Adele Canetti Lazzeri - Forme nascoste / ISBN 978-88-908513-5-3

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Adele Canetti Lazzeri Forme nascoste Disegni su carta a cura

Patrizia Dughero Francesca Cucinotta



IDEAZIONE ED ORGANIZZAZIONE A CURA DI


adelelazzeri.it


Sala Manica Lunga 路 Palazzo D'Accursio 路 Bologna Novembre 201 3

AdeleCanettiLazzeri Forme nascoste disegni su carta

a cura di FrancescaCucinotta PatriziaDughero


Con il patrocinio di

COMUNE DI BOLOGNA

In collaborazione con

Si ringrazia

andreabenetti.com


Forme Nascoste · Disegni su carta OPERE DI

Adele Canetti Lazzeri ·

A CURA DI

Francesca Cucinotta E Patrizia Dughero

PROMOZIONE DELLA MOSTRA

Art offside, Italian Art Promotion ItalyArte Istituto Europeo Pegaso U.D.I. Unione Donne Italiane · Bologna COLLABORAZIONE SCIENTIFICA

Andrea Benetti Archives Foundation Bastioni · Firenze Istituto Europeo Pegaso I.A.P. Italian Art Promotion M.A.C.I.A. · Museo d'Arte Contemporanea Italiana in America Rinaldi-Paladino Art Museum Foundation · Lugano Studio Medela · Firenze CON IL PATROCINIO

Regione Emilia Romagna · Provincia di Bologna · Comune di Bologna COORDINAMENTO DELLA MOSTRA

Andrea Benetti Archives Foundation , I.A.P. Italian Art Promotion SEGRETERIA ORGANIZZATIVA I.A.P. Italian Art Promotion PROGETTO GRAFICO Colour Frame FOTOGRAFIE Caterina Canetti, Alessandro Ostini © 201 3 EDIZIONI qudulibri ISBN 978-88-90851 3-5-3 © IMMAGINI OPERE Adele

Canetti Lazzeri · www.adelelazzeri.it


adelelazzeri.it


Introduzione QUELLE MANI CHE NASCONDONO FORME NASCOSTE: I DISEGNI SU CARTA DI ADELE CANETTI LAZZERI

Mi sono imbattuta per caso nei disegni di Adele Canetti Lazzeri. Mi è stato chiesto, in qualità di Presidente della Commissione delle Elette del Comune di Bologna, di “dare una mano” a promuovere il lavoro della giovane artista ed a sostenere il progetto culturale, tutto al femminile, che attorno a lei si stava componendo, grazie al contributo delle curatrici della sua mostra, Patrizia Dughero e Francesca Cucinotta, ed al coinvolgimento di Michaela, l’artista di strada che accompagnerà l’evento inaugurale con il suono della sua arpa celtica. Così sono andata alla ricerca delle “Mani” disegnate da Adele che saranno esposte proprio nella “Manica Lunga” di Palazzo d’Accursio. Mi hanno incuriosito quelle Mani, soggetto unico della sua espressione artistica, sono mani di uomo, o forse no, trasfigurate o realistiche, essenziali e rigorosamente delineate in bianco e nero. E ancor di più mi hanno incuriosito le forme che quelle mani nascondono o forse con–prendono: ho visto una foglia, una goccia, ed un dolore, fra dita rattrappite. Ho letto la sorpresa, la domanda, e la promessa, suggellata sul foglio sgualcito di un diario. Ho percepito una carezza, un’indicazione ed un patto, chiuso in un pugno nero... Il bello dei disegni di Adele non sta solo nelle forme delle tante e sole mani che disegna, sta in quello che di nascosto quelle mani contengono e che, con la nostra azione di disvelamento, riesce a prendere forma, come per magia, e diventa immagine. È così che ci parla Adele, è così che comunica questa giovane donna che, con le proprie mani, disegna ciò che c’è, anche se non si vede. La qualità del suo tratto, invece, si vede benissimo. M ariaraffaella Ferri Presidente della Commissione delle Elette del Comune di Bologna

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"STUDIO SULLE FORME NASCOSTE DI ADELE CANETTI LAZZERI " di Patrizia Dughero C’è una mano deformata, il mignolo particolarmente ritorto, ad un primo conteggio sembrano quattro, le dita, avvicinandoti invece scopri che è disegnato anche l’indice, nascosto tra pollice e medio dito, nascosto nel palmo. C’è una mano dove indice, medio e anulare sono ravvicinate, attaccate, a segnare un 3 come facevano gli antichi romani, che dai gesti della mano fondarono un codice grafico per i numeri: è ripresa dal dorso, subito vedi che il mignolo riflette se stesso proprio sul dorso, come fosse un lago o uno specchio. C’è una mano, ma sembrano due per quell’atto di congiunzione, nel mostrare quel 3 con le dita; poi scopri che è una, la congiunzione sta attraverso i due pollici, le facce palmari riprese di profilo, ad evidenziare le eminenze tenar, afferenti ai pollici collegati da un nastro o una striscia, e a delineare una fessura, che ricorda la vulva: il pollice, dito indipendente è in questo disegno costretto all’unione. Oltre al contenuto, in un testo pittorico ogni elemento materiale visibile, la pennellata, il tocco, il colpo di spatola, la tessitura, non è mai privo di significato. Per questo a partire da Cennino Cennini in avanti, lo studio della pittura percorre la storia della critica in termini di “sistema”. Lo studio sistematico dell’arte visiva mette in atto, come ultimo tentativo in ordine di tempo, d’esaminarla dal punto di vista del suo “linguaggio”, pur sembrando quasi impossibile sistematizzare un repertorio canonico di pennellate e tocchi, di texture e colori, che costituisca un unico blocco di opposizioni possibili. Quel che non viene mai rilevato dalla critica è invece il senso di “stupore” o di “meraviglia” che si prova “leggendo” l’opera d’arte nel momento della sua fruizione, quando è il fruitore ad esperire l’operazione poietica dell’artista, coniugando in un attimo, materia d’espressione e materia del contenuto. In quell’attimo dello sguardo si concentra l’esperienza dello “stupore”. Ed è quel che ho provato alla vista delle opere di Adele Canetti Lazzeri, prima ancora di sapere della sua giovane età, o di addentrarmi nel suo “ciclo delle mani”. Gli elementi che mi hanno suscitato meraviglia, sono l’elemento iterativo,

