Probabilmente quel periodo è servito per mettere a punto le qualità che nel tempo gli hanno permesso di creare una grande azienda senza avere particolari risorse se non la sua grande capacità di capire le persone, saperle motivare facendole sentire parte di qualcosa di più grande. Mi piace pensare che il tempo trascorso a gestire alcuni reparti dell’osservatorio dell’Ospedale Militare sia stato un allenamento per la gestione delle sue aziende. Il tempo del lavoro si esauriva alle quattordici, poi eravamo liberi. Liberi di essere giovani e innamorati. Continuavo a vedere Dora di nascosto, non avevo ancora avuto il coraggio di parlarne con Renato. Scoprii, mio malgrado, che non ce ne sarebbe stato bisogno. Renato lo aveva scoperto e aveva intimato alla sorella di non vedermi più. Era stata Dora, turbata e affranta, a raccontarmelo. Ciò che credevo sarebbe stato morbidamente accettato con il tempo,

aveva suscitato in Renato una reazione furibonda. Io vivevo in bilico tra la paura di rovinare la mia amicizia con lui e la rabbia per il modo in cui aveva trattato Dora. Fu la rabbia a prevalere e mi accecò. Orchestrai così il peggiore dei tradimenti, ostacolando di fatto il rinnovo del suo incarico presso il reparto e favorendo il suo rientro in caserma.

Non appena appresa la notizia – Renato sarebbe stato di lì a poco reintegrato nel Corpo – Elvira e Dora mi implorarono di tentare di fare qualcosa per cambiare le cose. Inanellai allora una serie di menzogne per allontanare persino da me stesso l’immagine che mi ritraeva architetto del tradimento e artefice del suo destino. Mentre dietro le quinte si consumava il colpo di scena, costruito da Renato. Un suo commilitone si lasciò persuadere a colpirgli la mano sinistra. Il colpo provocò la frattura del mignolo e dell’anulare e la licenza di convalescenza dal servizio di leva, a seguito della quale lo aiutai a tornare presso l’Ospedale Militare di Napoli in un reparto diverso dal mio. Quando lo vidi arrivare era sorridente, lo stesso sorriso che lo aveva accompagnato la prima volta. Nel suo abbraccio mi sciolsi, restando di sasso. Dentro di me avrei sempre covato il rimorso di quanto avevo fatto. Quella sarebbe stata la mia zavorra per sempre, non me ne sarei mai liberato neanche quando – anni dopo – gli confidai la verità.

Eravamo adulti e padri ma questo non bastò a mitigare la reazione che la mia confessione generò in lui. La vita non sfumò i contorni dei ricordi e Renato, a bordo della piscina della sua villa a Ischia, accusò il colpo. Restò zitto e mi fissò con uno sguardo che mi tormenta ancora oggi.

V. Gli scacchi

Subito dopo il servizio militare, decisi di investire parte dei miei risparmi in un negozio d’abbigliamento per uomo. Abbracciai questa nuova strada imprenditoriale con grande slancio, individuando nel connubio di eleganza e classicità, lo stile senza tempo dell’AB boutique. Soffice moquette color tabacco, caldo mobilio di pregio in legno, inedite soluzioni di design per l’esposizione dei capi, rendevano la boutique accogliente e raffinata. Oserei dire troppo, considerando che il giorno dopo l’inaugurazione nell’alzare la saracinesca quasi svenni di fronte al negozio vuoto. Una banda di ladri lo aveva raso al suolo e a me non restò altro da fare che avviare le pratiche assicurative per ottenere il rimborso. Non potevo accettare che l’esperienza dell’AB boutique fosse finita ancor prima di iniziare. Attraversai un periodo difficile ma Renato rimase al mio fianco incoraggiandomi e spronandomi a guardare avanti. D’altra parte anche Renato aveva le sue grane. Ultimato il servizio militare, avrebbe dovuto dare nuovo impulso all’azienda che in quel periodo era stata diretta dal fratello, sebbene Renato avesse continuato a visitare le farmacie del territorio e raccogliere gli ordini che Tonino faceva poi allestire e consegnare. Era venuto, però, il tempo di riprendere le redini dell’azienda, rinsaldare quelle relazioni i cui fili si erano allentati e definire nuove strategie. Immaginavo ci sarebbero voluti mesi, così sarebbe stato se lo stratega non fosse stato Renato. Dopo meno di sessanta giorni dal suo rientro, l’impresa ricominciò a volare tanto che il deposito di Via Duomo non bastò più. Renato trovò un altro locale in Via delle Zite ai Tribunali dove fece trasferire tutto. Il successo di quegli anni derivava da una strategia precisa: il servizio, capillare e puntuale, poteva contare su due consegne al giorno e sul reperimento di

farmaci, costante e decisivo. I mesi passavano e mentre io cercavo di mandare avanti il mio negozio, Renato gettava le basi di quella che, negli anni, sarebbe diventata una delle aziende di riferimento della distribuzione intermedia del farmaco in Italia. Quanto a me e Dora, il 24 giugno del 1972, ci sposammo. Ancora oggi – nonostante tante cose siano cambiate – non riesco a sciogliere l’enigma sul perché Renato avesse osteggiato così ostinatamente la nostra relazione. È possibile che all’origine della sua disapprovazione si celasse il timore di lasciare andare via troppo presto la più piccola delle sue sorelle e di rischiare di rovinare la nostra amicizia? Non lo saprò mai ma posso dire che il mio matrimonio con Dora, oltre a regalarmi tre figli meravigliosi, non compromise mai il mio rapporto con lui.

Renato chiuse la grande casa dei Colli Aminei che lo aveva visto crescere e si trasferì per qualche tempo dal fratello Tonino, già sposato con due figli, Gianni e Renato. Tra quest’ultimo e lo zio sarebbe cresciuto un legame fortissimo, nutrito da un affetto smisurato. In una calda e assolata giornata di settembre, Renato ed Elvira si sposarono. Le nostre vite si disegnavano a poco a poco, accomunate da analoghe tappe raggiunte insieme: ci eravamo scoperti giovani insieme, ci stavamo scoprendo adulti e presto ci saremmo visti padri nello stesso quartiere. Prendemmo in affitto un appartamento al Vomero a 500 metri da quello di Renato e Elvira in Via Domenico Fontana. Stavamo tanto bene tra noi da fermare le parole per lasciare posto alla musica di cui Elvira era appassionata. Renato ne risultava indifferente e nessuno se ne meravigliava. Era solito girare con l’autoradio accesa ma non sintonizzata, quel rumore metallico e gracchiante non solo non lo disturbava, pareva addirittura fargli compagnia. Eravamo, però, uniti da una comune passione, quella per gli scacchi. Renato aveva imparato a giocare da solo studiando le partite di altri e maturando via via i movimenti da compiere per bloccare il re avversario. Ricordo le nostre partite – lunghe, infinite – a cui oggi potrei dare un titolo. Le chiamerei le vittorie annunciate di Renato. Vinceva sempre lui, io? Nemmeno una volta. Perdevo e non capivo il perché. Ma gli scacchi sono un gioco sequenziale e Renato aveva la capacità di prevedere la sequenza

di mosse che lo avrebbe portato alla vittoria. La scacchiera gli parlava e lui sapeva ascoltare, con pazienza e lungimiranza sapeva andare oltre e inferire i nessi di causa-effetto, propri del gioco e della vita. In sottofondo le voci di Elvira e Dora che parlavano di come il nostro mondo – dopo la nascita dei bambini – sarebbe cambiato. Quando riuscii a vendere il locale dell’AB boutique alla sorella di un calciatore del Napoli, Renato mi propose di tornare a lavorare con lui. Accettai.

Questo nuovo inizio mi rinvigorì e mi trovò più pronto a vivere il matrimonio e l’arrivo della mia primogenita. Era il momento di accelerare e Renato lo sapeva. Muniti di cartina e matite, dividemmo la città sulla base delle zone che avremmo attraversato mentre la squadra cresceva. Salvatore, detto Caramella, si occupava delle consegne, alla guida di un furgone rosso fuoco dal nome impronunciabile. Con una caramella sempre in bocca, abitudine che gli valse il soprannome che non lo avrebbe più abbandonato, percorreva Napoli e dintorni, in lungo e in largo. Capitano nella gestione degli ordini – allora come oggi – Tonino supportato da Antonio D’Auria. A seguire Pasquale Pesacane e Peppino D’Ambra. Peppino era un campione del fare tante cose insieme. Come un equilibrista, rispondeva al telefono, allestiva gli ordini, si occupava delle consegne. Aveva, tra le altre, la capacità di saper lavorare con gli altri, come si fa in una vera squadra, senza mai risparmiarsi. Renato si fidava di lui ciecamente e aveva tutte le ragioni per farlo. Poco dopo alla squadra si sarebbe unito il ragionier Varriale per seguire la contabilità dell’impresa. Il ragioniere era il naturale bersaglio delle sfuriate di Renato che si avvicendavano in un momento preciso della giornata, quello della chiusura dei conti.

L’operazione di verifica tra le entrate e le uscite era tanto insidiosa da provocare una prassi ordinaria: non si lasciava il deposito se i conti non quadravano alla perfezione. Oggi che di Renato mi manca tutto, ricordo quei momenti come un irrinunciabile siparietto che condiva le nostre giornate. Renato, nel caso si fosse presentata un’anomalia, iniziava a urlare dalla sua scrivania verso quella del ragioniere. A quel punto tutti facevamo quadrato intorno a Varriale per ricostruire i movimenti della giornata e scoprire la falla. Ed ecco

che l’errore – una spesa non evidenziata o un incasso non registrato – veniva stanato. Ci salutavamo con un sorriso che lasciava poco all’immaginazione.

Sapevamo tutti che ci saremmo ritrovati l’indomani pronti per cominciare una nuova giornata e vivere altri siparietti.

Eravamo felici e non solo perché il lavoro procedeva a gonfie vele, ma perché ci sentivamo parte di qualcosa di più grande che contribuivamo tutti insieme a nutrire. La crescita di un’azienda non passa sempre attraverso uno sviluppo costante e organico, talvolta eventi esplosivi ne accelerano l’evoluzione. Un evento di questa natura era alle porte.

Era l’estate del 1973 e Napoli diventò l’epicentro dell’ultima epidemia di colera che avrebbe colpito l’Europa occidentale. L’inefficienza del sistema fognario, il cui ultimo ammodernamento risaliva agli anni successivi all’epidemia di colera avvenuta tra il 1884 e il 1887, avvelenava il mare di Napoli. Alle acque di scarico fognarie si aggiungevano gli scarti di lavorazione industriale. Eppure, il 28 agosto 1973, le spiagge di sabbia nera del litorale vesuviano erano invase da donne, uomini e bambini che cercando ristoro dall’afa, si tuffavano nel mare, che come uno specchio restituiva spietato il ritratto della città infetta.

Il 29 agosto Il Mattino parla per la prima volta di colera. Viene organizzata in gran fretta una disinfezione straordinaria della città. Nelle strade vengono irrorate 1.500 tonnellate di disinfettante.

In pochi giorni Napoli piombò in una psicosi generale. Fu proprio in quel periodo che Gennaro, il fratello di Renato e Tonino, fece il suo ingresso in azienda, dopo l’esperienza maturata nella farmacia del padre. I tre fratelli si riunirono mentre la bestia nera avanzava. C’era bisogno di canfora e creolina per lottare contro l’epidemia. Di entrambe si registrava una carenza cronica. Questo non poteva essere un limite per Renato che, come un atleta, considerava una vittoria come un momento da mettere in discussione sin dal giorno dopo, in vista di una nuova gara, una nuova vetta da raggiungere, un nuovo avversario da fronteggiare. Arrendersi non era un’opzione. Dopo logoranti ricerche, di giorno e di notte, riuscì a trovare un fornitore a Milano che

gli garantiva la fornitura di canfora e creolina. Questo non gli bastò. Non era disposto ad attendere l’arrivo della canfora a Napoli, così decise di partire lui stesso per Milano. Il giorno prima della partenza, mentre organizzavamo il viaggio, mi confrontai con lui:

“Rena’ ma sei sicuro di voler andare tu? Quelli magari si sbrigano e ci mandano la Canfora prima del previsto, se li sollecitiamo un po’…”. Mentre parlavamo il telefono squillava senza sosta. Accadeva oramai da giorni, i farmacisti di tutta la Campania chiamavano di continuo alla disperata ricerca della canfora.

