Presentazione
È notte. L’erba del prato perfettamente curato che circonda la Casa Bianca risplende sotto la luce delle torce elettriche. La First Lady ha deciso di fare una passeggiata nel Giardino delle Rose, accompagnata dalle sue guardie del corpo. Ma mentre cammina inciampa in un cumulo di terra smossa. Sotto, un’agghiacciante scoperta: un braccio umano. Il braccio amputato stringe ancora tra le dita una medaglietta su cui è inciso un numero misterioso. Un numero che non dice nulla agli agenti dei servizi segreti che indagano sul caso, ma molto eloquente per Beecher White, giovane e brillante archivista della Casa Bianca. È il numero identificativo di Nico, un pericoloso killer, appena evaso dal penitenziario di massima sicurezza dove era rinchiuso. Il suo piano è, da sempre, riuscire a uccidere il presidente degli Stati Uniti. E il macabro ritrovamento è un messaggio in codice per i suoi complici. Solo Beecher White, in quanto appartenente all’ordine segreto del Culper Ring, da secoli preposto alla difesa del presidente, può decifrarlo e salvare la Casa Bianca. Ma nel farlo Beecher scoprirà anche verità inaspettate sul suo passato e sulla sua famiglia. Verità sconvolgenti, tali da mettere in pericolo la sua stessa vita e quella delle persone a lui più care, che conducono a un’isola che non appare su nessuna mappa, l’Isola del Diavolo… A pochi giorni dall’uscita, Sfida al potere è balzato in cima alle classifiche dei bestseller del «New York Times». Brad Meltzer ci regala un nuovo thriller mozzafiato sull’archivista Beecher White e l’ordine segreto del Culper Ring. Un romanzo travolgente in cui nessuno è al sicuro, nemmeno il presidente degli Stati Uniti. Brad Meltzer (1970) è cresciuto tra Brooklyn e Miami, si è laureato all’Università del Michigan e alla Columbia Law School. Vive in Florida. Ha scritto discorsi per il presidente Clinton ed è comparso nel film di Woody Allen Celebrity. È autore di bestseller tradotti in tutto il mondo e pubblicati in Italia da Garzanti: Il decimo giudice, Ricatto incrociato, Il primo consigliere, I milionari, A rischio zero, Il libro del fato, L’arma di Caino e i romanzi dedicati alla società segreta del Culper Ring: L’archivio proibito e Il quinto assassino.
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www.illibraio.it In copertina: © Yolande De Kort / Trevillion Images Art Direction ed elaborazione immagine: ushadesign Traduzione dall’inglese di Paola Bertante Titolo originale dell’opera: The President’s Shadow © 2015 Forty-four Steps, Inc. ISBN 978-88-11-14532-5 © 2016, Garzanti s.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale: 2016 Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
Ăˆ vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Per Jill Kneerim, cara amica e fidata agente, per aver riso alla battuta di quel ragazzo di ventitrÊ anni che disse di voler scrivere romanzi. Sei stata la prima a dire di sÏ. Te ne sarò per sempre grato.
ÂŤLa storia non si ripete, ma fa rima.Âť Frase attribuita a Mark Twain, forse apocrifa
PROLOGO
Washington, D.C. Ogni presidente ha dei segreti. Come ogni first lady. Shona Wallace, inginocchiata sull’umida terra dietro i meli selvatici nel Rose Garden della Casa Bianca, era immersa nel suo segreto preferito. Quel freddo mattino di marzo non doveva preoccuparsi dei fotografi. Sapeva dov’erano. Almeno per il momento, nessuno stava guardando. Il giardino, a pochi passi dalla sala ovale, durante il giorno veniva utilizzato per le conferenze stampa presidenziali e per accogliere i dignitari in visita. Adesso, però, erano ancora le cinque e mezzo del mattino ed era buio. Desolato. Come se la first lady fosse l’ultima persona rimasta sull’intero pianeta. E, a dirla tutta, non era forse proprio quello il punto? Shona affondò le dita nella terra, fece un profondo respiro e permise all’odore del pacciame fresco di riportarla ai tempi in cui, appena finito il college, lei e il presidente vivevano in quella casetta gialla in affitto, nel Michigan, con i gabinetti mal funzionanti e un piccolo giardino che si allagava a ogni pioggia. Ci abitavano da appena due settimane quando arrivò la notizia della morte di sua madre. Fu il giardino a salvarla. Se ne prese cura e lo fece fiorire: le dalie della Borgogna con cui si ornava i capelli. Tre qualità di pomodori. Quando ebbe inizio la corsa alla carica di governatore, Shona prelevò duecento bulbi di tulipano dal giardino della madre e li piantò nel proprio. Se anche ti muore la madre e tuo marito lavora così tanto da tornare a casa solo per dormire, sul tuo giardino puoi sempre contare. Lo coltivi, le piante germogliano, la vita fiorisce. È una metafora a buon mercato della vita, la base per mantenere l’equilibrio mentale. Tutti hanno bisogno di poter contare su qualcosa, di un mondo tutto per sé. «Accidenti!» borbottò la first lady ancora in ginocchio, cercando di afferrare a mani nude una radice d’albero interrata. Stava crescendo in direzione della sua amata aiuola di campanule che sarebbero dovute sbocciare a primavera e sarebbero state perfette per essere recise. Persino prima dell’inizio del mandato presidenziale di Orson, Shona sapeva che avrebbe avuto bisogno di un giardino. Durante la campagna elettorale era rimasta scottata dai riflettori della vita pubblica. E aveva progettato tutto in anticipo. Già nella prima notte trascorsa alla Casa Bianca aveva cercato un piccolo spazio fra le aiuole del Rose Garden. Sarebbe stato il suo terreno. La sua salute mentale. Dopo aver avvisato solo gli agenti dei servizi segreti, era sgusciata fuori alle cinque del mattino, si era inginocchiata al buio e aveva interrato i semi dell’heuchera e delle campanule, molti dei quali erano giunti fin lì dall’aiuola dei suoi nonni tramite quelli di sua madre. Shona aveva piantato fiori persino al college, in un fazzoletto di terra che aveva reclamato per sé dietro il pensionato degli studenti. Aveva coltivato fiori, addirittura ortaggi, quando lei e Orson vivevano in quella vecchia casa in affitto, e anche più tardi, quando abitavano nella residenza del governatore. Avrebbe dovuto smettere proprio adesso che ne aveva più che mai bisogno? Neanche per idea. Non aveva mai raccontato ai giornalisti di essere un’appassionata di giardinaggio, né aveva cercato di
sfruttare la cosa a scopi politici. In un certo senso, se l’avesse fatto, avrebbe rovinato tutto. Ovunque la portasse la vita e qualsiasi cosa dicessero i suoi detrattori (l’avevano fatta a pezzi perché era ingrassata nel primo anno di presidenza di suo marito: «La first lady debuttante mette su ciccia»), su quel pezzettino di terra Shona Wallace, moglie del presidente, poteva governare le cose a modo suo. «Ti ho preso...» bisbigliò afferrando la radice d’albero e tirando forte. Dio, com’era bello toccare la terra fredda di marzo. Aveva un odore fresco, promettente. L’inverno aveva lasciato in sospeso così tante cose... amava tornare a lavorare nella terra. Grazie a un forte strattone la radice si smosse, ma non di molto. Scavando alla cieca, appoggiata al gomito sinistro, la first lady sentì... Pock. Qualcosa di solido. Non era un sasso. La radice aveva una consistenza strana, quasi morbida. Spugnosa. Shona si girò, estrasse una torcia a stilo dalla cassetta degli attrezzi, la puntò nella buca e socchiuse gli occhi per cercare di vedere che cosa c’era lì sotto. Nella terra sembrava grigio chiaro, ma quando l’avvicinò a sé, vide che era di un colore bluastro tendente al verde, con una punta di rosa. Come la pelle. Le sfuggì un singhiozzo dalla gola. La radice spugnosa aveva... Quelli non erano rami. C’erano delle dita. Quattro. Strette in un pugno. Un braccio... “Oh, mio Dio!” Lì sotto c’era un morto... Soffocando un grido, la first lady lasciò andare la torcia, che cadde nella buca. Balzò all’indietro e si allontanò freneticamente, trascinandosi con mani e piedi. A minuti sarebbero arrivati i giornalisti e gli addetti del primo turno del mattino. Tremava in tutto il corpo. “Non gridare.” «Orson...» bisbigliò mentre raggiungeva inciampando il colonnato ovest della candida residenza. Piangeva e singhiozzava in modo incontrollabile. Nel Rose Garden, la piccola torcia abbandonata nella buca aperta puntava la sua lucina su una mano incrostata di terra.
1.
Ogni mattina gli infermieri lo osservavano. Alle 5.45 lo vedevano attraversare le porte scorrevoli dell’ospedale. Alle 5.50 era già fra i macchinari rumoreggianti dell’unità di terapia intensiva, e per le 5.55, quel giovane biondo con un’aria da ragazzino si presentava alla guardiola degli infermieri con la colazione per tutti: donut, bagel e, a volte, una dozzina di muffin. Anche se nessuno aveva mai fatto precise richieste, con il tempo aveva capito che l’infermiera Tammy amava i bagel alle segale con una fetta sottile di pomodoro, mentre il suo collega Steven preferiva l’Asiago. Anche loro, in quelle ultime tre settimane, avevano imparato a conoscerlo. Beecher White. «Come sta oggi?» domandava, offrendo la colazione alle divinità ospedaliere. «Sempre uguale», gli rispondevano il più delle volte, indicando la stanza 355 con un sorriso gentile. Dietro una porta di vetro scorrevole, satinata in basso e trasparente in alto, la stanza era in penombra. Beecher ebbe un attimo di esitazione. Per chi lavora in ospedale è una scena abituale: parenti e amici che di volta in volta decidono quale espressione coraggiosa adottare per quel giorno. Dietro il vetro, disteso a letto incosciente, c’era un uomo di settantadue anni dalla barba incolta; nella trachea un tubo a fisarmonica collegato a un respiratore, e nel naso un sondino che gli scendeva fino allo stomaco. «Okay, oggi chi ha voglia di ascoltare un po’ di musica country orecchiabile degli anni Settanta, Ottanta e attuale?» disse Beecher, facendo scivolare la porta di lato ed entrando nella stanza. Aristotle «Tot» Westman era disteso a occhi chiusi. Aveva la pelle talmente grigia da assomigliare a un cadavere. I palmi erano rivolti in alto, quasi stesse implorando la morte. «È ora di alzarsi, vecchio mio! Sono io! Beecher! Mi senti?» Il paziente rimase immobile, la bocca spalancata come un posacenere. «Tot, se mi senti, sbatti le palpebre!» aggiunse Beecher, girando intorno al letto e lanciando un’occhiata alla cicatrice violacea che curvava su un lato del cranio dell’uomo a mo’ di parentesi. Quando Tot era rimasto ferito e dei frammenti di proiettile gli si erano conficcati nel cervello, i medici avevano detto che era vivo per miracolo. Che poi fosse una fortuna o meno, era un’altra questione. Tre settimane prima, durante l’intervento chirurgico, gli avevano tagliato metà dei lunghi capelli grigi, facendolo assomigliare a una palla da baseball da cui spuntavano dei fili. Per pareggiarglieli, Beecher aveva chiesto agli infermieri di rasarglieli quasi a zero. Ora stavano ricrescendo lentamente. Un segno di vita. «Sei ancora arrabbiato per i capelli, vero?» domandò Beecher, estraendo un vecchio iPod nero dalla tasca e sostituendolo a quello grigio metallizzato attaccato allo stereo del carrello lì vicino. «Aspetta di sentire questo», continuò sistemando l’iPod. L’unica reazione di Tot fu il pesante sibilo del ventilatore meccanico che pompava e aspirava aria dai suoi polmoni. In realtà, Tot non avrebbe dovuto trovarsi ancora in ospedale, bensì in un istituto di riabilitazione, ma gli infermieri avevano detto che era arrivata una richiesta speciale dalla Casa Bianca. «Ti ho portato The Gambler, niente meno», disse Beecher premendo il tasto PLAY dell’iPod. Poco dopo nella stanza risuonarono le acclamazioni del pubblico e i primi accordi di chitarra.
«Kenny Rogers, concerto live a Manchester, Tennessee, poi un altro all’Hollywood Bowl e uno privato del 1984 che mi è costato quasi come un mese d’affitto», disse Beecher, sedendosi al solito posto accanto al letto di Tot. Uno dei medici aveva detto che sentire musica familiare può essere d’aiuto per i pazienti con lesioni al cervello. «Tot, per piacere, stringimi la mano», lo esortò ancora Beecher, premendo la propria sul palmo aperto di Tot. L’amico non ricambiò la stretta. Il ventilatore fece un altro pesante respiro. «Ti prego, Tot, lo sai che giorno è oggi. È un grande giorno per me. Dai, per piacere, regalami qualcosina... qualsiasi cosa», implorò Beecher, mentre Kenny Rogers attaccava la prima strofa di Islands in the Stream. «A proposito, hai presente Verona, del reparto risorse umane? Ha detto che se ti svegli e torni al lavoro si mette quel golfino attillato nero che aveva indossato alla festa di Natale. Anzi, guarda, è proprio qui, con il golfino, non vorrai mica perderti lo spettacolo...» Di nuovo il respiro meccanico. «Okay, non mi dai alternative», disse Beecher. Estrasse una penna a sfera dalla tasca, girò la mano di Tot verso il basso e gli infilò la punta sotto l’unghia premendo sul letto ungueale. Il dolore acuto gli fece ritrarre la mano. In termini neurologici, si chiama withdrawal. Secondo i neurologi, finché Tot reagiva agli stimoli dolorosi – per esempio a un pizzicotto forte o alla pressione di una penna – il cervello continuava a lavorare. «È un buon segno», aveva assicurato il dottore. «Significa che il tuo amico è ancora lì, da qualche parte.» Da qualche parte. «E dai, vecchio logorroico, non vorrai mica rovinarmi la giornata. Non mi va di festeggiare da solo», continuò Beecher, premendo di nuovo la punta della penna sotto l’unghia del suo mentore. Mentre la pelle sbiancava, Tot ritrasse di nuovo la mano, ma stavolta... Un’infermiera vide la scena dal corridoio. Tot spostò la testa di lato, come se stesse per dire qualcosa. Beecher scattò in piedi. «Tot?... Tot, ci sei?...» La testa dell’anziano crollò di nuovo e, mentre Kenny Rogers continuava a cantare accompagnato da Dolly Parton, un filo di bava gli uscì dal labbro inferiore e finì nella barba. Beecher si risedette pesantemente sulla sedia, lasciando andare la mano fredda di Tot. Le lacrime gli invasero gli occhi. «Vedrai che ce la farà. Dagli tempo», disse dolcemente una voce femminile. Beecher si girò verso la porta scorrevole. Era l’infermiera dai denti storti, quella a cui piaceva il pane di segale. «È una ferita al cervello. Non guarisce da un giorno all’altro», aggiunse. «Lo so, solo che vorrei...» Beecher si interruppe e deglutì. «È fortunato ad avere un amico come te», osservò l’infermiera. «Io sono fortunato ad avere lui», replicò Beecher alzandosi e asciugandosi gli occhi. Si volse verso il corpo disteso a letto. «Tot, adesso riposa. Lo so che sei stanco.» Si sporse in avanti per dargli un lieve bacio sulla fronte. «A proposito», gli bisbigliò all’orecchio, «se fai il bravo, ti porto una foto di Verona con il golfino nero.» «Ah, buon compleanno, se può essere di aiuto», disse l’infermiera ad alta voce mentre Beecher si dirigeva alla porta. «Come fa a saperlo?»
L’infermiera alzò le spalle. «Faccio questo lavoro da quindici anni. Ti ho sentito dire che era un grande giorno per te.» Le fece un cenno di ringraziamento con la testa e uscì in corridoio, lanciando un’occhiata alla guardiola degli infermieri per vedere quali bagel non erano stati ancora mangiati. Ogni mattina gli infermieri tenevano d’occhio Beecher. Ogni mattina Beecher scrutava attentamente Tot. Ma ogni mattina Beecher e gli infermieri non erano gli unici a osservare. Dalla sua posizione decentrata dietro la porta della sala visitatori sul lato opposto del corridoio, l’uomo calvo conosciuto con il nome di Ezra vide Beecher avviarsi verso gli ascensori. Dieci giorni prima, Ezra era venuto all’ospedale in cerca di quel vecchio chiamato Tot. Conosceva la sua storia. Sapeva cosa aveva fatto tanti anni prima. E sapeva che, con un po’ di pazienza e un pizzico di fortuna, osservando da quella sala d’attesa tutte le persone che andavano a sedersi al suo capezzale, avrebbe raccolto le altre informazioni che gli servivano. Erano arrivati alcuni colleghi del vecchio. Poi c’era quell’anziana che veniva ogni tanto di notte ad accarezzargli il braccio. Il più assiduo di tutti, però, era l’archivista Beecher. Era il pupillo e il migliore amico di Tot agli Archivi Nazionali. In un certo senso, era un suo parente. E da quel che Ezra aveva potuto ascoltare grazie al microfono a forma di lucina notturna che aveva attaccato alla presa del muro accanto al letto di Tot, faceva sicuramente parte del Culper Ring. «Vuole un bagel?» disse un’infermiera, passando accanto alla sala visitatori. Ne abbiamo un sacco.» «Non dovrei», rispose Ezra, strizzando gli occhi sottili in un sorriso. «Mi aspetta un grande giorno.»
2.
Ci sono storie che nessuno conosce. Storie segrete. Io le adoro. E siccome lavoro agli Archivi Nazionali, mi guadagno da vivere scoprendo questo genere di storie. Quasi sempre si tratta di vicende familiari. Anche in questo caso. Ma ora per me è giunto davvero il momento di ammettere, come una volta imparai da un romanzo, che quando dici di cercare la tua famiglia, in realtà, stai cercando te stesso. «Te lo leggo in faccia, Beecher, ci sono cattive notizie, vero?» domanda Franklin Oeming, sforzandosi di apparire nervoso. Oeming è un uomo sui quarantacinque anni con gli occhiali dalla montatura di metallo e un lungo pizzetto stile guerra civile che gli fa sembrare il viso ancora più affilato di quel che è già per natura. È un uomo intelligente che si occupa di declassificazione, cioè passa le sue giornate a spulciare documenti top-secret pieni di omissis e a leggere sotto le cancellature. Ciò significa anche che è specializzato in segreti personali. Pensa di conoscere i miei. Ma in realtà non ha idea del perché mi trovi qui. «Su, dimmi come sta e basta», insiste Oeming. «Sempre uguale», rispondo, infilando le mani nelle tasche anteriori del camice azzurro da laboratorio che indossiamo tutti noi archivisti. Analizza sospettoso ogni sillaba che pronuncio. Pur essendo in giacca e cravatta, indossa un’orribile cintura la cui fibbia ha la forma dello stato del Texas con su scritto PLANET TEXAS a caratteri cubitali. Ne ho una uguale. Sono vecchi regali di Natale che il nostro comune mentore, Tot Westman, ci fece in onore di Kenny Rogers. Noi pensavamo fossero una burla, ma Tot non intendeva scherzare: fra le canzoni sottovalutate di Kenny Rogers, Planet Texas è la sua preferita. Inutile dire che non abbiamo mai usato quelle cinture... fino a tre settimane fa, quando hanno sparato in testa a Tot mandandolo in coma. Da allora, Oeming l’indossa per scaramanzia. Io, invece, la tengo nella mia ventiquattrore. «Beecher, lo so che vai all’ospedale tutti i giorni. Se i medici dicono che sta peggiorando...» «Non sta peggiorando, è stazionario. La scorsa settimana un’infermiera ha detto che aveva mosso due dita della mano sinistra. E anche il mignolo destro.» Oeming mi osserva attentamente. Sono tre settimane che lo ragguaglio quotidianamente via mail sulle condizioni di Tot. Perciò il solo fatto che mi presenti all’improvviso al quinto piano per vederlo di persona... «Non sei venuto per Tot, vero?» domanda. Mi accarezzo la nuca da poco rasata, ma non rispondo. «Qual è il vero motivo della tua visita, Beecher?» Pronuncia il mio nome con abbastanza enfasi da indurre alcuni impiegati che lavorano nei cubicoli vicini al suo ufficio a chiudere fascicoli e coprire documenti sulle proprie scrivanie. Oeming arretra di un passo per fare la stessa cosa. Cinque piani più in basso, gli Archivi Nazionali ospitano i testi originali della Dichiarazione di Indipendenza, della costituzione americana e di dodici miliardi di altre pagine di storia, compresi la prima bozza del Proclama di Emancipazione di Lincoln, l’assegno originale che utilizzammo per
acquistare l’Alaska e persino una lettera scritta da un Fidel Castro dodicenne a Franklin Delano Roosevelt, in cui chiedeva dieci dollari al presidente degli Stati Uniti. Qualsiasi cosa abbia a che fare con il governo, noi l’archiviamo, compreso il pallone sonda scambiato per un disco volante precipitato alla periferia di Roswell, in New Mexico. Ma nel raccogliere frammenti di storia, come quel pallone sonda classificato da decenni, finisci per trovare anche i segreti della nazione. E, come dicevo, i segreti sono la specialità di Franklin Oeming. «In realtà, ho bisogno del tuo aiuto», gli dico sorridendo. Lui rimane serio. «Che tipo di aiuto?» «Mi serve un fascicolo.» Oeming è un archivista di seconda generazione. Sua madre lavorava alla Lyndon Baines Johnson Library di Austin, una delle tredici biblioteche presidenziali americane, e lui è cresciuto tra gli scaffali, staccando graffette arrugginite da importanti documenti. Per questo è più zelante della media, il che è tutto dire, in un ambiente come questo. «Ti spiace se andiamo a fare due passi?» mi domanda, inclinando la testa verso la porta. Prima ancora che abbia il tempo di rispondere, è uscito dall’ufficio e si sta facendo strada fra i cubicoli, diretto al corridoio in marmo e pietra degli Archivi Nazionali. Ora tutti gli impiegati seduti nelle vicinanze mi stanno fissando. Quando lo raggiungo in corridoio, Oeming è alla mia sinistra e sta passando una tessera magnetica sul lettore di una porta a due battenti. Mentre proseguiamo lungo il corridoio, indica alcuni armadietti di metallo simili a cassette di sicurezza di piccole dimensioni. Conosco le regole. Estraggo il cellulare dalla tasca, lo infilo in uno scomparto, chiudo lo sportello e prendo la chiave arancione. Lui tace finché è sicuro che non ci stia ascoltando nessuno. Non lo biasimo. Ma se mi sta portando qui – nel sancta sanctorum del quinto piano – o è un buon segno o sono nei pasticci più del previsto. “Andiamo”, mi fa capire accennando alla fine del corridoio, poi si ferma davanti alla sua destinazione: la stanza 509. Sembra uguale a tutte le altre, a parte la spessa porta d’acciaio simile a quella di un caveau. Oeming passa la tessera in un lettore ancora più high-tech e digita un codice PIN; si sente un clangore sordo e la porta di quella cassaforte gigante si apre di scatto. In tutto il palazzo degli Archivi Nazionali si trovano le cosiddette SCIF, ovvero aree protette in cui leggere documenti classificati. In quasi tutti i piani abbiamo anche le cosiddette «cripte dei tesori», ma nessuna di esse contiene quello che custodiamo qui dentro. All’interno sembra un’elegante sala conferenze come tante altre: un lungo tavolo ovale di mogano circondato da ventiquattro poltroncine di pelle nera e beige. Alle pareti sono appese riproduzioni di manifesti della seconda guerra mondiale, fra cui uno della marina militare sul quale si legge TIENI LA BOCCA CHIUSA, e un altro che recita SILENZIO SIGNIFICA SICUREZZA. Non sono semplici arredi. Qui si fa sul serio. «Attento alle mani», dice Oeming, apparentemente irritato, quando la porta automatica dai cardini inamovibili ci chiude dentro la sala. Appena la porta sbatte, mi si tappano le orecchie. La stanza non è solo insonorizzata, ma anche a tenuta d’aria. I muri in cemento hanno uno spessore doppio rispetto alla media e sono rivestiti di alluminio e acciaio per impedire ascolti indesiderati; per lo stesso motivo, anche i condotti di aerazione, l’impianto elettrico e quello telefonico sono indipendenti. Agli Archivi Nazionali questa sala viene chiamata «Ice Cap». L’acronimo ufficiale è ISCAP, che sta per Interagency Security Classification Appeals Panel; in altre parole, in questa camera blindata del quinto piano, un martedì sì e uno no, si riuniscono alcune fra le menti più raffinate del governo degli Stati Uniti, per decidere quali documenti classificati rendere noti al pubblico.