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innanzi tutto: il soggetto è sempre lo stesso, la mano. A seguire, l’elemento esplorativo: lo studio è costante, come a coniugare un verbo in tutti i tempi e i modi possibili, e ciò è tipico della lingua, ancor più che dell’arte figurativa. L’elemento materico: l’assenza d’esplorazione del colore, la mancanza di considerazione per la pastosità del colore, la scelta del bianco e nero, con un utilizzo accuratissimo di pochi mezzi, l’inchiostro di china, la grafite e il carboncino su robusta carta, in genere di color ocra. Credo che anche Adele, nel suo far arte, esperisca stupore e meraviglia della sua ricerca; della costruzione di un linguaggio già evoluto seppure appena nato, ma già aperto ad innumerevoli possibilità; dell’affioramento di archetipi ancestrali; e soprattutto della sua “dolce ossessione”, come giustamente la definisce il pittore Andrea Benetti. Ossessione indispensabile per fare arte. Stupisce la mano, certamente, e tutto quel che trasmette, che vuole comunicare e dire questo soggetto. La mano, come mezzo privilegiato del tatto, diventa spesso anche strumento di salute, nel caso del massaggio, per esempio, e sulla mano, come sui piedi, è possibile rintracciare una mappa completa del nostro corpo. Si potrebbe dunque ravvisare una spinta taumaturgica in questi disegni e, per la scelta di una carta robusta e giallina, un elaborato richiamo alle suggestioni che il deserto imprime; per i segni graffianti e ripetuti, espressionisti a volte, come ad incidere una materia scabra, si potrebbe rintracciare un gesto di ostinata ricerca e di profondo desiderio di conoscenza, che sottende un senso d’ancestrale sacralità. Tutte queste sensazioni sono concentrate nell’attimo dello stupore alla vista dei disegni di Adele, già galleria virtuale scandita in sezioni di Mani e collocabile in un ciclo, Ciclo delle Mani, in quell’attimo di stupore in cui, ogni volta cerco di capire se è vero quanto mi disse una volta un maestro: “Un pittore sa esperire la pianta che dà fiori, un pulcino che esce dall’uovo, ma non lo sa dire” (F.B.). Di fronte ai disegni di Adele, penso che un pittore sia in grado anche di dire, lei così giovane lo fa senza neanche balbettare.

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Sul divino tra le mani di Adele Esiste una bellissima iconografia cristiana rappresentante una colonna vertebrale dalle forze che s’intrecciano in un disegno simile a quello di un caduceo e che vanno ad aprirsi non su una testa ma su una mano aureolata dalla mandorla dei santi, dove riscontriamo un’identificazione quasi totale tra la testa archetipale e le due rappresentazioni spiraliformi di forza, i “soffi”, che vanno a formare le mani: ogni mano contiene l’altra ed entrambe formano la testa. Presso gli ebrei la mano conserva una grande importanza e anche nella mano di Fatima, che i mussulmani hanno l’abitudine di portare addosso, ritroviamo questo stesso simbolo di potenza protettrice. Poiché il simbolo è inseparabile dal suo archetipo, c’è da chiedersi se tra le mani di Adele Lazzeri sia effettivamente e inconsciamente riposta la guardiana della “porta della Dea”. Nella cultura ebraica la guardiana della “porta degli dei” è l’aquila, che strappa alla morte colui che ha integrato il nero, e che a livello corporeo, in questa lettura, corrisponde schematicamente alla porta, con la gola custodita dalle due clavicole che si prolungano nelle braccia e nelle mani. C’è un disegno che mi ha particolarmente colpito e che mi ha spinto repentinamente a questa lettura, Mano scheletrica, della sezione Mani in giallo, dove l’organo umano sembra trasformarsi naturalmente in un artiglio nel momento dell’appoggio; il polso perde ogni connotazione umana e sembra di essere di fronte alla zampa di un’aquila reale, dagli artigli lunghi ed affilati, soprattutto nel terzo dito, che si stacca dagli altri. Il disegno di Adele sta a dimostrare la forza, la sicurezza di sé e la bellezza; l’arte del volo è confermata dalla ripresa quieta dopo una probabile imponente planata: una mano/artiglio che delinea un antro misterioso. La mano in ebraico yad, è semplicemente la lettera yod, ed è legata alla conoscenza: yada, conosco, vuol dire anche “io amo”. Per gli ebrei non si tratta di una qualità intellettuale, si tratta della conoscenza sperimentale, quello che l’uomo o la donna fanno del proprio opposto, quella che ciascun essere umano fa di ogni elemento della creazione, penetrandolo nella profondità del suo mistero (questa conoscenza è matrimonio). In questa prospettiva l’iconografia

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cristiana, che non rappresenta mai la persona del Padre della rivelazione trinitaria, poiché è l’inconoscibile, lo rappresenta comunque attraverso la mano, in quanto l’Inconoscibile si fa conoscere. L’aquila simboleggia la forza e la conoscenza e tiene fra i suoi artigli i messaggeri inviati dagli dei agli uomini un’oca bianca (Odissea) una colomba (Odissea) un cerbiatto (Iliade). Essa afferra da terra ciò che appartiene agli dei (miti di Gamenide e di Prometeo). Ecco, sembra che nei suoi disegni Adele voglia nascondere qualcosa di prezioso e al tempo stesso restituirci un’antica sapienza che esperisce col gesto e con candore. È la zampa dell’aquila, in trasformazione primordiale, che repentinamente viene suggerita o evocata da alcune opere di Adele: gli artigli in Mano rattrappita, e in Studio sulle cinque dita 2, ad esempio, entrambi della sezione Mani in bianco, dove il paragone col maestoso rapace è teso alla suggestione di un’apertura d’ali e di piumaggio. Si dispiega così il mito di Prometeo permettendoci di precisare il simbolismo dell’aquila nel suo rapporto con il corpo umano. Non vengono qui rappresentate le chiavi della Dea, simboleggiate in genere da serpenti, che nella mappatura semiotica del corpo di Annick de Souzenelle appartengono alle clavicole/chiavistelli. Qui si trascende subito a raffigurazioni parziali di parti umane, che diventano animalesche a causa della loro deformazione: aquile graffianti come parti che giocano sull’ambiguità dello sguardo, mentre il simbolo nascosto, la forma riposta è già certa, al di là del suo svelamento. La postura e la prossemica delle mani di Adele possono indurre a pensare ad uno studio dal vero, ad un autoritratto, allo studio per un calco, in alcuni casi, e giocano un ruolo fondamentale nello sfondamento di quest’evoluzione compatta di giovane artista. Ma le posizioni delle mani sono volutamente distorte e orientate a creare sconcerto, nello scarto tra studio costante e iterazione, tra ossessione e ricerca dello strano e del diverso, dell’anomalia nella ripetizione. Sono mani improbabili e impossibili, rese maestose dal tocco, dal tratto e dalla texture, dal senso del mistero che induce la scelta materica e formale, nel