“Lo senti?” chiese Renato indicando l’apparecchio che non la smetteva di suonare.

“Il giorno giusto per avere qua la Canfora era ieri Anto’. Non domani, non dopodomani. Ieri!”

Non replicai. Aveva ragione. Il giorno dopo Renato partì a bordo della sua Bmw 1600 T di colore verde per essere di rientro in Campania all’alba. La Bmw, carica come un uovo, di ritorno da Milano si fermò a pochi chilometri da casa, sul ciglio dell’autostrada nei pressi di un autogrill di Caserta nord e non ci fu verso di farla ripartire. Lì per lì pensammo che il destriero non era stato all’altezza del guerriero ma alla vista della Bmw fummo tutt’altro che sorpresi. Le confezioni erano ovunque, nel portabagagli, sui sedili posteriori, di fianco a Renato, sul cruscotto. Mentre Renato era in viaggio, noi avevamo trascorso la notte in Via delle Zite ai Tribunali in attesa del camion di creolina che era arrivato poco prima della telefonata di Renato. Sistemato il carico, eravamo stremati per la fatica e per l’attesa. Il telefono squillò. Risposi io.

“Pronto?”

“Sono io, dovete venirmi a prendere a Caserta”

“Rena’, sei tu?”

“E chi deve essere a quest’ora?!”

“Non ho capito, ti dobbiamo venire a prendere? Ma perché la macchina dove sta? Non avrai mica fatto un incidente!”

“Ma quale incidente! La macchina si è fermata. Dai venite che c’è da caricare tutta ‘sta roba. Sto all’autogrill di Caserta Nord” rispose infastidito.

Partimmo tutti insieme – io, Gennaro, Tonino, Antonio D’Auria e Salvatore Caramella – con il furgone rosso fuoco dal nome impronunciabile. Non appena avvistato Renato, fermo alla pompa di benzina come sospeso tra una sigaretta e l’altra, ci fermammo e iniziammo a caricare il furgone, increduli per la mole di roba stipata nella defunta Bmw.

Tornati in Via delle Zite ai Tribunali, trovammo una lunga coda di autovetture ad attenderci. Dai farmacisti, informati da Renato, partì un incessante passaparola che li portò di fronte al nostro deposito per ritirare l’ordine di persona ed essere pronti nella dispensazione sin dalle prime ore del mattino. Renato ci riunì tutti e ci esortò a dare tutto quello che avevamo per soddisfare il più alto numero di richieste nel più breve tempo possibile. A muovere questa strategia non erano solo motivi di carattere commerciale. Il vantaggio competitivo doveva essere capitalizzato, certo, ma al contempo era necessario dare il nostro contributo alla lotta contro l’epidemia colerica. Le vendite vaporizzarono le scorte e il magazzino, come tutta la città, rimandò per mesi l’odore pungente e corrosivo della creolina.

Renato era andato via da un po’. Aveva ricevuto una telefonata importante, la più importante. Elvira aveva dato alla luce una bambina e il loro amore era diventato tangibile nel volto di Simona, la loro primogenita. Di corsa si mise in macchina e si dileguò. La nascita di un figlio non è solo la venuta al mondo di qualcuno che attendevamo di conoscere, di qualcuno che aspettavamo di tenere tra le braccia. Insieme alla vita di un figlio viene nuovamente alla vita il mondo intero. E fu proprio così per Renato che in quei giorni aveva costruito un mondo nuovo per sé, per la sua famiglia, per la sua azienda.

Fu proprio quel disperato viaggio, pieno di speranza, a traghettare l’impresa verso una crescita senza precedenti. Il vantaggio che Renato aveva ottenuto

con la distribuzione di creolina e canfora sarebbe stato difeso con le unghie e con i denti. Riusciva – anche grazie al rapporto che aveva instaurato con l’azienda produttrice – a battere tutti sul tempo. Fu un periodo febbrile, l’impegno nel consolidare le relazioni di vecchia data e nel costruirne di nuove era massimo e costante. Albergava in tutti noi la consapevolezza che quella che stavamo giocando sarebbe stata una tra le partite più importanti disputate dall’azienda. Talvolta mi domando che cosa ne sarebbe stato di Renato e del suo sogno se oltre alle doti imprenditoriali di cui già disponeva, avesse potuto godere di una formazione universitaria. Come si suol dire la storia non si fa con i se e con i ma, ma solo con i fatti, ebbene il colera sparì dalla città mentre l’impresa di Renato cresceva. Il primo settembre fu avviata la vaccinazione di massa. Nei centri di vaccinazione, allestiti nei luoghi più disparati, file di uomini e donne attendevano la somministrazione. Esplodevano rivolte e incidenti provocati il più delle volte dalla lentezza delle operazioni e dall’impressione nei quartieri popolari di ricevere un trattamento diverso rispetto ad altre zone della città. Ad ogni modo, al 5 settembre 1973 furono vaccinate un milione e duecentomila persone.

Quel periodo vissuto in modo accelerato, quasi adrenalinico, mi fece tornare la voglia di misurarmi con qualcosa di nuovo. Fu allora che accettai la proposta di mio cognato Renato Francavilla che lavorava a Trento per un’azienda di tappeti persiani di Napoli. Mi trasferii a Trento dopo avervi trascorso le feste di Natale con Dora, Renato, Elvira e le nostre primogenite Rosanna che aveva sì e no 40 giorni e Simona di qualche settimana più grande. Fu un Natale in famiglia, fatto di momenti belli e spensierati, quello che trascorremmo tutti insieme. Mi immersi subito dopo nel lavoro che mi portava spesso in giro e mi dava la possibilità di confrontarmi con professionisti che amavano arricchire i propri studi con tappeti di pregio. Il lavoro procedeva a gonfie vele ma vivevo nel rammarico di lasciare sola Dora, il cui mondo si era drasticamente ridotto alla cura della bambina e poco altro. Decidemmo così di tornare a vivere a Napoli. Io mi sarei spostato da Napoli a Trento con la promessa di tornare a casa nel fine settimana. L’estate, però, rientrai a Napoli e ricomin-

ciai a lavorare con Renato, scelta solo in parte dettata dal fisiologico calo della vendita di tappeti nella stagione estiva. La verità è che, per quanto fossi appagato dal lavoro a Trento, la mancanza di Renato si faceva sentire come si avverte quella di casa.

VI. La regina e lo scugnizzo

Renato sapeva alzarsi di quota, oltre i limiti, aiutandoci a coltivare la speranza nel futuro. Lo faceva con amore perché l’amore lo guidava. L’amore che vince tutto, l’amore che può tutto, l’amore che è l’emblema della vita.

FASA – la società costituita con i suoi fratelli per la sede al Rione Alto e affiancata a quella di Via delle Zite ai Tribunali – trae origine proprio da qui, dall’amore per la propria famiglia e per il proprio lavoro. Era riuscito a creare un’azienda a cui voler bene e tutti noi gliene volevamo assai. Con oltre 600 metri quadri, il deposito al Rione Alto aveva conferito un grande respiro all’organizzazione. Renato aveva così potuto stringere accordi commerciali con aziende note come Koh-i-Noor per la distribuzione di spazzolini e una concorrente di Chicco per quella di culle, lettini e passeggini. Forte era stato, inoltre, l’incremento delle vendite di garze, ovatta e cerotti. Tutta la medicazione – ancora oggi questo è il nome attribuito alla categoria in farmacia – era distribuita con confezioni che riportavano il nome della nostra azienda, FASA. Una trovata di Renato per conferirle massima visibilità in farmacia. Ricordo ancora il tempo trascorso a sigillare le confezioni con una saldatrice elettrica manuale che una volta all’opera emanava un odore tremendo di bruciacchiato.

Il numero delle farmacie da visitare durante il giorno cresceva a ritmo sostenuto. Fu in quel periodo che Aldo fece il suo ingresso in azienda con l’incarico di venditore. Lo portavo con me e gli insegnavo il mestiere lasciandolo a poco a poco libero di condurre le negoziazioni da solo. Ad Aldo, ne seguirono di altri e sebbene l’affiancamento fosse un’attività in più da portare avanti, la trovavo stimolante. Insegnando, crescevo anche io con loro. In azienda, sotto l’attenta guida di Renato, le cose prosperavano. La squadra era ora-

mai rodata con Gennaro e Tonino che continuavano ad esercitare funzioni nevralgiche per l’organizzazione. Al primo competeva, infatti, la gestione del magazzino nella sua globalità, al secondo quella degli acquisti. Dal piccolo deposito di Piazza Garibaldi a quello di FASA erano trascorsi solo otto anni ma Tonino aveva maturato un’esperienza tale da riuscire a forgiare buyer altamente qualificati, su cui Farvima ancora oggi può contare. FASA poteva dirsi la Farvima di oggi in miniatura, pur non disponendo dell’autorizzazione per la distribuzione del farmaco gli ingranaggi aziendali erano tutti in piedi e in movimento. Per l’azienda Renato sacrificava molto, forse troppo. Vi si dedicava anima e corpo con il pensiero che, una volta a casa, avrebbe trovato l’amore puro e giovane di Elvira.

Era passato qualche anno dal loro primo incontro eppure Renato la guardava con gli occhi di allora, con lo stesso desiderio che avvertiva quando la aspettava al Vomero nei pressi del liceo scientifico che Elvira frequentava, per scambiare con lei qualche parola. Renato la corteggiò a lungo. Ora che l’aveva sposata e che con lei aveva costruito una famiglia, la sorprendeva raggiungendola ogni qualvolta il lavoro glielo permetteva. Elvira era elegante ma senza artificio, fiera ma senza superbia. Vederli insieme era come trovarsi di fronte ad una coppia di attori tanto mal assortiti da risultare insieme perfetti, lei signorile come una regina e lui irriverente come uno scugnizzo Renato non ha mai alzato bandiera bianca di fronte ai continui dinieghi di lei, e pian piano i no si fecero sorridenti, di un sorriso timido ma dolcissimo. Vincit qui patitur ed Elvira capitolò.