Grazie all’Ice Cap che, pensate un po’, fu istituita dallo stesso Richard Nixon, sono stati resi pubblici migliaia di dossier segreti, come briefing presidenziali durante la guerra fredda, dettagli sul massacro di My Lai o rapporti top-secret sugli arsenali nucleari sovietici. Per il popolo americano significa più fiducia e trasparenza. Per gli archivisti, invece, cui tocca esaminare i documenti e leggere sotto le cancellature, significa un intero ufficio in più di impiegati a conoscenza di informazioni altrimenti segrete e inaccessibili. «Beecher, come ti è venuto in mente di mettermi in una posizione del genere?» domanda Oeming, fermandosi dall’altra parte del tavolo ovale. «Senti, cerchiamo di mantenere la calma...» «L’ho già persa, la calma! Ti rendi conto di quello che stai facendo? Mi stai chiedendo di violare la legge.» «Non è vero.» «Certo che è vero! Se avessi un nulla osta di sicurezza abbastanza elevato, te lo prenderesti da solo, il fascicolo. Invece lo stai chiedendo a me...» «La finisci o no? Non te lo sto chiedendo per me. Non è per me. È per l’Archivista.» Appena sente nominare il capo, si blocca. Il nostro grande capo. L’archivista degli Stati Uniti. «Mi stai dicendo che te l’ha chiesto Ferriero?» «Esatto. Chiamalo pure», lo sfido. «Gli ho detto che stavo venendo qui da te. Mi ha chiesto di fargli un favore.» Ricordo che quando l’incontrai per la prima volta, Oeming, parlando di informazioni classificate, mi disse che gli unici fascicoli che l’avevano turbato nel profondo erano quelli che riguardavano i sequestri segreti, da parte del governo americano, di persone di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza – cioè anziani e clochard – da utilizzare come cavie umane negli esperimenti sulle radiazioni. Disse che quel giorno si era sentito rivoltare lo stomaco. Ora sembra che gli stia succedendo la stessa cosa. «Beecher, lo sai a chi appartiene la sedia che stai toccando?» domanda, indicando la poltroncina dall’alto schienale vicino al posto d’onore del tavolo. «Durante le votazioni, lì sta seduto il capo della CIA. Al suo fianco c’è il posto del dipartimento della Difesa, il DOD, che rappresenta tutto l’esercito degli Stati Uniti e il Pentagono. Dalla parte opposta, il dipartimento di stato. Poi l’NSA. Subito dopo, il direttore dell’intelligence nazionale», spiega indicando a una a una tutte le sedie. «Il posto peggiore della sala è assegnato al dipartimento della Giustizia», aggiunge indicando una poltroncina vicino alla porta. «E sai perché è il peggiore?» «Perché è il più vicino alla porta», rispondo. «Proprio così. Tutte le volte che qualcuno vuole entrare o uscire, la persona in questione deve spostarsi. E sai perché è stato riservato proprio al dipartimento della Giustizia?» «Vedo che stai cercando di fare analogie...» «Perché quelli del dipartimento della Giustizia sono sempre in cerca di favori personali», sentenzia freddamente Oeming, appoggiando la punta delle dita sul tavolo. «Tutti gli altri... i rappresentanti della CIA, del DOD, dell’NSA – sanno bene come funziona il sistema. La Giustizia, invece, con tutti i suoi avvocati, chiede sempre se non sia possibile fare un’eccezione. Insomma, Beecher, che cosa c’è sotto la tua richiesta di questo fascicolo? E non dirmi che è per l’Archivista, perché proprio stamattina sono stato nell’ufficio di Ferriero, e se avesse voluto un favore me l’avrebbe chiesto di persona.» Stacco le mani dalla poltroncina. «Non te lo chiederei mai, se non fosse importante.» «Insomma, è una cosa di lavoro?» Scuoto la testa. «No, personale.» «È per Tot?» aggiunge, abbastanza preoccupato da farmi sospettare che sia a conoscenza del nostro
vero segreto, e cioè che tre mesi fa Tot mi ha chiesto di entrare nella società segreta conosciuta con il nome di Culper Ring. Il Ring ha più di duecento anni e fu fondato dal presidente George Washington in persona. Lo so. Anche a me sembra ancora una follia. Ai tempi della rivoluzione americana, Washington creò un suo circolo privato di spie per facilitare la circolazione di notizie fra le truppe e battere i britannici. Funzionò talmente bene che, anche dopo la vittoria nella guerra, il Ring fu tenuto in vita per proteggere la presidenza. Esiste ancora oggi, e ora ne faccio parte anch’io. Sembra fico, vero? Io stesso lo pensavo, all’inizio, prima che sparassero in testa a Tot e prima di scoprire che ormai il Culper Ring era ridotto a soli sei membri. Tot mi ha scelto perché contribuissi a ricostruirlo. Anche se adesso questa è l’ultima delle mie preoccupazioni. «Tot non c’entra», replico a Oeming. «Insomma, se Tot non c’entra, fino a che punto può essere personale?» «Riguarda mio padre.» Oeming socchiude gli occhi, ma non di molto. «Quindi Tot c’entra comunque, no? Dato che lui è all’ospedale e tu sei rimasto solo... cercare informazioni su tuo padre significa...» «Non è questione di solitudine», ribatto. E all’improvviso comprendo che il tono che avevo colto nella sua voce non era rabbia, bensì preoccupazione. Franklin sarà anche un archivista di seconda generazione, ma è soprattutto una bravissima persona. Manca completamente di pelo sullo stomaco, il che probabilmente spiega come mai Tot non l’abbia mai cooptato come membro del Culper Ring. «Senti», aggiungo. «Scusami se ti ho mentito.» «Non te ne faccio una colpa, Beecher. Anch’io mentirei per mio padre. Anzi, forse mentirei persino per Tot.» «No, non è vero.» «Hai ragione, non è vero», ammette lui, ridendo impacciato e abbassando lo sguardo. Fingo di ridere con lui. «Sai, Beecher, quando hai cominciato a lavorare agli Archivi Nazionali e Tot ti ha preso sotto la sua ala protettiva, ero geloso. Quei primi anni in cui ero io il suo pupillo sono stati i più belli della mia vita.» «È strano, perché tutte le volte che lo vedo parlare con te, mi sembri il primogenito che non riuscirò mai a eguagliare.» Per un attimo, rimaniamo lì immobili... l’enorme tavolo fra noi. Alla fine, Oeming alza lo sguardo. «Franklin, per tutta la vita...», riprendo incespicando sulle parole, «almeno dacché io ricordi... mi sono sentito dire che mio padre era un meccanico dell’esercito e che è morto quando ero molto piccolo, in un incidente d’auto su un ponte.» Il mese scorso, invece, mi hanno dimostrato che non ci fu nessun ponte e anche nessun incidente. Mi hanno fatto leggere una lettera scritta di suo pugno una settimana dopo la presunta morte. Adesso non so a quale delle due versioni credere.» Chiunque altro solleverebbe un sopracciglio o chiederebbe come sia possibile, ma Oeming passa ogni santo giorno della sua vita a cercare di scoprire segreti che la gente non rivela a nessuno, neppure ai parenti più stretti. «Credi che tuo padre sia ancora vivo?» «No. In realtà no. Ma quel che non mi fa dormire la notte è questo: se una morte viene tenuta segreta, c’è sempre un motivo. Immagina se fosse tuo padre. Questa è la storia che non ha potuto raccontarti prima di morire. I suoi capi dicono che è inciampato e ha fatto una brutta caduta. Poi scopri che forse qualcuno l’ha spinto.» «Suppongo che tu abbia già setacciato gli archivi di College Park, giusto?» mi domanda, riferendosi alla sede che ospita tutti gli archivi militari moderni.
«Ho cercato lì, a Saint Louis, persino nelle grotte di Boyers. Nell’ultimo mese ho letto di tutto per cercare di scoprire che cosa sia successo davvero. E, qualche tempo fa, ho trovato questo.» Estraggo un foglio piegato dalla tasca anteriore del camice. Quando lo apro, è impossibile non notare il codice identificativo scritto a mano al centro della pagina. Oeming lo legge. «Hai detto che tuo padre era nell’esercito.» «Sì, infatti.» «Ma questo... il gruppo di archiviazione... viene da un dossier della marina.» Annuisco. «Infatti, neppure io ho capito. Allora, dimmi, credi ancora che mio padre fosse un semplice meccanico dell’esercito?» Oeming non risponde. «Come hai fatto a trovare questo documento?» «Tramite un amico», rispondo, abbastanza in fretta da fargli capire che non è il caso di chiedere altro. «Il padre della donna che me l’ha dato era nella stessa unità in cui si trovava il mio. È stata lei a scoprire il loro vero nome. A quanto pare, si chiamavano Plankholders, gli iniziatori. Nell’esercito, con questo nome, si indicano di solito i primi membri di un’unità.» Oeming si acciglia. «Conosci il gruppo?» Guarda il numero del documento e comincia a tremargli la mano. «Franklin, se sai qualcosa...» «È veramente questa l’unità di tuo padre?» mi domanda. «Era nei Plankholders?» «Dimmi che cosa sta succedendo», insisto. «Ne hai sentito parlare?» «Solo ieri.» «Ieri? Cosa?...» «Sto cercando di dirtelo. Questo gruppo... i Plankholders... Ieri, quando sono arrivato in ufficio, una persona aveva appena chiesto proprio questo documento.» Inclino la testa da una parte, completamente disorientato. «Insomma, se tu... se qualcuno... non capisco. A chi potrebbero interessare i fascicoli su mio padre?» A quel punto Franklin fa un mezzo passo indietro, finendo direttamente davanti al manifesto della seconda guerra mondiale con su scritto TIENI LA BOCCA CHIUSA. «Beecher... non ci crederai.»
3.
«Nel tuo ufficio gira voce che oggi compi gli anni», dice un’archivista greca sulla cinquantina di nome Helena, svoltando sulla Pennsylvania Avenue con il suo furgone blu navy. Seduto sul sedile di fianco, annuisco guardando fuori dal parabrezza e lanciando un’occhiata alla nostra destinazione. Se volessi, potrei andarci a piedi. Ma se ci tengo a entrare, sul furgone ho migliori possibilità di sfangarla. «Allora non hai grandi progetti per il tuo compleanno?» domanda Helena, che non ha idea del perché stia andando con lei. «Il solito», rispondo. «Una torta a forma di libro. Spogliarelliste vestite da bibliotecarie birichine.» «La cosa triste è che hai appena descritto la fantasia dell’archivista medio.» «E di certe archiviste», aggiungo. «A proposito, se per caso vedi...» «Sì, l’ho vista e la vedrò», la interrompo. So benissimo a chi si sta riferendo. Mina. Un’altra archivista mia amica. Secondo Helena dovrei esserle più amico, ma finché la salute di Tot non migliorerà... «Su, per piacere, adesso non venirmi a dire che stai aspettando che Tot stia meglio. Se lo sapesse, sarebbe il primo ad arrabbiarsi», ribatte lei, e io mi chiedo se ci sia qualcuno agli Archivi che non sappia gli affari miei. È il rischio occupazionale di chi lavora in un palazzo pieno di ricercatori. «Beecher, lascia che ti dia il classico bigliettino che si passava in classe...» «Non c’è più nessuno che passa bigliettini. Basta mandarsi SMS.» «Allora ti mando un messaggino», insiste lei, fingendo di avere un cellulare in mano. «Le piaci. Invitala a uscire con te.» «Siamo già usciti insieme. Ci siamo divertiti. Solo che suo fratello stava male e...» Non faccio in tempo a finire la frase che mi sento vibrare il telefonino in tasca. SEI ANCORA LÌ? mi domanda l’SMS che compare sullo schermo. Arriva dalla chiesa della nostra vecchia città nel Wisconsin e capisco subito chi è il vero mittente: Marshall Lusk. Altrimenti noto come l’uomo dei penetration test, ossia uno che passa le sue giornate a entrare di nascosto in edifici privati e a infrangere sistemi di sicurezza. Altrimenti noto come uno dei miei più vecchi amici d’infanzia, quello che teneva le riviste con le donne nude nella sua casetta sull’albero. Altrimenti noto come la persona che spero mi aiuterà a ricostruire il Culper Ring. Marshall non vuole essere coinvolto in questa cosa; anzi, non vuole essere coinvolto praticamente in nulla. Anni fa è rimasto sfigurato in un incendio e ora il suo viso assomiglia a una candela sciolta. L’esperienza gli ha lasciato una comprensibile amarezza e una vena di crudeltà che mi rende un po’ incerto sulla sua affidabilità al cento per cento. Ma siccome pare che anche suo padre fosse stato nei Plankholders, è disposto a dare una mano. Per ora. Di conseguenza, è l’unico a sapere dove sono diretto al momento. E chi sto cercando di incontrare. CI SONO QUASI, rispondo. Marshall sa che cosa significa. Il telefono vibra di nuovo, stavolta è una chiamata. Viene da un altro numero di dieci cifre. L’accetto, ma rimango zitto. All’altro capo della linea, tace anche Marshall. Se non altro, adesso sta ascoltando. Se succede qualcosa, almeno sarà tutto registrato.
«Sai una cosa, Beecher? A parte il discorso su Mina, sono proprio contenta che tu sia uscito da quel palazzo», aggiunge Helena mentre guida, sistemandosi un ricciolo di capelli brizzolati dietro un orecchio. «So quanto è stata dura. Prego per Tot tutte le sere.» «Grazie, sei gentile. E grazie anche per il passaggio...» Il furgone passa su una buca, facendo sobbalzare il carico sul retro: una mezza dozzina di bidoni rossi di plastica. Per il momento, sono tutti vuoti. Anche se non rimarranno tali molto a lungo. «Visto? Persino lui ha problemi con le buche», commenta Helena ridendo. A Washington c’è solo un lui di cui si parla così tanto, e non è Dio. Helena fa una brusca svolta a destra, e il vecchio camioncino attraversa a scossoni un cancello di metallo nero, fermandosi davanti a una guardiola. Mi sporgo verso il parabrezza e alla fine la vedo: la residenza più famosa del mondo, nonché l’abitazione della persona che proprio ieri ha richiesto i fascicoli militari che contengono informazioni sul mio compianto padre. «Benvenuti alla Casa Bianca», dice un agente dei servizi segreti in uniforme. «Chi dovete incontrare?»
4.
«Documenti, prego», dice l’agente in uniforme con l’accento di New Orleans, e Helena consegna le nostre patenti. Agli Archivi Nazionali lo chiamiamo «ritiro regali». Almeno una volta alla settimana Helena percorre la Pennsylvania Avenue diretta all’Eisenhower Executive Office Building, alle succursali sul lato opposto della strada e persino qui, alla Casa Bianca, per ritirare oggetti di ogni tipo, da quelli più inestimabili alle cianfrusaglie. Tutti i presidenti hanno lo stesso problema. Ogni ospite a cui sorridono e stringono la mano, ogni pezzo grosso e dignitario in visita porta con sé un dono. I russi regalano uova Fabergé, gli australiani valigie di coccodrillo, i britannici una volta addirittura un tavolo da ping-pong e il re di Giordania una motocicletta disegnata da lui stesso per il presidente. Per non parlare delle centinaia di palle da baseball, basket e calcio firmate, delle mazze da golf e dei bastoni da hockey – o della valanga di magliette e casacche con il nome di Wallace stampato sul retro – offerti da tutte le squadre sportive in arrivo, juniores o professionistiche, ognuna convinta di essere originale. In ogni occasione, il presidente sfodera un sorriso finto, si fa scattare la foto e consegna il regalo a un assistente, che alla fine lo passa a noi. Il nostro compito agli Archivi è metterlo da parte in vista della costruzione della biblioteca presidenziale di Wallace, ma anche tenerlo a portata di mano – a pochi isolati di distanza – caso mai dovesse essere restituito in tutta fretta alla Casa Bianca, per esempio, quando la delegazione giordana chiede di poter vedere l’amata motocicletta incastonata di gioielli. Per Helena, il ritiro regali è ordinaria amministrazione. Per me – persino Marshall ne è convinto – è il modo migliore per entrare alla Casa Bianca. «Sei in ritardo. Di solito arrivi puntuale», osserva l’agente dei servizi segreti in uniforme, guardando il mio documento di identità e poi la fiancata del furgone con il logo degli Archivi Nazionali. «È una giornata no», rispondo, continuando a sorridere e cercando di non pensare alla persona che sto per incontrare. Ai tempi del college, il presidente Orson Wallace infierì con una mazza da baseball e le chiavi di un’auto sul volto di un altro uomo e finì per distruggergli un’orbita, bucherellargli la faccia e provocargli danni cerebrali irreversibili, conficcandogli frammenti di cranio nel cervello. Quello è l’uomo che occupa attualmente la sala ovale. Se fossi in grado di provarlo, lo farei. Anche se la questione attuale mi interessa ancora di più. «Torno fra un attimo», dice l’agente con il suo accento nasale di New Orleans, portando i nostri documenti nella guardiola e facendo cenno a un collega di avvicinarsi al furgone blu. «Apra dietro», ordina il secondo agente; Helena obbedisce e l’abitacolo si riempie di aria fredda. Alla mia destra, un terzo militare estrae un sottile bastone che assomiglia a una mazza da baseball con uno specchio circolare in fondo e lo passa sotto il veicolo per accertarsi che non ci siano bombe. «Lo fanno sempre», mi tranquillizza Helena leggendomi nel pensiero. «Anche se di solito», si interrompe un attimo per riflettere, «aspettano che arrivi al West Executive.» E indica con il mento lo stretto parcheggio che costeggia il lato ovest della Casa Bianca. Nella guardiola, l’agente di New Orleans scruta a lungo i nostri documenti. Nello specchietto retrovisore laterale, l’altro agente allunga il bastone e lo passa più in là sotto il furgone. Dietro il
portellone posteriore aperto, l’ultimo agente controlla a uno a uno i bidoni rossi di plastica vuoti. Alla Casa Bianca fanno sempre così. Non c’è motivo di preoccuparsi. Il portellone sbatte forte alle mie spalle e l’agente ci dà il permesso di passare. Helena gira la chiave nel cruscotto e inserisce la marcia, schiaccia l’acceleratore e... Toc-toc-toc. Le nocche battono sul mio finestrino. Un agente in giacca e cravatta fin troppo conosciuto ci fissa da dietro il vetro. Ha i capelli con un taglio militare, non indossa il giaccone invernale; sul bavero porta la spilla con la stella dei servizi segreti incastonata su uno sfondo blu. Evvai! Mai avuto un servizio così veloce. «Che cavolo c’è da sorridere, Beecher?» domanda l’agente A.J. Ennis aprendo la mia portiera. «Su, sbrigati, scendi da ’sto furgone, per piacere.»
5.
«Siamo vecchi amici», dice A.J. alla mia collega degli Archivi Nazionali. Io annuisco entusiasta. Lei ci crede davvero. Mentre ci allontaniamo dal furgone, l’agente mi afferra il braccio da dietro con la mano destra, affondando le nocche nell’ascella. Mi spinge avanti rapidissimo, sollevandomi quasi da terra, e io praticamente mi ritrovo a camminare in punta di piedi. Gli agenti dei servizi utilizzano questo metodo per allontanare in fretta il presidente da una stanza in caso di emergenza. Di solito, il comandante in capo si lascia sollevare di peso e condurre via. Io continuo a muovere i piedi. A.J. non sa che è successo proprio quel che avevo sperato. «Ti sono mancato, vero?» domando. Non risponde. «Non c’è niente di male a dire che ti sono mancato», aggiungo mentre attraversiamo il South Lawn, il prato meridionale, diretti alla Casa Bianca. «Io di sicuro ho sentito la tua mancanza. Agli Archivi Nazionali c’è molta penuria di omoni con i muscoli che strabordano dai vestiti.» Quando passiamo accanto all’altalena che Obama fece installare per le proprie figlie, A.J. rimane sul prato, procedendo a zig zag fra gli alberi, per evitare che ci vedano. Ovunque stiamo andando, siamo fuori dal sentiero battuto. «Da questa parte», bisbiglia, portandomi in un rettangolo di giardino con le aiuole più perfette e curate che abbia mai visto in vita mia. Il Rose Garden della Casa Bianca. A.J. si ferma, scrutandomi in viso. In un angolo c’è un enorme telone blu fissato agli alberi che cade fino a terra coprendo un bel po’ di fiori e piante. Si vede il nastro giallo della manutenzione e un cartello con su scritto: IMPIANTO D’IRRIGAZIONE GUASTO LAVORI IN CORSO A.J. continua a squadrarmi. Io sono troppo impegnato a guardare un’alta porta finestra che si affaccia sul giardino, sul lato posteriore dell’edificio. Da lì si accede alla sala ovale. Non ci sono molti agenti dei servizi segreti di guardia. Vuol dire che il presidente non è lì dentro. Sarà da qualche altra parte nella Casa Bianca. A.J. mi guida verso destra, oltre il colonnato ovest, e mi fa entrare nel palazzo da una serie di porte, diretto alla residenza stessa. Davanti all’ascensore privato del presidente, oltre il tappeto rosso pallido, non c’è neppure un agente dei servizi. Ciò significa che lui non è di sopra. A.J. mi spinge a sinistra e mi fa attraversare un’altra porta, dopodiché sbuchiamo in un posto che assomiglia a un camminamento esterno e a un cantiere. C’è un caos terribile. Casse, scatole e armadietti. Rocchetti di fil di ferro e di cavi. È tutto ammassato alla rinfusa. «Che cos’è, un’officina?» domando, abbastanza forte da farmi sentire da Marshall attraverso il cellulare che ho in tasca. A.J. non risponde neppure stavolta. Per poco non inciampo in una cassa piena di seghe e martelli e sento odore di cioccolato e patatine fritte. Siamo vicini alla cucina della Casa Bianca. In effetti, superata un’altra porta, troviamo dei cuochi con grembiuli bianchi immacolati e retine nere sui capelli, intenti a sfregare pentole e a impilare piatti. Non alzano neppure lo sguardo. È come se non esistessimo.
Con una spinta finale, A.J. mi conduce in uno stretto corridoio, sulla destra del quale ci sono due porte e due montavivande d’acciaio inossidabile. È così che trasportano il cibo alla residenza al piano di sopra. Ma appena A.J. apre la prima porta d’acciaio... Non ha senso. Siamo al piano terra della Casa Bianca, allo stesso livello del giardino. Eppure lì dietro ci sono scale circolari buie che scendono molto in basso. Mi blocco, sbigottito. A.J. mi incita a proseguire. Le scale sono talmente strette che siamo obbligati a scendere uno dietro l’altro. Approfitto della distanza per estrarre il telefonino e accertarmi che Marshall sia ancora in ascolto. Zero barrette. Non c’è campo. Niente di niente. Il mio telefono è inutile. Quantomeno, Marshall sa dove mi trovavo quando sono scomparso. Giunti al pianerottolo successivo, dove leggiamo SEMINTERRATO, la situazione peggiora ulteriormente. Anziché uscire dalla porta, A.J. rimane sulle scale, che continuano a scendere. C’è un altro piano più in basso. Sotto la Casa Bianca ci sono quasi tanti piani quanti ce ne sono di sopra. Più scendiamo, più il profumo di cioccolato e patatine fritte cede il passo a un odore di metallo arrugginito, candeggina e pioggia calda. Da piccolo, nel Wisconsin, in una notte che aveva questo stesso odore ero stato morso da un cane. Le scale finiscono in un corridoietto collegato alla LAVANDERIA DELLA CASA BIANCA, come dice il cartello sulla porta. A.J. apre anche quella e una donna robusta dai capelli corti si alza dalla sua postazione davanti a un vecchio tavolino pieghevole. «Francy O’Connor», si presenta. So chi è. Alla Casa Bianca la conoscono tutti. «Mi avevano detto che saresti arrivato», aggiunge, attirandomi nella stanza con una stretta di mano. «Ma non immaginavo che avresti fatto così in fretta.»
6.
«Beecher, stamattina mi è caduto il cellulare nel gabinetto. La giornata è partita così...» dice Francy, la pelle chiara da irlandese arrossata. «Non fartelo chiedere più di una volta: perché sei venuto qui?» «Stavo per farle la stessa domanda», le dico. «Siamo piuttosto lontani dall’ufficio stampa.» Lei sa a che cosa sto alludendo. Figlia di un professore di giurisprudenza, Francy è cresciuta discutendo di casi giudiziari a tavola, facendosi poi strada come giornalista e scrivendo su un giornale di Minneapolis (che in seguito ha chiuso i battenti). Poi è passata a «Newsweek» (fallito anche quello). Dopodiché è entrata nell’entourage di Wallace, ai tempi in cui era ancora governatore e un vero riformista. Sua accesa sostenitrice, è la ghostwriter dell’autobiografia che ha trasformato Wallace in un presidente e lei in una di quegli amici famosi in tutto il Distretto di Columbia per il fatto di far parte della cerchia ristretta degli «intimi». Tutti i presidenti si circondano di individui di questo tipo. Grintosi attaccabrighe di cui si possono fidare. Quando è giunta alla Casa Bianca, Francy era già stata incoronata viceresponsabile dell’ufficio stampa della first lady, anche se questa è solo una parte di verità, come quasi tutto quel che esce dalla bocca di Wallace. È la prima volta che la incontro di persona, ma so che non sono stati solo i rapporti con la stampa a farle ingrigire i corti capelli rossicci. L’anno scorso, quando il capo di gabinetto della Casa Bianca annunciò allegramente che per lui era giunto il momento di ritirarsi, fra gli esperti di Washington si vociferava che era stata la stessa Francy, irritata dalla sua incapacità di gestire le lotte interne, a orchestrarne l’allontanamento. Relegata a un ruolo subalterno e nascosta in un ufficio silenzioso, Francy è gli occhi e le orecchie occulti di Wallace. Oltre che la sua vigilessa del fuoco personale. «Sai, il mio ex sosteneva che bisogna sempre andare due volte in qualsiasi posto: prima per divertirsi, poi per chiedere scusa», dice con un evidente accento del Midwest che mi ricorda casa mia e mi calma più di quanto abbia voglia di ammettere. Mi fanno lo stesso effetto il blazer blu stropicciato, le scarpe sciatte e gli occhiali da lettura da quattro soldi, acquistati nella farmacia dietro l’angolo, che tiene appesi al collo massiccio. Di solito, le persone più vicine al presidente si danno un’aria d’importanza. Francy si veste come una che non vuole dimenticare le proprie origini. «Forse siamo partiti con il piede sbagliato», conclude. Sono tentato di concordare con lei, ma vedo che tiene le braccia lungo i fianchi, anziché conserte. Come ogni migliore responsabile dell’ufficio stampa, è una maestra nell’evitare i conflitti e nell’infonderti calma, anche se stai bruciando vivo. Se sta cercando di fare la gentile – come se fosse naturale rimanere nascosti nei sotterranei della Casa Bianca – deve esserci in ballo qualcosa di importante. E scommetto che c’entra con il fascicolo mancante di mio padre. «Accomodati», interviene A.J. indicando una sedia vicina, mentre Francy gli lancia un’occhiata per ricordargli chi dei due dà gli ordini lì dentro. «Avanti», aggiunge lei, sfoderando un ampio sorriso. Stringe in mano una vecchia agenda di pelle come se fosse la Bibbia. «Sembrate molto indaffarati, qui sotto», osservo. Nessuno dei due risponde. Alla mia destra c’è un imponente macchinario largo circa tre metri che assomiglia a un’enorme
macchina per la pasta, anche se dalle sue grandi fauci aperte pende inerte una lunga tovaglia bianca. Di solito, è qui che vengono stirate le tovaglie per le cene di stato. Mentre la porta si chiude alle mie spalle, conto uno... due... tre tavolini pieghevoli sparsi per la stanza. Su ognuno di essi sono posati un computer portatile, una stampante e un telefono fisso di vecchia foggia. Sul tavolo in fondo a sinistra c’è un televisore che mostra le immagini provenienti da quattro telecamere di sorveglianza sistemate in punti diversi dell’edificio. Ci sono spine e prolunghe dappertutto. Di qualsiasi operazione si tratti, è stata organizzata frettolosamente. Agli Archivi Nazionali abbiamo le piantine della Casa Bianca: il posto di comando dei servizi segreti è due piani sopra di noi. Che cavolo di posto è questo? «Dunque, dicevi che sei venuto per...» comincia Francy. «Veramente, non ho detto nulla. Se il presidente Wallace vuole sapere perché sono venuto, ditegli che può chiedermelo di persona.» Lei allarga ulteriormente il sorriso. «Non funziona esattamente così.» «Ah, no? Perché io invece ricordavo che si faceva così? Mi ha chiuso in una stanza, mi ha fatto sedere e mi ha detto che quando mi avesse rivisto, avrebbe seppellito me e il Culper Ring.» A.J. fa per dire qualcosa, ma Francy lo interrompe. La cosa più importante, però, è che non ha battuto ciglio quando mi ha sentito nominare il Culper Ring. «Beecher, so di cosa è capace il tuo gruppo. Sono decenni...» «Secoli», la correggo. «...che il Ring è un’arma fidata a disposizione di chi ricopre questa carica. Però ho anche capito che tu e il presidente non siete esattamente pappa e ciccia. Non so perché e non mi interessa. Sono affari vostri. Ma che cosa immaginavi che sarebbe successo, una volta entrato qui dentro? Che dopo che ti eri intrufolato il presidente ti facesse fare un tour della sala ovale?» «Assolutamente no. Immaginavo che appena avessi consegnato la carta di identità, avrebbero inserito il mio nome in un qualche sistema di notifica, e infatti è andata proprio così. Dopodiché avrebbero chiamato un collaboratore fidato del presidente, tipo A.J, e infatti così è stato. Poi, avevo previsto che questo individuo mi venisse a prendere e mi portasse in un luogo riservato (anche se non immaginavo una specie di covo sotterraneo), dove avremmo potuto sederci e parlare civilmente.» «Sono pienamente d’accordo con te. Anche noi vogliamo la stessa cosa.» «Sicura? Perché a me sembra che il presidente degli Stati Uniti stia nascondendo uno dei suoi collaboratori più fidati in un sotterraneo segreto, di cui tutti gli altri membri dello staff sono chiaramente all’oscuro. L’unica spiegazione logica è che siete alle prese con qualcosa di molto fastidioso di cui il presidente spera di sbarazzarsi. Tipo me. Bene. Se Wallace vuole liberarsi di me, basta che mi dia il mio fascicolo e mi sbatta fuori.» Francy e A.J. si scambiano un’altra occhiata silenziosa. Dura un secondo di troppo. «Sta ascoltando, vero?» sbotto. Non rispondono. Scruto attentamente il soffitto, il carrello carico di tovaglioli di stoffa, persino in cima alla stiratrice di tovaglie. Non ci sono telecamere in vista. Nessun sistema di sorveglianza o microfono. Eppure, per qualche motivo, Francy e A.J. sono ancora lì in piedi, in silenzio. «Wallace, lo so che sta ascoltando!» urlo al soffitto. «Mi dica perché ha richiesto il fascicolo di mio padre!»