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nascondimento di altro, di altre forme, come fa pensare Mani con occhi e bocca, in Mani sul diario. Il simbolo dell’occhio nella mano è rintracciabile in molte culture nel mondo; è composto da un occhio che si apre sul palmo di una mano, esprime il legame profondo tra due importanti funzioni umane: il vedere/osservare e il fare/agire. Questa unione simbolica, che esprime il complesso ideale umano di onniscienza e onnipotenza, comune nel mondo arabo ed ebraico, è raffigurato negli amuleti e conserva ancora una funzione religiosa di protezione e guarigione, soprattutto in area magrebina. L'occhio nella mano appare anche in altre culture, come quelle delle tribù preistoriche native del Nord America, in cui il simbolo, molto frequente, è spesso associato a spirali e a serpenti, o nelle culture precolombiane, al culto della Morte e della Dea Terra. Nella città neolitica di Catalhuyuk, la seconda più antica città al mondo, in Turchia, è stato ritrovato un affresco dedicato alla Grande Madre e a sua figlia, datato circa 61 00 a.C. le cui decorazioni sono file e file di mani con l'occhio. In genere la caratteristica principale della Grande Madre è la frequente raffigurazione del principio femminile attraverso l’enfatizzazione del corpo della donna: seni enormi, ventri gravidi, fianchi larghi, vulve ben evidenti. Anche se lo studio di un passato così lontano è sempre frutto di un’interpretazione, tuttavia queste raffigurazioni esprimono un femminile molto potente, un femminile assoluto attraverso le forme, già categorizzato in forme animalesche, quali quelle della donna serpente, rana, uccello. Grazie al lavoro incessante di una studiosa, l’archeologa lituana Marija Gimbutas (1 921 -1 994), si è potuto ricostruire il mondo dell'antica Europa neolitica in base a uno straordinario repertorio di dati archeologici scaturiti da numerose campagne di scavo nel bacino balcanico e mediterraneo meridionale. Viene quivi rintracciata la realtà di un'antica Europa pacifica, egualitaria e portatrice di una spiritualità fortemente legata alla terra. Una civiltà dove la Grande Madre guida i popoli verso una convivenza pacifica, cambiando così gli attuali paradigmi culturali e scientifici che considerano la guerra e il dominio maschile una connotazione di progresso della civiltà. Secondo la manifesta tesi della Gimbutas, La Civiltà della Dea è suddivisa attraverso

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l’elaborazione di una mappatura delle popolazioni e delle culture d'età neolitica in Europa, a partire da un primo nucleo sud-orientale che progressivamente si espande verso Nord e Occidente, fino all’unificazione di popolazioni e culture in una civiltà denominata "Antica Europa". Agli inizi la trasformazione della Dea fu lieve e sottile: non venne sradicata ma amalgamata poco a poco alle nuove ideologie, per un certo tempo venne ancora venerata. Gradualmente mutò però le sue forme. Da principio divino assoluto, essenza primigenia del femminile, fu smembrata e frammentata. Nacquero così le “dee”. Fu così che la Dea, frantumata nelle dee, entrò in questo robusto ingranaggio e venne plasmata in rispondenza ai nuovi codici e ai nuovi modelli sociali e culturali. Vicino a questi dei, il divino femminile perse ulteriore forza. Con lo spegnersi del culto delle dee anche le donne che le rappresentavano, le sacerdotesse, scomparvero. Insieme al sacro venne tolto alle donne anche il potere della guarigione, da sempre di stretta competenza femminile. L’uso delle erbe, dei rimedi, delle terapie della natura fu sottratto alle donne, le rappresentanti della terra. Con la nascita delle tre grandi religioni monoteiste, il divino divenne esclusivamente maschile. Ci fu solo un dio, la dea sparì anche attraverso i simboli che l’accompagnano, come le mani che nelle rappresentazioni rupestri sono sempre di stampo femminile, la sinistra in genere poiché la destra serviva a raffigurare. In ogni caso la presenza delle mani è sempre una trasmissione densa di significato: attraverso il contatto con il supporto, col disegno vicino, con la forma della parete, la mano prendeva qualcosa e lasciava qualcos’altro, stabilendo così una trasmissione fra le parti. Anche i gesti terapeutici di Gargas, se tali furono, sono al contempo un lascito rituale e un desiderio di permanenza. E se alla loro scoperta quelle pitture rupestri furono considerate primitive, la recente rivalutazione ci ha permesso di comprendere l'importanza dei lavori dell'Età della pietra, i suoi importanti indizi culturali e antropologici, che sono attestati di alto livello artistico, essendo già presenti accenni di prospettiva, ombreggiatura, rilievo e un preciso riferimento formale. Una competenza consapevolmente questa che pare riposta, più che nascosta, nella giovane Adele, che riesce a miscelare e dosare attentamente la conoscenza storico-artistica e il talento istintivo, tanto da inserirsi in maniera del