All’inizio il padre di Elvira, uomo tutto d’un pezzo, si dimostrò ostile alla loro relazione. Ma a poco a poco don Gennaro riuscì a scorgere in Renato l’uomo che avrebbe reso felice la figlia e così gli accordò la sua fiducia permettendogli di frequentarla. Non potrei mai dimenticare l’estate in cui Elvira e la sua famiglia partirono per il campeggio di Santa Maria di Castellabate nel Cilento. Renato riuscì a liberarsi da alcuni impegni di lavoro prima del previsto e così decise di raggiungere Elvira per trascorrere qualche giorno insieme a lei e alla sua famiglia. Controvoglia – il campeggio non era né nelle mie né nelle sue

corde – lo accompagnai. Impiegammo ore a montare la tenda, si era fatta oramai sera e l’unica cosa che vedevamo al nostro orizzonte era sistemare i giacigli alla meno peggio e dormire di un sonno profondo e ristoratore. Al contrario, vista la nostra completa incompetenza, non riuscimmo a montare proprio un bel niente. Trascorremmo la notte in bianco aggrediti da zanzare, ramarri e non so quanti altri tipi di animali presenti in quel campeggio. Solo al mattino prendemmo sonno, ma dopo poco la tenda, o quel che eravamo riusciti a montare, era diventata un forno e noi ci svegliammo di colpo senza respiro. Renato con occhi incavati e occhiaie livide mi prese da parte e mi disse che non era disposto a restare lì un momento di più. Battemmo in ritirata non prima di aver comunicato ad Elvira e alla sua famiglia che a causa della nottataccia appena trascorsa, saremmo ripartiti. Fummo, a quel punto, interrotti da una fragorosa risata. Stavano tutti facendo il conto alla rovescia rispetto alla nostra resa. Renato ed Elvira erano il giorno e la notte, l’una non poteva fare a meno dell’altro. Nel caso di Elvira l’antipatica espressione per cui dietro un uomo di successo vi è sempre una donna, si sarebbe dovuta riscrivere per rendere verosimilmente il suo ruolo. Elvira non è mai stata all’ombra di Renato, Elvira era al suo fianco, fautrice della sua crescita personale e professionale. La loro unione era benedetta da una luce vivida e forte, fatta di complementarità, rispetto e rigore. Dal loro amore, in una bella giornata di marzo del 1977, nacque Mirko il loro secondogenito. Ancora oggi quando mi imbatto in lui che è l’Amministratore Delegato di Farvima, mi sorprendo ancora nel rivedere nei tratti del suo viso la madre e nell’intraprendenza il padre. Dopo il parto, Elvira visse un periodo di forte stanchezza. Una febbriciattola andava e veniva senza mai darle tregua. Renato, impensierito, insistette perché la moglie si sottoponesse ad accertamenti medici, specifici ed approfonditi. L’esito fu inaspettatamente spietato. Elvira era una giovane donna di ventiquattro anni a cui era stato diagnosticato un cancro. Difficile da curare dissero. Eppure Renato non accettò mai la diagnosi e rapace di vita si diresse in lungo e largo per trovare qualcosa che a quel destino infausto si opponesse con coraggio. Elvira ricevette le migliori cure al mondo, inizialmente a Napoli e poi a Parigi dove uno specialista aveva messo a punto una

terapia che irradiava le parti malate. Alla paura, Renato opponeva il coraggio e la volontà, caparbia e primitiva, di non lasciarla andare. È così che iniziò l’andirivieni tra Napoli e Parigi. La terapia si dimostrò efficace, la malattia era regredita. Un intervento la attendeva per arginare i danni provocati dalle cure. A quell’appuntamento in sala operatoria non arrivò mai. Elvira morì in una fredda notte di ottobre. Il cielo si chiuse e non ci fu spazio che per il buio. La morte ha la crudeltà e al contempo la clemenza di essere definitiva, non è possibile fare niente, nient’altro che soffrirne. Renato scelse di restare nella casa di Rione Alto con i bambini, la casa che fino a qualche tempo prima era popolata di risate, di musica, di passi ora calmi ora frenetici. In quella casa Renato era stato felice, di una felicità che lo aveva colto impreparato, forse un po’ sbadato. Se ne rendeva conto ora perché di quella felicità conosceva la nostalgia, il senso di attesa che sarebbe stato perenne. Ora che le parole non bastavano più, tanto da fermarsi in gola, c’era il silenzio e il rumore della memoria che graffiava a sangue il cuore e lo stomaco di un giovane uomo di ventinove anni con due figli, Simona e Mirko, nati dall’amore per Elvira che mai avrebbe potuto vederli crescere.

Renato era disperato, svuotato, senza forze. Quando lotti per un futuro migliore, quando cominci a costruirlo e all’improvviso ti viene portato via, hai poche alternative, trovare le risorse dentro te stesso per ricominciare o chiuderti al mondo e perderti. Con piccole e grandi rivoluzioni provammo a cavarcela. Dora e la tata si occupavano dei bambini e della casa, io di Renato. Passavo a prenderlo a casa per andare insieme a lavoro, cercavo di lasciarlo da solo il meno possibile con l’illusione di poter mitigare il dolore che gli veniva addosso a ondate. Era taciturno, cupo e arrabbiato ma la nostra vicinanza lo tratteneva dall’abbandonarsi al dolore. Era un guerriero e non ha mai smesso di lottare. A lavoro, come nella vita privata, intorno a Renato facemmo scudo, tutti insieme. Renato si rituffò anima e corpo in azienda, per mantenere la promessa fatta a Elvira di continuare a nutrire quel sogno che lei aveva contribuito a rendere reale e che lui avrebbe reso grande, in suo onore e per il bene dei loro adorati figli.

VII. Ischia

Ogni giorno, uscendo da casa e al suo rientro, Renato si fermava di fronte ad una foto di loro due che si guardavano innamorati. Lui in completo scuro, Elvira in abito bianco nell’abbagliante bellezza dei suoi vent’anni. Erano trascorsi solo cinque anni da allora ma il ricordo di quel giorno era vivo e puro. La vita andava avanti e Renato con lei. Un giorno andai a svegliarlo per portarlo a lavoro e lo trovai che dormiva profondamente con i bambini. Vestito, sopra la coperta, un palmo della mano sul corpo del più piccolo, l’altro sul corpo di Simona. Con la perdita che portava dentro, voleva sentirli e trattenerli a sé, nel momento in cui abbassava la guardia, nel buio della notte. Lo lasciai dormire. Mi rimproverò per averlo fatto.

Il Natale di quell’anno fu quello dei bambini, tutto fu fatto per loro. Con il dolore nel cuore, posizionammo le statuine del presepe comprate tra i vicoli di San Gregorio Armeno e custodite da Elvira come reliquie. La comparsa di ciascuna statuina, scartata dall’involucro di delicata carta velina, veniva accompagnata da grande meraviglia da parte degli adulti e di riflesso dei bambini. Incantati dai racconti, di cui ciascuna statuina era protagonista, venivano invitati a posizionarle dietro la sapiente regia di Renato che si adoperava in ogni modo per distrarli e attutire il rumore, sordo e tremendo, provocato dall’assenza della madre. Un rumore che Renato conosceva bene, perché quel vuoto se lo portava dietro da quando era bambino. L’idea che anche i suoi figli avrebbero dovuto fare i conti con l’assenza, con la tendenza a cercare ciò che non c’è più, a desiderare quello che manca, gli dava il tormento, lasciandolo senza fiato. L’estate dopo tornammo a Ischia, l’isola dove il sole ha la durezza di una pietra preziosa, dove i colori impazziscono di luce, dove gli odori si mischiano in un’essenza forte e soave. Ischia era tutto

questo, Ischia Ponte era casa. La passeggiata attraverso la strada fatta di basoli portava a Castello Aragonese. Nella baia di Sant’Anna, protettrice delle partorienti, la sfilata delle imbarcazioni allegoriche in mare e la simulazione dell’incendio del Castello avrebbero incantato i bambini, intrattenuto noi adulti. Anni dopo sarebbe venuto il tempo per Renato di realizzare sull’isola il sogno di un piccolo villaggio per la sua famiglia. Di quel progetto mi resta un’impressione così netta che potrei elencarne ogni dettaglio. Il terreno in collina affacciava sul porto di Forio, uno dei posti del cuore di Renato e dei suoi fratelli che avevano idee chiarissime rispetto a come avrebbe dovuto essere il villaggio. Nella parte più alta sarebbero state realizzate una piscina a forma di otto, una cascata e un idromassaggio, adiacenti all’area gli spogliatoi e le docce. Poco distanti palme, fiori e piante esotiche avrebbero popolato un giardino incantato, al centro un grande tavolo sarebbe stato imbandito per festosi banchetti. Le tre ville, una per ciascun fratello, avrebbero goduto di una vista mozzafiato. La dèpendance per gli ospiti non sarebbe stata da meno. Nella parte più bassa non sarebbero mancati i campi da calcio e da tennis, oltre ad un orto coltivato con melanzane, pomodori, limoni, zucchine e molteplici altri frutti e ortaggi. Gite in barca, partite a carte sarebbero diventate nel tempo ricordi da custodire gelosamente. Giocavamo a tressette come fosse stata una battaglia, Gennaro era un buon giocatore ma troppo impulsivo, Tonino aveva doti da stratega ma la memoria gli difettava, Renato spiccava, invece, per ingegno e intuito. Quanto a me, me la cavavo fin troppo bene sia in coppia con Renato sia da solo. Ci divertivamo poi a commentare la partita e a prendere un po’ in giro chi si portava a casa la medaglia del giocatore peggiore. Schermaglie tanto animose da cessare solo davanti ad un bel piatto di pasta e ad una bottiglia di buon vino.

Nell’estate del ’79 tutto questo restava confinato in un cassetto come un sogno da tirare fuori prima o poi per farlo respirare di vita. Renato non aveva ancora compiuto trent’anni, era già vedovo con due figli. Convincerlo a partire per Ischia non fu facile. L’unica argomentazione che fece breccia in lui fu quella legata alla tanto agognata quanto irrealistica normalità, specie per i

bambini. Ricordo le svogliate passeggiate fino al Bar Calise e le note del pianoforte che suonavano lontane e malinconiche. Con noi c’era Guido che fece ricorso alle più fini e talvolta ardite arti persuasorie per convincere Renato ad uscire. Renato, esausto, acconsentiva. Una sera sì e una no quell’estate uscirono insieme e qualche volta il viso di Renato si distendeva e si apriva in un sorriso. Nel mese di agosto accadde qualcosa di inaspettato. Renato conobbe Thesy. I capelli, color della notte, annodati in una treccia che si avvolgeva a corona intorno al capo, lo sguardo morbido e suadente, un profumo che ne anticipava l’arrivo e ne prolungava la presenza. Aveva origini spagnole ma viveva in Svizzera dove lavorava come interprete. Parlava correntemente tre lingue. Era in vacanza ad Ischia con un’amica, Barbara. Questo e poco altro disse di sé, sorridente, di un sorriso a tratti conturbante. Guido si invaghì di Barbara ma non si isolò, mollare la presa su Renato era per lui impensabile. Uscirono spesso in quattro. Renato non era pronto ad imbarcarsi in una frequentazione, ma Thesy lo affascinava. La sua bellezza arrivava a Renato, fiera e plastica, perché era una ragazza che aveva deciso di essere sé stessa senza scendere a compromessi. Gli teneva testa e nel farlo gliela faceva perdere Alla fine dell’estate si scambiarono il numero di telefono, seguirono telefonate, via via più lunghe e ravvicinate. Iniziava a farsi strada in lui la sensazione che per Thesy avrebbe potuto scongelare il cuore. Volò a Berna per rivederla e capire quanto ci fosse di reale al di là dei fili del telefono. Di lì a poco i viaggi si fecero più frequenti. Quanto a me, lo osservavo da lontano con l’amicizia di chi è lì pronto ad abbracciarti, senza stringere. Ricordo il giorno in cui invitò mia moglie Dora a badare ai bambini e mi fece un cenno con la testa. Aveva voglia di fare una passeggiata. Uscimmo con la sua auto e in macchina gli feci qualche domanda, in punta di piedi.

“Ma non volevi passeggiare?”

“E che stiamo facendo, non stiamo passeggiando?”

“Con la macchina Rena’?”

“E che volevi andare a piedi? Fa un freddo cane Anto’!”

“E poi voglio presentarti una persona”

“Una persona? E chi?”

“Eh, vedrai.”

“Ma per lavoro?”

“Vedrai!”

Decisi di stare al gioco e non rompere l’atmosfera di mistero che aveva creato intorno all’evento. Il tragitto mi fu via via più chiaro, la meta era Licola, la località dove Renato aveva degli appartamenti, in parte affittati. Li chiamavo scatole per via della loro architettura minimalista. Arrivati a destinazione, suonò il citofono – l’unico senza etichetta – dall’altra parte non rispose nessuno ma il portone si aprì. Qualcuno ci aspettava. La porta dell’appartamento era stata lasciata socchiusa, entrammo nel salotto dall’arredo essenziale e illuminato dalla luce del caminetto acceso. Thesy era seduta sul divano, avvolta in uno scialle. Tremò un po’ per il freddo e sorrise. Ci salutammo con gioia e un pizzico di sorpresa, la mia. Poco dopo apparecchiò la tavola, avremmo mangiato qualcosa insieme. Renato non la lasciava con lo sguardo e le sorrideva. Voltandosi verso di me mi pose una domanda a bruciapelo.