7.
«Il presidente non può sentirti», dice A.J. «Sai perché ho capito che stai mentendo?» gli chiedo. «Perché stai parlando.» Urlo di nuovo al soffitto: «Lo so che sta ascoltando! Se sta cercando di usare mio padre...» «Per piacere, Beecher», mi implora Francy. «Hai visto i giornali stamattina? Un membro del gabinetto è stato fermato per guida in stato d’ebbrezza, la carenza di zinco sta minacciando l’industria siderurgica statunitense, e poi c’è questo governatore della Carolina del Sud che accusa Wallace dell’innalzamento del costo dell’elettricità durante il lungo inverno, ed è solo mattina. È il presidente degli Stati Uniti. Non ha tempo per origliare...» «Allora è stata lei, Francy? Qualcuno ha chiesto il fascicolo militare di mio padre. I documenti relativi ai Plankholders», ribatto indicando due tavoli vicini, entrambi coperti di fascicoli. «Mi hanno detto che è stato qualcuno della Casa Bianca a richiederli. Voglio sapere perché.» Lo sguardo di Francy scivola verso A.J., poi torna su di me. «Dunque è per questo che sei venuto?» «Perché sarei dovuto venire, sennò?» A.J. si volta verso il televisore con le immagini delle telecamere. A intervalli di alcuni minuti, le immagini nei quattro riquadri cambiano. Quelle che sta fissando ora provengono da telecamere esterne, compresa una che mostra i turisti che sfilano lungo la Sedicesima Strada e un’altra che offre un primo piano del cancello principale. Sta cercando qualcosa. O qualcuno. «Vuoi dire che non sai niente del giardino?» mi sfida A.J. Francy solleva una mano e lo fulmina con lo sguardo. Appena gira la testa, mi accorgo per la prima volta che, al pari di A.J., indossa un auricolare dei servizi segreti. Checché ne dicano, io so che il presidente sta ascoltando. E impartendo istruzioni. Se il leader del mondo libero trova il tempo di fare una cosa simile, sono ancora più nei pasticci di quel che avrei mai immaginato. «Allora la visita non riguarda il Culper Ring?» domanda Francy, posando l’agenda di pelle vicino alla cartellina che sta sul tavolo pieghevole che ci separa. Scuoto la testa, confuso. «E non c’entra neppure la monetina? Né il giardino?» Sono ancora disorientato. «Quale giardino? Non capisco...» Francy si tocca l’auricolare con un dito. A.J non lo fa. Qualsiasi cosa stia bisbigliando, Wallace comunica solo con uno di loro. Lo terrò presente. «Per piacere, qualcuno può dirmi che cosa sta succedendo?» protesto. Francy tiene ancora il dito sull’auricolare. Scuote la testa. Qualsiasi cosa il presidente stia dicendo, lei non ha alternative. «Beecher, ieri mattina», comincia Francy, «abbiamo trovato un pezzo di cadavere nel Rose Garden.» «Che cosa?» «Un pezzo di cadavere.» «Un braccio», specifica A.J., osservando la mia reazione. «Il braccio sinistro di una persona. Segato dal gomito in giù.» Nella stanza cala il silenzio assoluto, al punto che sento il ronzio delle luci al neon. Francy mi sta
scrutando attentamente. Con la mano destra stringe la stanghetta degli occhiali da lettura come se fosse una penna. Non tiene più le braccia lungo i fianchi. «Sai qual è la cosa più importante, nel mio lavoro?» mi domanda. «Garantire la sicurezza del presidente.» «No. Fidarmi del mio istinto», ribatte lei. «So che odi Wallace, ma so anche quello che hai fatto qualche settimana fa per fermare l’attentatore al Lincoln Memorial. Hai salvato la vita al presidente. Quindi, che Dio mi assista, mi fido di te, Beecher. Davvero. Per il bene di tutti, fai in modo che non me ne penta.» «Che cosa fai?» domanda A.J. Francy non lo guarda neppure in faccia, non le interessa la sua opinione. Alla mia sinistra, sposta un vecchio telefono sul tavolino e apre una cartellina contenente dei fascicoli, mostrando una foto a colori: da una buca spunta un braccio di colore verdognolo, come un uovo marcio. La pelle sta cominciando a scivolare via, lo strato esterno si stacca nel processo di decomposizione. Le nocche sbucano dalla terra, la mano è stretta a pugno. Mio padre è morto da trent’anni. Almeno credo. In ogni caso, non è sicuramente sua. A giudicare dal colore e dalla consistenza soda della carne, il braccio dovrebbe appartenere a un giovane. «Che cosa c’entra con mio padre?» chiedo. «Veramente, non sapevamo che cosa pensare», risponde Francy passando alla foto successiva. «Finché non abbiamo aperto il pugno e visto cosa c’era dentro.»
8.
«E l’avete trovato nella mano del morto?» domando. «Lo stringeva nel pugno», conferma Francy, indicando la foto a colori che mostra il braccio posato su una garza bianca. Dal gomito fuoriescono pezzi recisi di tendini e ossa, insieme a una sostanza densa, che lo fa assomigliare a un oggetto scenico per un film di zombie. Sono concentrato sulla mano verde grigiastra aperta a forza, con il palmo rivolto verso l’alto. Al centro è posata una monetina di rame non più grande di... «Un centesimo. È un penny appiattito», dice Francy. Annuisco, mentre lo osservo. È uno di quei penny allungati che escono dalle macchinette per schiacciare le monete nei parchi dei divertimenti. Ha perso tutta la sua luminosità. È malandato e pieno di tacche, come se avesse combattuto la sua guerra personale. Quando però mi avvicino, vedo le parole incise in superficie, a caratteri piccolissimi: PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI SIA SANTIFICATO IL TUO NOME «Il padre nostro.» Lo conosco a memoria, grazie alle innumerevoli messe che mia madre mi ha costretto a frequentare per tanti anni. Socchiudo gli occhi per leggere tutta la preghiera. Non manca una sola parola. Finisce con un semplice: AMEN «Presumo che tu abbia già visto una monetina come questa», riprende Francy, premendosi di nuovo il dito sull’orecchio. Qualsiasi cosa le stia bisbigliando il presidente, è più concentrata su di me che su di lui. So bene da che parte sta, ma persino gli ex giornalisti provano un’attrazione irrazionale e compulsiva per la verità. «Ne abbiamo alcune agli Archivi Nazionali», confermo. «Un paio risalgono addirittura alla guerra ispano-americana. È un’antica tradizione militare. Quando ti danno le piastrine di identificazione e ti assegnano a un’unità, può capitare che un cappellano ti regali un ciondolo di san Michele o una monetina schiacciata con su scritto il padre nostro. Sono da portare al collo. A mo’ di amuleti.» «Non solo. Come le piastrine, sono anche forme di identificazione. Alcuni incidono persino l’emblema della loro unità sul retro», aggiunge Francy voltando pagina e inforcando gli occhiali. Questa, a differenza delle altre immagini, è un ingrandimento del retro della moneta e del buchino in alto. È arrugginito e malridotto come il davanti, ma anziché la preghiera, qui sono incisi uno stemma a forma di diamante e, in basso, una bandiera svolazzante. Di solito, questo genere di stemmi si trova sulle spalline di un soldato. La mascotte di alcune unità è il leone, in altri casi è un drago e, naturalmente, moltissimi utilizzano una qualche versione dell’aquila. Questa unità ha una civetta con le ali spiegate appollaiata su un ramo. Sulla bandiera in basso si legge HL-1024.
«Sai qualcosa di questi uccelli?» domanda Francy. «Un tempo erano presagio di morte. L’assassinio di Giulio Cesare pare sia stato annunciato dall’urlo di una civetta. Anche se questa qui sembra piuttosto contenta di starsene sul suo ramo.» «Non è un ramo.» Mi avvicino ulteriormente alla foto socchiudendo gli occhi. In effetti, gli artigli della civetta non stringono un ramo di forma irregolare, bensì un legno piatto, tipo un’asse lunga e spessa. «È un’asse», interviene A.J. «La civetta stringe l’asse.» Plankholder. Sollevo lo sguardo. Francy e A.J. mi stanno fissando. «La monetina appartiene alla vecchia unità di mio padre», deduco. «Non solo di tuo padre», specifica Francy, abbassando gli occhiali sulla punta del naso a patata. Pensavo temesse che io potessi rappresentare una minaccia. In realtà, teme una cosa di gran lunga più pericolosa. «Qualcun altro stava nella sua unità», aggiunge A.J., il volto illuminato dal bagliore dei monitor di sorveglianza. Non ha bisogno di dire altro. Sappiamo tutti chi è. L’uomo che ha sparato all’ex presidente. E che ha ficcato una pallottola nel cervello della first lady precedente. E che è da poco fuggito dalla sua cella imbottita dell’ospedale psichiatrico giudiziario St. Elizabeths. A.J. si rifiuta di pronunciare il suo nome. Ma è chiaro che si sta riferendo proprio a lui. Nico.
9.
Due settimane fa Collierville, Tennessee Nico, in ginocchio, recitava una preghiera silenziosa con il solo movimento delle labbra. Aveva promesso di dirne solo una e così fece, prima di aprire la porta a zanzariera, prendere un’ultima boccata d’aria notturna, scassinare le serrature e intrufolarsi nella piccola casa gialla. Ne disse un’altra quando la porta a zanzariera si chiuse di scatto alle sue spalle e lui si inginocchiò sul modesto pavimento di linoleum. La casa odorava di naftalina e persone anziane. Trattenne il respiro e attese. Niente cani. Niente sistema d’allarme. Non c’era da stupirsene. Dio era sempre dalla sua parte. “Nico, devi sbrigarti!” lo avvertì la defunta first lady. Quando era ancora rinchiuso al St. Elizabeths, sapeva che cosa avrebbero fatto i medici se l’avessero sorpreso a parlare con la donna che aveva assassinato dieci anni prima. Ora non c’erano più dottori. «È tutto a posto», disse alla sua ex vittima. «Ho infranto otto comandamenti diversi. Eppure Dio continua ad assistermi.» La defunta first lady alzò gli occhi al cielo, ma come spiegare altrimenti le ultime settimane? O il ritorno della figlia Clementine? Dieci anni prima Nico aveva cercato di uccidere un presidente. Dichiarato infermo di mente, era stato ricoverato all’ospedale psichiatrico più famoso del paese. Non avrebbe mai immaginato che gli si sarebbe presentata un’altra occasione per portare a termine la sua missione. E poteva ringraziare solo una persona. Nico chiuse i suoi occhi marrone scuro, così vicini l’uno all’altro, si inginocchiò e disse un’altra preghiera in cucina, poi un’altra ancora in sala e un’ultima nel corridoio pieno di fotografie di famiglia e medaglie militari. “Stai peggiorando, Nico”, lo ammonì la defunta first lady, mentre lui terminava il proprio lavoro in camera da letto. “Perché sono finiti i farmaci.” Nico non poteva darle torto, ma continuava a pregare sempre alla stessa maniera. Muoveva solo le labbra. Dondolava la testa sedici volte, sempre sedici. Poi, nel dire “amen”, chiudeva l’occhio sinistro. “È per lo stesso motivo per cui vedi le croci”, aggiunse la first lady quando Nico tornò in cucina e notò che le fughe delle piastrelle sul pavimento formavano un crocifisso nascosto. Ora ne vedeva ovunque: intorno al collo della cameriera del ristoro per camionisti; addosso alla ragazza delle pubblicità di quel fast-food che continuavano a trasmettere alla televisione e – come in quelle prime settimane al St. Elizabeths, quando temevano che si suicidasse – in tutti gli altri posti dove non li vedeva nessun altro: nascosti nei ripetitori del telefono e nei vetri delle finestre... Nelle crepe intersecate dei marciapiedi, nelle prolunghe sovrapposte, e naturalmente negli spazi bianchi tra le colonne dei giornali, nelle fessure tra i tasti di un telefono, e ora nelle piccole X che aveva intagliato nelle unghie delle sue quattro dita principali. Quattro. Sempre quattro. Quattro stagioni. Quattro stati della materia. Quattro punti cardinali sulla bussola. Quattro elementi. Quattro camere del cuore. Quattro movimenti di una sinfonia. E come dimenticare i quattro segni delle
carte da gioco? Nico non dimenticava mai le carte. In chimica, il numero di valenza del carbonio – il fondamento della vita – è quattro. Quanto alla religione, il buddhismo ha Quattro Nobili Verità, l’islam quattro mesi sacri e l’ebraismo quattro domande e quattro bicchieri di vino, e scrive persino il nome di Dio con quattro lettere. Poi c’erano i quattro Cavalieri dell’Apocalisse del cristianesimo, i più oscuri di tutti. Sempre quattro. Infatti, quando le antiche popolazioni tribali scrissero per la prima volta il numero quattro – un semplice glifo sulla parete di una caverna – unirono quattro linee a formare un moderno segno del più. Una croce! Uno due, tre, quattro pezzi. Ma mentre Nico fissava le quattro X incise sulle proprie unghie, sapeva che i veri quattro Cavalieri dell’Apocalisse erano già arrivati. Nel corso della storia, erano stati assassinati quattro presidenti. Di nuovo. Quattro. Era ora che ce ne fosse un quinto. Non c’era via di uscita. Tutti gli altri erano morti. L’unico modo per sopravvivere era andare avanti! “Liberazione”, si disse, poi... “Nico, non ti fissare!” lo sgridò la first lady. “Guarda avanti, non indietro!” aggiunse, ripetendo le parole di quella graziosa infermiera nera con cui Nico parlava sempre al St. Elizabeths. «Guarda avanti», bisbigliò Nico, riaggiustandosi in testa il cappellino fatto a maglia e aprendo un cassetto della cucina. Conteneva coltelli da bistecca, da scalco e persino una mannaia. “Guarda avanti”, ripeté la first lady quando Nico chiuse bruscamente il cassetto e aprì quello vicino. Forchette, cucchiai... No, non era neanche lì. Sapeva che cosa stava cercando. La casa era piccola; non c’era né garage né capanno esterno. Quindi... Tirò a sé l’ultimo cassetto: era vicino alla cucina a gas e si aprì sferragliando. “Oh, eccolo qua.” Il cassetto degli attrezzi. Frugò fin sul fondo, tra cacciaviti, chiavi inglesi, persino un martello. Tutte cose in grado di fare un mucchio di danni. Ma l’unico attrezzo che tirò fuori fu una piccola pinza a becco lungo dall’impugnatura di gomma rossa. Mentre si dirigeva in camera da letto, la impugnò saldamente, assaporando la piccola gioia di sentirla aprirsi così bene nella propria mano. Le infermiere non gli avrebbero mai fatto tenere un attrezzo del genere. Era passata circa una settimana da quando era scappato dall’ospedale psichiatrico. Una settimana da quando Clementine l’aveva portato via dal Distretto di Columbia, trovandogli il migliore nascondiglio che si potesse immaginare. Nei primi giorni non riusciva ad abituarsi al silenzio. In ospedale c’era sempre così tanto rumore, durante i pasti, nelle docce, persino nella stanza isolata dove lo chiudevano per punizione. Non riusciva ad abituarsi ai colori. E neppure alle dimensioni. Dopo aver passato dieci anni della sua vita in stanze beige, dietro porte e cancelli chiusi a chiave, persino una strada a due corsie del Tennessee sembrava infinita e abbagliante. Ma ora Nico sapeva che cosa doveva fare. Diede un’ultima stretta alla pinza, guardò le quattro piccole croci sulle unghie. Sempre quattro. Poteva una missione manifestarsi in modo così chiaro? L’aveva visualizzata nella testa... progettata... sognata... per anni. Quattro Cavalieri erano arrivati. Quattro presidenti erano morti per mano di quattro assassini. Quattro assassini. E, ora che era libero, avrebbe potuto essere il quinto. Quello che avrebbe ficcato una pallottola nel corpo del presidente degli Stati Uniti. Si fermò davanti alla porta socchiusa della camera da letto e si inginocchiò di nuovo per pregare. La defunta first lady rimase zitta. Sapeva che cosa stava per accadere lì dentro. Nico se l’era meritato. «Amen», sussurrò alzandosi in piedi e aprendo lentamente la porta con il gomito. In fondo alla stanza c’era un uomo anziano legato alla testiera del letto, le braccia aperte, immobilizzate dai cordoncini che Nico aveva strappato dalle tende. Non gli aveva infilato niente in bocca. In quel posto sperduto del Tennessee avrebbe potuto urlare quanto voleva.
«Nico... ti prego... non sono tuo nemico!» lo implorava il settantenne, con la voce che cominciava a incrinarsi. Dimostrava meno della sua età, aveva il torace ancora robusto, anche se con il tempo la faccia tonda da Babbo Natale si era un po’ assottigliata. «Colonnello Doggett, lo so che faccia fai quando racconti palle», ribatté lui all’uomo che tanti anni prima l’aveva arruolato nei Plankholders. Anche allora erano in quattro. Sempre quattro. «Questa è l’ultima menzogna che mi racconti.» Dieci anni prima, Nico aveva tentato di uccidere il presidente. Un altro presidente. Ora gli si offriva una nuova opportunità. L’opportunità di portare a termine la missione. Ma non prima di aver compiuto questa. Sollevò la pinza dall’impugnatura di gomma rossa e si avvicinò alla mano sinistra del vecchio. «Nico, no...! Che cosa stai facendo!?» lo supplicò il colonnello Doggett. «Te l’ho già detto», ribatté Nico con voce monocorde. «Ti farò una domanda sull’Isola del Diavolo. Se la risposta non mi piacerà, ti bucherò il dito con una matita e ti staccherò la pelle con questa pinza, dito per dito.» «No!... Figliolo, ragiona... Sei una brava persona...» «Lo so, colonnello. Ecco perché ho bisogno che mi aiuti a trovare una cura per mia figlia.»
10.
Oggi Washington, D.C. «Un braccio mozzato? Una monetina nascosta con l’emblema della vecchia unità? Sepolti nel Rose Garden, per giunta?» domando. «Non mi sembra per niente lo stile di Nico.» «Tutto d’un tratto sei diventato un esperto di Nico?» mi sfida A.J. «Lascialo parlare», lo ammonisce Francy. «Ricordate l’ultima volta che ha aggredito un presidente? Gli si è avvicinato alle corse automobilistiche NASCAR e ha premuto il grilletto. Quando è fuggito dal St. Elizabeths Hospital, ha ficcato una penna nel braccio di un infermiere ed è uscito con calma dalla porta più vicina. Non è l’Enigmista. Non lascia in giro indizi.» «Non abbiamo parlato di indizi», ribatte A.J. dal tavolo alla mia sinistra. È curvo davanti alla TV su cui compaiono a rotazione le immagini delle telecamere di sorveglianza. Per un attimo stacca lo sguardo dallo schermo, indicando la foto con la monetina appiattita. «Ma questo non toglie che sia un messaggio.» «Mi hai sentito o no? Non lascia messaggi. Non usa nessuna sottigliezza. È convinto di essere un cavaliere che deve portare a termine una missione divina. Se ti vuole morto, entra nel tuo spazio personale e ti ficca un coltello in un occhio.» «Questo è un coltello nell’occhio», dice A.J. «Intrufolarsi nei terreni della Casa Bianca...» «Insomma, avete dei video che dimostrano che è entrato? Vedo quelle telecamere di sorveglianza. Era Nico l’uomo che avete visto nel Rose Garden?» A.J. guarda Francy, di nuovo concentrata sull’auricolare. Non c’è dubbio, il presidente sta ascoltando, il che significa che mi stanno ancora nascondendo qualcosa. Francy alla fine fa segno di sì con la testa. «Non ci sono telecamere di sorveglianza in quel punto del Rose Garden», ammette alla fine A.J. «Cosa? Perché no? Non è vicinissimo alla sala ovale?» «Sì, infatti, proprio per questo non ci sono telecamere», spiega A.J. «Dopo Nixon... e, a dire il vero, anche dopo... Monica Lewinsky... nessun presidente vuole che ci siano videocamere che sorvegliano tutti quelli che entrano ed escono dal suo ufficio.» «Perciò chiunque abbia sepolto quel braccio...» «Sapeva fin dove arrivava il nostro campo visivo», concluse A.J. «O forse l’ultima volta che è venuto qui ha visto dove abbiamo messo le telecamere.» Continua a fissarmi. «Ti rendi conto di quanto sei rozzo? Credi che l’ultima volta che sono venuto qui abbia chissà come capito dov’erano tutte le telecamere?» «Beecher, quand’è l’ultima volta che hai avuto notizie di Nico?» mi incalza di nuovo. «Stai scherzando, vero? Che cosa gliene può fregare, a Nico, di me?» «Lo sai benissimo. La tua fidanzata Clementine...» «Non è la mia fidanzata.» «Lo è stata...» «È stata la ragazza a cui ho dato il primo bacio. Alle scuole medie!»
«Guarda caso, però, è anche la figlia di Nico, pazza quanto lui. E, da quel che mi risulta, ha cercato di minacciare noi e manipolare te. Qual è l’ultima bugia che ti ha raccontato? Che stava morendo di cancro? Non ha il minimo ritegno. Però lei e suo padre, chissà perché, si rifiutano di farti del male.» «Non è vero.» «L’hai incontrato diverse volte, eppure non ti ha mai torto un capello. Ti protegge, Beecher. Quindi non è questione di stabilire se torneranno alla carica o meno, bensì solo quando.» Non ribatto. Il televisore alle spalle di A.J. mostra altre quattro immagini. Con mia grande sorpresa, vedo una persona che ci guarda dallo schermo. Continuo a squadrare A.J., fingendo di non accorgermene. Il monitor davanti all’ascensore che porta alla residenza privata mostra la first lady Shona Wallace, le mani sui fianchi, le labbra da fumatrice increspate, che fissa minacciosa la telecamera. Succede in una frazione di secondo. La first lady ha un’espressione indecifrabile. Non ci può vedere, ma sa chi la sta osservando. Messaggio inviato, anche se più ci penso, più mi convinco che può essere rivolto a una persona sola. Guardo furtivamente Francy e, vedendo la rapida occhiata che lancia allo schermo, ricordo che per capire la sua posizione alla Casa Bianca bisogna tener presente che Francy non lavora per Wallace, bensì per la first lady. Nel giro di un istante, la TV mostra altre quattro immagini. Shona Wallace non c’è più. «Beecher, non ti stiamo accusando di nulla», dice Francy, come se la moglie del presidente non fosse mai comparsa. «Ci auguriamo solo che se per caso Nico o Clementine dovessero mettersi in contatto con te, tu ce lo faccia sapere.» Mi trema un sopracciglio. Vorrei provare simpatia per Francy. Mi ricorda un’insegnante delle superiori, una di quelle un po’ burbere che impari ad apprezzare solo dopo alcuni anni che hai preso il diploma. Non c’è nulla di fasullo in lei. Ma a giudicare da quell’occhiata della first lady e dalla rapidità con cui Francy passa dalla mia parte, mi sa che sta cercando qualcos’altro. «Però non capisco una cosa», replico. «Se volevate dirmi solo questo, perché il leader del mondo libero in persona sta origliando quel che diciamo?» Francy non risponde. È di nuovo concentrata sull’auricolare. «Ma signore...» protesta. «Signore, posso farcela da sola.» Affloscia le spalle. Sconfitta. Davanti allo schermo della TV, A.J. si preme l’indice sull’orecchio. Sta arrivando un messaggio nel suo auricolare da agente dei servizi segreti. Sento un lieve clic alle mie spalle. Mi giro a guardare. La porta si spalanca e compaiono gli occhi grigi più famosi del mondo. Per quanto lo detesti, vederlo è sempre un’esperienza unica. «Strano, stavo giusto parlando di te, Beecher», dice il presidente degli Stati Uniti d’America, venendomi incontro mentre la porta si chiude alle sue spalle. «Ti voglio offrire un’opportunità.»
11.