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tutto naturale nella corrente pittorica dell’Arte Neorupestre. Le mani, impresse sulla roccia, accompagnano da millenni il cammino dell'Homo Sapiens Sapiens, rimarcandone la presenza e con essa la coscienza identitaria, scegliendo, attraverso quel simbolo, di vivere un ruolo speciale, di essere oltre le forme di vita degli altri esseri. Gesto, quello di porre l'impronta della mano, che va al di là della stessa consapevolezza del ruolo del singolo nel gruppo, al di là della solidarietà, del rispetto verso la morte e il corpo di chi è stato vicino, quindi della sapienza accumulata e consolidata per millenni, sia tra le manifestazioni di quel gesto, sulle rocce, nei ripari, nelle viscere delle grotte, nelle antichissime immaginitestimonianze di mani diverse; sia soprattutto tra tutti i luoghi dove questa presenza di "altre mani" non le rappresenta intere, ma mancanti di falangi, a volte persino di quattro dita su cinque. La grotta del Sud della Francia, quella di Gargas spicca in questo, centinaia di mani, delle quali solo poche sono raffigurate non mutilate mentre la massa, l'insieme enorme è con le dita incomplete. Con altrettanta emozione che questo excursus genera, con altrettanta meraviglia, ho guardato i disegni di Adele, Mano scrivente con appunti, di Mani in giallo, ad esempio, che raffigura il soggetto prescelto mentre impugna una stilografica o un pennino, il pugno chiuso e appoggiato probabilmente a un desco, a sorprenderci, con le quattro dita, pollice escluso, mozzate e gocciolanti… non c’è commento migliore di quello inserito nel disegno, l’appunto di Adele: “È inquietante, ma non genera inquietudine. […] Ho abbandonato la raffinatezza ma ho recuperato la bellezza del carboncino.” Così diventa più che inquietante, sconcertante e audace. C’è da domandarsi allora della consapevolezza dell’artista, della sua “genialità”. Il tema delle dita “incomplete” che rintracciamo in Studio sulle dita 1 , di Mani in bianco, qualcosa anche in Mano che indica, di Mani in bianco, e in Dita variabili, di Mano in arancio, rappresenta il climax del percorso di Adele, un momento di crescente intensità del significato degli elementi raffigurativi e linguistici, un potenziamento dell’espressività del discorso in atto. Riconnettendoci nuovamente alla simbologia della mano rupestre, questo elemento diventa ancor più misterioso di quello manifestato attraverso le antiche

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immagini raffiguranti animali. Nelle impronte di mani non c'é solo un simbolo, il Sapiens-Sapiens ci ha lasciato anche una parte di sé. E a noi comunque non resta che supporre, con Leroi-Gourhan, una popolazione con un alto livello di organizzazione sociale e quindi di capacità espressiva e simbolica: nella grotta che doveva simboleggiare il grembo della "Dea Madre" la gente di Gargas, portava il proprio vivere quotidiano, le proprie speranze, la propria cultura. Il popolo dei cacciatori attraverso l'impronta della mano lasciava la propria identità nel grembo della vita, ricreando con ciò il legame continuo ed indissolubile con la Dea generatrice che la vita aveva creato e donato loro. Gli animali erano il più alto dono che la Dea aveva fatto agli umani, e questi con grande consapevolezza e coscienza esternavano la loro riconoscenza riportando come offerta, con l'impronta della mano-simbolo, gli animali nel grembo stesso della Dea. In quelle immagini di mani era rinchiusa anche una concezione universale del ciclo dell'esistenza e dei meccanismi vitali che la regolavano. Eccole allora anche come mani-simbolo del bisonte e del cavallo, del femminile e del maschile: vita e morte, carne e dono divino, forza ed energia generatrice, lì nel ventre e nell'utero della Dea Madre che tutto aveva creato, colore rosso e colore nero, sangue e eternità. E Adele forse lo sa, lei figlia del postmodernismo può sapere e scegliere, può indirizzarsi a scelte minimali e raffinate, come quella del bianco e nero, per ora solo il nero a incidere il suo territorio sabbioso e desertico di conoscenza. Lo agisce comunque il suo sapere, nell’attenta ripresa del movimento, ad esempio in Mano rattrappita, in Studio sulle dita 3, in Studio sulle dita 5, tutti della sezione Mani in bianco, ulteriori esempi segnici nella ripresa d’inconsulti nervosismi, quasi scatti per raffigurazioni di cavalli o altri animali. Tipico dello studio anatomico. La mano diventata così simbolo completo, totale, e ci permette di chiudere il cerchio: è questo cerchio che Adele con tanta tenacia e curiosità nasconde nelle sue forme evolute, erosive, incisive, a scorticare una realtà che attraverso l’impronta archetipale vuol far luce sulla conoscenza e catturare il nero dell’esistenza e il suo mistero?

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Le dita danzanti di Adele C’è un disegno che mi attira tra i tanti, è quello che rappresenta un pugno chiuso, Pugno nero, uno studio accurato della sezione Mani sul diario, una texture raffinata e accanto l’appunto, sorta di riflessione di embrionale poetica: “[..] Questo pugno non è realistico, semplicemente costruito[…]” e prima: “[…] La parte migliore è la differenza fra concavo e convesso”. In questa dichiarazione s’intuisce quanto il segno aveva già suggerito: la costruzione raffigurativa di Adele è di tipo progettuale, avviene mentalmente, con una conseguente decostruzione della ripresa dal vero, in un consapevole e coerente intento di consistenza fenomenologica che si stacca dall’ordinario. C’è uno teorico d’arte tra tutti che mi parla tra i fogli giallini di Adele, è Henri Focillon, autore tra l’altro di Elogio della mano, inserito nello storico Vita delle forme, e che si concentra sul rapporto/lotta spirituale che si instaura tra forma materiale e mano che la genera, in cui emerge la funzione dell’ “attimo” della creazione, dove lo spirito della mano viene riversato nella forma artistica e cristallizzato in essa. Per Focillon questa lotta afferisce ad un’altra dicotomia: c’è un’arte bella e immediata, per così dire, che sgorga e si plasma docilmente sulla natura. E poi vi è un’arte magica, negromantica, che “legge” nel grande libro della natura, un’arte dallo sguardo penetrante, profondo, che va oltre l’apparenza. La prima è un’arte naturalistica e discorsiva; la seconda è un geroglifico ideale, in cui segno e immagine si saldano in un’unica forma; in questo mondo la scrittura, come parola e come grafia, si fa arte essa stessa. La giovane Adele sembra riunirle in un’unica ricerca, attraversandole semplicemente nella mano, il concavo e il convesso (pieno/vuoto), e insieme l’ancestrale e il contemporaneo, la tradizione e l’innovazione, mostrando così la sua profonda spinta verso la conoscenza. Con Paul Valéry, Focillon distilla concettualmente questa relazione tra segno e senso ponendola alla base della poiein, e la sperimenta su di sé, tanto che i suoi carnets costituiscono una sterminata opera polisemica. Alla base di questo fenomeno c’è naturalmente la convinzione che l’attività disegnativa, l’espressione grafica condotta dalla mano, sia una vera e