“Che devo fare Anto’?”

“In che senso?”

“Ne sono innamorato”

Ricordo con esattezza quelle parole e l’accorata sincerità con cui le pronunciò. Risposi con semplicità.

“Rena’, io non lo so come ti devi comportare. Ma una cosa è certa: qualunque cosa deciderai va bene, ma portala via da qui! Rischia di congelarsi qui dentro”.

Non ci fu bisogno di dire altro. Tornando a casa mi spiegò il suo disegno per il futuro. Avrebbe chiesto a Thesy di lasciare la Svizzera e trasferirsi a Napoli,

l’avrebbe presentata alla famiglia. L’avrebbe sposata. Thesy non avrebbe preso il posto di Elvira. Chi la vide in questo modo, osteggiando il suo ingresso in famiglia, fu oltremodo ottuso. Thesy e Renato avrebbero cresciuto Mirko e Simona insieme, lei avrebbe con amore messo in azione un codice di cura, tutto materno, che nella promessa di esserci trova la sua massima espressione. Entrò nella nostra vita, nella vita dei bambini, con quel sorriso che sapeva accogliere e rassicurare. Nel 1981 si sposarono e l’anno dopo nacque Fabio, un bambino che portava in sé l’intraprendenza del padre e la solarità della madre.

La famiglia cresceva e l’azienda con lei. FASA prosperava e il deposito al Rione Alto, nonostante i suoi 600 m2, cominciava a farsi stretto per la mole di lavoro che ci trovavamo a gestire quotidianamente. In quel periodo, Renato andava da una parte all’altra con il passo di una tigre in cattività. Si stava preparando a gestire due delle sfide più importanti che avrebbero dato a FASA la chance di volare. Erano trascorsi quindici anni eppure le note venivano ancora ritirate in farmacia o registrate a telefono. L’informatizzazione dei flussi era, pertanto, il primo obiettivo di Renato. Trovare un modo più semplice e sicuro di ricevere ed elaborare gli ordini sarebbe diventato un elemento di distinzione nei confronti degli altri attori della distribuzione intermedia. E così fu. Questi ultimi, più preoccupati di conservare lo status quo che di proiettarsi nel futuro e innovare, impiegarono tempo a colmare il gap che noi avevamo generato subendo un costo enorme in termini di perdita di clienti. Erano trascorsi quindici anni, la FASA cresceva a ritmo costante, ma Renato non era ancora riuscito ad ottenere la licenza per trattare il farmaco etico. Questo sarebbe stato il secondo grande obiettivo strategico da raggiungere. Quanto a me, non so forse spiegarlo a parole ma la voglia di fare qualcosa di mio non mi aveva mai abbandonato. È così che, oltre alla vendita dei tappeti e al lavoro in FASA, decisi di cimentarmi in una nuova avventura professionale. Avevo costituito la Dispro Italia, una società di vendita televisiva che nei primi anni Ottanta poteva definirsi d’avanguardia. All’ideazione di un catalogo che avrebbe avuto la funzione di illustrare i prodotti in vendita, seguiva

la creazione del palinsesto e la presentazione dei prodotti. Canale21, TeleLibera63, TeleCapri ospitavano le televendite che ideavo e presentavo con l’attitudine che mi era propria, quella del venditore. Iniziai con i tappeti per crescere man mano ed arrivare al robot da cucina chiamato il Cuciniere, le cui vendite ridussero a zero le scorte in un lasso di tempo tanto breve quanto inaspettato. Altro best seller della mia offerta si rivelò il mobile da stiro che abbinai al Vapor Stiro in quello che oggi si definirebbe un cross selling di successo. All’apice dell’entusiasmo per i risultati conseguiti, coinvolsi Renato per intercettare la formula più proficua per proporre i prodotti FASA. Nacque così dalla mente di Renato e Tonino il “Pacco Igiene Famiglia” che i consumatori potevano scegliere di acquistare ogni qualvolta ne avevano bisogno o di ricevere periodicamente dopo aver sottoscritto un abbonamento. La formula conquistò gli spettatori che abbracciarono con entusiasmo l’idea di affrancarsi dal fare la spesa di beni per la cura della persona. In breve tempo le vendite dei prodotti Termozeta e Giussani, cuore del catalogo, vaporizzarono le scorte. Nonostante il successo conseguito, le aziende partner dimostrarono ancora una volta una certa ottusità. Inizialmente l’esperimento della televendita, non incontrando pienamente il loro favore, era stato dirottato su prodotti in rottura di stock. Tuttavia non appena raggiunto l’obiettivo di liberare i depositi di merce invenduta, la Dispro Italia fu ingratamente abbandonata. Di lì a poco cedetti la società ad un gruppo di imprenditori che avrebbero potuto integrare il catalogo con prodotti nuovi e maggiormente attrattivi. Fare bilanci non mi è mai piaciuto. Posso dire che tra le tante cose apprese da Renato, ce n’è una che mi è cara più di altre: ciò che rende impossibile la realizzazione di un sogno è la paura di fallire. Peccato, in condizioni diverse la Dispro Italia sarebbe potuta diventare un ottimo canale per i prodotti FASA. Di contro l’azienda di Renato si preparava a gestire non poche novità. Era il 1984 e, dopo anni di duro e silenzioso lavoro, dalle porte del mondo del farmaco si apriva uno spiraglio.

Stava per nascere Farvima Medicinali.

VIII. Formiche

I Mirmidoni traevano il loro nome da Mirmidone, figlio di Zeus e di Eurimedusa, oppure da μύρμηξ formica, poiché si narrava che, essendo stata l’isola d’Egina devastata da una pestilenza, un giorno Eaco, al vedere una grande quantità di formiche, supplicò suo padre Zeus di tramutarle in persone. Il padre accontentò il figlio immediatamente. Già gli antichi tentarono di spiegare questa leggenda asserendo che la stessa alludeva alla grande diligenza con cui la popolazione di Egina ne avrebbe coltivato il suolo roccioso e poverissimo. Il documentario nel quale mi ero imbattuto qualche tempo fa, iniziava più o meno così. I più valorosi guerrieri, guidati da Achille nella guerra di Troia, traevano origine dalle formiche, inarrestabili insetti che non si fermano mai, nemmeno di fronte alla morte. Dopo l’affascinante apertura mitologica, il documentario continuava illustrando le peculiarità di una particolare specie di formiche che era proliferata in una zona ostile e avversa. A dispetto delle condizioni sfavorevoli, la colonia ebbe la meglio, crebbe e si radicò nel territorio. Man mano che il documentario andava avanti, scorgevo nell’assetto della colonia non poche affinità con quello di un’azienda. Questo aspetto mi tenne incollato allo schermo fino alla fine. La comunicazione tra questi insetti era così dettagliata da permettere alle formiche di coordinarsi per trasportare carichi di gran lunga più pesanti di quelli che avrebbe potuto sostenere un singolo individuo. Per riuscire ad alzare una preda pesante e portarla al formicaio, la colonia alternava il lavoro di squadra a momenti in cui una formica prendeva l’iniziativa per tutto il gruppo. L’espansione è la missione della colonia e nel portarla avanti le formiche mettono in campo strategie via via più mirate. Ed ecco le ricercatrici a cui compete il compito di esplorare i siti adiacenti al formicaio per individuare il più indicato a costruire un nuovo

rifugio. La ricerca ha fine solo quando hanno raggiunto l’obiettivo, a costo di vagare per mesi, senza sosta. Scoperto il sito, le messaggere tornano indietro per comunicare alla colonia il luogo in cui verrà costruito il rifugio. Il sentiero che collega i due siti sarà percorso più volte da un significativo numero di formiche, munite di provviste e materiale per realizzare il rifugio. La comunità ha la capacità di lavorare in parallelo, la costruzione della nuova base non pregiudica l’andamento della precedente. In breve tempo il formicaio raggiunge la sua stabilità e l’andirivieni tra la prima e la seconda base inizia a diradarsi fino a quando le ricercatrici ripartiranno alla volta di altri siti da colonizzare. La ricerca segue parametri precisi e orientati ad acquisire territori che necessitano di pochi interventi per gettare le fondamenta di un nuovo rifugio. Di qui non mi parrebbe improprio affermare che le formiche sono votate a fare acquisizioni, né più né meno come un’azienda. Se mi spingessi oltre, rifacendomi alle dottrine della metempsicosi potrei dichiarare con una certa fermezza e poca approssimazione che Renato in una vita precedente sia stato una formica e che da uomo ne abbia conservato l’indole, la resistenza, lo spirito di sacrificio e la strategia espansionistica. Gli avvenimenti che caratterizzarono quegli anni ne diedero una dimostrazione tangibile.

Il 1984 fu caratterizzato dalla sinergia tra le due società, FASA con sede a Rione Alto e D.P.F. ubicata in Via delle Zite ai Tribunali. Il lavoro procedeva ma non come Renato avrebbe voluto. Da tempo oramai eravamo posizionati sui blocchi di partenza in attesa del colpo di pistola per partire e competere ad armi pari con gli altri grossisti. Quel colpo di pistola aveva un solo suono, l’iscrizione all’ANADISME – oggi ADF – e parallelamente l’autorizzazione alla vendita del farmaco. Renato attese, lavorando alacremente, sicuro che prima o poi l’avrebbe spuntata. L’occasione non tardò ad arrivare, venne individuata una società di nome Farvima Medicinali S.r.l., gestita da una coppia che aveva esaurito le energie per continuare ad amministrarla. Prima che moglie e marito deponessero i remi in barca, Renato rilevò l’azienda e con lei la tanto sospirata iscrizione all’ANADISME. Si trattò di un’operazione tutt’altro che semplice ma il suo successo portò Renato a sedersi tra gli attori della

distribuzione intermedia del farmaco e spiccare il volo. Fu una rivoluzione per la quale avevamo da tempo preparato il terreno, non del tutto consapevoli di ciò che avremmo dovuto fare per vincere la sfida. Era il Ferragosto del 1985 ed eravamo tutti impegnati nel trasloco della logistica dal deposito di Rione Alto a Casandrino, da concludere in due giorni. Non mancava nessuno all’appello, tutti volevano dare il loro contributo a Farvima, l’impresa per la quale ognuno di noi aveva maturato un profondo senso di appartenenza. Divisi in squadre, ci occupavamo del carico, dello stoccaggio e del trasporto dei prodotti da un deposito all’altro. Io ero a Rione Alto a dirigere il carico e il flusso dei furgoni, Renato, Tonino e Gennaro a Casandrino a gestire lo stoccaggio. Era una giornata rovente e la tensione arrivò alle stelle quando una banda di rapinatori professionisti, a viso coperto e pistole alla mano, fece irruzione nel deposito di Casandrino. Eccitati e minacciosi, intimarono a tutti i presenti di spogliarsi dei propri valori e depositarli nelle sacche che, sprezzanti, gettarono a terra. Renato non si scompose, si sfilò dal polso il Rolex e la catena d’oro che aveva al collo nella speranza di salvare la grossa somma di denaro che custodiva nelle tasche dei pantaloni per retribuire tutti i trasportatori coinvolti nel trasloco. Quanto agli altri, tutti lasciarono qualcosa ai rapinatori che, raccolto il bottino, scomparvero dal deposito alla stessa velocità con cui vi apparvero. È così che con un fulmineo e pericoloso gioco di prestigio fu inaugurata la sede di Farvima.