«Una fetta di dolce al limone?» mi domanda il presidente Orson Wallace, entrando nella lavanderia sotterranea con in mano un piatto di fine porcellana Bone China. Al centro c’è un avanzo di torta gialla. «Lo ammettono persino i francesi... il nostro chef per i dolci è portentoso.» Lo osservo attentamente, conoscendo i suoi trucchi. Come tutti i politici, ha modi molto accattivanti. «Sul serio, Beecher. Se esistesse un dolce in grado di cambiarti la vita, sarebbe questo.» «Passo.» «Peggio per te», ribatte lui. Afferra il dolce e lo mangia. Si lecca le labbra, poi si succhia a una a una le dita dalle unghie curate, come se fosse la sua prima vittoria. Eppure noto la stempiatura incipiente all’altezza della scriminatura e l’unghia del mignolo mangiucchiata fino alla pellicina. La tiene nascosta al pubblico. Se l’è rosicchiata recentemente. «Se non fosse per lo stress del mestiere, a quest’ora avrei messo su altri dieci chili», aggiunge sfoderando un ampio sorriso. Francy fa una smorfia. Ha già sentito la battuta. Per giunta, a differenza di A.J. – a differenza di chiunque altro, praticamente – non arretra nemmeno di mezzo passo quando Wallace si avvicina. Rimane ferma al suo posto. Mi è sempre più simpatica. Il presidente ha ancora in mano il piatto di porcellana con il sigillo degli Stati Uniti. Io, però, sono concentrato sul fascicolo su cui lo posa. Quello con la monetina dei Plankholders. L’unità di mio padre. Il presidente sa quanto desideri averlo. Ma se lui stesso non desiderasse qualcos’altro con altrettanta intensità, non si troverebbe neppure qui. «Rilassati, figliolo. Come dicevo, sono qui per offrirti un’opportunità. Una buona opportunità.» «Mi spieghi che cosa intende per “buona”. Perché l’ultima volta che l’ho vista ha battuto il pugno sul tavolo e ha giurato di far fuori tutto il Culper Ring, me compreso.» Il sorriso si allarga ulteriormente mentre lui si avvicina al tavolo. Io mi trovo da un lato, Francy e A.J. dall’altro. Wallace si posiziona a capotavola. «Ho saputo che oggi è il tuo compleanno. Auguri.» «Grazie molte. Ora, sperando di poter tornare dai colleghi in ufficio, che mi sorprenderanno con una pioggia di coriandoli, perché non mi dice che cosa vuole veramente da me?» Intreccia le dita, come in preghiera. Il sorriso è ancora inalterato. «Beecher, sai qual è la caratteristica che ti contraddistingue? Fai sempre la cosa giusta. Quando vedi una persona che subisce violenza o qualche forma di ingiustizia, non sei capace di voltarti dall’altra parte. Anche a costo di esporti a gravi rischi, tu devi intervenire. È una splendida caratteristica», dice il presidente, e sembra sincero. «Quanto a me, sai qual è la mia peculiarità? So riconoscere le capacità delle persone. La mia peculiarità è quella di saper riconoscere le peculiarità. Non è una caratteristica apprezzabile come la tua, ma ha certamente la sua utilità», sottolinea. «E questo si ricollega al nostro problemino di giardinaggio. Ho pensato che potesse interessarti aiutarci a risolverlo.» Lo guardo dritto negli occhi. «Lei, dunque, vuole il mio aiuto?» «Ti pare così assurdo?» ribatte il presidente. «Ora sei tu a guidare quel che rimane del Culper Ring. Non è per questo che Tot...» «Lasci stare Tot. Apprezzo il gesto di chiedere all’ospedale di tenerlo in terapia intensiva, anziché
trasferirlo, ma non le dobbiamo nulla.» «Hai ragione, non mi dovete nulla. Ma lo scopo del Culper Ring non è forse quello di proteggere il presidente?» «Di proteggere la presidenza», preciso. «E poi, non ci sono già centinaia di agenti dei servizi impegnati nelle indagini?» Wallace e Francy rimangono in silenzio. A.J. guarda di nuovo la TV, che mostra subito quattro immagini nuove, come se avesse ricevuto un’imbeccata. Mi guardo intorno nella stanza della lavanderia, con i suoi tavoli pieghevoli e le postazioni informatiche allestite in tutta fretta. Siamo due piani sotto la Casa Bianca. In una minuscola stanza senza finestre di cui solo pochi sono a conoscenza. «Crede che ci sia lo zampino dei servizi?» «È troppo presto per lanciare accuse», dice il presidente. «Ma seppellire il braccio di una persona nel Rose Garden... arrivare a tanto senza essere visti... Non si può certo scavalcare il recinto e mettersi a correre all’impazzata. Per riuscire in un’impresa simile...» «Devi avere un aiuto», concludo annuendo. Per seppellire un braccio, bisogna per forza avere una qualche mansione alla Casa Bianca. «Secondo lei, potrebbe essere un membro dello staff?» «Forse dello staff, forse dei servizi», interviene Francy. E di colpo mi torna in mente l’espressione infuriata della first lady. Per la prima volta mi viene il dubbio che la questione non riguardi solo il presidente. «Il punto è che, comunque siano riusciti a sfangarla, hanno fatto un lavoro quasi perfetto.» «Quasi?» Il presidente fa un cenno a Francy, che mostra un’altra fotografia del fascicolo. A differenza dell’asettico primo piano della monetina appiattita, questa è una foto scattata all’aperto con decine di persone radunate sul South Lawn della Casa Bianca. «Sembra una festa», commento, osservando attentamente i volti sorridenti degli spettatori del concerto della banda dei marines, che si esibisce in casacca rossa con spalline bianche e tre file di bottoni di ottone. La data in un angolo mi dice che è stata scattata due giorni fa. Alle 16.27. «È la celebrazione annuale del Giorno di San Patrizio», spiega il presidente. «Invitiamo l’ambasciatore d’Irlanda e tutti i giornalisti e membri dello staff del Congresso irlandesi; chiamiamo anche la banda dei marines, che con la sua struggente versione di My Wild Irish Rose commuove tutti i presenti. Poiché il tempo è migliorato, la manifestazione è stata trasferita all’aperto.» Wallace passa a un’altra foto, dove i suonatori, strumenti e spartiti sottobraccio, si mischiano alla folla. «Lo riconosci?» domanda il presidente indicando l’angolo in basso a destra della foto, dove un componente della banda, un trombettista, abbraccia lo strumento come fosse un pallone. Lo vediamo solo di profilo, immortalato mentre sta camminando e pare uscire dalla foto. È una macchia sfocata rossa che passa accanto a un gruppo di membri dello staff con l’abito della festa intenti a gustarsi la loro birra verde insieme al capo degli AmeriCorps. C’è anche la first lady con l’immancabile sorriso. Sullo sfondo ci sono altri due trombettisti che parlano con dei colleghi muniti di corni, tromboni, flauti e ottavini. «Quel giorno i suonatori della banda dei marines erano quaranta», spiega A.J. distogliendo lo sguardo dalla TV con le immagini di sorveglianza. «Dodici clarinetti, due oboi, quattro sassofoni e, naturalmente, visto che c’è in My Wild Irish Rose quel bel duetto di trombe, due trombe. Si vede anche nelle foto della banda: due trombe.» Il presidente indica di nuovo il profilo del trombettista che cammina veloce sulla destra. Poi punta il dito sugli altri due musicisti sul retro. Una, due... tre trombe. Ce n’è una di troppo. «Allora è così che si è intrufolato? Con la banda dei marines?» «Non sappiamo se sia entrato in uniforme o si sia cambiato quando era già dentro. Tutto quel che
sappiamo, stando a questa foto – ed è l’unica in cui lui sia stato immortalato –, è che all’improvviso, all’interno del parco della Casa Bianca, si aggirava un terzo trombettista.» «Non capisco. Per entrare dal cancello, non bisogna comunque firmare e sottoporsi a tutti i controlli di sicurezza?» domando. «Certo», risponde A.J. «Ma in occasione di un grande evento come il Giorno di San Patrizio, siccome il servizio di sicurezza deve fare una marea di controlli, facciamo entrare l’autobus della banda direttamente dal cancello sudorientale; poi facciamo passare i musicisti per il giardino, sottoponendoli a controlli meno rigorosi. Chiunque sia quel trombettista, conosce le nostre procedure.» Osservo la foto. Anche se non fosse di profilo, il berretto bianco da marine gli nasconderebbe il viso. «Insomma, niente documenti, niente impronte digitali né targhette con il nome?» «I membri della banda dei marines non indossano targhette con il nome. Questo però non ci ha impedito di riconoscere il nome che voleva farci vedere», aggiunge A.J. «Guarda la cartellina degli spartiti.» Senza dire una parola, Francy mostra l’ultima foto del fascicolo. È un primo piano della cartellina che l’uomo misterioso tiene sul petto. Sopra c’è scritto qualcosa con uno spesso pennarello nero, perché risulti facile da leggere. A. Hidell. Rimango di sasso. «Il nome ti dice qualcosa?» domanda il presidente degli Stati Uniti. Annuisco, comprendendo finalmente il motivo della loro preoccupazione. Io non c’entro nulla. E neppure il Culper Ring. «Il giorno in cui fu assassinato John F. Kennedy, sulla falsa carta d’identità di Lee Harvey Oswald c’era scritto il nome Alek Hidell. Lo stesso con cui Oswald aveva ordinato la pistola.»
12.
Due settimane fa Ashford, Virginia Stava sanguinando. Di nuovo. Se lo sentiva in bocca – il sapore salato e metallico del sangue – mentre si trascinava lungo il corridoio del palazzo di uffici, tenendo la testa bassa per evitare l’unica telecamera di sorveglianza situata in un angolo. Sapeva a quali rischi si esponeva venendo qui. I servizi segreti avevano consegnato la sua foto a tutti i telegiornali. Erano due settimane che il «Washington Post» la pubblicava in prima pagina al posto dell’editoriale. A questo punto, però, non aveva scelta. Si riaggiustò la parrucca castana in testa, diede un’ultima occhiata fuori, controllò la mappa dell’edificio e, con cautela, accelerò gradualmente il passo. Non correva mai. Se l’avesse fatto, i denti avrebbero cominciato a vibrarle letteralmente in bocca. Allora sì che sarebbe uscito sangue. Avere il cancro era brutto. Questo però era peggio. Peggio ancora di perdere i capelli. Peggio dell’odore della sua stessa pelle bruciata durante la radioterapia. Tutto era cominciato con un semplice mal di denti. Il dolore era forte, ma lei era in grado di sopportarlo. Lo dimostravano le vecchie cicatrici bianche che aveva sul gomito. Inoltre, andare da un medico significava dover rispondere a delle domande, stipulare un’assicurazione e rischiare di essere visti. Due settimane prima, mentre stava mangiando dei popcorn scaldati al microonde nella sua stanza di motel, si era infilata un dito in bocca, credendo di avere un chicco di mais incastrato fra i denti, e invece aveva tirato fuori un pezzo di... all’inizio non capì che cosa fosse. Era grigiastro, del colore del fumo. Un pezzo di gengiva. Sotto vide la mandibola esposta, morta. In termini medici si chiama osteonecrosi della mandibola, un effetto collaterale della chemioterapia orale. L’afflusso di sangue alla mandibola era bloccato, perciò l’osso mandibolare stava morendo. Ben presto le gengive avevano cominciato a sanguinare a ogni pasto. Quando mangiava, le sembrava di masticare i propri denti. Non era ancora andata dal dottore. La prima soluzione era stata mangiare tanto yogurt. Una volta aveva preso persino degli omogeneizzati. La seconda era stata smettere di masticare sul lato sinistro della bocca. Dieci giorni prima, però, quando l’infezione si era aggravata al punto da farle sentire l’odore della sua stessa carne in cancrena, non aveva avuto scelta. Aveva sostituito la parrucca bionda con un caschetto castano fuori moda e praticamente era arrivata al pronto soccorso strisciando per terra. Il chirurgo che l’aveva visitata le aveva dato degli antibiotici per fermare l’infezione. Per evitare che peggiorasse, avrebbe voluto staccarle un bel pezzo di mandibola. Si era girato per scrivere qualcosa sul suo foglio di appunti; lei gli aveva strappato di mano il blocchetto delle prescrizioni ed era sparita. Come malata di cancro, sapeva che il dolore può farti prendere decisioni che, in circostanze diverse, non prenderesti mai. Non gli avrebbe permesso di portarle via la faccia. Oggi il blocchetto del medico e l’infezione non c’erano più. Eppure il vero disastro stava cominciando proprio adesso, mentre percorreva quel corridoio.
«Vuole che l’aspetti?» gridò un uomo dall’unico ascensore dell’edificio. Lei scosse la testa evitando il suo sguardo e raggiunse in fretta le scale meno frequentate. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non essere vista. Da due settimane, quella era la sua vita quotidiana. A intervalli di pochi giorni c’era un nuovo palazzo di uffici, una nuova scala, nuove persone sconosciute. «C’è nessuno?» urlò, bussando sul vetro trasparente della sala d’attesa piena di riviste. Mancavano pochi minuti alle due. L’ora di pranzo stava finendo. Era il momento migliore per saltare la fila e prendere un appuntamento d’emergenza. «Mi stupisce che ci abbia messo così tanto», disse una voce alle sue spalle. Lei si girò e vide un uomo calvo, basso di statura e muscoloso, con una polo dal colletto sollevato. Bastò quello a renderglielo odioso. Aveva un’aria da ricco ed era giovane, nemmeno trent’anni, con occhi a fessura accesi dall’arroganza che può dare quell’età. Persino la giacca a spina di pesce nera sembrava costosa. Ci teneva infilata una mano. Come Napoleone. «Sei proprio tu. Clementine in carne e ossa», aggiunse. «Ha sbagliato persona», ribatté lei, cercando di scansarlo. Lui fece un passo di lato, bloccandole la strada. «Non sono dei servizi segreti. Sono qui per aiutarti», la rassicurò. «Dovresti muoverti con un po’ più di astuzia. Se cominci a passare da un dentista all’altro, è facile beccarti. Così ho trovato Beecher: all’ospedale, mentre andava a trovare Tot.» Nella bocca di Clementine, i quattro incisivi inferiori tremarono come una fila di dentini da latte che stanno per cadere, fluttuando nella mandibola morta. «Si vede che stai male», continuò. Era talmente vicino che lei notò le sue ciglia bianchissime. «Non ho capito bene come ti chiami», lo sfidò Clementine. «Ezra», rispose lui, facendo un altro piccolo passo verso di lei. «Dobbiamo parlare. Di storia.» «Ah. A giudicare da come sei viscido, insistente e ossessionato dal passato... devi essere in cerca di mio padre.» «Nico. Abbiamo una proposta per lui.» «Hai usato il plurale. Chi siete?» «Chi altri?» disse Ezra, sorridendo con i suoi occhi a fessura. «I Cavalieri del cerchio d’oro.»
13.
«Se qualcuno sta emulando Oswald...» «Non pensiamo a un imitatore», mi interrompe A.J. «Chiunque sia il nostro trombettista, non ha compiuto nessuna aggressione. Sapeva che avremmo visto queste immagini. Voleva che le vedessimo... così come voleva che la signora Wallace trovasse il braccio con la monetina.» Mentre l’agente dei servizi pronuncia queste parole, Wallace irrigidisce le spalle per la rabbia. È vero che i presidenti devono essere forti. Ma a nessuno piace veder minacciati i propri familiari. «Quindi, secondo voi, chiunque abbia fatto...» «Per me è stato Nico. E credo che Clementine lo stia aiutando», dichiara A.J. «Non dico di no», replico afferrando la fotografia del trombettista. «Mi domando solo: considerata l’ultima vittima di Nico, pensate che vogliano colpire la first lady?» A.J. si volta verso Francy, che a sua volta guarda Wallace, il quale annuisce in silenzio. L’ordine gerarchico non lascia spazio a dubbi. «Non lo sappiamo con certezza. Innanzi tutto, ieri mattina abbiamo cercato di portare via la signora Wallace dai diciotto acri», dice alla fine A.J, utilizzando il gergo dei servizi per indicare la Casa Bianca. «Lei, però, ha voluto aspettare il presidente; oggi andranno tutti e due fuori sede. Anzi, ce ne stavamo proprio occupando, quando all’improvviso ci hanno avvisato che ti eri presentato al cancello d’ingresso.» «Che cosa dice il medico forense? È possibile ricavare il DNA del braccio e capire di chi è?» «Beecher, non possiamo coinvolgere la polizia del Distretto di Columbia: quella lavora per il sindaco, non per noi. L’FBI d’altra parte attirerebbe la stampa, e noi perderemmo il controllo dell’indagine.» «Mi stai dicendo che il presidente non può avere il suo...?» «Mi ascolti o no?» sbotta A.J. «Al momento, il Rose Garden è protetto da un telone blu e da un cartello che dice che si sono rotti gli irrigatori. Questo ci permetterà di mantenere integra la scena del crimine e di evitare che tutti i giornalisti del paese vengano a ficcare il naso nel giardino della Casa Bianca, giocando a fare i nuovi Woodward e Bernstein. Fra due ore l’ufficio dell’Usciere annuncerà che nella sala da biliardo al terzo piano della residenza la carta da parati si sta staccando e che pertanto sarà necessario sostituirla e anche cambiare la moquette. L’arrivo degli operai ci offrirà una scusa perfetta per trasferire il presidente e la first lady in un posto sicuro fino al termine dei lavori.» «La stampa non sospetterà nulla?» «Dirà le solite cose che dice quando ci sono lavori di manutenzione, e cioè che stiamo costruendo un altro bunker segreto. Ma, fidati, il presidente Obama ha ristrutturato la sala dei trattati; Bush la sala stampa; Clinton quella per la musica. Non hai idea di quante indagini abbiamo condotto, con la scusa di «migliorare la residenza». «Quello che sta cercando di dire», aggiunge il presidente mentre A.J. torna alle sue telecamere di sorveglianza, «è che lo scopo del Culper Ring è proprio questo. È un piccolo circolo di persone fidate, Beecher. E voglio che rimanga tale.» È un discorso impeccabile, tenuto da un imbonitore impeccabile. Se faccio il bravo, otterrò quello che sto cercando nel modo più lineare. Figurarsi... Quando mai le cose sono così semplici con Wallace? So
che racconta un mucchio di balle. Sempre. E, purtroppo, più grosso è l’orso, più grossi sono gli artigli che nasconde. Tutto deriva dal suo odio per il Ring: sappiamo quello che fece ai tempi del college, quando mandò in coma un ragazzo con una mazza da baseball e una chiave d’auto. Se lo lascio entrare, gli offro un’ottima occasione per distruggere il Culper Ring dall’interno. Ora, però, lui ha ciò che mi interessa. E io – grazie al Ring e alla sua capacità di mantenere i segreti – ho quello che interessa a lui. Per molto meno, in questa città sono state costruite relazioni durate una vita intera. «Fai bene ad andarci cauto. Non abbiamo fatto molto per guadagnarci la tua fiducia», aggiunge il presidente. Lo so che in fondo è il suo lavoro, ma a volte dimentico la sua inquietante capacità di leggere nel pensiero. E di mobilitare la gente. «Beecher, hai mai sentito parlare del Courtyard Café?» domanda. Scuoto la testa. «Durante la guerra fredda, quando i russi tenevano i missili nucleari puntati contro di noi – e noi i nostri contro di loro –, il loro bersaglio esatto in realtà era un baracchino, un chiosco di hot dog nel cortile centrale del Pentagono. Si chiama Courtyard Café. Naturalmente non stupisce che mirassero al Pentagono, ma per anni abbiamo cercato di capire come mai avessero scelto proprio quel chiosco. Pronto a sentire la risposta? Perché attraverso tutti i loro satelliti vedevano entrare e uscire di lì i nostri generali più importanti, ogni santo giorno. Avanti e indietro, in continuazione. Mosca spese milioni per studiare quel posto e alla fine decise che era l’ingresso di una sala briefing sotto il Pentagono. Ora sono passati molti anni, ma sai qual è il vero motivo per cui i generali andavano sempre lì? Perché vendevano caffè a buon mercato e hot dog molto buoni.» «Quindi a volte un hot dog è solo un hot dog?» domando. «E a volte, quando qualcuno dice che ha bisogno del tuo aiuto sta davvero cercando il tuo aiuto», dice il presidente abbassando lo sguardo sul piatto vuoto su cui prima era posato il Lemon square. Ora c’è la foto della monetina appiattita dell’unità di Nico. E di mio padre. Loro sanno come è morto davvero mio padre. E perché. «Quando quei fascicoli, i fascicoli sui Plankholders, saranno prelevati dagli archivi, li voglio. Devo vederli», insisto. «Se le interessa il mio aiuto, me lo deve promettere.» «Capisco. Conosci così bene la storia, ma sai così poco della tua», replica il presidente. «Eppure, checché tu ne pensi, vogliamo tutti la stessa cosa», aggiunge, cercando di risultare rassicurante. Non funziona. Non mi fido di lui. Neanche un po’. Ora, però, se voglio avere i fascicoli di mio padre e sapere che cosa c’entrano con questo braccio sepolto, ho un solo modo per ottenerli. È rischioso? Certo. Anche se allinearsi alla volontà del presidente offre opportunità straordinarie, soprattutto se si vuole mostrare al mondo che persona è veramente. Sotto il comando di Tot, il Culper Ring è stato fatto a pezzi. Questa è la nostra occasione per ricostruirlo, per renderlo più efficiente che mai. Il Ring se lo merita. Ho ancora in mano l’immagine del trombettista di profilo. È talmente sfocata che non si capisce neppure se sia maschio o femmina, né tanto meno di che colore abbia i capelli. Ma leggo il suo linguaggio del corpo. «Non è Nico. E neppure Clementine.» «Per quel che ne sappiamo, potrebbero averlo ingaggiato perché si intrufolasse qui dentro», osserva Francy. «Forse però Nico e Clementine non c’entrano niente», obietto io. «Ne sei davvero convinto?» domanda il presidente. «Pensa ai discorsi di Nico sul destino e la storia e su come Dio l’abbia scelto perché uccidesse un presidente. Tre settimane fa, Clementine è andata a trovarlo; due ore dopo, era fuggito e scomparso nel nulla. Ora, guarda un po’, troviamo delle parti di corpo umano alla Casa Bianca. Suvvia, Beecher, un conto sono le coincidenze, un altro...»
«Francy, vieni a vedere», esclama A.J. facendole cenno di avvicinarsi alla TV. La donna lo raggiunge immediatamente; i loro volti protesi a fissare le immagini delle telecamere brillano alla luce del monitor. Entrambi rimangono immobili per trenta secondi buoni. A.J. digita su una tastiera perché il filmato di una sola telecamera occupi l’intero schermo. «Forse potrebbe interessare anche a te», dice A.J. voltandosi nella nostra direzione. «Non ora», lo rimprovera il presidente. «Non intendevo lei, signore, ma lui.» Mi sta indicando. «Non c’è dubbio, abbiamo un problema», aggiunge Francy, con gli occhiali da lettura che fremono mentre punta il dito sullo schermo. Davanti al cancello principale di Pennsylvania Avenue, sul lato opposto della strada rispetto alla Casa Bianca, c’è una figura solitaria, le mani infilate nelle tasche. Indossa un berretto di lana e tiene il capo chino, ma è impossibile non riconoscerlo. Oh, merda. Che cosa ci fa qui?
14.
Esco rapidissimo dall’ala est, mi faccio largo fra una folla di visitatori in attesa di fare un tour della Casa Bianca, giro bruscamente a sinistra sulla East Executive Avenue e per poco non vado a sbattere contro una donna di mezza età che sta scattando una foto con il cellulare. Il presidente non ha detto una parola quando me ne sono andato; tutti vogliono sapere perché è venuto qui. «Mi scusi!...» urlo, alzando una mano contrito, mentre percorro la via controcorrente. «Stia attento!» sbraita un padre con due bambini piccoli, mentre gli taglio la strada, quasi travolgendo un’altra persona. All’improvviso, però, qualcuno mi afferra per il polso, prendendomi davvero alla sprovvista. Me lo stringe forte. Cerco di divincolarmi. Lui aumenta la stretta, conficcando il pollice alla base della mia mano. Sento una scossa elettrica nel gomito. Mi si addormenta il braccio. «Che cosa fai?» sibilo, girandomi infine a guardarlo. I suoi occhi all’ingiù, del colore del vino bianco, mi fissano. Il volto cascante, con la pelle simile a stucco, sembra particolarmente cereo sotto il sole. Eppure, ustioni a parte, conosco quella faccia sin da quando eravamo bambini e giocavamo nella sua casetta sull’albero. “Non qui. Fatti furbo”, insistono i suoi occhi di fuoco. «Guarda quello!» dice qualcuno vicino a noi. Mi volto, e due adolescenti sovrappeso distolgono subito lo sguardo. Sulla nostra destra, una donna anziana strattona il braccio del marito, cercando di farlo girare nella nostra direzione. È la vita quotidiana di Marshall: fingere di non accorgersi degli sguardi della gente. Abbassa la testa e mi guida in mezzo alla ressa, diretto all’area pubblica di Pennsylvania Avenue. Cerco ancora di divincolarmi, lui preme di nuovo sullo stesso punto del polso. «Che cosa ci fai qui?» domando. Scuote la testa, alzando lo sguardo verso un lampione vicino. Una telecamera di sorveglianza ci osserva dall’alto. Me ne ero quasi dimenticato: Marshall si guadagna da vivere entrando di nascosto negli edifici. Ovvio che sa dove sono le telecamere. Si fa largo fra la gente senza andare a zigzag: tira diritto. Alcuni lo vedono, altri lo sentono arrivare. Ecco perché è così bravo nel suo lavoro. Arriva l’uomo con il viso bollito. Per timore o per pietà, tutti si fanno da parte. «Lo sai che ti hanno visto, vero? Da dentro, attraverso la telecamera», gli dico mentre attraversiamo Pennsylvania Avenue diretti a Lafayette Square. Si ferma davanti a una statua di bronzo. Non quella grande al centro del parco, che ritrae un fiero Andrew Jackson a cavallo, bensì quella più piccola, sistemata in un angolo, che rappresenta lo stesso generale Lafayette in posa da oratore. «Non dovrebbe fregargliene nulla», ribatte Marshall, la voce scricchiolante come vetro rotto. La sua postura militare è perfetta, mentre scruta attentamente la zona: è il lupo di sempre. «Certo che gliene frega. Sanno che cosa sei!» «E cosa sarei, Beecher?» Faccio una pausa, scelgo le parole con cura. Fino a poche settimane fa era scomparso dalla mia vita. Poi è tornato per darmi una mano ad affrontare una delle mie prime indagini per il Culper Ring,
aiutandomi persino a scoprire l’autore di un vecchio omicidio e a fermare un serial killer. «Hanno visto quello che fai. Al Lincoln Memorial... forse è vero che stavi cercando di proteggere il presidente, ma hai pur sempre ammazzato il cecchino. Non mi risulta che amino molto vedere sospetti assassini che si aggirano davanti alla Casa Bianca.» «Non è di me che dovrebbero preoccuparsi», obietta Marshall, abbassando lo sguardo e toccando con il piede una macchia sull’asfalto. «È qui, proprio dietro di me.» Guardo oltre le sue spalle. A sinistra: un clochard trascina un carretto rosso arrugginito pieno di vecchi giornali. A destra: un turista calvo con una vecchia macchina fotografica al collo. «Il turista», continua Marshall. «Quando A.J. ti ha tirato fuori dal furgone e ti ha portato nella Casa Bianca, il turista ti stava osservando dal lato opposto della strada. Ha scattato delle foto.» «Cosa? Credevo fossi...» Guardo di nuovo Marshall. «Ti avevo detto di non farti vedere... di ascoltare dal telefono e basta. Perché sei venuto prima?» «Stavo cercando proprio un tipo come lui», dice, continuando a dare le spalle al turista. «Ma possibile che tu non capisca? Ora che il presidente ti ha visto... adesso sa che lavoriamo insieme...» «Per piacere, Beecher. Wallace è scemo, secondo te? Sa che gli abbiamo salvato la vita il mese scorso. Sa che mio padre era nella stessa unità di tuo padre e di quello di Clementine, e che è questo che ci lega a Nico. Credi davvero che non sappia che ti sto aiutando?» Scuote la testa, ma ha la pelle talmente rigida che il volto sembra una maschera. «Dimmi solo questo: hai avuto i fascicoli o no?» «Appunto. Non credo che siano quelli il problema.» In pochi minuti ragguaglio Marshall sulle novità, gli racconto del braccio sepolto trovato dalla first lady... della monetina nascosta nel pugno... persino del trombettista chiamato Alek Hidell. Per trenta secondi buoni rimane lì immobile, con gli occhi che ora guizzano avanti e indietro fra me e il turista calvo, che è ancora dall’altra parte del prato. Marshall si risistema i guanti neri. Non fa così freddo. Li usa per nascondere le ustioni sulle mani. «Credono sia stato Nico?» domanda alla fine. «Sì.» «Tu no?» «Dimmelo tu. Secondo te, Nico e Clementine sono in grado di introdursi nei terreni della Casa Bianca e di nascondere un braccio nel Rose Garden?» «Non senza un aiuto.» «Esatto», concordo. «Adesso capisci qual è il problema.» «Insomma, Wallace non si fida più dei suoi stessi servizi segreti?» «Si fida di alcuni agenti e basta. Di sicuro, di A.J. e di questa tipa di nome Francy. Anche se da quel che dice...» «Vuole aiuto dal Culper Ring», conclude Marshall, scettico. «Fidati, neppure io gli credevo.» «Mentre adesso ti fidi?» «Da quanto tempo ci conosciamo? Wallace mente. Sempre. E lo fa in modo da darti l’impressione di farti un favore.» «Quindi sei tu nel mirino, secondo te?» «Non sono abbastanza importante.» «Non esserne troppo sicuro», replica lui. «Sei stato tu a scoprire il suo segreto: quella notte con la mazza da baseball.» «Non sono ancora in grado di provarlo.»