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propria forma di estensione della mente: non solo il riflesso fisico dell’attività intelligente, ma una forma di intelligenza, di esplorazione, che proprio nel movimento della mano alla scoperta della forma si attua in tutta la sua completezza di teoria e pratica conoscitiva. Barthes infatti svilupperà queste tesi applicandole alla scrittura. Lyotard è invece il filosofo che, coniando il fortunato termine “postmoderno” e segnando così le sorti di una parte non trascurabile della “filosofia continentale”, di tutti quei pensatori che si sforzano ancora di pensare la filosofia come riflessione sullo “spirito del tempo”, ha messo in discussione la possibilità che le “grandi narrazioni”, filosofiche, scientifiche o di altro genere, fossero effettivamente capaci di restituirci il “tempo appreso in concetti”. Il segno si apre a molteplici possibilità, e in Adele rintracciamo proprio questo, una polisemia narrativa che si fa corpo nella poiein, che diventa narrazione nella reiterazione segnica. Il suo modello archetipale la conduce direttamente al disegno come “lingua”, a sperimentare i giochi dell’interazione tra significante e significato, tra sonorità della parola e simbolo grafico, risolvendoli in un deciso affrancamento della forma dal significato: “Le parole possono e devono bastare a se stesse. […] Hanno abbastanza forza per resistere all’aggressione delle idee”, diceva già Mallarmé, insistendo sullo straordinario potere del ritmo, che però è godibile sia nella lettura ad alta voce, sia nella percezione visiva del bianco/nero. Il ruolo decisivo assegnato al bianco della pagina, che Valéry paragonò ad un cielo stellato, rivendicava all’estetica il valore del vuoto, dell’intervallo, dell’accidente, categorie che Adele sembra sciorinare con innocenza nella sua “ossessione” tematica. Prendiamo le sezioni, l’ordine con cui Adele dispone i suoi disegni, senza timore di contaminazioni con la parola scritta, delineano già di una galleria compatta, Mani sul diario, Mani in giallo, Mani in bianco, Mani in arancio, dove i disegni a penna del diario vanno a far da paio alle opere a grandi dimensioni, che Adele dipinge al muro, con un gesto che necessariamente richiama la tradizione

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rinascimentale e dell’affresco. Fu infatti la cultura rinascimentale che introdusse nelle arti figurative lo studio sempre più accurato sia dell’anatomia umana, sia dell’interiorità, dell’uomo, attraverso l’indagine delle espressioni del volto e dei gesti, ma già nei dipinti del Masaccio è evidente l’interesse per la rappresentazione naturalistica dei corpi e fu solo nel corso del Quattrocento che le proporzioni della figura umana furono studiate con precisione scientifica. Numerosi artisti, tra i quali Piero della Francesca, cercarono infatti di individuare i rapporti matematici che intercorrono tra le diverse parti del corpo: tra le Mani in arancio di Adele, dove le dita e i palmi diventano più tozzi, non sono più le sue, abbiamo un chiaro riferimento di studio di proporzioni in un disegno di un dorso della mano disteso in cui è presente un sottile cerchio, che va a definire una proporzione, come usava nel primo Cinquecento, quando con le ricerche di Leonardo e Michelangelo, lo studio del corpo umano divenne sempre più scientifico. Gli artisti furono allora in grado di osservare e rappresentare con precisione le forme del corpo statico e in movimento, inseguendo pur sempre l’ideale di bellezza, lezioni che Adele sembra aver appreso e che desidera esperire, a sua volta. In Mani in bianco, le variazioni anatomiche sono così numerose e contorte, così “contaminate” da raffigurazioni visionarie, che questa suggestione risulta indubitabile. E ancora Focillon: “L’arte si fa con le mani. Esse sono lo strumento della creazione, ma prima di tutto l’organo della conoscenza”, sintetizzò in una frase del suo raffinato e fondamentale Elogio della mano. La mano e il volto, con l’abito e gli strumenti del mestiere (pennello, tavolozza, colori), la postura del corpo di fronte al disegno, alla tela, ad una scultura, diventano messa in scena di indizi significanti che concorrono alla visualizzazione della più particolare delle effigi, quella del sé, densa di implicazioni sociali e psicologiche storicamente valutabili. Mostrare la mano, l’organo che impugna il pennello, per l’artista significa elevarla a strumento simbolico di una nuova coscienza di sé, che a partire dalla metà secolo XVI, diventa il vessillo dell’auto-rappresentazione, segno di emancipazione culturale e sociale. Insieme allo sguardo essa è il punto focale su cui lo spettatore è indotto a soffermare l’attenzione dinanzi ad un dipinto, elemento visivo