Il lavoro che seguì per recuperare il deposito dopo che la coppia di coniugi lo aveva depauperato della linfa vitale delle relazioni con l’industria, durò due anni. Le aziende esercitarono non poche resistenze nel procedere alla fornitura dei prodotti, alludendo al fatto che Farvima aveva interrotto da tempo i rapporti per l’acquisto diretto della merce. Ciò aveva portato le aziende farmaceutiche a dirigersi altrove e inaugurare collaborazioni con altri grossisti del territorio. Il lavoro di Renato e Tonino per ricucire i rapporti e persuadere le figure apicali delle aziende farmaceutiche che in Farvima avrebbero trovato l’alleato di cui avevano bisogno, non conobbe sosta e fu nel tempo premiato. I tratti peculiari di Farvima erano già tutti lì, era nata grazie alla caparbietà,

alla determinazione, alla creatività di chi l’aveva fondata e così sarebbe cresciuta. Nella seconda metà degli anni Ottanta, Renato decise di mettere in liquidazione la D.P.F. Non si trattava di una società come un’altra, la D.P.F. ricordava a tutti noi da dove venivamo e tutto il percorso che avevamo compiuto. Eravamo diventati grandi, come se una forza, dopo aver ancorato i nostri piedi a terra, ci avesse tirato su per i capelli. Eravamo allora chiamati a trovare nuove soluzioni per migliorare i processi: l’informatizzazione del flusso per la trasmissione degli ordini si era resa necessaria. I pc, di recente introduzione, ci permisero di acquisire gli ordini in tempo reale e dare riscontro immediato ai farmacisti, specie nel caso di prodotti ordinati e non immediatamente disponibili. Fu una rivoluzione. I tempi di risposta e di evasione degli ordini si ridussero vertiginosamente. In realtà non tutti i farmacisti avevano la volontà di investire in questo nuovo strumento e a dire la verità molti di loro risultavano restii ad adottarlo. Renato ebbe a quel punto un’intuizione geniale. Capì che se fosse riuscito a persuadere la maggior parte dei suoi clienti ad utilizzare il pc, avrebbe potuto gestire molte più attività con lo stesso numero di persone, risparmiando in termini di costo e sviluppando più fatturato.

Decise così di munire i farmacisti di un pc in comodato d’uso gratuito e formarli all’uso, l’investimento era elevato ma l’aumento di fatturato e la diminuzione dei costi operativi valevano di gran lunga di più. L’operazione ebbe un successo tale da essere poi copiata dalla quasi totalità di player della distribuzione italiana. Nessun farmacista del territorio si fece scappare l’occasione di ricevere un pc con cui lavorare e perché no vantarsi con gli amici. Con il passare degli anni, seguirono aggiornamenti. Ne ricordo uno in particolare, il passaggio a terminali RISK con sistema operativo Unix, in grado di migliorare le prestazioni in termini di velocità del flusso di acquisizione degli ordini. Una novità non di poco conto soprattutto per Tonino che aveva a disposizione un sistema capace di sviluppare i primi report per il monitoraggio delle vendite, attraverso il quale poter gestire in maniera ancora più oculata gli acquisti.

Era il ’91, l’anno in cui il guerriero riprese il disegno d’espansione che aveva solo momentaneamente accantonato per concentrarsi sul suo ingresso nella di-

stribuzione intermedia del farmaco. Consapevole della necessità di espandere il suo raggio d’azione in Campania, decise di aprire a Salerno. L’apertura del deposito non sarebbe potuta avvenire in un momento più azzeccato, d’altra parte Renato aveva dato più volte prova di una certa maestria nel fare la cosa giusta al momento giusto. In quegli anni, infatti, i tassi d’interesse aumentarono in maniera rilevante. L’Italia si stava avviando verso un’ennesima svalutazione della lira, il tasso ufficiale di sconto sfiorava il 20% così come l’inflazione. In questo contesto molti grossisti dell’epoca entrarono in grande sofferenza, tra questi anche uno dei principali grossisti dell’area di Salerno. La sua chiusura coincise con l’apertura della nostra nuova sede che divenne in tempi rapidi il punto di riferimento per l’intero territorio salernitano.

Seguirono negoziazioni che Renato diresse come esercizi di stile. Sembrava una partita a scacchi e Farvima giocava nel ruolo della regina, da muovere con arguzia e prudenza. Ne ricordo una in particolare perché ci fece sudare freddo, tutti, tranne lui. Valutò l’acquisizione di un’azienda di Torino che operava nel settore della distribuzione intermedia del farmaco. L’impresa versava in cattive acque, aspetto che Renato seppe volgere a suo favore attraverso la proposta di un accordo verbale che non avrebbe comportato alcun esborso finanziario da parte di Farvima. Sarebbe stato un bel colpo se la persona individuata per seguire il deposito torinese non si fosse tirata indietro poco prima del perfezionamento dell’accordo, rifiutando il trasferimento. Bisognava svincolarsi dagli accordi presi e uscire dalla trattativa salvando la faccia. Fu a quel punto che Renato fece qualcosa di inaspettato, restò al tavolo della trattativa rilanciandola. Farvima avrebbe concluso l’affare ad una condizione: l’azienda torinese avrebbe dovuto versare un capitale di duecento milioni di lire a favore di quella napoletana. La manovra era mirata a far decadere l’affare, ma lo scambio di battute che seguì tra Renato e il ragionier Varriale fu emblematico del temperamento del guerriero:

“E se poi accettano?” chiese timidamente il ragioniere.

“La prendo e poi mi organizzo!” concluse perentorio Renato.

Rimanemmo in attesa per ore della risposta dei proprietari che pensarono a lungo se accettare o meno. L’affare saltò ma la negoziazione si rivelò una grande lezione di business. Avevamo scoperto che spesso la scelta di vendere un’azienda era motivata dalla volontà di liberarsi dei debiti più che di capitalizzare la cessione della stessa. Non fu l’unica lezione appresa nel mondo complesso e imponderabile delle acquisizioni. Ricordo ancora lo stupore di Renato quando la Cooperativa Farmacisti di Teramo accettò l’offerta di un altro gruppo, sebbene la nostra fosse stata di gran lunga più generosa. L’abruzzese avrebbe potuto ottenere ben cinque miliardi e mezzo di lire da Farvima, eppure la sua scelta venne dirottata su altri lidi. Renato non si scompose, accompagnato dal fidato ragionier Varriale, si alzò, salutò e si voltò con lo sguardo di chi sapeva incassare tenendo ben in mente ciò che la circostanza gli aveva insegnato, certo del fatto che non avrebbe commesso due volte lo stesso errore. Con il senno di poi l’Abruzzo ci avrebbe dato tanti dolori prima e tanta soddisfazione poi. Seguirono successi che sin dal ’96 contribuirono a rendere i contorni del ritratto di Farvima via via più definiti, tra questi l’apertura del deposito di Roma per me indimenticabile. Renato mi affidò la direzione del deposito romano e mi permise così di rinascere da un fallimento dal quale non avrei potuto riprendermi senza il suo aiuto. Avevo aperto un negozio di antiquariato a Pompei che inizialmente mi diede molte soddisfazioni tanto da spingermi ad aprirne poco dopo un altro, affiancato da un laboratorio di restauro. Tutto andava per il meglio fino a quando due dei miei migliori clienti acquistarono merce per oltre trecento milioni di lire con assegni postdatati che si rivelarono scoperti. Il mio mondo franò e i preziosi pezzi di antiquariato, le opere d’arte, i tesori di famiglia di colpo non ebbero più alcun valore. Spensi le luci dei due punti vendita e del laboratorio. Ne avrei accese di più rilevanti ma questo allora non potevo saperlo. Non avevo ancora ricevuto la telefonata di Renato che una mattina come tante mi chiamò per mutare il mio destino per sempre:

“Anto’, vuoi organizzare e dirigere la nuova filiale di Farvima a Roma?”

IX.

Fabio

Con il passare degli anni imparai a dividere le persone da poco, che tentano di frenare le ambizioni altrui, da quelle grandi che, al contrario, spronano gli altri a preferire la luce dei riflettori a quella dell’abat-jour. Renato era tra i grandi e la proposta di dirigere il deposito di Roma risuonò come la campanella che sconvolge il ritmo della vita in meglio. Ne ero consapevole, certo, ma l’idea di lasciare Napoli e costruire dal nulla un portafoglio clienti in un contesto competitivo come quello di Roma, generava in me qualche resistenza. Intimamente sapevo che cosa mi interessava fare e avevo imparato a farlo bene, ora ero pronto a metterci dentro l’anima. Avrei speso tutte le mie energie e le mie abilità naturali per far crescere e prosperare la sede di Roma di Farvima. La fortuna accompagnò tutte le fasi della trattativa per l’acquisizione della Società Farmaceutica Romana, specie quando il ragionier Varriale arrivato all’appuntamento di corsa a Roma per analizzare i documenti, prese da parte Renato per comunicargli che Farvima rischiava di prendere in eredità dall’azienda diverse pendenze, fra cui un debito non di poco conto con l’INPS. L’arrivo del ragionier Varriale fu provvidenziale. Se, trafelato, non avesse fatto il suo ingresso in quel fumoso ufficio romano dove Renato lo attendeva, quell’accordo avrebbe avuto un effetto domino sull’impresa ed oggi avrei raccontato un’altra storia. Sospesero la negoziazione per fare rientro a Napoli, dove venne formulata una nuova proposta di acquisizione che avrebbe messo Farvima al riparo dai guai. La Società Farmaceutica Romana divenne così Romana Farmaceutici, controllata da Farvima. A quei tempi il deposito si trovava a Monteverde in Via Antonio Dionisi, ci saremmo poi spostati a Magliana in Via Fabbriche di Vallico ed infine a Tiburtina in Via Licenza. Curai personalmente sia il primo che il secondo trasferimento ma ciò che ricordo

con più emozione è stato l’ingresso nel deposito di Via Antonio Dionisi. Era il primo giugno del ’96. La sfida romana fu più difficile del previsto ma non ci fu un momento in cui pensai di mollare. Lottavo contro la diffidenza con cui io e i venditori venivamo accolti in farmacia. Con costanza e dedizione scardinai a uno a uno i pregiudizi di cui eravamo vittime, in quanto napoletani. E poco alla volta guadagnai terreno, lavorando sul livello di servizio più che sull’elargizione di sconti. Fu una strategia vincente che portò alla risoluzione di uno dei problemi che assillavano maggiormente i farmacisti della capitale: le urgenze. Istituimmo la consegna urgente e quella domenicale che in breve tempo diventarono i servizi distintivi di Farvima a Roma. Quando ce n’era bisogno anche io mi occupavo delle consegne in farmacia a bordo della mia Vespa. Ad ogni modo le novità introdotte a Roma ebbero successo e contribuirono a migliorare nel lungo periodo la distribuzione intermedia del farmaco. Questo era un obiettivo che Renato ha sempre avuto a cuore. Di qui il successo non arrivava mai per caso, era piuttosto la diretta conseguenza del sacrificio, della dedizione al lavoro dimostrata in ogni territorio nel quale Farvima si insediava.

Eravamo completamente assorbiti nel lavoro e nel fare grande Farvima. Ciò che restava del mio tempo tutto romano, lo investivo nel burraco, una passione che avevo in comune con mia moglie Dora. Ricordo con un pizzico di nostalgia i tornei che animavano le serate tra amici, ma ancora di più le vacanze a Ischia. Il villaggio di Renato e i suoi fratelli corrispondeva per filo e per segno a quello che avevano sognato anni prima. Risate fragorose, conversazioni stimolanti e silenzi che non avvertivamo il bisogno di riempire, caratterizzavano le nostre giornate sull’isola. I nostri sguardi indugiavano sui nostri figli, Marco e Fabio, che erano cresciuti senza darci modo di afferrarli e magari trattenerli, anche solo per un po’. Avevano diciotto anni e non erano solo cugini, si erano reciprocamente scelti, un po’ come avevamo fatto io e Renato. Come si sceglie un’amicizia trasformandola in un’esperienza radicale, capace di riscattare le proprie esistenze? Non saprei dirlo ma è ciò che in modo vivace e quasi rivelatorio accadde tra me e Renato prima e sarebbe

accaduto tra Marco e Fabio poi, se la luce abbagliante di quell’estate del 2000 non si fosse spenta di colpo, portando nelle nostre vite il buio della disperazione. Fabio aveva preso il meglio da Thesy e Renato, era sorridente e pieno di vita come la madre, intraprendente e acuto come il padre. Sapevamo che presto avrebbe fatto il suo ingresso in Farvima, dove già lavorava Mirko. Ma quella era l’estate dei suoi diciotto anni e non c’era posto che per pensieri di estatica libertà. Quanto a noi adulti, ci capitava di evadere dalle nostre prigioni professionali solo nel fine settimana. Il 24 giugno di quell’anno ci riunimmo tutti intorno ad una lunga tavolata ad Ischia per festeggiare l’anniversario di matrimonio mio e di Dora. Trascorremmo lì il fine settimana per poi tornare a Napoli in barca. Il lunedì dopo saremmo tornati io a Roma e Renato a Casandrino, dove lo attendeva un’ambiziosa trattativa per l’acquisizione della Ferruzzi Medicinali. L’azienda era dotata di ben due depositi, uno a Perugia e l’altro a Terni, avremmo così colonizzato il versante adriatico e puntato la bussola verso nord.