«Per ora.» Annuisco. «Ecco perché il presidente vuole sbarazzarsi del Ring: sa che siamo potenzialmente pericolosi. Soprattutto per lui.» Marshall capisce. Da oltre duecento anni il Ring è coinvolto in ogni battaglia, dalla rivoluzione americana a Gettysburg, da Hiroshima al recupero degli ostaggi in Iran. Persino nelle condizioni attuali, i pochi membri che rimangono sono in grado di fare miracoli. Wallace non vuole che i miracoli si ritorcano contro di lui. «Perciò sta facendo questa cosa per portarti dalla sua parte», osserva Marshall. «O forse sta cercando di farci fuori tutti quanti. Io so solo che noi vogliamo i fascicoli dell’unità dei nostri padri, e quelle carte sono nelle sue mani. Almeno in questo modo otteniamo ciò che vogliamo e, inoltre, abbiamo l’opportunità di tenere d’occhio lui. Neppure Tot era riuscito a ottenere tanto. È la nostra opportunità: rafforzare il Ring e ricostruirlo.» Marshall si guarda i guanti, senza però riaggiustarseli. «Beecher, che cosa pensi di trovare in quei fascicoli?» «Non sono sicuro di aver capito la domanda.» «Nei fascicoli dei Plankholders. Dei nostri padri. Mio padre tornò senza gambe. Ora che è morto, voglio capire che cosa gli è successo in quella unità. E immagino che tu voglia sapere come è morto tuo padre...» «O se è stato ucciso.» «È naturale. Chiunque vorrebbe saperlo. Ma i rischi che corri...» Si interrompe un istante. «Non si tratta solo di quei fascicoli, vero? Stai cercando anche qualcos’altro.» A volte dimentico da quanto tempo ci conosciamo. E quanto sia rapido nel capire che sto mentendo. «Non so di cosa tu stia parlando.» Marshall rimane lì in silenzio, lanciando un’altra occhiata al turista calvo con la macchina fotografica. «Secondo te, il presidente è stato sincero riguardo al braccio?» riprende dopo qualche secondo. «Come dicevo, non è mai sincero. Ma avresti dovuto vedere la faccia della first lady. Si tratta di un braccio mozzato. Non aveva neppure voglia di guardare la foto. Inoltre, quando Wallace ha detto che era stata sua moglie a trovarlo... aveva una rabbia nella voce... Su certe cose neppure un politico disgustoso come lui riesce a mentire.» Marsh sta ancora tenendo d’occhio il turista calvo. «Sai qual è il vero segreto per diventare presidente?» Me lo spiega senza darmi il tempo di rispondere: «La bravura nell’indurre gli altri a fare cose per te. Anzi, la bravura non basta. Bisogna essere maestri. Virtuosi. Per ottenere il titolo di presidente, bisogna avere migliaia di persone che compiono migliaia di azioni diverse, tutte a tuo vantaggio. È un enorme tritacarne. E sai chi ci finisce dentro?» domanda. «Persone come te, Beecher. Si ciba della tua vita, della tua famiglia e della tua reputazione. Perché quando le cose vanno male – e finiscono sempre male – il presidente non può sentire la puzza di marcio. Quando succede, lui non si limita a sostituirti. Lui ti appallottola e ti getta nel tritatutto. Zac zac.» «Hai un’idea molto grafica della politica.» «Un’idea realistica. Devi muoverti con la massima astuzia.» «Lo sto facendo. Credi che non mi sia accorto della magica coincidenza? Il braccio, guarda caso, stringe in pugno una monetina che, pensa un po’, appartiene all’unità dei nostri padri. Il tritatutto non è una prospettiva futura, Marshall. È già in funzione. A prescindere da chi ha fatto questa cosa – Nico, Clementine o qualche loro collaboratore alla Casa Bianca – so bene che stanno aspettando di tritare anche noi. Con ciò, intendo anche lo stesso Wallace. Si farà aiutare da noi, dopodiché sarà il primo a gettarci nella spazzatura.» «Ma da come parli, sembra che il presidente ti abbia convinto...»
«Wallace non mi ha convinto a fare un bel niente. Io mi trovo esattamente nella posizione in cui voglio essere. L’unico modo per scoprire che cosa è successo ai nostri padri è stare dalla sua parte. Adesso dimmi tu che cosa è più saggio fare, secondo te: andare via a mani vuote o schivare qualche lama rotante, pur di cercare di fregargli il portafogli?» Marshall rimane lì immobile, con l’espressione indecifrabile di sempre. «Allora che cosa facciamo con quello?» domando, accennando al turista calvo. Marshall non ha esitazioni. Impavido come sempre, gira i tacchi e gli va direttamente incontro. «Tu!» urla. «Hai bisogno di qualcosa?» Il turista distoglie lo sguardo, confuso. «Chi, io?» «Non cercare di prenderci in giro», lo avverte Marshall. «Ti ho visto sul lato sud della Casa Bianca e adesso qui. Allora, te lo chiedo per l’ultima volta», aggiunge fissandolo minaccioso. «Hai bisogno di qualcosa?» L’espressione confusa dell’uomo si muta in rabbia. È basso di statura e muscoloso, ha il fisico di un giocatore di rugby, e il naso storto non fa che confermare l’ipotesi. Ma quando ci avviciniamo, i tratti più inquietanti del suo volto sono gli occhi a fessura e le sopracciglia bianchissime. Sembra il fantasma di Andy Warhol. Estrae qualcosa dalla tasca pettorale. “Se è una pistola...” Marshall gli si avventa contro. Gli afferra il polso. Cerca di schiacciare lo stesso punto che mi aveva fatto addormentare il braccio. Ma, senza neppure battere ciglio, l’uomo riesce a liberare il braccio e preme il pollice sul collo di Marshall. Il quale, con un verso strozzato, si afferra la gola e inciampa all’indietro. Non ho mai visto qualcuno muoversi così in fretta, neppure Marshall. «Servizi segreti!» sbraita lo sconosciuto mostrando il distintivo. Non dovrei essere stupito. Sono anni che i servizi usano trucchi degni di Disney World, travestendo i loro agenti da turisti perché possano andare in giro a origliare fra la gente. Ma quando guardo Marshall, vedo che è piegato in avanti, più incazzato che mai. Scruta l’agente socchiudendo gli occhi. Vede qualcosa che non gli piace affatto. Non posso dargli torto. Neanche dieci minuti fa, in quel nascondiglio sotto la Casa Bianca, il presidente mi stava dicendo che c’è una mela marcia nei servizi segreti. Poi, di punto in bianco, un loro agente decide che il modo migliore di impiegare il suo tempo è fotografare A.J. mentre mi accompagna dentro. «Fuori i documenti! Tutti e due!» bercia l’uomo calvo. È più giovane di noi. Quando gli allungo la carta di identità, noto la spilla dei servizi segreti con fondo arancione sul bavero della sua giacca. «Datti una calmata. Stiamo dalla stessa parte», dice freddamente Marshall, tirando fuori la patente e la carta d’identità governativa che utilizza quando entra in un edificio pubblico e viene interrogato. «La prossima volta magari potresti identificarti un po’ prima», aggiunge squadrando in volto l’agente. «Sennò rischi che qualcuno ti spezzi un braccio.» «Stavo per dire la stessa cosa del tuo collo», replica quello. Pochi secondi dopo sono già petto contro petto, due ego a confronto. La maggior parte delle persone, quando si trova così vicino a Marshall, distoglie lo sguardo. Andy Warhol non sembra turbato. «Okay, adesso mettete da parte il macho che è in voi», intervengo separandoli e frapponendomi fra loro. D’acchito, Marshall mi restituisce la spinta, come se avesse voglia di fare a botte, ma subito dopo lascia perdere. L’agente calvo osserva attentamente i nostri documenti. Alla fine, non può fare altro che restituirceli.
«La prossima volta tenete presente dove vi trovate», ci avverte, indicando la Casa Bianca e lanciandomi la carta d’identità. Senza aggiungere altro, si avvia sulla stradina che attraversa il parco, mentre noi restiamo a osservarlo. È diretto verso la Diciassettesima Strada. «Non pensi sia dei servizi segreti, vero?» domando alla fine. Marshall non risponde. «Ho visto che gli hai rubato la spilla, Beecher.» Ovvio che mi ha visto. A Marshall non sfugge nulla. Estraggo dalla tasca la spilla arancione che gli ho staccato dal bavero. Tutti gli agenti della scorta del presidente indossano una spilla dello stesso colore per potersi riconoscere facilmente in mezzo a decine di uomini in giacca e cravatta. «A.J. ne aveva una con lo sfondo blu», dico. «Questa qui è arancione.» «È un problema?» «L’anno scorso agli Archivi Nazionali abbiamo organizzato una mostra sulla storia dello staff presidenziale. Abbiamo esposto tutte le spille di questo tipo, di foggia e dimensione diversa, a seconda degli anni.» «Insomma, questa spilla arancione ti dice qualcosa?» «Dell’arancione non me ne frega niente. Quello che mi interessa è questo», dico girando la spilla. Sul retro è inciso un numero di sei cifre. «Ogni spilla è numerata e registrata. Quando la identificheremo, sapremo se lui è davvero quello che dice di essere.» «Pensi che sia il nostro trombettista mancante?» «La foto era troppo sfocata. Ma potrebbe esserlo.» Marshall annuisce, stringendo le labbra ustionate una contro l’altra. «Pronto a scoprire dove sta andando?» aggiungo. Marshall estrae il telefonino e apre una app che fa comparire una cartina sullo schermo. Lafayette Square è rappresentata da un rettangolo con un ovale al centro. Un puntino luminoso verde indica la nostra posizione, uno rosso l’agente dei servizi segreti calvo che mi sorvegliava mentre entravo alla Casa Bianca. Quando Marshall è tornato nella mia vita e mi ha aiutato a salvare il presidente, l’ho invitato a entrare nel Culper Ring. Lui mi ha detto di no. Questo però non gli ha impedito di richiedere un beacon, un piccolo trasmettitore argenteo che gli ho visto infilare nella tasca della giacca dell’agente nel corso della piccola zuffa. È il più semplice fra gli strumenti tecnologici a disposizione del Culper Ring. E tra i più efficaci. «Posso farti un’ultima domanda?» chiedo a Marshall, che tiene gli occhi incollati allo schermo, osservando il puntino rosso attraversare il parco. «Mi hai visto entrare dall’ingresso sud della Casa Bianca, ma poi A.J. mi ha fatto uscire dal lato nord, dove tu sembravi aspettarmi. Come facevi a sapere che sarei uscito di lì?» «È l’ingresso riservato al pubblico, ho tirato a indovinare», risponde Marshall. L’agente calvo è ormai lontano. La lucina rossa sul telefono si sta dirigendo rapidamente verso la Diciassettesima Strada. Dalla velocità con cui si muove, si capisce che sta correndo. «Sta fuggendo dalla Casa Bianca», commenta Marshall. «E dal quartier generale dei servizi segreti», aggiungo, mentre ci lanciamo all’inseguimento. Svignatela pure veloce quanto vuoi, Andy Warhol. Noi vediamo dove stai andando.
15.
Ventinove anni fa Lawton, Oklahoma Alcuni credono di sapere quando moriranno. Alby White era uno di quelli. Naturalmente, ignorava come sarebbe successo di preciso – in un incendio, in un incidente automobilistico o per un infarto – ma a ventidue anni aveva una convinzione: sarebbe morto giovane. Era la prima volta che saliva su un aeroplano (gli piaceva l’idea). Era anche la prima volta che viaggiava in prima classe (ancora meglio). Sarebbe stato anche il suo primo incidente aereo. «...fra circa dieci minuti dovremmo atterrare puntualmente in Oklahoma», annunciò il pilota, con una voce calma da nonno. «Per oggi sono previsti venti moderati e gradevolissime temperature intorno ai trenta gradi. Il personale di volo è pregato di prepararsi all’atterraggio. Vi auguro una splendida giornata nel...» «...nell’esercito degli Stati Uniti!» urlò l’impertinente irlandese dai capelli rossi dall’altra parte del corridoio. Alby l’aveva conosciuto all’imbarco, o meglio, aveva cercato di attaccare discorso. L’irlandese l’aveva scansato, preferendo chiacchierare con quel prototipo di recluta americana dalle spalle squadrate che stava in cima alla fila. Sembravano entrambi di qualche anno più giovani di Alby. Ragazzini appena usciti dalla scuola superiore. Certe cose però non cambiavano mai. I ragazzi fighi conoscevano solo altri fighi. E non davano mai retta a lui. Nell’ultimo anno delle superiori, ma anche alle medie e persino nei primi anni delle elementari, Alby non era mai stato preso di mira dai bulli della scuola. Era relegato a un livello ancora più basso di impopolarità: veniva ignorato. Peggio ancora, sapeva di essere ignorato. Quando fra ragazzi si parlava degli anni di scuola nel Minnesota, c’era sempre qualcuno che diceva: «Non mi ero neppure accorto che fossi in classe con noi». Per Alby quella era la vita, finché non aveva conosciuto Teresa, la prima ragazza che l’avesse davvero notato. Il primo giorno di scuola lei indossava una giacca di jeans su cui aveva attaccato una spilletta rotonda di Charlie Chaplin con un paio di occhioni finti. Ora del decimo giorno di scuola, la spilla era sul petto di Alby. Teresa sapeva che lui era timido, ma gli aveva detto che Chaplin dimostrava che persino le persone silenziose potevano essere delle star. Alby aveva riso del commento sdolcinato, ma non si era mai tolto quella spilla. La madre di Alby aveva detto al figlio di stare attento, ma lui e Teresa, come molti ragazzi di provincia, avevano grandi progetti; poi, appena dopo il ballo di fine anno, lei aveva fatto un test di gravidanza e visto un segno «più». Il Minnesota era uno stato progressista. La famiglia di Teresa no. Quattro anni dopo lei e Alby avevano due bambine e un neonato. Un maschietto di nome Beecher. Poi una figlia si era rotta la clavicola e a sua madre era venuto il Parkinson, così Alby aveva pensato di arruolarsi nell’esercito. Nella maggior parte degli impieghi, quando fai la dichiarazione dei redditi, puoi aggiungere la moglie e i figli come persone a carico; l’esercito ti permette di includere anche la madre che porta il pannolone e ha tremori così forti da non essere più in grado di tenere la forchetta in mano. Ma non era solo per quello che Alby aveva scelto di entrare nell’esercito.
«Allora vai all’addestramento di base, eh?» aveva domandato dal banco del check-in una hostess di terra dal viso affilato e con un paio di tette ugualmente aguzze. «Come fa a saperlo?» aveva chiesto Alby. «La busta», aveva risposto la donna, indicando il grosso incartamento marrone che lui stringeva al petto. Sull’aereo c’erano altre tre reclute. Avevano tutte lo stesso atteggiamento: fingevano di essere calme, indossavano T-shirt e tenevano stretta al petto la busta con l’ordine di presentarsi a Fort Sill, Oklahoma. «Mio fratello è stato nell’esercito per due anni», aveva aggiunto la hostess, consegnando a Alby un upgrade a sorpresa per passare in prima classe. «Goditi un po’ più di spazio per le gambe.» Mentre lui ringraziava e si accingeva a percorrere il corridoio d’imbarco, si era tastato la tasca per accertarsi che ci fosse ancora la spilletta di Chaplin con gli occhi a palla. L’aveva con sé quando erano nati tutti e tre i suoi figli. Era ovvio che se la portasse anche lì. In teoria, il posto accanto al finestrino a sinistra era suo, ma se l’era preso l’irlandese chiamato Timothy Lusk per stare vicino al suo nuovo amico, il prototipo di giovane americano dai capelli neri già perfettamente tagliati alla foggia militare. Nel gioco della vita c’erano i vincenti e i perdenti. Alby sapeva che il ragazzo con il taglio militare era un vincente. Aveva letto il nome sulla busta. Nicholas Hadrian. «Chiamami Nico», aveva detto stringendo con decisione la mano di Alby. «Ti ho rubato il posto?» «Veramente, il suo sarebbe quello», si era intromesso l’irlandese – Timothy – indicando il sedile singolo vicino al finestrino dall’altra parte del corridoio. Alby stava per replicare. Avrebbe voluto. Ma non l’aveva fatto. «Scusa, dovrei passare», aveva detto sottovoce la quarta e ultima recluta – un ragazzo pallido dai capelli rossi con chiare lentiggini sul volto preoccupato, mentre si sedeva sul sedile vicino al finestrino dietro quello di Alby. Stando a quel che c’era scritto sulla busta si chiamava Julian, anche se quando alla fine l’aereo prese fuoco, Alby se ne ricordava appena. «Di nuovo, grazie per aver scelto di volare con noi», aggiunse il pilota due ore più tardi, quando l’aereo cominciò la discesa finale. «Siamo felici di avervi a bordo. Atterreremo a momenti.» Assaporando ancora la novità dello stomaco in subbuglio e delle orecchie tappate, Alby schiacciò la fronte contro il finestrino, mesmerizzato dal paesaggio dell’Oklahoma che si avvicinava sempre di più. «Gesùgiuseppeemaria», disse Timothy dall’altra parte del corridoio. Come Alby, aveva un forte accento del Midwest. E come Alby, aveva un figlio neonato. Di nome Marshall. «La nostra nuova casa», aggiunse Timothy. Quando Alby si voltò, il giovane stava guardando fuori dal proprio finestrino. Il suo vicino di posto – Nico – se ne stava invece perfettamente composto: le spalle appoggiate allo schienale, le braccia posate sui braccioli del sedile, come se fosse un trono. All’inizio, Alby non capì bene che cosa stesse facendo. Che cosa stava guardando? Nico teneva lo sguardo fisso davanti a sé, con una croce d’oro attaccata al collo e un sorriso soddisfatto stampato in faccia. Alby non avrebbe mai dimenticato quel sorriso. Sugli aerei, la maggior parte della gente deve tenersi occupata. Leggendo un libro, sfogliando una rivista, insomma, facendo qualcosa. Quando però Alby guardò Nico, lui era lì seduto con il petto in fuori, il mento sollevato e il sorriso sulle labbra. Certe persone sono così sicure di sé da non aver bisogno di nulla. Possono semplicemente... essere. Quello di Nico era un sorriso pieno di gratitudine. Di entusiasmo. Di fiducia. Senza dubbio, Nico era un vincente. E mentre Alby lo osservava dal lato opposto del corridoio, non
poté fare a meno di raddrizzarsi sul sedile e di buttare il petto in fuori. Alla scuola superiore, un insegnante di storia gli aveva detto che ogni vita è costruita come un monumento. Alby aveva sperato di posare il primo blocco di granito nell’esercito. Ma quando le spalle e la postura si afflosciarono, non si fece più illusioni, se lo sentì nel profondo: come dimostravano il suo matrimonio, la paternità e qualsiasi altro aspetto della sua vita disastrata, nessun momento era in grado trasformarti nella persona che avresti voluto essere. Appena le ruote toccarono terra, l’aereo tremò. Alby guardò fuori. Il velivolo procedeva a scossoni, con i freni stridenti. Un atterraggio maldestro. Nico aprì gli occhi e l’irlandese seduto accanto a lui gli batté delicatamente un cinque. «Benvenuti nel resto della vostra vita», bisbigliò Nico fra sé e sé. Alby si girò indietro e sbirciò attraverso la fessura fra il sedile e il finestrino, cercando di intercettare lo sguardo della quarta recluta. Non ebbe fortuna. Julian stava guardando fuori dal finestrino. Tutto ciò che ricevette fu un cordiale cenno del capo da parte di una coppia di anziani seduti dall’altra parte del corridoio, una fila dietro la sua. Erano gli unici passeggeri in prima classe, oltre alle quattro reclute. Mentre sorrideva debolmente ai due anziani, Alby non poté accorgersi di quello che stava accadendo sulla pista. L’aereo si stava dirigendo verso il gate e lui non vide il camion di benzina guidato ad alta velocità da un uomo in preda a un attacco epilettico, finché questo non andò a schiantarsi contro una fiancata del velivolo, appena sotto l’ala. Nel microsecondo precedente l’impatto, si udirono urla provenienti dal lato destro della cabina posteriore. «Attenzione!» urlò una donna. Non servì. Lo scontro fra il camion e l’aereo produsse un rumore di denti metallici che si schiantano l’uno contro l’altro e creò uno squarcio tremendo nel ventre del velivolo. Un attimo prima Alby stava procedendo in avanti; poi, all’improvviso, gli parve di essere sospeso in aria privo di peso, come un astronauta. Ogni ciocca dei suoi capelli biondi si agitava come se fosse sott’acqua. Per un istante rimase in volo; poi, quando la forza di gravità e il movimento tornarono, fu scaraventato verso sinistra. La cintura di sicurezza gli stringeva il fianco e lui aprì la bocca per urlare. Il suono gli rimase bloccato in gola. «Il camion!... Il carburante!» gridò qualcuno. «Adesso espl...» All’esplosione fece seguito una vampata a forma di fungo, che inghiottì la metà inferiore dell’aereo. Il fumo irruppe nella cabina invadendo il corridoio centrale come un’ondata nera. La porta dell’abitacolo del pilota rimase chiusa, non uscì nessuno. Le grida provenienti da dietro erano assordanti. Si dice che nei momenti di crisi tutto sembra succedere al rallentatore, perché il cervello fatica a elaborare troppe informazioni in una volta sola. Di conseguenza, il tempo rallenta per permetterci di digerire ogni emozione, il dolore e la realtà. Soffocato dal fumo, Alby non vide nulla al rallentatore. Per lui stava accadendo tutto troppo in fretta. Aveva ventidue anni. Era finita. Era arrivata la sua ora. L’unica immagine che gli era rimasta impressa nel cervello era quella della hostess con le tette a punta. Si udì uno scatto metallico proveniente dalla parte opposta del corridoio. Nico aveva sganciato la cintura di sicurezza ed era corso verso l’uscita principale. Alby non riusciva a vedere molto. Sentì rumori di calci e pugni contro il portellone. Nico stava cercando di forzare la serratura a chiavistello con le dita. Poi, dopo un forte clic... Un’esplosione di luce solare fendette il fumo vorticoso e compatto – uno splendido tornado – che fu risucchiato all’esterno dal cambiamento di pressione nella cabina. Nico balzò fuori e scomparve. Subito dopo, il ragazzo irlandese prese a urlare e a correre all’impazzata verso l’uscita, dileguandosi a sua volta. Non erano passati neppure venti secondi. Si
udivano delle sirene lontane, miste ai lamenti dei passeggeri della cabina principale che lottavano per liberarsi. Alby percepì un altro scatto metallico alle proprie spalle, quando la recluta dai capelli rossi si slacciò la cintura e si precipitò verso l’uscita. «Mio Dio! Le fiamme!» urlò Julian, guardando fuori. Si girò verso Alby, intercettando il suo sguardo. «Vieni via...! Devi uscire!» Si lanciò fuori e sparì. Alby aveva i polmoni surriscaldati. Il fumo nero gli impediva di vedere alcunché. Stava strattonando la cintura, ma inutilmente. Era bloccata. Fuori strepitavano le sirene, ma erano molto più forti le urla della gente intrappolata nella cabina principale dietro di lui. Stavano bruciando vivi? Sentiva odore di benzina e fumo. «Jonathan...!» gridò l’anziana alle sue spalle. Attraverso la cortina di fumo, intravide la coppia di anziani dall’altra parte del corridoio. La donna stava scuotendo le spalle del marito. Lui era immobile. Alby diede uno strattone alla cintura e riuscì a sollevare la fibbia, ma non a sganciarla. L’alzò un’altra volta e un’altra ancora. L’impatto dello scontro... Perché non funzionava? «Ti prego, Jonathan!» supplicava l’anziana. Le lacrime offuscarono gli occhi di Alby. Il fumo gli provocava una tosse così violenta che gli uscì uno spruzzo di muco dal naso. Si sentiva bruciare i polmoni. Mentre strattonava di nuovo la cintura, non poté fare a meno di guardare la donna. Non piangeva più. Teneva gli occhi chiusi. Sconfitta. Si era arresa. Alcuni pensano di sapere come moriranno. Mentre Alby si dibatteva sul sedile, aveva in mente solo quello che gli aveva detto la moglie alla stazione dell’autobus. Con il viso rigato di lacrime, gli aveva accostato le labbra all’orecchio e gli aveva bisbigliato che non sarebbe tornato mai più. La cosa più triste era che nell’istante in cui la sua donna aveva pronunciato quelle parole, lui aveva avuto la certezza che fossero vere. Fuori dal finestrino, un ultimo fungo di fumo eruttò nell’aria. Alby afferrò la fibbia con la punta delle dita e si apprestò ad allargare lentamente la cintura per liberarsi dalla sua morsa sollevandosi sul sedile, finché si fu allentata a sufficienza. Era libero! “Esci!” intimò a sé stesso. Barcollando come uno zombie lungo il corridoio, si diresse verso la parte anteriore della cabina, verso la luce del sole. Il frastuono delle urla e delle sirene era soffocato dal battito del suo stesso cuore, che gli martellava nel petto, scuotendogli i denti. Si girò a guardare i due anziani, seduti in silenzio sui loro sedili. La donna lo implorò con occhi azzurro chiaro, sgranati, il viso bianco come un cadavere. Avrebbe voluto urlare. Desiderava aiutarli, ma se l’avesse fatto... «Salta giù!» gridò qualcuno. Non proveniva da fuori. Era la voce nella sua testa. Alby non se ne rese neppure conto. Obbedì senza pensare. Troppo impaurito per lanciarsi, si prese il viso fra le mani e uscì alla cieca nel fumo vorticoso. Mentre precipitava dall’aereo e il mondo si oscurava, non riuscì a pensare ad altro che a quella donna che stringeva la mano del marito.
16.
Oggi Washington, D.C. «Marshall aspetta!» urlo. Lui non mi ascolta. Continua a correre a rotta di collo, tenendo d’occhio al contempo la lucina rossa sul cellulare, che ha già superato alcuni isolati. Comincio ad avere il fiatone, a furia di inseguire il presunto agente dei servizi segreti dalle ciglia bianche che mi stava sorvegliando fuori dalla Casa Bianca. Ma quando la lucina fa dietrofront in H Street e gira a destra sulla Nona Strada, so che è solo l’inizio della sofferenza. Giunto al limite della distanza di sicurezza e davanti al traffico intenso della Pennsylvania Avenue, Marshall smette di correre. È esausto, ma non sudato. Prima pensavo che fosse per via dell’addestramento militare, ma la verità è che le ustioni, comunque se le sia procurate, si sono portate via anche le ghiandole sudoripare. Di conseguenza, suda solo sulla schiena e all’inguine, e ciò significa che il corpo non è in grado di autoregolarsi e non può rimanere esposto al sole. Marshall però è fatto a modo suo e non dice una parola. Neppure della persona che stiamo inseguendo. «Pensi che sia qui?» urlo. Lancia un’altra occhiata al telefonino, ma non ho bisogno di una mappa digitale per sapere dove mi trovo. Dall’altra parte della strada, su due isolati della città sorvegliati da enormi colonne corinzie, si erge l’edificio di granito e pietra calcarea che considero casa mia da quando ho cominciato a lavorare. Gli Archivi Nazionali. «Non dirmi che è lì dentro», dico. «Non è dentro», ribatte Marshall attraversando la strada a zigzag, in mezzo alla massa di veicoli che avanzano lentamente sul viale. Nessuno suona il clacson. Al contrario di quel che si pensa normalmente, Washington detesta i conflitti. Quando arriva al marciapiede opposto, Marshall non sta più guardando il cellulare. Qualsiasi cosa abbia subodorato, sa dove sta andando. «Lo vedi?» domando. Lui accelera il passo e corre verso l’ingresso. Avrà sicuramente notato qualcosa. Osservo la zona intorno alle porte girevoli. Vedo il solito miscuglio assortito di turisti, ma nessuno assomiglia a Ciglia Bianche. «Marsh, se lo vedi...» Passa davanti all’entrata principale, diretto alla fermata dell’autobus. Il resto del quartiere è deserto. Non ha senso. La lucina rossa sul telefono continua a lampeggiare. Guardo in basso. Sotto di noi non passa la metropolitana. Guardo in alto, verso le colonne e le finestre affacciate su questo lato di Pennsylvania Avenue. Marshall sta ancora correndo, poi si ferma davanti alla statua di pietra calcarea posta a sinistra dell’entrata principale degli Archivi. La scultura ritrae una giovane donna con lo sguardo sollevato dalle pagine di un libro aperto. Incastra un piede nel basamento della statua e allunga un braccio. Tasta le dita dei piedi intagliati e
afferra qualcosa. Fra l’alluce e il dito successivo c’è un piccolo beacon argenteo. Il nostro. «Ciglia Bianche l’ha trovato?» chiedo. «Non solo l’ha trovato. Sapeva anche a chi doveva restituirlo.» Indicando il palazzo, aggiunge: «Quell’uomo sa esattamente chi sei, Beecher». «Allora perché ci ha chiesto i documenti?» «Perché non sapeva chi fossi io. Così adesso gli abbiamo dato anche questa informazione.» Scuoto la testa, ancora ansimante. «Non sono sicuro che sia l’unico motivo per cui ha scelto questo posto», aggiungo indicando la base della statua. Sul davanti del blocco di pietra calcarea è inscritta una frase di Shakespeare: IL PASSATO È IL PROLOGO Conosco solo un sociopatico che lascia messaggi melodrammatici e inquietanti come questo. Lo stesso che, secondo loro, mi sta in qualche modo proteggendo. «Adesso pensi che Ciglia Bianche lavori per Nico?» domanda Marshall. «Mi sembrava avessi detto che Nico non sparge indizi.» «Non è un indizio. È il mantra di Nico. Nella sua testa bacata, è convinto di essere stato scelto dalla storia, di far parte dello stesso circolo segreto di John Wilkes Booth e Lee Harvey Oswald. Per lui, uccidere un presidente è destino.» «Questo non significa che Ciglia Bianche lavori per lui.» «Sono d’accordo. Potrebbe ispirarsi a Nico, o forse è solo uno svitato che, per puro caso, si diverte a seppellire parti di corpi umani nel Rose Garden.» Marshall non replica. Si limita a fissare oltre la mia spalla. «Che cosa stai facendo?» domando, seguendo il suo sguardo. Continua a osservare. «Pensi che Ciglia Bianche ci stia tenendo d’occhio?» aggiungo. «Al suo posto, io lo farei.» Per due minuti buoni, scruta tutti i veicoli, i turisti e gli autobus di passaggio. «Secondo me non è qui, Marsh.» «Lo vedo, ma a meno che tu non abbia un’idea migliore...» «Veramente, ce l’ho», replico tirando fuori la spilletta arancione staccata dal bavero della giacca di Ciglia Bianche. «Se vogliamo sapere chi è, questo è il modo migliore per scoprirlo. Vuoi venire con me?» Marshall non si muove. «Qual è il problema?» domando. «È la nostra occasione.» «Per fare che cosa? Te l’ho già detto, non siamo più nella casetta sull’albero. Non ho chiesto di entrare nel tuo circolo. Non voglio far parte di niente.» «Allora perché sei venuto alla Casa Bianca stamattina?» «Perché hai detto che forse avremmo potuto scoprire che cosa hanno fatto ai nostri padri.» «Ed è così.» «Continui a ripeterlo. Come continui a sostenere che è tutto collegato alla tua storia e a quella di tuo padre.» «Certo che è collegato alla nostra storia!» ribatto, cominciando a irritarmi. «Ed è solo per questo? Ti conosco dai tempi dell’asilo, Beecher. Dimmi che cosa pensi di trovare nei fascicoli dei nostri genitori.»