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strategico dunque per la costruzione iconografica della leggenda dell’artista. L’autoritratto, modalità comunicativa fino alla metà del XIX secolo, testimonianza visiva per antonomasia dell’autocoscienza dell’artista, subisce una trasformazione inaspettata a partire da quel momento, con l’affiancamento, prima della fotografia e poi del cinema, e sarà spinto in territori tecnicamente nuovi e sconfinati in cui la rappresentazione del corpo e dell’io dell’artista, del volto e della mano in particolare, farà sperimentare possibilità inedite, ne amplificherà il significato in alcuni casi facendo diventare proprio la mano la protagonista assoluta. Nel transito dall’immagine pittorica dell’autoritratto d’artista che, non va dimenticato, ha quasi sempre come fondamento tecnico l’uso dello specchio, all’immagine fotografica e poi cinematografica, vi è però un cambio di prospettiva radicale. Perché queste ultime si realizzino devono esserci dei complici: il fotografo e il cineoperatore. Si verifica cioè un passaggio di testimone ben definibile tra la tradizionale immagine del pittore e della sua mano raffigurata da sé medesimo mentre dipinge su una tela o su un foglio, con una vocazione ad immortalarne il movimento in un preciso istante. Roland Barthes che scriveva a proposito delle doti molteplici anche se imperfette della fotografia, ci propone questa ipotesi: “Davanti all'obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte. In altre parole, azione bizzarra: io non smetto mai di imitarmi (…)”. La spinta di Adele non sembra altrettanto narcisistica, sembra piuttosto che la tecnica, quella fotografica, ad esempio, vada a supportare un altro genere di ricerca. È possibile condurre un attraversamento comparativo utilizzando alcuni esempi della sterminata iconografia della mano dell’artista, nelle tante varianti tipologiche dell’autoritratto, seguendo un’ideale linea di continuità nell’arco di cinque secoli, prendendo le mosse dalla rappresentazione pittorica per giungere a quella fotografica e infine cinematografica. Ma è con Omar Calabrese, in uno dei migliori studi sull’autoritratto, che si può arrivare ad affermare che questo tipo d’immagine permette all’artista di dimostrare “una presa di possesso materiale ma soprattutto teorica: riconoscimento dell’autore in quanto autore empirico, ma

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anche definizione dell’autore in quanto entità astratta”. La mano parlante dell’autoritratto conduce “alla mobilità del protagonista, che comincia a “parlare” con i gesti […]. L’autoritratto si fa sempre di più racconto, e consente al protagonista di parlare di sé parlando del dipinto che lo rappresenta”. L’autoritratto pittorico e il ritratto fotografico/cinematografico così come quello disegnativo/realista, pur in fasi storiche diverse, pongono sempre al centro l’immagine dell’artista e del suo fare. Forse ciò che si vuol far intendere, fino ad assumere un valore misterioso ed enigmatico, è che la mano dell’artista sia dunque sacra, così come la riflessione approfondita da parte di Parmigianino nel suo famoso ritratto giovanile allo specchio con la mano in primo piano deformata dalla convessità della superficie riflettente? C’è un dipinto di Artemisia Gentileschi, un autoritratto datato 1 638-39, che è allo stesso tempo un’allegoria della pittura: esso mostra la pittrice con il pennello in mano dinanzi ad una tela su cui non compare ancora alcun tratto di colore, nel momento sospeso in cui sta per realizzarsi. Il tema della mano che impugna il pennello dinanzi al dipinto costituisce uno specifico escamotage per presentare se stessi e allo stesso tempo il ruolo allegorico della pittura, che è prima di tutto azione della mano sulla tela, che così diventerà opera pittorica. Adele sembra aver riposto da qualche parte anche l’idea d’allegoria, lo dimostra la disinvoltura con cui commenta i suoi disegni, lasciando che la parola cada come contrappunto più che come didascalia. Ma è nella sezione Mani in bianco con la scoperta del carboncino, con cui questa sezione è perlopiù raffigurata, abbandonando per un attimo lo stile graffiante e raffinato della china, avviandosi ad una ricerca di “bellezza morbida”, che Adele sembra affrancare la sua arte dalla tecnica e dai topoi, con alcuni disegni dal movimento e dalla raffigurazione del tutto originali. In la Mano che indica, sgocciolante altre probabili forme, vengono racchiuse due improbabili dita nella forma di una foglia o di una vulva, disegno calligrafico e volto al movimento al tempo stesso. Il gioco d’ambiguità già riscontrato in precedenza si fa netto nelle due Dita danzanti, dove esse diventano più che “parlanti”, come osservò Friedländer, ed esprimono

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gesti che si compenetrano in un tutto unico di comunicazione con lo spettatore, con il quale cercano un dialogo ideale che travalichi i tempi. Diventano dita che parlano sul foglio bianco come un sumi-e giapponese, che intraprende un processo conoscitivo, dove il bianco del foglio riesce a farsi ascoltare come silenzio mentre il tratto dell’artista si libera dall’osservazione e dalla regole, dall’allegoria dello specchio e dalla tecnica fotografica (di cui sicuramente la giovane si serve); la profondità è disegnata nella relazione tra i movimenti, anche tra quelli più superficiali, dove la riproduzione non risulta soltanto un dispositivo libidinale, che suscita interesse, come suggerito da Lyotard; la pittura come il disegno è qui semmai trasformazione di ciò che è visibile in ciò che è leggibile. Disegnare diventa così un comportamento, la poietica, di cui tanto parla René Passeron, si svincola tra le dita danzanti di Adele, che scopre così la sua nuova lingua, alla ricerca d’infinite possibilità. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Annick de Souzenelle, Le symbolisme du corp humain · De l’arbre de vie au schéma corporel, Albin Michel, S.A., Paris, 1 997; Marija Gimbutas, Le dee viventi, Medusa Edizioni, Milano, 2005 ; André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, 2 voll., Einaudi, Torino, 1 977; Henri Focillon, La vita delle forme · Elogio delle Mano, Einaudi, Torino, 1 990; J. François Lyotard, La condizione postmoderna · Elogio sul sapere, Feltrinelli, Milano, 2002; Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino, 2003; Roland Barthes, La camera chiara · Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2003; Omar Calabrese, L’arte dell’autoritratto · Storia e teoria di un genere pittorico, Feltrinelli, Milano, 201 0; René Passeron, Pour une approche «poïétique» de la création, Paris: Éditions Encyclopaedia Universalis, p. 433-442; René Passeron, Sull’apporto della poietica alla semiologia del pittorico, da Semiotica della pittura, a cura di Omar Calabrese, il Saggiatore, Milano, 1 980.