L’estate di Fabio e Marco, invece, assomigliava ad un weekend da vivere ininterrottamente. Quel lunedì di ventiquattro anni fa, non fece eccezione. Era poco dopo mezzanotte quando Fabio accompagnò Marco a casa - cena da Rosiello e una birra al Virgiliano, niente di speciale - ma prima di salutarsi discussero un po’ come fanno le persone che si vogliono bene. Marco voleva che Fabio tornasse a casa. Fabio, invece, voleva passare a salutare un amico.

Rassicurò il cugino, argomentando che si sarebbe trattato solo di una piccola deviazione. Marco si arrese, Fabio inforcò il motorino e ripartì. Ciò che accadde dopo non si sa con precisione, ma all’altezza della vecchia funicolare che collegava Fuorigrotta a Posillipo, Fabio perse il controllo del motorino e cadde rovinosamente sul precipizio della vita che aveva davanti. Fu trasportato di corsa al Fatebenefratelli, ma non appena varcata la soglia dell’ospedale, il tempo si divise in due, da allora in poi lo avremmo misurato con un prima e dopo Fabio, perché lui era morto.

Partii di corsa dopo la chiamata terribilmente laconica di Gennaro. Tacque e quel silenzio dall’altra parte della cornetta mi trafisse. In ospedale incontrai

il pianto disperato di Renato e Thesy, appoggiati ad un muro, ricurvi. Il cuore può fare spazio a tutti gli amori possibili, dai più grandi ai più piccoli, ma lo spazio più grande resta dei figli e quando un figlio muore lascia un vuoto incolmabile. La vita che viene dopo assomiglia ad una pena da scontare per essergli sopravvissuto.

Ci sono momenti che si fissano indelebili nella memoria, ricordi che risuonano, forti e persistenti, in ogni istante della nostra vita. È il 29 giugno del 2000. Semifinale degli Europei. L’Italia batte l’Olanda ai rigori con quello che sarebbe passato alla storia come er cucchiaio di Francesco Totti. Siamo in finale. Uno di quei giorni che avrebbe segnato una generazione e acceso un sentimento ardente di gioia collettiva. Per tutti ma non per noi.

L’eco dell’entusiasmo risuonava sorda attraverso le finestre delle nostre case. Sarà stato per un meccanismo di difesa naturale o per una scelta autoinflitta di vivere sotto il regime dittatoriale del dolore, ma eravamo immuni ai sintomi dell’euforia incontenibile che stava travolgendo tutti gli altri. Le strade, per giorni, si sono vestite dei colori della bandiera italiana, mentre le grida di esultanza si univano in un coro assordante, un contrasto stridente con il muto silenzio delle nostre giornate.

Ogni suono di festa amplificava la nostra sofferenza, non c’era la forza per unirsi alla gioia, non c’era l’energia per abbandonarci almeno un po’ a quella felicità che ci circondava. Eravamo prigionieri di un dolore che consuma, imprigionati in un silenzio che assilla e che solo noi potevamo comprendere.

E intanto l’Italia esultava, esuberante e spensierata, e il mondo continuava a girare, incurante del nostro dolore, indifferente al nostro lutto.

X. Le acquisizioni

Renato non superò mai il dolore per la perdita di Fabio, ma l’amore per il figlio fu più forte della morte. Era cambiato, certo, ma la ribellione contro lo schiaffo che la morte gli aveva inferto, non gli fece perdere la lucidità per guidare l’impresa che aveva faticosamente costruito e che progressivamente cresceva, espandendosi in tutta la penisola.

La famiglia aveva lavorato insieme a lui per portare l’azienda verso il raggiungimento di uno tra gli obiettivi più sfidanti, quello di diventare un’azienda di portata nazionale. Lo sapevano bene il figlio Mirko, i fratelli Antonio e Gennaro e i nipoti Gianni e Renato che, compatti e coesi, avevano dato il via ad una serie di acquisizioni che avrebbero decretato l’espansione di Farvima su tutto il territorio nazionale.

Completamente assorbiti nel lavoro, i cugini Mirko e Renato avrebbero continuato a fare grande Farvima.

Il figlio di Antonio, Renato, dopo aver preso la Laurea in Medicina, aveva fatto il suo ingresso in Farvima, inatteso e inaspettato. Renato è un medico che ha scelto di fare l’imprenditore. Nel settembre del 2000 l’azienda di famiglia aveva acquisito la Ferruzzi Medicinali con sede a Perugia e a Terni. Renato, spinto dall’adorato zio da cui aveva preso il nome e tanto altro, si ritrovò a gestire i depositi umbri e la divisione estera dislocata a Perugia. Renato impara in fretta e nel frattempo consegue la Laurea in Farmacia all’Università di Salerno.

Mirko, dopo aver lasciato una brillante carriera sportiva che lo aveva visto tra le fila del Circolo Posillipo e tra quelle delle Fiamme Gialle vincere diversi

titoli italiani ed europei e partecipare a Mondiali e Olimpiadi, cominciò, non appena laureato, a lavorare nell’area del controllo di gestione alle dipendenze del ragionier Varriale, l’anima amministrativa di Farvima.

Di lì a poco avrebbe lasciato l’ufficio e si sarebbe trasferito in Puglia per dedicarsi ai depositi nati dopo l’acquisizione di Salus Medicinali di San Severo e Capurso Farmaceutici di Bari. Le due strutture avevano infatti bisogno di riorganizzare le attività, il magazzino di Bari in particolare fatturava pochissimo ed aveva non più di una quarantina di clienti, numeri ingestibili per un deposito farmaceutico. La ricerca di nuovi clienti da una parte e la fidelizzazione di quelli esistenti dall’altra sarebbero stati i due filoni su cui concentrarsi. In poco tempo il numero di clienti e il fatturato raddoppiarono, e così anche in Puglia la strategia di migliorare la qualità del servizio e il valore della relazione si dimostrò vincente. La quota di mercato di Farvima poté crescere ulteriormente quando Mirko non si fece scappare la Monofarma della Dottoressa Punzi, un’azienda di piccole dimensioni situata a Monopoli attraverso la quale consolidò il posizionamento di Farvima sul territorio pugliese.

Nel frattempo, la fusione di due colossi della distribuzione intermedia del farmaco, un‘azienda tedesca e il leader della distribuzione intermedia nel Centro Sud, stava cambiando in modo sostanziale ed irreversibile la distribuzione farmaceutica italiana. Le nuove proposizioni commerciali, l’offerta di servizi a valore aggiunto ed una nuova politica di incassi stavano creando non pochi scompigli all’interno di un mercato abbastanza statico fino a quel momento. I momenti di cambiamento, come è noto, generano confusione e Mirko con sangue freddo volse a suo favore le criticità provocate dall’azione della concorrenza. L’atmosfera era febbrile, valigetta alla mano incontrò i farmacisti, i trasportatori e gli agenti del territorio e formò la squadra che l’8 marzo del 2003 permise a Farvima di eseguire le prime consegne in Calabria, partendo da Napoli, precisamente dalla sede di Casandrino. Ad attendere il nostro arrivo vi erano cinque farmacie a Vibo Valentia e tre a Reggio Calabria. Non ci conosceva nessuno ma nell’arco di un anno riuscimmo ad ottenere un’entratura tale da rendere necessaria l’apertura di un nuovo deposito,

quello di Rende, in provincia di Cosenza. Pasquale, il figlio di Peppino D’Ambra, ne divenne il responsabile.

Insieme all’acquisizione della Ferruzzi Medicinali, della Salus di San Severo e della Capurso a Bari acquisimmo anche la Sofarma, una cooperativa con sede ad Isola del Liri, in provincia di Frosinone, ed un altro magazzino ad Avezzano, in provincia di L’Aquila. Il magazzino di Isola del Liri copriva le province di Frosinone e Latina mentre quello abruzzese aveva una quarantina di clienti nel Fucino e sviluppava un fatturato di circa cinquecentomila euro al mese.

Era il 2000 ed avevamo appena cambiato sistema gestionale passando da uno sviluppato in casa ad un ERP verticale di settore prodotto da un’azienda di Macerata. Era appena passata la paura del Millennium Bug secondo cui, al passaggio tra il 1999 e il 2000, si sarebbero bloccati tutti i sistemi informatici. Ci accingevamo a passare dalla lira all’euro, ma i cambiamenti non erano finiti. Quello sarebbe stato anche l’anno della legge 405 di agosto del 2001 che cambiò completamente il mercato della farmacia e di conseguenza la distribuzione intermedia tutta.

Nel 2004 Farvima aveva 10 magazzini, Napoli, Salerno, Roma, Firenze, Isola del Liri, Avezzano, Bari, San Severo, Perugia, Terni e Rende, fatturava sui 350 Milioni e aveva circa 200 dipendenti.

Come spesso succede, gli equilibri cambiano e generano conseguenze totalmente inattese.

Nel 2004, l’allora presidente della Safar decise di aprire un deposito ad Avezzano, proprio di fianco al nostro, con l’obiettivo di aumentare ulteriormente la sua quota di mercato in Abruzzo. Con destrezza e carisma degni di nota, riuscì a convincere ben tre su quattro dei nostri dipendenti a lavorare per la sua Cooperativa nel deposito di imminente apertura. Inviarono una lettera di dimissioni il primo agosto, con decorrenza il 15 dello stesso mese, mettendo in serie difficoltà la nostra operatività sul territorio. Renato, per arginare

la situazione, chiamò Salvatore D’Ambra, il figlio di Peppino, e lo implorò di trasferirsi ad Avezzano per un paio di mesi. Dapprima gestendo il magazzino, poi lavorando sul lato commerciale, Salvatore e Mirko non solo recuperarono il fatturato conquistato dalla Cooperativa, ma nel giro di 18 mesi lo quadruplicarono, passando da circa mezzo milione al mese a più di due milioni. In questo modo crearono una rete distributiva che copriva l’Abruzzo intero e che strizzava l’occhio a futuri ingrandimenti in aree limitrofe.

Nello stesso periodo fu acquisita la Castel Farma, azienda che operava esclusivamente nella zona dei Castelli Romani e a sud di Roma. Il proprietario, Fabio Stefanini, era un uomo perbene, intelligente, lungimirante, conosceva a uno a uno i farmacisti del territorio ma scontava la crescente complessità delle politiche commerciali poste in essere sul mercato. La partita non si giocava più su quella manciata di variabili note - sconto sull’etico, listino parafarmaco, assortimento - ma si spostava su terreni di gioco più complessi e competitivi. La fidelizzazione del cliente costruita attraverso la relazione, costante e duratura, di cui Fabio era stato artefice sapiente, iniziava a non bastare più. Poco dopo l’acquisizione di Castel Farma, chiudemmo il deposito di Ciampino e trasferimmo tutto a Roma nel deposito della Magliana. Come nel caso di Monofarma, anche il personale dell’azienda romana fu tutelato e parte di esso lavora in Farvima ancora oggi. Con la costante crescita di clienti e fatturato registrata alla fine degli anni Novanta, il deposito della Magliana si rivelò sempre più piccolo e stretto per la nostra attività, rendendo necessaria una nuova struttura più grande e automatizzata capace di servire da un unico punto l’intera regione Lazio. Fu così che trovammo l’ex magazzino di una cooperativa farmaceutica romana, quasi pronto all’uso, in una posizione diametralmente opposta rispetto al luogo in cui eravamo a quel tempo, all’incrocio tra il raccordo e la Tiburtina. L’inaugurazione di quel nuovo deposito, più grande, spazioso e automatizzato, fu per Farvima un grande salto di qualità, sia in fatturato che in reputazione. Eravamo diventati un player riconosciuto e competitivo a livello nazionale.