«Te l’ho detto, sto solo cercando di scoprirlo!» Scuote la testa, senza smettere di scrutare la strada. «Ho un amico giornalista che con i colleghi fa un gioco chiamato “Mangeresti un panino alla merda?”. Scelgono un caso importante e si chiedono a vicenda: “Mangeresti un panino alla merda pur di trovare i diciotto minuti e mezzo mancanti dei nastri di Nixon?”. E la persona in questione deve decidere se sarebbe disposta a farlo.» Più chiaro di così... Certe storie non vale neppure la pena di scoprirle. «È importante», insisto. «Riguarda mio padre.» «Sicuro che riguardi solo tuo padre? In questo momento stai cercando un assassino e ficcando il naso in luoghi presidenziali da cui dovresti stare alla larga. Vale davvero la pena di scoprire se tuo padre sia morto un martedì o quello dopo?» «Il problema è come è morto e chi me l’ha portato via per sempre! Non capisci?» sbotto, facendo voltare alcuni turisti. Marshall ricambia l’occhiata e li spaventa. «Guarda che anche mio padre è morto e so quanto faccia bene credere che questa cosa ti avvicinerà al tuo», mi dice. «Ma il fatto è che ti stai avvicinando anche a quell’altro individuo che ti interessa: l’unico in grado di convincere tutti quei giornalisti a mangiare merda ogni santo giorno.» So a chi sta alludendo. Al grand’uomo in persona. «E secondo te è per questo che sto aiutando il presidente? Perché spero di scoprire qualcos’altro per incastrarlo?» «Te la sei fatta da solo, questa domanda?» Distolgo lo sguardo, fissando uno sbuffo di fumo nero che esce vorticoso dal tubo di scappamento di un autobus. Mi offusca la vista. «So che lo detesti, Beecher. E so che continui ad attribuire a lui la responsabilità del ferimento di Tot.» «Tot non c’entra.» «Certo che c’entra. Ultimamente, Tot c’entra in tutto quello che fai. Ma in questo caso... Puoi continuare a raccontarti che lo stai facendo per bontà d’animo o per scoprire qualcosa su tuo padre. Ma considerati i rischi a cui ti esponi, la rapidità e la spregiudicatezza con cui hai trasformato l’intera faccenda in una caccia vera e propria... Beecher, tu non sei solo in cerca di risposte. Tu stai cercando lo scontro.» «Non sai quello che dici.» «Già, parla uno che non è mai stato tanto vicino a Wallace e che, per giunta, ha tutto il Culper Ring ai propri ordini. Così è più facile dare la pugnalata, eh?» Ora Marshall parla più lentamente. «Lo so che è dura trovarsi in posizioni di responsabilità, ma dammi retta, te lo dico per esperienza personale: la vendetta cieca e sfrenata è il modo migliore per farsi ammazzare e far morire anche tutti gli altri.» «Davvero la vedi così? Secondo te, questa sarebbe una ritorsione? Secondo te, non ha senso fare una cosa solo perché è giusto farla?» Mi guarda fisso, il volto cereo immobile. «A volte mi sembra che veniamo da pianeti diversi, Beecher.» «Siamo cresciuti a due isolati di distanza. Non possono essere così diversi.» «Che cosa vuoi che ti dica? Che ti appoggerò perché siamo amici?» «Non sapevo che fosse un concetto tanto stupido per te.» «Beecher, qui non siamo io, te e Clementine che mangiamo dolcetti di Halloween sull’amaca del giardino di casa tua. Quei tempi sono passati.» «È questo che mi preoccupa: sei mio amico o pensi solo al tornaconto personale?» Il suo sguardo cupo si intensifica, ma rimane indecifrabile, come sempre. «Il mese scorso, quando alla fine mi hai ritrovato, ricordi qual è stata la primissima domanda che mi hai fatto?»
«Ti ho chiesto come ti fossi procurato le ustioni.» «E ricordi la risposta?» «Non hai risposto.» Abbassa la testa e serra le labbra, facendomi percepire una minaccia silenziosa. È per questo che Tot non si fida di lui. Non conosco Marshall. Non so che cosa gli sia successo. E se Tot non giacesse incosciente su un letto d’ospedale, mi ammazzerebbe per aver invitato Marshall a entrare nel Culper Ring. Anzi, in questo preciso istante mi ricorderebbe che la sua vera specialità è quella di individuare il punto debole di ogni cosa. Compreso il mio. «C’eri anche tu al funerale di mia madre», dice alla fine. «Ma ho seppellito anche mio padre, mia zia; e una donna che mi ha regalato una felicità allo stato puro che non avrei mai immaginato di provare nella vita...» «Hai reso l’idea.» «Non credo. Sto solo cercando di dire – per quanto riguarda Ciglia Bianche, il braccio nel Rose Garden e il presidente stesso – che non voglio seppellire anche te.» Alla mia sinistra, un altro autobus si ferma accanto al marciapiede, spalanca le porte con un sibilo e uno sbuffo lasciando scendere alcuni passeggeri diretti agli Archivi Nazionali. «Sei gentile a preoccuparti per me», dico. Quando la folla ci passa accanto, Marshall rimane in silenzio. Approfitta del flusso di gente per risalire l’isolato. «La tentazione è forte, quando arriva il potere, Beecher. Ma sai qual è il combattente più a rischio? Quello che non si rende neppure conto di cominciare a prenderci gusto.» Guardo la spilla arancione dei servizi segreti e le sei cifre incise sul retro. Considerato dove sto andando in questo momento, mi sa che Marshall ha ragione.
17.
Ventinove anni fa Fort Sill, Oklahoma Alby aveva sempre immaginato di morire giovane. Il giorno della sua morte non era lontano. Sarebbe arrivato presto. Ma non a causa di un incidente aereo. «...ci siamo, figliolo. Adesso ho bisogno che mi stringi le dita», disse una voce gracchiante con l’accento del Tennessee. Alby sbatté le palpebre e si svegliò sotto la luce al neon. C’erano due uomini – uno bianco e uno nero – sopra di lui. Indossavano entrambi camicie azzurre abbottonate fino al colletto. Niente camici bianchi. Niente stetoscopi. Ma chiunque è in grado di riconoscere un medico, quando se lo ritrova chino sopra di sé. «È sveglio!» esclamò il dottore bianco, rivolto a qualcuno fuori dalla stanza. «Albert, riesci a stringermi le dita?» ripeté il nero dall’accento del Tennessee. Aveva un viso affilato ma gentile, con due denti storti nell’arcata inferiore. Quando si piegò in avanti, un paio di piastrine di identificazione presero a dondolare come una gomma appesa a un albero. Era un ospedale militare. «Albert, sei...» «Alby... Mi chiamo Alby», bofonchiò con un senso di costrizione alla gola. Mentre serrava le dita del medico, avvertì un dolore pulsante alla gamba destra. Aveva due dita fasciate e tenute insieme da una stecca di metallo. La caduta. Ricordava di essersi lanciato dall’aereo. E l’odore. Quel fumo nero, amaro. Come un barbecue di carne umana. «È sveglio!» urlò per la seconda volta il medico bianco. Di nuovo, lì immobile su quel letto d’ospedale, non riuscì a scrollarsi di dosso il ricordo dei due anziani – la donna dagli occhi azzurro ghiaccio che implorava aiuto – a cui aveva voltato le spalle. «Lo sai che è un vero miracolo che tu sia riuscito a lanciarti dall’aereo?» domandò il dottore bianco. «Non è solo un miracolo», aggiunse il medico nero. «È anche questione di prontezza mentale, di riflessi...» Strinse la mano a Alby con il vigore di un politico. «Davvero straordinario, ragazzo. E posso dirti già da subito che le tue capacità non sono passate inosservate.» «Non sono sicuro di capire», disse Alby. «Capirai, figliolo, te lo prometto: stiamo proprio cercando uomini come te.»
18.
Oggi Washington, D.C. «Ciglia Bianche? Che cos’è, un supercattivo?» domanda lei al telefono. «Mi hai chiesto dei segni particolari», le rispondo sottovoce, mentre mi faccio largo fra la massa di persone in pausa pranzo e i furgoni che vendono cibo sulla Settima Strada. «No, Beecher, ho chiesto un nome. Un dipartimento. Anche solo se era in divisa o in borghese», ribatte la voce meccanica nel mio orecchio. È un trucco per non farsi riconoscere, ma io so bene chi è. Immacolata Manomissione. Altrimenti nota come Mac. Altrimenti nota come hacker del Culper Ring. «Insomma, non hai trovato niente?» «Parliamo dei servizi segreti, Beecher. Posso chiedere in giro, ma se si chiamano “segreti” ci sarà pure un motivo. Non è come cercare sulle pagine gialle un fabbro disponibile ventiquattr’ore su ventiquattro.» La battuta tradisce la sua età. Mac, in realtà, si chiama Grace Bentham ed è un ex ufficiale della marina di settantadue anni. Durante gli studi a Harvard, fu proprio lei, «Magica Grace», a inventare il termine debug quando scovò un errore – o bug – in un computer Harvard Mark II. Da allora, lei e Tot sono lo zoccolo duro del Culper Ring moderno. E i suoi più fieri difensori. Anni fa, quando gli elicotteri Black Hawk precipitarono a Mogadiscio, Mac fu tra i primi a essere informati e contribuì al reperimento in loco di altri elicotteri e jeep per portare soccorso alle vittime. «Ah», aggiunge. «A proposito di gente che scompare nel nulla e mi fa incazzare, dove cavolo è finito il tuo amico Marshall?» «In che senso?» «È la seconda volta. Tre minuti dopo che se n’è andato dagli Archivi, il suo telefono ha fatto puff.» «Puff?» «Non emette più segnale. Non è rintracciabile.» «Scusa un attimo, ma tu stai...? Lo stai spiando?» «Sto spiando anche te. È il mio lavoro, Beecher. Mi hai detto che Marshall ci stava aiutando. Io sto sempre attenta alle persone che ci aiutano», spiega Mac. «Ma quando il segnale di un telefono scompare, sai che cosa significa?» «Che l’ha spento.» «No. I telefoni spenti emettono ancora un segnale rintracciabile. Se necessario, sono in grado di trovare un cellulare spento su un aereo. Se invece il segnale svanisce nel nulla, come quello di Marshall, significa che ha tolto la batteria o l’ha infilato in una di quelle borse imbottite che bloccano tutte le trasmissioni. Ovunque stia andando, non vuole essere visto.» «O forse non vuole solo essere visto da te. Non dimenticare che, con il mestiere che fa, la gente non dovrebbe accorgersi del suo arrivo.» «È esattamente questo che temo», ribatte, pronunciando le parole più lentamente. «Che tu non ti accorga del suo arrivo.»
Giunto in H Street, la mia destinazione è il palazzo marroncino di otto piani che sorge a metà dell’isolato. Qui non sono ammessi i furgoncini che vendono hot-dog. Non ci sono neppure cestini della spazzatura, per evitare che qualcuno ci lasci delle bombe. E nemmeno insegne. Non vogliono che si sappia che cosa c’è qui dentro. «Sei gentile a preoccuparti per me, Mac. Ma conosco Marshall da sempre...» «No, lo conoscevi quando avevate dodici anni. Poi siete entrambi cresciuti, e lui è tornato per caso nella tua vita... Ah, sì, giusto, proprio quando hai cominciato a lavorare con noi.» «Adesso stai semplificando un po’ troppo.» «Beecher, ho festeggiato settantadue compleanni. So quale emozione e ventata di giovinezza procuri la vista di un vecchio amico d’infanzia, ma lascia che ti ricordi quello che ti direbbe anche Tot...» «Direbbe che non so più chi è. Ho già sentito il discorso.» «Allora comincia ad ascoltarlo davvero», insiste lei, mentre arrivo davanti al palazzo e sbircio la telecamera di sorveglianza nascosta sotto il tetto. «La questione non riguarda solo te. Tutte le volte che inviti Marshall a entrare, gli permetti di vedere liberamente anche noi.» Non lo direbbe mai chiaramente, ma so a che cosa sta alludendo. Al Culper Ring. Apro la porta a vetri ed entro nell’atrio buio. Il mio sguardo è inesorabilmente attratto dall’enorme scritta argentea che brilla lungo la parete anch’essa argentata: DEGNI DI FIDUCIA Mi giro subito dall’altra parte: preferisco metafore un filo più sottili. «Mac, non mi permetterei mai di esporre a un pericolo quello che tu e Tot avete costruito.» «Non hai capito. Questa organizzazione è stata costituita duecento anni fa, molto prima che noi due nascessimo. E sai perché è durata così a lungo?» Si interrompe per accertarsi che stia ascoltando. «Perché sin dai primissimi giorni della fondazione George Washington impose due regole: primo, neppure lui era autorizzato a conoscere ogni singolo componente del gruppo. Così sarebbe stato impossibile farli fuori tutti. Secondo, quando vieni cooptato, metti le esigenze dell’organizzazione davanti alle tue.» Fa un’altra pausa, e a me non resta che fissare la parola FIDUCIA scritta sulla parete argentata dell’atrio. Alla mia destra, due uomini massicci con il collo taurino da militari si tolgono i tesserini di riconoscimento e se li infilano nella tasca della giacca prima di uscire. Di solito, nel Distretto di Columbia, la gente va in giro con il tesserino addosso, come per vantarsi della propria professione. Qui, invece, se lo tolgono tutti, per evitare che si sappia dove lavorano. «Beecher, nei primi anni di servizio nell’esercito ho avuto la fortuna di lavorare con tre astronauti diversi. Tutti e tre sono riusciti ad andare sulla Luna», spiega Mac. «Essere astronauti significa allenarsi per tutta la vita a fare esattamente questa cosa. Alla fine, però, reagiscono tutti alla stessa maniera: una volta lasciata la Luna, sanno che non vi faranno più ritorno. Peggio ancora, sanno di non poter parlare con nessuno della loro esperienza, perché nessuno potrà comprendere fino in fondo quello che hanno visto. Lo stesso vale per noi. Se ti impegni nella missione, ti offriamo una vista mozzafiato, unica nella vita. Ma proprio come gli astronauti, devi capire questo: è un’esperienza solitaria.» Penso a Tot disteso su quel letto d’ospedale da settimane. A parte me, Mac e altri due collaboratori che hanno portato dei biscotti a forma di piccole Dichiarazioni di Indipendenza, non è andato a trovarlo nessuno. «Così ti salverai la vita», mi dice Mac nell’orecchio. «A proposito, credi che non veda dove stai andando adesso? Stai combattendo una battaglia pericolosa.»
Non le avevo detto qual era la mia meta, ma non mi stupisce. Lei sorveglia sempre tutto. «Sei Beecher White?» grida un uomo con il naso piatto dalla guardiola in fondo all’atrio. Si trova dietro uno spesso vetro balistico – a prova di bombe e proiettili – appollaiato su una sedia che lo fa sembrare mezzo metro più alto di me e gli permette di vedermi dall’alto. Così può controllare meglio che non stia nascondendo un’arma. «Non ti lasceranno mai entrare», mi avvisa Mac. Di solito, ha ragione. Ogni giorno, tutte le minacce rivolte al presidente degli Stati Uniti vengono registrate qui. Ed è qui che portarono la first lady l’11 settembre. Ci sono diverse armerie e un centro operativo misto, oltre a migliaia di agenti che non temono le pallottole. Ma le tue chance di entrare nel quartier generale dei servizi segreti degli Stati Uniti dipendono, come ogni cosa nella vita, dalle conoscenze che hai. «Sono Beecher White, degli Archivi Nazionali», annuncio al portiere. «Ho un appuntamento con il vostro archivista.»
19.
All’inizio Marshall non sentì niente. Eppure sapeva che prima o poi sarebbe successo. Sfoderando una carta d’identità falsa e un sorriso non meno fasullo, passò davanti a un giovane addetto alla security che evidentemente si faceva il bagno nel deodorante. Mentre camminava accanto al negozio di articoli da regalo dell’ospedale, fu investito da un profumo di fiori freschi e palloncini. Anche quando seguì il lindo corridoio bianco, superando la sala d’attesa del George Washington University Hospital, percepì solo il solito miscuglio di odori: vecchi divani, candeggina e disinfettante. Eppure era sicuro che a un certo punto l’avrebbe sentito. Quell’odore c’era in tutti gli ospedali, anche se di solito i pazienti ne ignoravano l’origine. Come volevasi dimostrare, appena giunse all’entrata del pronto soccorso e la porta automatica gli si spalancò davanti, gli arrivò la zaffata. Silverol. Bastò quel sentore aspro e metallico di pomata antisettica a prosciugargli la gola e a riportarlo immediatamente a quei primi giorni di degenza nel reparto ustioni gravi, dove gli avevano mentito, assicurandogli che spalmando il Silverol sulla carne rossa e gialla e sui brandelli di pelle, gli sarebbe passato il dolore. Non era stata l’unica bugia che gli avevano raccontato. Al momento del ricovero, aveva il braccio talmente gonfio che non gli affluiva più sangue alla mano. Un medico si era presentato a lato del suo letto con una dozzina di bisturi diversi. Gli aveva detto che doveva incidergli la pelle per far uscire tutto il liquido e ridurre il gonfiore. Siccome i polmoni di Marshall erano gravemente compromessi, sarebbe stato necessario eseguire l’operazione sul letto d’ospedale. Senza anestesia. «Non ti preoccupare», lo aveva rassicurato il dottore. «Tutti i nervi del braccio sono morti. Non sentirai nulla.» Si sbagliava. Due infermieri gli avevano bloccato braccia e gambe. Aveva il naso completamente carbonizzato e un occhio totalmente sbilenco. Con l’altro, Marshall aveva visto il bisturi incidergli il braccio, dalla spalla al polso. Ogni taglio era preciso, ma sembrava fatto con un rastrello, per il dolore che procurava. «Sto morendo! Basta!» aveva gridato, in preda una sofferenza atroce, da togliere il respiro. «Marshall, ascolta», aveva insistito il dottore. «Conta da dieci a uno. Poi basta. Conta da dieci a uno e poi ti prometto che sarà tutto finito.» Non era un granché come consolazione, ma almeno così riusciva a vedere la fine del tormento. «D-dieci...» aveva cominciato Marshall e, mentre il bisturi gli fendeva la pelle, aveva continuato a contare e a urlare. «Aaah... nove...» «Sì, bravo, così...» aveva detto il medico, arrivato a metà bicipite. «O-otto... Oh, mio Dio...» Negli ultimi secondi, il chirurgo era sceso lentamente verso il basso, terminando l’ultima delle cinque incisioni. In effetti, contare era stato utile. La fine era vicina. «D-due...» aveva detto Marshall. E poi... «U-u-uno.»
All’epoca il suo volto era talmente ustionato che nessuno avrebbe potuto capire che stava cercando di sorridere. Il medico non aveva ricambiato il sorriso. «Okay, Marshall», gli aveva detto, afferrando un altro bisturi. Aveva lanciato un’occhiata agli infermieri, che si erano affrettati a immobilizzarlo con più forza. «Adesso passiamo alle dita.» Marshall aveva urlato ancora più forte e il dolore era stato così violento da fargli perdere conoscenza. Con il senno di poi, si rendeva conto che il medico e gli infermieri avevano solo cercato di fare del proprio meglio. Se lui avesse saputo che gli avrebbero aperto anche le dita, non sarebbe mai riuscito a sopportare la prima parte dell’operazione. E, come scoprì dopo, era stato solo grazie a quell’intervento che erano riusciti a evitare l’amputazione del braccio. Eppure, appena entrò nel pronto soccorso e l’odore metallico del Silverol gli invase le vie aeree, si sentì girare la testa e i denti del rastrello affondare di nuovo nel braccio. C’erano malati e feriti dietro tutte quelle tende tirate. Camminava così in fretta da sollevarle al proprio passaggio. Nessuno però fece caso a lui, anche se aveva la pelle simile a cera di candela. In un pronto soccorso vanno sempre tutti di fretta. «Il dottor Lemont è pregato di chiamare il suo ufficio», annunciò l’altoparlante. Nell’ospedale non c’era nessun dottor Lemont. Marshall sapeva che cosa significava. In ogni caso, evitò di correre. Il panico attira attenzione. Giunto a un angolo in fondo alla sala, oltre il cimitero di lettighe e sedie a rotelle abbandonate, Marshall si infilò in uno stretto corridoio e lo seguì, girando a destra. Terminava davanti a una porta di metallo beige con sopra un cartello rosso brillante su cui si leggeva: RISERVATO AL PERSONALE. A differenza della maggior parte delle porte dell’ospedale, questa non aveva vetri. Anziché una serratura con codice, aveva un lettore di prossimità quadrato e nero sopra il pomello. Su un piccolo adesivo in un angolo c’era scritto DOC. Dipartimento degli istituti di correzione. In alcuni ospedali selezionati della città ci sono stanze speciali riservate ai prigionieri del carcere locale bisognosi di interventi chirurgici o affetti da malattie potenzialmente letali. A Washington, questa stanza è collegata al pronto soccorso e, se i servizi segreti lo richiedono, può essere anche occupata da un paziente di gran lunga più esigente in fatto di riservatezza. Marshall estrasse una chiave elettronica dalla tasca e la premette al posto giusto. La porta si aprì di scatto. «Sei in ritardo», lo rimproverò Francy, con l’agenda nella mano che teneva lungo il fianco. Lui non rispose. Quando la porta si chiuse alle sue spalle, era ancora concentrato sul vago sentore di Silverol... e sul ben noto personaggio in piedi alle spalle di Francy. «Fidati, anche per noi è una giornata da dimenticare», disse il presidente degli Stati Uniti, avanzando di un passo e torcendosi le mani. «Allora, vogliamo parlare del nostro amico Beecher?»
20.
Due settimane fa Arlington, Virginia Clementine sapeva di non essere al sicuro. Avvertiva quella sensazione in fondo alla gola, la stessa che provava quando certi uomini vecchi venivano nel camerino di sua madre, mentre lei era impegnata a cantare sul palco. Quegli uomini avevano uno sguardo affamato. Uno sguardo di ineluttabilità. Oggi Ezra aveva quello stesso sguardo. Ma non era rivolto a Clementine, bensì alla loro missione. A quel che le aveva promesso proprio qui, nel parcheggio vuoto dell’area commerciale nei pressi del Wilson Boulevard. «No. Non ancora», la trattenne Ezra, afferrandole il polso prima che lei aprisse la portiera dell’auto a noleggio grigia. I suoi occhi a fessura misero a fuoco l’orologio digitale sul cruscotto. Le 15.54. «Questa è gente precisa», la ammonì. «Se arrivi in anticipo, se ne va.» Clementine si divincolò da lui, ma continuò a osservare i dintorni. Non le piaceva quell’angolo del parcheggio, dove chiunque stesse passando in macchina per Wilson Boulevard avrebbe potuto vederli. Eppure, mentre si risistemava la parrucca castana in testa, sapeva che era proprio quello il punto. Il posto migliore per nascondersi, di solito, è proprio in piena vista. «Posso farti una domanda?» gli disse, fissando da dietro il finestrino dell’auto l’unico negozio che aveva un cartello rosso brillante sul davanti, con su scritto CHIUSO. Tutti gli altri erano aperti. «Perché lo stai facendo?» «Te l’ho già detto. Il ruolo dei Cavalieri...» «Lascia perdere i Cavalieri. Sto parlando di te. Perché lo stai facendo?» Ezra si drizzò sul sedile e, con le ciglia bianche che luccicavano al sole, seguì lo sguardo di Clementine e fissò davanti a sé, oltre il parabrezza. Aveva la classica postura da studente di scuola privata, e dal tono disinvolto e altezzoso della voce si capiva che non se ne vergognava affatto. Estrasse dalla tasca un elegante portafogli in pelle. Al pari del soprabito nero e delle scarpe di camoscio, e persino della cintura, era nuovo di zecca. Bisogna avere soldi, per apparire così spigliati. «Vedi questa?» disse porgendole una vecchia foto. «Quello sono io», spiegò, indicando un bambino di circa tre anni visto da dietro. Sollevava entusiasta la manina verso quella di un uomo più anziano con la pelle incartapecorita e i capelli impomatati alla pompadour che Clementine riconobbe all’istante. «Ronald Reagan», esclamò d’istinto. «Avevo tre anni, e all’epoca lui non era più in carica. La foto fu scattata il giorno dell’apertura della sua biblioteca.» Clementine fissò il piccolo Ezra che stringeva la mano all’ex presidente. «Non dirmi che lo stai facendo per Reagan.» «Mi hai chiesto perché lo faccio. Be’, la risposta è questa: per lui», continuò Ezra, indicando un uomo dai capelli sale e pepe di fianco a Reagan. Clementine non l’aveva notato prima, ma ora vide un uomo che rideva chinato di lato – la chioma grigia che sfidava la legge di gravità – con la mano orgogliosamente posata sulla spalla del bambino. Era
raggiante. «È tuo padre?» domandò Clementine. «Mio nonno, Tanner Pope. Mi ha insegnato a sellare un cavallo come si deve, è stato per vent’anni nei servizi segreti ed era nella scorta personale del presidente Reagan, anche il giorno in cui gli spararono.» Guardando Clementine, aggiunse: «Inoltre, come suo padre e suo nonno, faceva parte dei Cavalieri del cerchio d’oro». Clementine osservò di nuovo la foto con il vecchio che rideva a bocca aperta. Anche suo padre, Nico, le aveva raccontato delle storie sul Cerchio d’oro. A quanto pareva, tutti gli assassini di presidenti, da John Wilkes Booth a Lee Harvey Oswald, ne avevano fatto parte. Lo stesso Nico si considerava un Cavaliere che si era «fatto da sé». A dire il vero, lei aveva pensato che fosse solo un tipico delirio del padre, ma adesso che Ezra le raccontava la stessa storia... «Questo significa che anche tuo padre?...» «Mi sa che mio padre non li ha mai neppure sentiti nominare. Non ne ha avuto l’occasione», rispose Ezra. «Ventidue anni fa hanno fatto fuori l’ultima generazione di Cavalieri, molto prima che mio padre potesse entrarci. Trucidati come cani. Immagino che abbiano risparmiato mio nonno Tanner solo perché all’epoca ebbe un colpo apoplettico. Ma la sua eredità... l’opera dei Cavalieri...» «Capisco», lo interruppe lei, vedendo di nuovo quello sguardo affamato. «Vuoi che mio padre ti aiuti a ricostruirlo.» «Più o meno», disse lui, sfilandole con calma la foto dalla mano. La tenne sul volante, coprendo il volto di Reagan con il pollice, perché rimanessero solo lui e suo nonno. «Non guardarmi come se fossi pazzo, Clementine. Non ti è mai venuto il dubbio, mentre sei a letto a fissare il soffitto e la TV è spenta e la casa silenziosa, di essere destinata a qualcosa di più grande?» I suoi occhi erano incollati alla fotografia. Ora il dito nascondeva anche il nonno. «Quando avevo tre anni, mio nonno mi fece conoscere un uomo molto potente. E non venirmi a dire che non ci fosse sotto un motivo ben preciso.» Fingendosi d’accordo, Clementine fissò quel vecchio scatto. Ezra non le piaceva. Non si fidava di lui. Ma quel che la preoccupava di più era il fatto che lo capiva. Il suo modo di implorare disperatamente la foto con gli occhi era forse diverso da quello stato d’animo che l’aveva indotta a passare tutto l’anno precedente in cerca di suo padre? In quegli ultimi mesi si era giocata l’anima. Era diventata un’assassina – aveva ucciso una persona –, tutto per avere delle risposte da Nico, entrare in contatto con lui e, naturalmente, ottenere una cura attraverso di lui. Persino ora che suo padre era fuggito di nuovo, promettendole di tornare con una soluzione per il cancro, Clementine sapeva che non avrebbe dovuto credergli. Ma era più forte di lei. Era una regola fondamentale della vita: i genitori sono pieni di promesse; i figli pieni di bisogni e desideri. Ingredienti perfetti per la delusione. Lì, seduta sul sedile del passeggero, Clementine si ritrovò alle prese con un’altra regola fondamentale della vita: è molto più facile giudicare gli altri che sé stessi. Anzi, più Ezra parlava di suo nonno, più lei si rendeva conto di quanto fossero malriposte le sue aspettative nei confronti di Nico. No, non solo malriposte. Disperate. Ridicole, persino. Da mesi, Clementine era convinta che suo padre le avrebbe dato delle risposte. Era giunta l’ora di ammettere che non gliene aveva fornite finora e non gliene avrebbe date mai. «Stai male, vero?» domandò Ezra. Clementine rimase immobile. Deglutì un po’ di sangue, sentendosi dondolare i molari in bocca. Se desiderava ricevere aiuto, medico o di altro tipo, Nico non avrebbe potuto procurarglielo, anche se avrebbe voluto tanto farlo. Doveva pensarci da sola. Se non altro, Ezra le tornava utile per quello. L’orologio sul cruscotto segnava le quattro in punto. Dall’altra parte del parcheggio, dietro la porta a
vetri del negozio chiuso, comparve una figura pallida in camice medico bianco, che sparì altrettanto in fretta. Clementine chiuse gli occhi e deglutì il proprio dolore, insieme a qualche altra goccia di sangue. «Ricorda», aggiunse Ezra aprendo la portiera e scendendo dall’auto. «Quando avremo finito qui...» «Non ti preoccupare», ribatté Clementine. «Nella mia famiglia le promesse vengono sempre mantenute.»