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"ADELE CANETTI LAZZERI " di Francesca Cucinotta L’operato di Adele, la ripetizione dell’unico soggetto da lei scelto, le mani, suscitano grande curiosità in chi vi si imbatte e impongono una riflessione duplice, o meglio, orientata su due livelli: certamente, sui motivi che sottendono tale scelta da parte di una così giovane artista - anche se ciò equivarrebbe al chiedere di svelare un meccanismo inconscio e di conseguenza istintivo, spontaneo - ma soprattutto sulle ragioni per cui il soggetto stimoli in noi un tale coinvolgimento, sino all’imporsi di una domanda sul ruolo e sul significato che quelle mani assumono nel quotidiano di chi guarda. Innanzi tutto il tema introduce il concetto di manualità, dell’agire mediante le mani, per giungere infine a quello di creazione. Per mezzo di esse infatti l’uomo sperimenta la propria capacità creativa, diventa consapevole della sua operatività, che distingue l’uomo dall’animale. Alla mano infatti compete la concretizzazione di ciò che la mente formula, pertanto nel suo simbolo è già implicito il gesto, l’azione. Tuttavia sono molteplici le vie di riflessione aperte da un simile soggetto, perché le mani sono anche lo strumento di primo contatto con la realtà “fuori da noi”, il mezzo privilegiato di rapporto con gli oggetti che possiamo toccare, afferrare, stringere; ma anche la forma primaria e più istintiva di relazione con gli altri. Esse possiedono un loro linguaggio intrinseco che può integrare quello verbale accompagnando le parole e compiendo, anche involontariamente, gesti densi di significati simbolici. La gesticolazione rende la comunicazione più efficace e coerente, rafforza il contenuto e ne assicura la comprensione all’interlocutore. Proprio il loro linguaggio, la capacità che hanno di comunicare rafforzando e sostituendo le parole, è ciò che affascina Adele: le mani infatti "non stanno mai zitte", tradiscono le emozioni oltre le previsioni, svolgendo il ruolo di veicolo involontario di informazioni ulteriori, di quella verità verbalmente celata, perché mascherata dal filtro delle convenzioni. Le mani riescono a svelare più di quanto un individuo voglia dire di se stesso, perciò alla domanda "Perché le mani?", Adele risponde che è la verità che

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sanno esprimere a colpirla. Per questo vi si sofferma con grande cura, ritraendole in pose sempre differenti, profilandole con segni molto marcati su carte dalle colorazioni terrose, dall’ocra gialla all’arancio intenso. Si serve di pochi strumenti per i suoi disegni: matita, carboncino, inchiostro di china; nessun colore oltre al nero che si oppone al vuoto, al neutro delle carte alle quali riesce a imprimere vitalità con quel suo segno grafico così insistito. Spesso i ritratti di mani traggono ispirazione da foto che immortalano gesti colti da Adele per strada, in mezzo alla gente, sempre attenta a ciò che quelle mani, di sconosciuti, vogliono comunicare. Ma il suo non è un semplice ritrarre. Per quanto Adele utilizzi il supporto bidimensionale del foglio, ed espedienti artistici altrettanto tradizionali, come il disegno, l’esito a cui si giunge è tutt’altro che accademico. Non siamo di fronte alla semplice riproduzione mimetica del reale, nonostante il chiaroscuro tenti di costruire i volumi e la linea di contorno ne tracci una delimitazione, essa non è affatto leggera e nel risultato è riscontrabile un principio di corrosione formale determinato proprio da quella sua insistenza, mediante la quale delimita le forme entro segni di contorno che contaminano e feriscono quel “vuoto non più vuoto” del foglio, come lapilli schizzati via da un magma di linee grezze, poi solidificatisi altrove. Groviglio concitato di linee marcate, i solchi costruiscono la figura e insieme la sfaldano, contribuendo alla generazione di forme visionarie: non solo cinque dita (Mano scheletrica, Mano gigante), ma anche sei o sette per effetto di un raddoppiamento a sua volta generatore di forme cinetiche (Studio sulle dita V), dinamiche (Dita danzanti), metamorfiche (Mani in mutamento), fino a nascondere altre sagome entro le forme (Mano nella mano, Mano con pollici, dove in realtà le mani sono due), giungendo a una indeterminatezza di fondo. Dopo un preliminare canovaccio a matita, che non funge da progettazione in quanto questa, in Adele, è esclusivamente mentale, la figura inizia a subire maltrattamenti inferti da pesanti graffi neri: una semplificazione “dall’esterno” che aggredisce la forma, ma non la rinnega. Questa operazione rende il lavoro di

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Adele per certi versi analogo agli esiti di certa pittura espressionista d’area tedesca, mi riferisco in particolare al viennese Egon Schiele, in cui la deformazione si carica di violenza, fino a scarnificare il soggetto in una ostentata brutalità. Ma se "l’urlo espressionista" può essere inteso “come una reazione alla sopraffazione […] e come […]segno dell’impossibilità di dare risposta alla sofferenza” , nonostante anche la concitazione e l’ostentata aggressività siano comunque frutto di una controllata scelta stilistica, in Adele tutto questo si carica di significati ulteriori: la figura non è sottratta alla sua veridicità, ma riportata piuttosto a una verità originaria, primordiale, legata alle origini stesse dell’uomo e che Adele ci permette di guardare come coincidente con la nostra storia di uomini contemporanei. Infatti il soggetto ripetuto in quella “dolce ossessione”, come l’ha definita Andrea Benetti, rende obbligato il raffronto con l’esigenza comunicativa primigenia che spinse l’uomo primitivo (o meglio le donne, secondo i recenti studi dell’archeologo Dean Snow) alla rappresentazione di immagini tra le quali compaiono spesso, proprio le mani. Allo stesso modo, il segno marcato utilizzato da Adele, che abbiamo definito "ferita", si configura quasi come un gesto rituale di riappropriazione di significati magico-simbolici, legati alla credenza dell’influsso delle immagini sulla realtà. Già Freud nel suo saggio intitolato Totem e tabù. Concordanze tra la vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici, aveva messo in relazione l’arte con il pensiero magico-animistico dell’uomo primitivo, cioè con l’onnipotenza dei pensieri, proprio perché solo nell’arte “succede ancora che un uomo consumato da struggenti desideri crei qualcosa di affine alla realizzazione di essi e che questa finzione - grazie all’illusione artistica - abbia il potere di evocare le stesse reazioni affettive della realtà”. Forse un antico desiderio riemerso quello di Adele; antico come il sapore del soggetto prediletto, tale da adombrare un ritorno a quel rapporto autentico con la realtà e la natura di sé che era proprio dell’uomo primitivo e che è, irriducibilmente, desiderio dell’uomo di tutte le epoche, in quanto consistente di quel rapporto.