Nello stesso periodo iniziammo ad estendere il nostro raggio d’azione alle

Marche, inizialmente attraverso i depositi di Roma e di Avezzano, poi, una volta chiuso quest’ultimo, con il nuovo magazzino a San Benedetto del Tronto.

Una delle acquisizioni più rilevanti per area geografica ma soprattutto per complessità è stata quella della Chifar. Nonostante gli otto magazzini dislocati tra la Toscana, il Lazio e la Liguria, non raggiungevano i 60 milioni di fatturato annuo. Al loro interno si registrava un crescente sentimento di sovversione da parte del personale unitamente ad una forte riduzione della clientela e dei giri di consegna. In aggiunta, il costante ritardo nei pagamenti portò i fornitori ad interrompere i rapporti con l’azienda. Insomma, la Chifar si stava pian piano sgretolando come un castello di sabbia e solo un intervento rapido, deciso e risoluto avrebbe potuto salvare il rapporto con i clienti, l’industria e i dipendenti.

A quel punto, i proprietari dell’azienda, decisi a cederla, contattarono tutti. Tutti, tranne noi. Nessuno però aveva risposto all’appello, troppo complesso e rischioso. C’era da considerare che le aziende che detenevano posizioni competitive rilevanti nelle aree dove operava Chifar avrebbero tratto profitto se l’azienda avesse chiuso i battenti, recuperando il fatturato senza muovere un dito.

Noi, però, se fossimo riusciti a trovare un modo per rilevarla, ne avremmo capitalizzato i vantaggi. Avremmo infatti coperto l’intero territorio della Toscana, consolidato aree come il viterbese e l’aretino e fatto il nostro ingresso nel territorio ligure.

Fu in una rovente giornata di fine agosto che decidemmo di proporci. In quell’occasione scoprimmo che inizialmente non ci contattarono perché pensavano non fossimo in grado. Fu sufficiente che ci spiegassero la situazione e così chiedemmo 24 ore di tempo per valutare le condizioni attentamente e in modo approfondito per poi decidere.

Inutile dirlo, 18 ore dopo Renato e il figlio Mirko, insieme a Varriale, partirono

per Arezzo e in tre giorni riuscirono a formare due strutture societarie in grado di contenere le legal entity di Chifar e procedere al fitto di ramo d’azienda delle società per poter garantite la continuità del servizio e cercare di recuperare il fatturato delle farmacie.

La situazione fu più difficile del previsto, la crisi dell’azienda aveva minato i rapporti con la maggioranza della clientela e molti di loro, per spiegare il loro pensiero sull’azienda, alla parola Chifar anteponevano una S tanto sonora quanto significativa.

Ancora più difficile fu il rapporto con molti dei dipendenti che, esasperati da anni di promesse non mantenute, osteggiarono in tutti modi il passaggio. Subimmo scioperi, sabotaggi, occupazioni, ma alla fine assorbimmo la quasi totalità dei collaboratori in Farvima, conservammo l’80% del fatturato e dei nove depositi dell’area mantenemmo quelli di Firenze, Grosseto e La Spezia. Con questa operazione avevamo messo un piede al nord, eravamo pronti a valicare l’Appennino e muovere verso Milano. Ci avvicinavamo alla meta, Farvima sarebbe presto diventata un’azienda nazionale.

Per portare a segno l’obiettivo, tentammo la strada di joint venture con le Cooperative ma la distanza tra noi e loro era ancora troppo marcata per riuscire nell’intento. Mirko era convinto che il tempo ci avrebbe dato ragione. L’aggregazione sarebbe stata l’unica strada percorribile per crescere. I distributori farmaceutici privati e le cooperative di farmacisti avevano diversi assi nella manica da giocare, gli uni con l’efficienza dei processi, la capacità di ottimizzazione dei costi operativi e l’ampia proposizione commerciale, le altre con la loro storia, fondata su una relazione di fiducia con il cliente, intima, duratura, fortemente condivisa.

Di lì a poco, Mirko ricevette la provvidenziale chiamata di un farmacista abruzzese che lo avvertiva del fatto che un suo amico farmacista di Vigevano, un certo Paolo, aveva bisogno di un deposito fuori regione a cui poter fare riferimento per la sua farmacia. Se è vero che una rondine non fa primavera, tre sì. Oltre a questa farmacia di Vigevano ne avevamo altre due da servire.

Fu così che da La Spezia partì il primo giro di consegne con destinazione Vigevano prima, Milano poi.

In quel periodo la Cooperativa Farcopa di Pavia stava attraversando un periodo di profonda crisi che l’avrebbe presto portata nelle mani della concorrenza. Dopo un lungo corteggiamento, Mirko riuscì a persuadere il suo direttore commerciale, soprannominato il Liga per l’evidente somiglianza con il cantante emiliano, a entrare a far parte della sua squadra in Farvima. In breve tempo un numero rilevante di nuovi clienti entrò in azienda e la rotta logistica dal deposito di La Spezia verso le farmacie lombarde si rivelò presto insufficiente, nonostante l’abnegazione al lavoro dimostrata da Daniele, il nostro trasportatore. Ma come si suol dire la fortuna aiuta gli audaci. Mirko scoprì che avrebbe potuto inaugurare una partnership con la Alfar Farmaceutici di Alessandria. Partì immediatamente, condusse una trattativa per il fitto di ramo d’azienda che mise Farvima nelle condizioni di lavorare in Piemonte e di pianificare ben due consegne al giorno per le farmacie di Milano. Pensare che per più di un anno cercammo di consolidare la nostra posizione al nord attraverso un deposito situato in un palazzo che si affacciava sulla piazza principale di Alessandria mi riporta alle origini di Farvima, un’azienda nata dal sogno di un uomo che conosceva e amava il suo lavoro, un visionario amante dell’innovazione ma estremamente critico rispetto a cose difficili da realizzare, i cui costi non compensassero i benefici. Solo quando il fatturato generato dalle farmacie piemontesi e milanesi toccò i due milioni di euro al mese, Renato decise di aprire un deposito a Milano. Partirono insieme, Renato e Mirko, alla ricerca di una struttura che avrebbe portato Farvima a fare il balzo in avanti preconizzato. Lo scelsero insieme e da quel capannone padre e figlio immaginarono quello che sarebbe stato il futuro dell’azienda. Nel mese di luglio 2014 il capannone venne inaugurato e la bandierina rossa e blu di Farvima sventolò su Milano.

Renato si ripromise di fare visita al deposito milanese in azione, a settembre. Non lo vide mai, ma toccò con mano l’impatto generato dal sogno che aveva realizzato: Farvima era finalmente diventata un’impresa nazionale.

XI. La morte, la vita

I preparativi erano oramai terminati. Il momento tanto atteso era arrivato. Dopo oltre 4 anni di tentativi, nonostante la totale assenza di problematiche, il figlio di Mirko e Sara stava per nascere. Il parto cesareo, organizzato dal ginecologo per evitare problemi in caso di parto naturale, era previsto per le nove del mattino. La data attesa per il parto - il 21 ottobre – era stata anticipata al 2 ottobre. Il bambino, preso quasi da una voglia inarrestabile di uscire, aveva iniziato a contorcersi obbligando il Dott. Fabio, primario dell’Ospedale Cardarelli nonché grande amico di tutta la famiglia, ad anticipare il parto.

Nel frattempo la malattia di Renato avanzava e subito dopo le vacanze estive le visite di controllo resero chiaro che il tempo che la vita aveva intenzione di lasciargli era veramente poco. Le terapie risultavano ormai inutili e si iniziò a parlare di cure palliative – paradossalmente, come spesso succede nel momento in cui vengono sospese le terapie come chemio e radio, il paziente sembra avere un momento di miglioramento e così fu anche per Renato. Durante tutto il mese di settembre fu lucido e presente, e riuscimmo anche a portarlo sulla barca che aveva sognato per tutta la vita, l’Itama 40. L’anno prima aveva finalmente deciso di farsi quel regalo tanto desiderato. Nonostante se lo potesse permettere da tanti anni non si concesse mai quel lusso, troppo forti la sua indole prudente e il suo autocontrollo. Ma nel settembre 2013 permutò il suo Sarima - modello del 1998 - con la barca dei suoi sogni. Quel giorno era felice come un bambino e nessuno si sarebbe immaginato ciò che sarebbe successo di lì a pochi mesi.

Era un freddo pomeriggio di inizio gennaio 2014 quando, durante una riunione in ADF, logorato dal mal di schiena e dal dolore, Renato ebbe un mancamen-

to. Iniziammo subito gli accertamenti, il risultato purtroppo fu implacabile. Adenocarcinoma al quarto stadio – ci avevano detto - che aveva già sparato metastasi lungo tutta la colonna vertebrale. “Pochi mesi, forse 9, al massimo 10” – Vittorio, il marito di Simona nonché chirurgo oncologo, fu netto.

E fu così che la nostra vita cambiò. Contestualmente Mirko e Sara, dopo anni di tentativi, diedero la notizia che lei era incinta e portava in grembo una nuova vita, un maschio, Renato. I mesi della gravidanza di Sara e della malattia di Renato passarono veloci, tra speranza e delusione. Tutti eravamo impegnati a gestire due eventi opposti – l’inizio e la fine, la gioia e il dolore.

Una mattina di inizio settembre Renato ci disse che si sentiva “particolarmente in forma”. Quel giorno era il compleanno della sua “cocca”, la figlia Simona. Sempre protetta e difesa dal padre, Simona aveva da sempre condiviso con lui il peso del dolore. Era lei infatti che aveva conosciuto la madre Elvira, lei ne aveva respirato l’odore, imparato a riconoscerne la voce e l’aveva vista andar via. Con il tempo si impara che traumi di questo genere nella vita non passano, ti rimangono dentro in modo più o meno consapevole, come una cicatrice che inizia a far male di nuovo e sanguina, improvvisamente, copiosamente, come se non volesse fermarsi più.

Quella mattina Renato voleva sentire ancora la vita scorrere tra le sue dita, voleva ancora sentire la brezza marina tra i capelli, sentire la salsedine addosso. Il dolore era ormai costante ed insopportabile, ma non quel giorno.

Chiamò subito Mirko, il figlio che avrebbe portato avanti insieme a tutta la famiglia la sua creatura, la sua gioia e insieme la sua ossessione, l’azienda per cui aveva dato la vita e attraverso cui aveva avuto il suo riscatto, forgiata con dedizione e sacrificio, ma anche con tanto amore e rispetto.

Al telefono Renato gli disse: “Buongiorno a’ papà, stamattina non andare a lavorare, portami a’ mare. Mi sento bene e voglio provare l’Itama.”

Neanche il tempo di finire la frase che Mirko andò a prendere tutti quanti, mamma Thesy, Simona, Vittorio, Fabio, Giordana e Sara con in grembo il pic-

colo Renato. Sostenendolo tra le sue braccia per la debolezza dei muscoli e delle ossa lo fece finalmente sedere al volante del suo Itama, l’oggetto del desiderio che per tanti anni aveva custodito nel suo cuore e nella sua mente, come un fuoco caldo pronto a scaldarti nei freddi momenti di tristezza, l’oggetto di tante chiacchierate, che ci tenevano svegli fino a tarda notte a parlare non solo di lavoro ma anche di sogni e desideri. Mai più realizzati.