21.
Due settimane fa Collierville, Tennessee Ci vollero tre dita perché Nico gli credesse. «Nico, ti prego... Te lo giuro sulla testa della mia nipotina... Aahhh!» Doggett urlava e si dibatteva sul letto, mentre Nico, pinza alla mano, gli sollevava uno strato sottile di pelle dal pollice. “Buona idea partire dal pollice”, osservò la defunta first lady, sapendo che era il dito meno sensibile. Nico annuì, stringendo il polso del colonnello. Se avesse prelevato un pezzo di pelle troppo grosso e troppo in fretta, Doggett sarebbe svenuto. «Te lo giuro su Dio, se sapessi dare una risposta, credi che non...» Doggett urlò di nuovo. E poi ancora. Un’ondata di muco misto a lacrime gli fluì sul viso. Quando Nico arrivò all’anulare, le urla si intensificarono. «Non porti la fede, ma vedo che c’è ancora il segno dell’anello», osservò Nico, sollevando un pezzettino di pelle penzolante con la punta della pinza. «Tua moglie è morta o ti ha lasciato?» Ora Doggett stava singhiozzando e sentì a malapena la domanda. Nico diede un altro strattone, poi, come un bambino che gioca a fare il chirurgo, sollevò la pinza sopra il torace del colonnello. L’aprì quel poco che bastava ad aggiungere un altro nastro sottile di pelle al mucchio sanguinolento che stava costruendo sul petto di Doggett. “Mi sembra che abbia detto il nome della moglie”, disse la defunta first lady. Nico annuì, lanciando un’occhiata alla foto del matrimonio appesa alla parete della camera da letto. Fra marito e moglie poteva esserci un legame profondo. Ma non esisteva nulla di paragonabile all’amore per la propria figlia. «N-non so come salvare tua figlia», mormorò Doggett con un filo di voce. Quando Nico cominciò a scorticare l’indice – il dito più sensibile – si sentì l’inconfondibile odore acre dell’urina che inzuppava il letto del colonnello settantenne. «Padre nostro, che sei nei Cieli, sia santificato il Tuo nome...» urlò Doggett. Nico sorrise. Il padre nostro. Guardò il tappeto, con la tentazione di inginocchiarsi... “Non farlo”, lo ammonì la first lady. “Finisci il lavoro. Dopo avrai tutto il tempo per pregare.” Ovviamente, aveva ragione lei. E mentre strappava la pelle dell’indice del colonnello e lui continuava a implorarlo e a ripetere che non conosceva una cura per Clementine, alla fine Nico gli credette. «In tutti questi anni... sapevo che saresti venuto», balbettò Doggett, quasi privo di conoscenza. «Sapevo che saresti stato tu.» «E chi, altrimenti?» domandò Nico. «Chi altro sapeva esattamente che cosa ci avevi fatto?» Il colonnello serrò le palpebre, rifiutandosi di guardare il mucchio di pelle che aveva sul petto. Tremava in tutto il corpo, aveva il braccio insanguinato. «Tabachnik. Dottor Adrian Tabachnik.» «Chi?» domandò Nico. Il nome non gli diceva niente.
«Il dottor Moorcraft. Dell’isola. Tabachnik è il nuovo nome che hanno assegnato a Moorcraft...» Nico drizzò la schiena, sollevò il mento e per poco non lasciò andare la pinza. In tutti quegli anni trascorsi al St. Elizabeths, non ci aveva mai neppure pensato. Il dottor Moorcraft era ancora vivo.
22.
Oggi Washington, D.C. «Telefono e oggetti di metallo sul nastro trasportatore», dice l’agente con il naso piatto, indicando l’apparecchio a raggi X. Ne abbiamo uno anche agli Archivi. Ma non come questo. Mentre chiavi e telefono si allontanano sul nastro, apro una pesante porta di plastica ed entro in una specie di cabina con un’altra porta chiusa di fronte a me. Questioni di sicurezza. Non potrò aprire quella davanti finché quella dietro non si sarà chiusa. Questa camera è il vero magnetometro. Sento un lieve clic alle mie spalle. Raggi X... scansione chimica... Non voglio neppure pensare a che razza di radiazioni mi sto esponendo; ma se non sei pulito non puoi entrare nel quartier generale dei servizi segreti. Clic. «Spingi in avanti», grida Naso Piatto. Quando apro la seconda porta, il corridoio si allarga, il soffitto si alza e io mi ritrovo di fronte a una scala di vetro che porta ai piani superiori. Alla mia sinistra, alcuni gruppetti di agenti, tutti grossi e muscolosi, si stanno dirigendo in un posto chiamato Silver Star Café. La mensa dei servizi segreti. «Da questa parte, Beecher», dice una voce femminile brusca e frettolosa alle mie spalle. Appena mi giro, vedo una donna alta vicina ai trent’anni, con la pelle olivastra e i capelli biondo dorato. Come sempre, li tiene raccolti in un’alta coda di cavallo, ma indossa un tailleur formale e ha una stretta di mano decisa. La conosco da quando lavoro agli Archivi. Mina Arbogast. «Ti devo un favore», le dico. «Non mi devi proprio niente», ribatte lei, con un accento che non riesco mai a identificare. Sembra quasi europeo. «A proposito, come sta Michael?» domando, riferendomi al suo capo, il vecchio archivista dei servizi segreti. «Non ti hanno detto niente? Ho avvisato i tuoi colleghi, quando hanno chiamato. Michael è andato in pensione alcuni mesi fa. Da allora mi occupo io dell’archivio.» Mi giro a guardarla, sollevando la testa. Dimentico sempre quanto sia alta. Ha un fisico da atleta. «Allora sei tu la nuova archivista?» «Uau», ride. «Grazie per lo sforzo evidente di nascondere lo shock.» «No, no... non intendevo... volevo solo dire che sei così... hai solo...» «Dai, voglio proprio vedere come finisci la frase.» Incrocia le braccia sul petto, continuando a sorridere. Mi sento avvampare. «Mi sa che sto zitto.» «Sei astuto. Scommetto che fai l’archivista», commenta ironica, ma ancora sorridente. Mi piace questa donna. Mi è sempre piaciuta, sin dal nostro primo incontro, anni fa, a una conferenza in cui entrambi dovevamo tenere un discorso in tema di conservazione di documenti classificati. La moderatrice, un’affabile signora anziana, annunciò che per la cena di quella sera ci sarebbe stato
parcheggio sul didietro. Lo so. Giudicatemi pure male. Il bello è che continuò a ripeterlo. «Non dimenticate, per la cena... ci sarà parcheggio sul didietro.» Mina si dondolò all’indietro con la sedia, in cerca di qualcuno con cui farsi una risata puerile. Trovò me. Ci guardammo in faccia sorridendo con gli occhi e diventammo subito amici, anche se, a dire il vero, ogni volta che l’incontravo a una conferenza, mi riproponevo di invitarla a uscire. Ma poi non lo facevo mai. La prima volta mi raccontai che era perché mi stava lasciando la fidanzata. La seconda, idem. Poi, alcune settimane fa, finalmente mi sono deciso. È stato una specie di appuntamento galante: un giro degli Archivi con lei e suo fratello, un veterano dell’esercito rimasto gravemente ferito in Afghanistan e tornato a casa invalido. Una settimana dopo il tour, proprio quando stavo per invitarla di nuovo, ho saputo che suo fratello era morto. Mina se lo aspettava, ma non volevo fare quello che approfittava delle circostanze. «Hai visto che hanno spostato la conferenza annuale in Arizona?» mi domanda. «Non lo sanno, ’sti cretini, che gli archivisti sono come vampiri? La gente con la pelle bianca e cerea non gradisce la luce del sole.» Siccome non rido, mi guarda meglio in faccia. «Cavolo, le mie stupide battute da archivista non ti suscitano neppure un debole sorriso. Sei nei guai fino al collo, vero?» «Vorrei solo sapere...» dico, mentre la seguo nel suo ufficio e mi infilo una mano in tasca, «se mi puoi dire qualcosa di più su questa.» Le passo la spilla dei servizi segreti che ho strappato dalla giacca di Ciglia Bianche. A giudicare dall’espressione di Mina, i miei problemi sono solo cominciati.
23.
«Quest’uomo che ha aggredito te e Beecher...» «Non ci ha aggredito», precisò Marshall. «Che vi ha avvicinato. Che vi è sfuggito», precisò Francy, afferrando il telecomando del televisore, collegato al letto dell’ospedale con un cordoncino. «Me lo descrivi?» «Calvo. Più giovane di me. Ciglia bianche», rispose Marshall. «Bianche?» «Sì, è veramente strano. Ha anche un’aria leccata, da ricco. È uno che ostenta. Un parvenu», aggiunse Marshall. «Pensavo l’aveste ripreso con le telecamere.» «A.J. ci ha provato», disse Francy, premendo un bottone per accendere la TV. Alzò parecchio il volume, caso mai qualcuno stesse origliando. Quando però comparve l’immagine – Fox News che parlava del ministro dell’Istruzione fermato per guida in stato di ebbrezza – passò in fretta a ESPN. «Quest’uomo con le ciglia bianche, chiunque egli sia, persino mentre si azzuffava con te e Beecher, è rimasto sul lato della statua dove non abbiamo occhi.» Marshall assentì. Ciglia Bianche non era stupido. «Credete che sia stato lui a seppellire il braccio?» domandò. «E chi, sennò?» lo interruppe il presidente Wallace. «L’altro ieri nella banda dei marines c’era un infiltrato che usava lo pseudonimo di Lee Harvey Oswald. Due ore fa, dall’altra parte della strada, si presenta un uomo che, chissà come, è capace di evitare la nostra sorveglianza. Mentre venivo qui mi hanno detto che il Brasile è sull’orlo del collasso finanziario e che minaccia di trascinare con sé tutta la regione, se non interveniamo e non troviamo un modo creativo di dare una mano. E a parte quello, stamattina alle cinque mia moglie mi ha tirato giù dal letto per annunciarmi terrorizzata che aveva trovato un pezzo di corpo umano nel Rose Garden. Questo lavoro è così. Marshall, tu sei l’unico che l’ha visto. Devi scoprire chi è.» «Pensavo che il mio compito fosse far abbassare la cresta a Beecher e scovare i membri del Culper Ring», lo sfidò Marshall. «Non è per questo che mi ha chiesto di riallacciare i contatti con lui?» A quel punto il presidente rimase zitto, fingendo di guardare il programma alla TV. Marshall non si stupì. Nel corso degli ultimi mesi aveva sempre parlato della questione Beecher solo con A.J. Appena aveva visto il presidente – e la sua vecchia amica Francy – aveva capito che qualcosa non andava. «Perché siamo in un ospedale?» chiese Marshall. «È malato?» «Avevo in programma una colonscopia per stamattina. Ordinaria amministrazione», rispose Wallace, tenendo ancora d’occhio le notizie sportive. «Nessuno sa ancora che l’abbiamo disdetta, ma a parte le telefonate del presidente brasiliano, i leader del Congresso che non vogliono dargli un centesimo e qualsiasi disastro debba affrontare oggi, ho circa un quarto d’ora per aggiornarti.» Marshall rimase lì in piedi, con gli occhi sempre più socchiusi. Il presidente non aveva nessun bisogno di informarlo di persona. «E A.J.? Dov’è?» «Alla Casa Bianca. Vogliono trasferire il presidente appena torniamo indietro», rispose Francy, in tono sincero e premuroso, indicando con il pollice la porta che dava sull’esterno, dove sostava in attesa una limousine blindata.
Marshall rifletté. Va bene che temevano che qualcuno dei servizi avesse lasciato entrare Ciglia Bianche. Ma aveva senso escludere completamente A.J.? «Ho sentito parlare bene di te», aggiunse Francy. «Grazie per tutto l’aiuto che ci stai dando, mentre cerchiamo di riorganizzarci.» Marshall sollevò le sopracciglia bruciate. «Riorganizzarvi?» Francy guardò Wallace, i cui occhi grigi erano ancora incollati allo schermo. «Ho bisogno che tu stia alla larga da Beecher», disse il presidente. «Che cosa? Ma mi aveva detto...» «Non mi ripetere quello che ti ho detto, ascolta quello che ti sto dicendo adesso. È giunto il momento di lasciare in pace il tuo amico.» «Come mai ha cambiato idea?» Il presidente continuò a guardare i filmati delle partite di basket della sera precedente. «È perché all’improvviso Beecher la sta aiutando?» domandò Marshall. «Visto che forse è successo tutto all’interno dei servizi segreti, adesso pensa di aver bisogno della protezione del Culper Ring?» L’uomo più potente del mondo continuava a seguire le azioni sul campo da gioco. «O forse sta giocando una palla lunga», aggiunse Marshall. «Avvicinando Beecher a sé, pensa di poterlo controllare meglio? Anzi, una volta scovato Ciglia Bianche, lei crede di poter eliminare il Ring come meglio crede. Ho azzeccato qualcosa?» «Guarda che tiro», esclamò il presidente, alludendo a un canestro da tre punti segnato dai Celtics la sera precedente. «Beecher ha ancora il telefono che gli hai dato?» domandò Francy. «Quello che dovrebbe permettergli di ascoltare le telefonate di A.J.?» Marshall annuì. «Apprezzo la tua disponibilità a tenerci aggiornati, Marshall», intervenne di nuovo il presidente, appena Francy ebbe spento il televisore. «Se gli torci un capello, di te non resterà neppure una traccia identificabile. Ci siamo capiti?» Marshall si morse dei pezzetti di pelle screpolata su quelle che un tempo erano state le sue labbra. Quando il presidente si girò verso la porta, Francy estrasse dalla propria agenda un foglio piegato in tre parti e glielo consegnò. «Che cos’è?» domandò Marshall. «Quello che ti abbiamo promesso. Per averci aiutato con Beecher», rispose Wallace. «A differenza di quello che pensi, sono un uomo di parola. Qualsiasi cosa sia accaduta al padre di Beecher e al tuo, erano su questa barca», spiegò. «Anche Nico. Ora stiamo cercando tutto il resto.» Marshall abbassò lo sguardo e lesse le parole scritte sulla pagina, poi le rilesse. Lì sopra era cambiata la vita di tutti i loro padri. Sulla SS Needle’s Nest. «Non funzionerà», sbottò Marshall. «Come, prego?» «Quello che ha in mente di fare con Beecher. Qualunque sia il suo piano...» Francy gli lanciò un’occhiata. «Non la voglio offendere. Sto solo dicendo che anche se adesso pensa che sia il suo nuovo migliore amico, non scambi la cortesia per debolezza. Beecher non vede l’ora di combattere.» «Apprezziamo il consiglio», disse Francy. «Non credo. Al momento, state giocando a scacchi. Ma sapete con chi si misurano i più grandi giocatori del mondo per mettersi alla prova? Non con campioni di lunga data. Quelli fanno sempre le
stesse mosse. I più grandi si esercitano con i dilettanti. E sapete perché? Perché sono imprevedibili. Quando giochi con un dilettante, con una persona motivata come Beecher...» La voce di Marshall divenne un bisbiglio. «...sarà lui a fare la mossa più inattesa.» A un angolo della bocca del presidente si formò una ruga più profonda, come una parentesi. «Hai ascoltato una dannata parola di quelle che ho detto? Siamo finalmente riusciti a portare Beecher dalla nostra parte, come è giusto che sia. Appena prendiamo questo stronzo che si è intrufolato in casa mia... quest’uomo con le ciglia bianche... Non stiamo giocando a scacchi, Marshall. Questa è una guerra.»
24.
Ventinove anni fa Charleston, South Carolina Lo misero su un aereo all’alba. Nessuno l’aveva messo in guardia o informato. Alle quattro in punto, appena prima del cambio di turno dell’ospedale, due uomini in tenuta da fatica verde e marrone erano entrati nella sua stanza, gli avevano consegnato la mimetica e gli avevano detto che era ora di andarsene dall’Oklahoma. «Dove andiamo?» aveva domandato Alby. «Sei stato trasferito», aveva risposto uno dei due. Di lì a due ore, il quadrimotore C-130 atterrò sulla pista militare di Walterboro, in South Carolina. A parte i piloti e i due accompagnatori, a bordo c’era solo Alby. «Quindi tu sei White? Sei l’ultimo, figliolo», disse un soldato di guardia davanti al cancello principale, annotandosi qualcosa sul portablocco, quando Alby e i suoi accompagnatori entrarono in macchina nel cantiere navale di Charleston, nella zona conosciuta con il nome di Weapon Station. Mentre l’auto si dirigeva verso un edificio di due piani a forma di croce, Alby guardò fuori dal finestrino e poi dietro di sé. Era un giorno feriale, ed erano passate da poco le nove del mattino, eppure lì intorno non c’era anima viva. I marciapiedi e i parcheggi erano tutti vuoti. Alby però se lo sentiva. Tutti se ne accorgono, quando sono osservati. «Su, forza, sei in ritardo», urlò un altro soldato di guardia, quando l’auto si fermò davanti all’edificio. La sua tenuta da fatica, come quella di tutti gli altri militari di quel settore della base, non aveva né cartellini con il nome né mostrine per indicare il grado o il reparto di appartenenza. «Vi conviene sbrigarvi, la nave sta per salpare.» “La nave?” Iniziarono a correre e Alby si ficcò la mano in tasca per toccare la spilla di Charlie Chaplin con gli occhi tondi. Non servì a nulla. Aveva studiato la storia e sapeva che quando l’esercito voleva comunicare delle informazioni a F.D. Roosevelt o a Truman, o anche ai presidenti moderni, li faceva salire su una nave militare, a garanzia della privacy. Sulle navi, però, venivano caricati anche i prigionieri, perché in mare aperto non erano protetti dalle leggi. «Per piacere, qualcuno potrebbe spiegarmi che cosa sta succedendo?» implorò Alby, quando lesse il nome dipinto sulla poppa. Needle’s Nest. Di nuovo, non ebbe risposta.
25.
Oggi Washington, D.C. «È decisamente nostra. Credo che sia degli anni Ottanta», dice Mina, stringendo la spilla fra indice e pollice. «È così grave?» chiedo. «Dipende da dove l’hai trovata. Se è rubata...» «Non l’ho rubata.» «Non ti sto accusando, Beecher. Sto solo dicendo che magari capita che un agente ne intaschi una per sbaglio; poi, quando muore, i parenti la trovano e la vendono sulle bancarelle», spiega, mentre la seguo lungo il corridoio per andare nel suo ufficio al pianterreno. «Ma perlopiù cerchiamo di tenere queste spille sotto stretto controllo.» Alla nostra destra, vedo perché. Non ero mai stato qui. Alla parete c’è una bacheca con la scritta: EROI CADUTI. Contiene trentasei fototessera, alcune a colori, altre in bianco e nero. Sotto ciascuna immagine c’è un distintivo a forma di stella. Sono i trentasei agenti, uomini e donne, che hanno perso la vita in servizio. Mentre camminiamo, non posso fare a meno di leggere. Il primo è deceduto nel 1902, travolto da un tram, mentre stava proteggendo Teddy Roosevelt; la morte più recente risale all’attentato di Oklahoma City del 1995. Messaggio ricevuto. Questa gente rischia la vita ogni giorno. Quando lei arriva in fondo al corridoio, io sono rimasto un po’ indietro. «Mi puoi dire qualcosa sul numero seriale dietro la spilla?» domando quando la raggiungo. Si volta a guardarmi. Non me l’ha voluto dire prima. Non so bene se mi stia mettendo alla prova. «Innanzi tutto potresti dirmi come hai fatto a procurartela?» mi sfida. È una domanda legittima, ma mi torna subito in mente quello che è successo alla Casa Bianca. Seppellire un braccio nel Rose Garden... riuscire a sottrarsi a tutti i sistemi di sicurezza... Il presidente si è rifiutato di dirlo chiaro e tondo, ma ho notato l’espressione sul suo volto. Senza un qualche appoggio nei servizi, è impossibile arrivare fin lì. Lancio un’altra occhiata a Mina e ai suoi capelli color miele. Per quanto la conosca bene, non posso ancora escludere nessuno. «Non fare quella faccia sospettosa, Beecher. Se uno arrivasse nel tuo ufficio con un vecchio documento che non dovrebbe avere, gli faresti le stesse domande.» Ha ragione anche su questo. Mi schiarisco la gola. «Te lo dico solo se mi prometti che non ne parlerai con nessuno.» «Sono un’archivista. Credi che abbia altri amici, a parte te?» «Mina, non sto scherzando.» «Neppure io. Quello che hai fatto per James il mese scorso...» dice, riferendosi a suo fratello. «Ho saputo, spero ti sia arrivato il mio messaggio.» «...e la donazione all’associazione che sostiene i veterani feriti. Non eri certo tenuto a farlo, Beecher. E la visita agli Archivi... Non immagini quanto sia stata importante per lui.» «Figurati, mi hai portato un veterano disabile il cui ultimo desiderio prima di morire era vedere la
Dichiarazione di Indipendenza. Come si fa a dire di no?» «Non hai idea di quante cose sia capace di negarti la gente. Dimmi pure cosa ti serve.» «La spilla apparteneva a uno dei nostri grandi sostenitori», bisbiglio. «Un donatore?» «Un gran fanfarone, più che altro. Qualche anno fa, ha donato tre lettere di Benjamin Franklin agli Archivi. Due erano false. Perciò prima di accettare altri regali... anche solo una spilletta come questa, preferiamo verificarne l’autenticità.» «Un attimo. È per questo che facevi il misterioso? Credi che non abbiamo anche noi dei donatori fuori di testa?» domanda, girando l’angolo per entrare in una lunga stanza rettangolare. «Qualche anno fa, un milionario del Texas cercò di donare la finestra del palazzo del deposito di libri da cui Oswald sparò a JFK. Pare che non fosse lei. Un altro texano possedeva quella vera. Tanto per darti un’idea di quanto siano svitati i texani.» Mentre mi guardo intorno, vedo che su una parete c’è un murale che raffigura un corteo presidenziale di automobili con il Campidoglio sullo sfondo. Nel resto della stanza ci sono foto di presidenti e bacheche piene di cimeli dei servizi segreti. Vecchi macchinari di falsari. Un giornale con il titolo «Kennedy morto». Il fucile di Oswald (decisamente una riproduzione). La pistola utilizzata per cercare di uccidere il presidente Ford (decisamente vera). Persino i documenti della primissima missione affidata ai servizi segreti a protezione di un presidente: fermare i tombaroli che stavano cercando di trafugare i resti di Abraham Lincoln. «Ma dove vai, quando fai quella faccia?» domanda bruscamente Mina. «Cosa?» «Cavolo, non te ne rendi neppure conto, vero? Per due minuti buoni sei rimasto lì impalato con la bocca aperta, come un immigrato del vecchio mondo che entra per la prima volta a Disney World.» Do un’occhiata alla bacheca a destra. «È davvero la portiera della limousine in cui si trovava Reagan al momento dell’attentato?» «Forte, eh? Si dice che sia stata un’idea dello stesso Reagan. Il presidente faceva il duro come pochi. Lo sapevi che andava in giro con la pistola?» «Una calibro trentotto», confermo. «La nascondeva nella sua ventiquattr’ore. Se la portava anche sull’Air Force One.» Mina si gira verso di me. «Come fai a saperlo?» domanda, alzando la voce entusiasta. Osservo un antico schizzo a matita di un lungo corridoio su cui sono riportate le istruzioni sul dislocamento degli agenti che avrebbero dovuto proteggere il presidente Wilson mentre firmava il Trattato di Versailles, che pose fine alla prima guerra mondiale. «È la nostra storia.» Appena mi volto, Mina inclina la testa di lato, osservandomi con un’espressione che non le avevo mai visto prima. «Ti intendi di armi d’antiquariato?» «Mio padre era nell’esercito.» «Allora dovresti amare le armi.» «Non saprei. Sono un lettore, non un combattente.» Lei fa un mezzo sorriso. «Tenero. Sei proprio carino. Perché non ti ho più invitato a uscire con me?» «Me lo sono chiesto anch’io. Dovresti farlo.» Lei si interrompe. «Magari lo farò. Su, dai, secchione», dice tornando alla spilla arancione, «vediamo se riusciamo a risalire al titolare di questo vecchio numero di serie.»