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Adele guarda con stupore alle mani, lo stesso stupore e purezza di sguardo che anima il bambino quando muove i primi passi nel mondo e la medesima istintività primordiale che muoveva l’uomo agli albori della storia, anch’egli libero da condizionamenti culturali e spontaneo, autentico, nel rapporto con la realtà e le cose. Il suo soggetto diviene così simbolo senza tempo che lega gli uomini di ogni epoca perché, prima di tutto, la mano è l’involucro custode dell’identità di un individuo, della sua impronta come traccia materiale di esso sulla Terra, da qui quell’esigenza atavica di comunicare se stesso che spinse l’uomo a darci la prima testimonianza artistica nell’ arte rupestre. Il recupero di forme familiari, appartenenti alla memoria e, insieme, al quotidiano di ognuno è effettuato da Adele con una naturalezza che esperisce dalla sua freschezza e sensibilità, attribuibile forse alla giovane età, che è sicuramente un valore aggiunto, in quanto costituisce una porta d’accesso privilegiata per una conoscenza del mondo senza filtri, scevra da contaminazioni culturali che ci consente di assistere a questa regressione formale, che è anche la chiave di un ritorno a valori originali.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Renato Barilli, L’arte contemporanea · Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano, 2° edizione, 2005; Stefano Ferrari, Lo specchio dell’Io · Autoritratto e psicologia, Laterza, Bari-Roma, 2002; Stefano Ferrari, Nuovi Lineamenti di una psicologia dell’arte · A partire da Freud, Clueb, Bologna, 201 2.

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adelelazzeri.it


OPERE


Sopra: l'opera fotografica di Alessandro Ostini "Ventana de las manos", scattata nel giugno 201 1 ad Isla Margherita (Venezuela), alla quale si è ispirata Adele Canetti Lazzeri per realizzare l'opera (nella pagina accanto) intitolata: "Mani bianche", 201 3, cm 80 x 70, tecnica mista su carta

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Mani al negativo I 201 3 cm 1 95 x 72 tecnica mista su carta


Mani al negativo III 201 3 cm 1 45 x 59 tecnica mista su carta


A sinistra: Mani al negativo II 201 3 cm 200 x 71 tecnica mista su carta A destra: Mano con pollici 201 3 cm 75,5 x 40,5 tecnica mista su carta




A sinistra: Mano gigante, 201 3, cm 1 72 x 1 35, tecnica mista su carta Sopra: Mano ragno, 201 3, cm 73 x 1 00,5, tecnica mista su carta

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Studio sul movimento del dito, 201 3, cm 1 20 x 1 30, tecnica mista su carta

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Mano semichiusa, 201 3, cm 48 x 60, tecnica mista su carta


Mano nella mano, 201 3, cm 38,5 x 44, tecnica mista su carta

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Sotto: Studio sulle dita X, 201 3, cm 1 01 x 1 00, tecnica mista su carta Pagina 44: Pollice, 201 3, cm 37 x 55, tecnica mista su carta Pagina 45: Studio delle dita VI, 201 3, cm 29 x 20, tecnica mista su carta




Studio sulle dita V, 201 3, cm 20 x 29, tecnica mista su carta

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Mano rattrappita, 201 3, cm 20 x 29, tecnica mista su carta

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Dita danzanti, 201 3, cm 20 x 29, tecnica mista su carta

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Studio sulle dita VI, 201 3, cm 20 x 29, tecnica mista su carta

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adelelazzeri.it


Adele Canetti Lazzeri è un'artista nata nel 1 996 a Firenze che, nonostante la giovanissima età, ha già attirato su di sè e sulle proprie opere l'attenzione di illustri critici d'arte, importanti artisti ed esperti d'arte in genere, grazie al suo stile inconfondibile ed accattivante, dote molto rara per una disegnatrice e pittrice così giovane. Adele attualmente frequenta il liceo classico "Galileo Galilei" a Firenze, poiché ha voluto fermamente una formazione che le permetta di sviluppare una conoscenza umanistica, sempre utile per costruire delle solide idee su cui basare il proprio operato artistico. Le mani sono attualmente il tema che si ripete in mille modi nelle sue opere; dal ritrarre le singole dita, alla ricerca incessante di pose inconsuete delle mani, da immortalare sulla carta, spesso con visioni prospettiche volutamente distorte, quasi a giocare con esse attraverso un'interpretazione visionaria di quella parte fondamentale del nostro corpo. Attualmente la tecnica prediletta è il bianco e nero, realizzato su robusta carta color ocra chiaro, mediante carboncino, grafite ed inchiostro di china.

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A sinistra: Adele, da bambina, al cavalletto davanti ad un'opera Caravaggesca Sopra: Adele Canetti Lazzeri in posa, affianco ad una sua opera, all'inaugurazione della mostra allestita alla Club House dell'Ippodromo di Bologna, in occasione del Palio delle Felsinarie, organizzato nel mese di ottobre 201 3 da Comune e Provincia di Bologna

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Adele Canetti Lazzeri insieme a Patrizia Dughero e Francesca Cucinotta, all'inaugurazione della mostra allestita nella Club House dell'Ippodromo di Bologna, durante il Palio delle Felsinarie, organizzato nel mese di ottobre 201 3 dal Comune e dalla Provincia di Bologna

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Nella foto sopra e nelle due fotografie seguenti, Adele Canetti Lazzeri è immortalata mentre disegna le opere che sono oggetto della mostra "Forme nascoste", allestita a Palazzo D'Accursio a Bologna, a cura di Patrizia Dughero e Francesca Cucinotta

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