Renato amava viaggiare, incontrare persone, parlare di sé e delle sue speranze, amava il suo lavoro, i compagni che lo avevano tenuto per mano nel suo viaggio. Renato amava la vita.

Quel fuoco, però, si stava spegnendo, Renato stava per dire basta, la malattia lo stava consumando e quella fu l’ultima volta che uscì di casa.

Dopo pochi giorni il ginecologo di Sara ci comunicò la data del parto.

In quei giorni Renato si sentiva discretamente bene, ma proprio non voleva accettare l’idea di andarsene senza aver fatto tutto il possibile. Decise quindi di continuare le terapie e sottoporsi ad un ulteriore radioterapia che avrebbe potuto ridurre la massa. Ma così non fu.

La radio colpì in modo eccessivo il suo fisico già fortemente indebolito, la massa che gli impediva di respirare non si ridusse e Renato cominciò a peggiorare precipitosamente. Aveva iniziato a mollare la presa, il dolore che ad ogni respiro gli pervadeva il corpo intero era ormai insopportabile, anche con tutte le cure palliative. Era più il tempo in cui era incosciente che cosciente, quasi trasparente per quanto si era fatto piccolo e leggero.

Il 2 ottobre venne alla luce Renato De Falco, il figlio di Mirko e Sara. Quella mattina Mirko era lì, in attesa di vedere quel bambino tanto desiderato. Il parto ebbe una durata di pochi minuti e non registrò alcun problema, così alle 9:15 nacque il piccolo Renato. Lo misero subito nell’incubatrice, aveva freddo. Mirko fece subito una foto e la mandò a Thesy scrivendo “È nato, ed è nato con la camicia”. Thesy mostrò la foto a Renato esclamando: “Guarda, è nato Renato, Renato De Falco!”. Renato si girò a fatica - negli ultimi due giorni

aveva aperto gli occhi solo per pochi minuti, il dolore e i farmaci lo rendevano praticamente assente e la sua voce non si sentiva da giorni ormai - ma in quel momento un sorriso si disegnò su quel volto distrutto dalla terribile sofferenza. Così raccolse tutte le sue ultime forze e disse: “Com’è bello!”. Poi aggiunse: “Ora me ne posso andare” e da quel momento entrò nel coma dal quale non si sarebbe più svegliato.

Durante tutto il giorno il piccolo Renato non ne volle sapere di riscaldarsi, come se stesse aspettando un segnale, come se, apprezzando la scelta del nonno di non lasciare la terra lo stesso giorno della sua nascita, volesse aspettare un altro po’ prima di poter abbracciare la madre. Come se volesse aspettare il passaggio di consegne da quel nonno che non avrebbe mai conosciuto, che aveva avuto una vita durissima, piena di drammi, lutti e delusioni, ma che al contempo con sacrificio e dedizione era riuscito a realizzare sé stesso, regalando un futuro florido e pieno di speranza alla sua famiglia e a tutti quelli che avevano creduto in lui.

Quel momento stava arrivando. Il giorno seguente, verso le sei del mattino, Mirko era sveglio vicino al padre, mentre Thesy e Simona dormivano. Quella notte, mi raccontò poi, non era proprio riuscito a dormire, aveva sentito ogni singolo respiro del padre, ogni singolo rantolo. Quella stessa fatica e quel dolore che Renato provava quasi la sentiva anche lui. All’improvviso iniziò ad emettere rumori strani e ad avere piccole contrazioni lungo tutto il corpo. I suoi occhi si aprirono, fece un ultimo respiro e poi più nulla. Renato se ne era andato.

Fu proprio mentre il suo corpo tremava che squillò il cellulare di Mirko. Era Sara, ma lui non rispose. Stava svegliando Thesy e Simona per dare loro la notizia che Renato li aveva lasciati. Il dolore fu enorme.

Immediatamente richiamò Sara, le raccontò ciò che era successo, e mentre lo diceva guardò la faccia del padre, aveva uno sguardo incredibilmente sereno, quella smorfia di dolore che gli aveva sfigurato il viso aveva lasciato il posto ad un accenno di sorriso. E fu proprio un sorriso che, nonostante tutto,

comparse sulla faccia di Mirko quando Sara gli disse: “Ti ho chiamato appena mi hanno portato Renato, si è subito avvinghiato a me cercando il seno e ha iniziato a nutrirsi in modo quasi vorace”

Mentre il piccolo si aggrappava alla vita, Renato la abbandonava. La sua vita piena di alti e bassi, dolori e difficoltà, gioie e soddisfazioni, era finita. Lui oramai faceva parte di una storia che sarebbe andata avanti, custodita nel cuore di tutte le persone che gli volevano bene. Ma l’idea che la sua anima, la sua forza, la sua determinazione, persino il suo nome, potessero essere dati in dono a quel piccolo, bellissimo e ignaro bambino rese tutto più dolce.

Da Renato a Renato.

Da guerriero a guerriero.

CONCLUSIONI

Caro papà, prima di sedermi a questa scrivania e scriverti, ho camminato per i vicoli di questa nostra città. Mi sono fermato al bar Tico, in via Duomo, quello che amavi tanto. Ho ordinato un caffè, il tuo preferito di tutta la città. Avevi ragione, è buonissimo. Sono passato per le strade dove la nostra azienda ha mosso i primi passi e ha lasciato il segno del suo passaggio, dietro Piazza Garibaldi, ai Tribunali, al Rione Alto.

Nel passato greco, romano, bizantino, normanno, angioino, aragonese e borbonico che a Napoli non si sovrappone ma si mescola in modo inestricabile ho ritrovato le nostre risate, le nostre parole, i nostri passi. Quelli fatti insieme e quelli che ho compiuto da solo, senza esserlo mai fino in fondo.

Mi hai lasciato un compito per niente facile, dare continuità a ciò che è stato creato d’impulso, con il sudore e la fatica tuoi e dei tuoi fratelli. L’ho preso e l’ho fatto mio anche se al suo interno ho avvertito la melodia di un canto che ammaliava e respingeva al contempo. Ti avrei mai chiesto di ripensarci?

A volte, papà, l’avrei fatto. Ma sono rimasto in nome di quel sogno che è sempre stato anche il mio. L’ho coltivato e continuo a farlo perchè l’azienda continui a crescere. Insieme a Renato e a zio Tonino abbiamo fatto grandi cose. Te le racconto anche se forse le conosci già. L’anno scorso abbiamo festeggiato un compleanno importante. Farvima ha compiuto sessant’anni e il Napoli ha vinto lo scudetto! Quel giorno, papà, tutto si è tinto di azzurro come la maglia di Maradona che ancora oggi trionfa sui muri dei Quartieri Spagnoli. Ho colorato di azzurro persino il pallone dell’ultima partita di Diego Armando. Era il 17 marzo del 1991. Noi eravamo lì, tutta la nostra famiglia,

insieme. Ricordo ancora Renica rinviare quel pallone nei distinti, in un gesto che sembrava destinato a noi. Lo fu davvero. Il pallone atterrò tra le mani di Fabio. Lo custodisco ancora, gelosamente.

Tra i traguardi dello scorso anno, abbiamo inaugurato l’hub logistico di Nola. È sempre stato il tuo sogno, quello di realizzarlo, ma il tempo ha agito impietoso e tiranno. Vederlo in azione, papà, ti avrebbe emozionato e per certi aspetti sorpreso. Dal concept allo start up sono trascorsi 30 mesi di lavoro per un investimento di circa 25 milioni di euro. Abbiamo coinvolto più di 60 fornitori, gestito più di 20 gare d’appalto e privilegiato le maestranze locali. È stato faticoso? Lo è stato molto. Lo abbiamo realizzato in un contesto socio‐economico complesso e instabile. Abbiamo lottato contro la carenza di materie prime e di componentistica elettronica e abbiamo affrontato la crescita vertiginosa dei costi di approvvigionamento e dell’energia.

Abbiamo perso ore e ore di sonno. Forse non le abbiamo mai recuperate ma una cosa è certa, non ci siamo mai arresi. Arrendersi non è un’opzione per Farvima e questo, papà, lo dobbiamo a te e alla tua storia. È per questo che tramandarla diventa sempre più importante. A Nola abbiamo dato vita ad un progetto che è la sintesi delle migliori soluzioni progettuali e tecniche attualmente disponibili sul mercato della distribuzione. Ci sono casi in cui i numeri parlano più delle parole. Questo è uno di quelli. Con i suoi 10.000 m2 per un’altezza media di 12 m, l’hub logistico di Nola è un punto di riferimento diretto per la Campania con 2.000 clienti serviti, 1,2 Mln di consegne per 35 Mln di confezioni distribuite l’anno. È in grado di gestire fino a 100.000 referenze e di pilotare in modo centralizzato le scorte su tutto il centro sud Italia con benefici in termini di offerta e livelli di servizio.

Nel trascrivere queste cifre quasi stento a credere che ci siamo riusciti. Abbiamo scritto un capitolo della distribuzione intermedia del farmaco e di questo non possiamo che andare fieri. Tuttavia, papà, non lo abbiamo mai vissuto come un traguardo. Il giorno in cui lo abbiamo messo in funzione io, Renato, zio Tonino ci siamo guardati senza parlare. Sono certo che tutti e tre

stavamo pensando a te e a ciò che avresti detto. I risultati scaldano il cuore per un po’ ma poi si deve ripartire alla volta di nuove mete. Ma avresti sorriso e in quel sorriso avremmo visto tutto il resto.

L’hub logistico Nola 4.0 - l’abbiamo chiamato così - è nato dopo il raggiungimento di due tappe importanti come l’integrazione con la siciliana Sofad nel 2016 e l’abruzzese Safar nel 2019. Nei primi anni Novanta in Italia le imprese della distribuzione intermedia del farmaco erano più o meno trecento, ricordi? Ogni anno qualcuna chiudeva e cedeva la sua attività a soggetti più grandi. In breve tempo si è passati da trecento a ottanta, un numero che era comunque dieci volte più grande che in altri Paesi europei, fino a ridursi a sole venticinque aziende. C’avevi visto lungo, papà! Con i farmacisti del territorio, siciliano prima e abruzzese poi, abbiamo intrapreso un percorso che ha dato ragione ad una tua intuizione di qualche tempo fa, ne saresti orgoglioso.

La collaborazione costante tra distributore locale e farmacie del territorio gioca un ruolo vitale nella tutela delle farmacie, in particolare quelle rurali che rappresentano in tanti piccoli centri l’unico presidio istituzionale.

Ce lo ha ricordato bene la pandemia globale – Covid 19 – che a distanza di qualche anno voglio raccontare attraverso gli oggetti più rappresentativi, frammenti della storia del mondo. Le mascherine per proteggere noi stessi e gli altri, i cellulari da cui sembrava dipendere tutta la nostra vita per via del green pass, le bandiere tricolore sui balconi a sventolare la nostra idea di collettività. Le luci delle farmacie sempre accese, come quelle dei nostri depositi sul territorio. Un ruolo, quello della distribuzione intermedia del farmaco e quello della farmacia, la cui importanza è stata unanimemente riconosciuta nell’ambito delle istituzioni, della filiera del farmaco e dell’opinione pubblica. Ci voleva una pandemia, papà…

Oggi Farvima è un’impresa che fattura 1 miliardo di euro, disponiamo di 17 filiali in tutta Italia e impieghiamo direttamente più di 700 persone. Sono un

uomo di numeri, papà, più che di parole e queste sono le cifre che parlano per tutti noi. Ma non c’è misura che possa quantificare l’amore, la stima e la gratitudine che nutriamo, io, Renato, zio Tonino, la nostra famiglia e tutte le persone che possono progettare la propria vita e il proprio futuro grazie a Farvima, frutto dell’impeto, della costanza, dell’abnegazione e della determinazione di un vero guerriero che porta il tuo nome, papà. Grazie di tutto, Con amore, Mirko

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