26.
Ventinove anni fa Charleston, South Carolina «No, non se ne parla», dichiarò enfaticamente Alby, in piedi sulla banchina accanto alla Needle’s Nest. «Sei in ritardo, soldato», disse il militare di guardia. «Ti conviene darti una mossa.» «Se vuoi che scenda, devi dirmi che cosa c’è là sotto.» Indicò in fondo alle scale, verso la porta della cabina inferiore dell’imbarcazione. Quando aveva visto per la prima volta il mare e il lungo molo di cemento dietro l’edificio a forma di croce, Alby si era aspettato di trovare un sottomarino o addirittura un cutter della guardia costiera. E invece quello che dondolava in fondo al molo era un peschereccio d’alto mare. Era enorme, lungo almeno venticinque metri, ma vecchio e arrugginito. «Sei fuori di testa?» continuò Alby. «Figurarsi se io...» «Soldato, credi davvero che il servizio volontario nell’esercito sia volontario?» Il militare lo afferrò per i bicipiti e lo trascinò giù per le scale. Giunto in fondo, abbassò la maniglia della porta di metallo, la aprì e scaraventò Alby all’interno. «Vi diamo ufficialmente il benvenuto ne...» Su un podio c’era un uomo con una faccia tonda da Babbo Natale, dritto come un punto esclamativo, le mani a coppa. Sembrava reduce da una crassa risata, anche se in quel momento non stava ridendo. Imitando la postura di Babbo Natale, Alby drizzò la schiena ed entrò esitante. Una dozzina di teste si girarono a guardare. Tutti ragazzi della sua età. Nuove reclute. Una metà era in uniforme, l’altra in jeans e pullover nero. Erano seduti in tre file di banchi, come a scuola. Il cassero di poppa dove si trovavano, a differenza dell’esterno dell’imbarcazione, era stato ristrutturato di recente. Moquette blu appena posata, pareti tinteggiate di fresco. E uno studente nuovo di zecca. «Devi essere il soldato White. Colonnello Doggett», annunciò il punto esclamativo con la faccia da Babbo Natale. «Benvenuto a casa.» Mentre Alby si dirigeva verso un banco vuoto in ultima fila, un volto conosciuto dall’impeccabile taglio militare gli rivolse un cenno di saluto da uno dei primi posti. Il prototipo di giovane americano che era con lui durante l’incidente aereo. Dunque c’era anche Nico. Insieme a quell’irlandese sbruffone: Timothy. Solo quando ebbe preso posto, Alby riconobbe anche il ragazzo seduto direttamente davanti a lui. Era il quarto moschettiere sull’aereo. Quel tipo nervoso dai capelli rossi, Julian. Torcendosi sulla sedia, Julian lo guardò con i suoi occhi guizzanti, più nervosi che mai, ma non a lungo. «Come dicevo», continuò Doggett, le mani ancora a coppa sul podio, «appena mi arruolai nell’esercito mi dissero che, quando sei dentro, è come guidare di notte senza luci né freni, sapendo che in fondo alla strada c’è un bivio. Non sai dove sia, però c’è. È vicino.» Fissando le dodici giovani reclute, aggiunse: «Ora siete arrivati al bivio. Ci siete in questo preciso momento. E nei prossimi mesi dovrete fare appello
a tutta la forza che avete in corpo per affrontarlo. Ma sapete qual è la buona notizia? Avete presente le persone che avete intorno adesso? Questi uomini sono i migliori amici che avrete mai in tutta la vostra vita», concluse, e Alby osservò prima la postura perfetta di Nico e poi le spalle flosce di Julian. Un nero magrissimo con spessi occhiali alla Arthur Ashe si fermò alla sinistra di Alby, poggiò un ginocchio a terra e gli fece segno di sollevarsi una manica. Teneva in bocca una siringa piena, come un cane che stringe un osso. «Antitetanica», bisbigliò l’uomo conosciuto come dottor Moorcraft. «L’ho già fatta, l’antitetanica», replicò Alby, sussurrando a sua volta. «Per sicurezza», ribatté l’uomo con gli occhiali ficcando l’ago nel braccio di Alby. «Sai che cosa ne è stato degli altri?» domandò Julian, girandosi di nuovo a guardarlo da sopra la spalla. Alby sollevò un sopracciglio, premendosi un batuffolo di cotone sul braccio. «Sull’aereo. Quei due vecchi, marito e moglie», continuò Julian, mordendosi l’unghia del pollice. «No», rispose Alby. «E tu?» Julian scosse la testa. I suoi occhi continuavano a guizzare avanti e indietro. «Non riesco a togliermeli dalla testa.» Alby annuì, tastando la spilla di Charlie Chaplin che aveva in tasca. Sul podio, il colonnello stava squadrando proprio loro, la faccia da Babbo Natale sempre più tesa. «Nei prossimi mesi, non tutti riusciranno a seguire l’intero programma», proseguì Doggett. «Ma se insistete e riuscite a vedere dove porta la strada che avete davanti, non solo faremo di voi dei soldati migliori. Noi – e voi – faremo la storia.» Quell’iniezione di adrenalina verbale fece drizzare la schiena a tutti i giovani soldati presenti. Julian aveva smesso di mordersi il pollice. Alby non trafficava più con Charlie Chaplin. E in prima fila, mentre la nave si allontanava dal molo e si metteva in rotta verso la sua destinazione, Nico e Timothy non erano più gli unici a essere convinti che avrebbero cambiato il mondo.
27.
Due settimane fa Arlington, Virginia Il dentista cinese, grassoccio, con i baffi coperti da una mascherina da chirurgo, pronunciò una serie di suoni incomprensibili. «Adesso sentirai male», tradusse la sua assistente, mentre il dottore infilava un raschietto nella bocca di Clementine. «A...ene», rispose lei, distesa sulla poltrona odontoiatrica. Va bene. Sapeva quale sarebbe stata l’alternativa: lasciarsi asportare la mandibola e sfigurare il volto. In quest’altro modo, se non altro, avrebbe avuto una possibilità. Fuori, sopra la vetrina del negozio, c’era scritto HAPPY JADE HERBAL SHOP. Dentro, c’era un odore compatibile con un’erboristeria – incenso di sandalo – e anche l’arredamento era adeguato: sulle mensole della parete di fondo erano allineati barattoli di vetro che facevano pensare a un negozio di caramelle, anche se contenevano ginseng, ginkgo secco, dong quai, fiori di prugna e ogni genere di erbe medicinali cinesi. Su uno scaffale di bambù appoggiato alla parete sinistra erano esposte teiere, insieme al vino di riso e al miele medicinale. C’erano persino lampade di sale dell’Himalaya e, vicino alla cassa, guanti senza dita per i fumatori di marijuana incalliti, che frequentavano il negozio in gran numero. Ma solo pochi clienti venivano invitati a passare nella stanza sul retro. «Da questa parte», aveva detto una giovane cinese, quando erano entrati. Indossava una casacca verde salvia con un logo a forma di fiore di loto. Sul banco vicino alla sua scrivania dormiva un gatto bianco. «Non capisco», aveva bisbigliato Clementine a Ezra, cominciando ad andare nel panico, mentre seguivano la donna dietro il banco per andare nel retrobottega. “Vedrai”, le aveva detto Ezra con lo sguardo. E infatti, tre secondi dopo, aveva visto. Giunta nella piccola stanza, la giovane assistente si era avvicinata all’enorme frigorifero, lo aveva aperto e... ci era entrata. All’interno, il frigo non aveva scaffali e neppure una parete posteriore. «Da questa parte», aveva ripetuto la donna, abbassando la testa e infilandosi nel frigorifero svuotato che portava in una stanza sterile beige, accuratamente nascosta dietro il negozio. Un paffuto medico asiatico in camice bianco li stava aspettando. Alle sue spalle c’era un carrello. A disposizione di cinesi, russi, nordcoreani e di qualsiasi altra spia desiderosa di pagare in contanti, se per caso c’era un’appendice infiammata o un braccio fratturato, l’Happy Jade Herbal Shop era a neanche quindici chilometri di distanza dal quartier generale della CIA e sempre contattabile per telefono. D’altronde, come aveva spiegato Ezra, persino ai migliori capitava di aver bisogno di un medico, di un chirurgo... o di un dentista. L’uomo parlò ancora, ficcando le dita nella bocca aperta di Clementine, mentre lei giaceva supina su un tavolo da massaggio coperto da un lenzuolo bianco. «Crede di poterla salvare», tradusse l’assistente, anche se nessuno dei due pareva convinto.
Fissando la lampada orientabile sopra di lei – e fingendo di non aver sentito la zaffata alle uova trapelata dalla mascherina del dentista – Clementine, la bocca ancora spalancata, ringraziò con un cenno incerto della testa. Non c’era un aspirasaliva e neppure un piccolo lavandino per sciacquarsi. Ogni due o tre minuti, sputava sangue in un secchio. Ma a giudicare dalla selezione di specchietti, scovolini e raschietti allineati con cura, il dentista sembrava sapere il fatto suo. Almeno era equipaggiato. Si girò verso il carrello e allungò la mano su quella che aveva tutta l’aria di essere una pinza. “Una pinza!” pensò Clementine, mentre lui rigirava lo strumento nella sua bocca aperta. Grazie alla Novocaina non sentì nulla, ma quando l’uomo tirò fuori la pinza, lei vide della carne grigio-biancastra incastrata nel becco. Un altro pezzo di gengiva morta. Il dentista borbottò sottovoce nella sua lingua. Stavolta l’assistente si limitò ad annuire. Clementine guardò di fianco a sé e vide che Ezra se n’era andato. Sapeva che sarebbe tornato presto. Una volta conclusa questa faccenda, lei aveva promesso di presentargli Nico. Nel corso delle due ore successive, il medico scavò un buco con il trapano dietro i denti a sinistra e vi inserì un filo sottile di metallo, aggiungendo un po’ di cemento per tenerlo fermo, poi l’utilizzò per legare insieme i quattro molari perché non cadessero o si spostassero. Per annodare il filo, le schiacciò la bocca così forte da farle uscire lacrime spontanee, mentre tutto il corpo cercava disperatamente di proteggersi. “Purché riesca a tenermi la mia faccia”, si disse Clementine, fissando determinata la luce abbagliante della lampada. Per quanto riguardava i fatti accaduti tanti anni prima sull’isola, Beecher stava cercando suo padre, mentre lei era in cerca di una cosa di gran lunga più egoista. Un modo per guarire. O almeno una cura. Osservando il lieve sorriso negli occhi del dentista, pensò che probabilmente stava andando tutto abbastanza bene. Ma più restava su quel tavolo, sputava sangue nel secchio e sentiva le lacrime offuscarle la vista, più si rendeva conto che, nella migliore delle ipotesi, quella vittoria sarebbe stata solo temporanea. Lottare contro il cancro era già abbastanza difficile di per sé. Ma combattere una rara forma di tumore di cui nessuno aveva mai sentito parlare era anche peggio. Il dentista disse qualcosa all’assistente. Lei annuì e stavolta non abbassò neppure lo sguardo verso la paziente. Con gli occhi ancora puntati sulla lampada orientabile, la bocca più aperta che mai, Clementine ce la mise tutta per tenere ferma la testa, mentre il dentista terminava il lavoro. Le diede un ultimo strattone e si drizzò in piedi, tirando fuori le mani dalla sua bocca. Ancora una volta le parlò in cinese. «Apri la mano», tradusse l’assistente. Prima ancora di recepire le parole, Clementine sentì che il dentista le stava aprendo le dita e posando qualcosa sul palmo. Un dente. Il molare in fondo. «Da fatina denti», disse l’uomo ridendo forte. Lì, distesa sulla schiena, sforzandosi di fare una tremula risatina a sua volta, Clementine avvicinò il grosso dente al viso. Non pesava nulla. Esaminò attentamente i due buchi insanguinati dove un tempo c’erano state le radici. Doveva essere una sorta di metafora, pensò: fra madre e padre, la sua vita era stata privata di così tante radici. E lei stessa, cercando di salvarsi, aveva strappato così tante radici ad altri. Quando Clementine sollevò il dente alla luce bianca abbagliante della lampada, questo parve scomparire nel nulla... e in quell’istante lei ebbe per la prima volta la certezza di sapere come sarebbe
andata a finire. Così doveva essere. Per quanto si affannasse a correre qua e là e sopportasse tutto quel dolore, la via di uscita era solo una. «Fatina denti? Conosci fatina denti, sì?» ripeté il dentista. Clementine rimase lì distesa a fissare la luce. Ezra sarebbe tornato a momenti. Se l’aveva portata qui, se aveva trovato persone in grado di aiutarla, era perché voleva qualcosa in cambio. Avrebbe preteso una decisione: su suo padre. Sul loro coinvolgimento. E naturalmente sui Cavalieri. «Sputa, prego», la esortò l’assistente, alzando il secchio del sangue. Clementine sbatté le palpebre, ma non si mosse. Nelle esperienze di pre-morte piene di luce bianca, alcune persone trovano Dio o vedono cari defunti. Clementine, in uno studio dentistico improvvisato di Arlington, Virginia, fissando la luce accecante di una lampada orientabile, scoprì una cosa del tutto diversa. Non c’erano dubbi. Mesi di dolore e paura abbandonarono il suo petto, e d’un tratto si sentì più leggera. «Tutto bene?» domandò l’assistente. Clementine annuì, gli occhi irritati dalla luce. Finalmente. Sapeva esattamente che cosa fare.
28.
Oggi Washington, D.C. «Siamo d’accordo sul fatto che un buon computer semplicemente non esiste?» domanda Mina, china sulla sua scrivania, strizzando gli occhi per mettere a fuoco il monitor. «Non lo trovi?» domando. «No. Aspetta, eccolo qui. Solo che è diverso...» È già in movimento, mi passa davanti e va in un piccolo magazzino a cui si accede da un angolo dell’ufficio. Odora di vecchi libri e shampoo alla lavanda. Dio, che buon profumo. Il fatto che basti così poco a eccitarmi la dice lunga su quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho avuto un vero appuntamento galante. «Insomma, visto che adesso sei tu il capo, che cosa fa l’archivista dei servizi segreti?» domando ad alta voce, tanto per fare un po’ di conversazione, mentre osservo la scrivania ordinatissima di Mina. Strano. Di solito gli archivisti sono accumulatori compulsivi. «Quello che fai tu», mi urla dalla stanza accanto. Riesco a vederla dietro la porta, mentre scorre le dita sulle coste dei libri allineati su un grande scaffale. «Conservazione e catalogazione del patrimonio esistente; e poi riceviamo un bel po’ di collezionisti. Ogni giorno arriva qualcuno che dice di avere una vecchia pistola o un vecchio manganello di metallo, o magari un veicolo degli anni Sessanta utilizzato durante l’amministrazione di Lyndon B. Johnson, e in tal caso, ci chiede di controllare il numero di serie per verificarne l’autenticità.» Dietro la scrivania di Mina non vedo i diplomi e le foto lusinghiere solitamente sfoggiate negli uffici del Distretto di Columbia. Alla parete è appeso solo un manifesto incorniciato della seconda guerra mondiale che mette in guardia i soldati americani sul pericolo della malaria. QUESTA È ANN... LEI BEVE SANGUE! recita il titolo del poster, su cui campeggia il disegno di una zanzara rosso brillante dalla lunga proboscide adunca. Ma quando osservo meglio l’insetto e la sua... «È di Theodor Seuss?» domando. «È una figata, vero?» grida Mina dall’altra stanza. «Lui e Walt Disney fecero una marea di cartoni animati e poster durante la seconda guerra mondiale. Lo so che tutti preferiscono Disney, ma Dr. Seuss non aveva bisogno di far morire la madre per costruire una trama solida per una storia.» «Si tratta comunque di artisti che combattevano Hitler.» «Amen», dice lei. «Comunque, rimane imperdonabile per Epcot.» Rido. «Secondo te, è colpa di Walt? È morto sedici anni prima dell’apertura di quel parco a tema.» «Gli attribuisco molte colpe», ribatte lei. Mentre osservo il suo ambiente di lavoro, mi rendo conto che è abbastanza spoglio. È il suo nuovo ufficio. In effetti, oltre al manifesto di Seuss appeso alla parete e a un paio di scarpe da corsa sotto la scrivania, l’unica testimonianza della sua vita reale è una foto incorniciata di dieci centimetri per quindici, a cui ne ha appoggiata un’altra più recente, suppergiù della stessa misura. La seconda è stata scattata agli Archivi. Suo fratello in sedia a rotelle con le cannule d’ossigeno nel naso slancia le mani in aria in segno di vittoria con un sorriso fragile ma luminoso. È in posa davanti alla Dichiarazione di
Indipendenza. «Scusa... Quella non avresti dovuto vederla», urla Mina dal magazzino. Continuo a fissare la foto. Anche lei, essendo un’archivista, conosce le regole. La Dichiarazione non può essere fotografata. Da nessuno. «L’abbiamo scattata mentre eri in bagno», spiega in tono contrito. «Hai presente come era ridotto James. Gli restava a malapena una settimana da vivere. E desiderava così tanto quella foto... l’ha reso così stupidamente felice.» Annuisco, ancora concentrato sul sorriso orgoglioso e le braccia scompostamente slanciate in aria. È come guardare la foto di un ragazzo che è stato appena rapito. Non vedi altro che il potenziale perduto. «Oh, accidenti. Lo sapevi...» dice Mina. Rimango zitto. «Sei andato apposta in bagno, vero?» continua. «Sapevi che cosa stavamo facendo.» Continuo a non rispondere. Il giorno che feci fare loro il giro degli Archivi, James aveva detto che aveva combattuto per questo paese in nome della Dichiarazione di Indipendenza. Meritava molto di più di uno che fingeva di fare una stupida pausa per andare al gabinetto. Ancora inginocchiata davanti a uno schedario nel piccolo magazzino, Mina si gira a guardarmi. «Al mio posto, l’avresti fatto anche tu», rispondo. «Anzi, adesso stai facendo più o meno la stessa cosa.» Lei non ha voglia di mettersi a discutere e si gira di nuovo verso lo schedario, sempre più determinata ad aiutarmi. Guardo la foto incorniciata sulla scrivania. Ritrae Mina. Avvicino il viso. Sembra scattata anni fa, durante una corsa al campo sportivo della scuola. Ricordo che mi aveva detto che le piaceva correre, ma non avevo mai visto questa immagine. La ritrae in un momento di sofferenza, accovacciata a terra, a capo chino. Questo non è l’entusiasmo della vittoria. È la giovane Mina che patisce il dolore della sconfitta. «Urrà!» grida dal magazzino. Attraverso la porta aperta, la vedo sfogliare una pila di vecchi registri. Senza perdere tempo, tiro fuori il telefono, apro un browser e digito il nome di Mina, insieme alle parole «AT&T Indoor Championships», stampate sopra il numero sul retro della pettorina che indossa nella foto. Stando a quel che dice Google – e un sito web di atletica – Mina non era una runner, bensì una star del salto in lungo alla scuola superiore e al college. La foto risale alle selezioni per le Olimpiadi di otto anni fa. Da quel che leggo qui, era partita sfavorita, ma poi si era classificata seconda in una gara chiamata Flight 1 ed era arrivata alle finali. Aveva perso per soli due centimetri. Osservo di nuovo le foto. In una c’è lei, prostrata dopo la sconfitta. Nell’altra il fratello morto. La maggior parte della gente esibisce i propri successi, mentre più osservo le immagini, più mi convinco che questi siano i momenti peggiori della sua vita. Evidentemente, sono questi a motivar... «Allora, vuoi spiegarmi che cosa sta succedendo?» mi domanda, in piedi alle mie spalle. Mi giro, pronto a chiedere scusa. Lei, però, torreggia su di me con la spilla arancione in una mano e un vecchio registro aperto nell’altra. «Dove l’hai trovata, Beecher?» «La spilla?» «Sì, la spilla. Adesso rispondi alla mia domanda.» «Te l’ho già detto...» «Dimmelo di nuovo. E stavolta aggiungi anche qualcosa di vero. Ti sono molto grata per quel che hai fatto per mio fratello ma, considerati i numeri di serie, non è stata una scoperta casuale.»
«Mina, se mi stai accusando di qualcosa, ti posso dare la mia parola. Non ho idea di che cosa sia.» Lei dondola da un piede all’altro, cercando di metabolizzare la mia risposta. «Da quel che c’è scritto qui, la spilla era scomparsa, e forse era stata indossata da un’altra persona, in un giorno molto particolare.» «Quale giorno?» «Il 30 marzo 1981.» Sbianco. Mi parte un brivido dal petto. Il 30 marzo 1981. Il giorno dell’attentato a Ronald Reagan.
29.
Camp David «Nella vita di ogni agente segreto c’è sempre un giorno decisivo. Per l’agente Scottie Koller fu proprio quello. A posteriori, Scottie avrebbe potuto attribuire tutta la colpa a un film. Quando aveva dodici anni, a Hopkinsville, Kentucky, aveva avuto un attacco di diarrea ed era rimasto a casa da scuola. Era stata sua madre a mettere la videocassetta: Nel centro del mirino. Sua madre aveva una cotta per Clint Eastwood. Scottie, invece, si innamorò di tutt’altro: uomini coraggiosi disposti a farsi sparare. Avere un posto in prima fila nella storia. E, naturalmente, Rene Russo con la pistola. Scottie avrebbe rivisto il film solo anni dopo, ma i sogni più belli, una volta radicati, trovano il modo di consolidarsi. Già allora immaginava ogni cosa con chiarezza: indossare un impeccabile completo nero; correre accanto alla limousine blindata del presidente; entrare nei servizi segreti. Dieci anni più tardi, quando Scottie arrivò al centro di addestramento dei servizi segreti di Beltsville, Maryland, altri sei agenti del suo gruppo raccontarono la stessa identica storia. Ancora oggi Nel centro del mirino rimane uno degli strumenti di reclutamento più efficaci dei servizi, il che spiega come mai, subito dopo l’uscita del film, l’esercito e tutti gli altri corpi militari crearono interi reparti per attirare Hollywood. A quell’epoca, per Scottie Koller era il primo giorno nei servizi. Oggi era il millenovecentoventisettesimo. Poco più di cinque anni. «Koller, qui posto di comando», gracchiò una voce nel suo auricolare, mentre stava trasportando una borsa di mazze da baseball giù per i gradini di ardesia del giardino posteriore dell’elegante chalet in stile californiano del presidente a Camp David. «Come vanno le cose? Le mazze sono in sicurezza?» «Divertente, posto di comando», replicò Scottie al microfono, risistemando le mazze e avvicinandosi a una zona del giardino in cui i marines avevano già sciolto la neve. Il passaggio per l’auto privata del presidente. Poco importava che a Camp David ci fossero sempre dieci gradi in meno. Wallace stava arrivando, tutto doveva essere pronto. «A proposito, ieri ho pisciato nel tuo thermos», aggiunse Scottie. «Lo so. Ecco perché ho scambiato il mio thermos con il tuo», ribatté il posto di comando, mentre Scottie infilava la borsa con le mazze nel bagagliaio di una golf car. Nei primi due anni di servizio era stato uno dei più giovani agenti alla Casa Bianca... finché non era arrivata in visita la squadra nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti e Scottie era stato sorpreso a corteggiare una delle assistenti allenatrici. La cosa più triste era che non la stava neppure corteggiando. Non più di tanto. In quel periodo, Scottie stava lavorando nell’ufficio distaccato di Baltimora, impegnato a controllare i trascorsi dei nuovi aspiranti agenti. La chiamavano la Rubber Gun Squad, la squadra con i fucili di gomma. L’unico contentino che gli davano era quando il presidente andava a Camp David e c’era bisogno di rinforzi per controllare i terreni circostanti. Di solito Scottie si rovinava le scarpe, a furia di camminare nei boschi. Oggi, invece, volevano che rimanesse all’interno della recinzione.
«Homerun e Hyacinth, quindici minuti», aggiunse il posto di comando, utilizzando i nomi in codice per indicare Wallace e la first lady. Sarebbero arrivati entro un quarto d’ora. Era il momento di sgomberare. Soprattutto a Camp David, la first lady detestava vedere agenti in giro. «Ho quasi finito», rispose Scottie seguendo le procedure apprese durante l’addestramento e scrutando il campo da golf da sinistra a destra, in alto e in basso. Le mazze erano al loro posto. La golf car pure. A destra c’era una slitta in più per i bambini. Era tutto... No. Non era tutto a posto. Ai piedi delle scale di ardesia, sul terreno, in mezzo a due cespugli di alloro americano, c’erano due palle da golf. Sembravano lì apposta per essere notate. Scottie le fissò per mezzo secondo, con la tentazione di far finta di niente. Toccava ai marines, non ai servizi segreti, tener pulito Camp David. Inoltre, due palle da golf sperdute non facevano male a nessuno. Stava per andarsene, quando gli balenò un pensiero che gli provocò una fitta di nostalgia per la madre e al tempo stesso lo fece ridere. Clint Eastwood non avrebbe mai fatto finta di niente. «Koller, hai sgombrato?» domandò il posto di comando nell’auricolare. «Quasi», replicò Scottie, inginocchiandosi e allungando il braccio fra i cespugli. Dei rami gli colpirono il viso. «Devo solo...» Come una gru che afferra pupazzi nelle macchinette delle sale giochi, Scottie agguantò saldamente le palle. Con sua grande sorpresa, non tirò su solo quelle. Appena sotto la morbida terra, le sue dita vennero a contatto con un oggetto che aveva tutta l’aria di essere uno spesso tubo. Era freddo, ghiacciato e, a giudicare dalle sue dimensioni, molto più grosso dei tubi di irrigazione disseminati nel giardino posteriore. Sembrava anche un po’ storto e leggermente... peloso. Scottie balzò indietro senza però mollare la presa, pensando si trattasse di un animale morto. Qualunque cosa fosse, non era sepolta in profondità. Dei pezzi di terra si sollevarono in aria e l’oggetto volò verso di lui. Atterrò con un tonfo pesante. Scottie socchiuse gli occhi nella penombra. Sulla punta... Ma quelle erano...? Si chinò in avanti. Unghie. «Ma che c...» «Koller, tutto bene!?» sbraitò il posto di comando nel suo orecchio. Nella vita di ogni agente dei servizi segreti c’è sempre un giorno decisivo. Per l’agente Scottie Koller fu proprio quello. «Mandateli indietro!» urlò nel microfono. «Tenete Homerun a distanza! L’area non è bonificata!»
30.
Due settimane fa Athens, Tennessee «Di solito, Nico era un po’ più furbo. “Che cosa stai aspettando? Su, scegli”, lo esortò la defunta first lady. Stava fissando il distributore automatico da due minuti. “Oh, guarda, hanno i semi di girasole. Sono pieni di grassi sani e costano solo un dollaro. Su, scegli”, ripeté lei, sapendo che più aspettava, più probabilità aveva di essere visto. Persino in quella piccola area di servizio autostradale c’erano telecamere dappertutto. Nico non si mosse, la visiera del suo berretto dei Washington Redskins continuava a battere contro il vetro della macchinetta come un picchio. “Stai ancora pensando al colonnello Doggett, vero?” Nico si girò di scatto verso la porta principale. La first lady conosceva quello sguardo. Sapeva anche che Nico ci sentiva meglio degli altri. Stava udendo dei rumori provenienti da fuori. “Che cos’è, la polizia?” domandò la defunta first lady. Nico scosse la testa, avviandosi lentamente verso l’uscita principale. Qualunque cosa fosse, era ancora là fuori. Di nuovo, Nico di solito era più furbo. Abbastanza da acquistare cibo ai distributori automatici, per evitare contatti umani. Abbastanza da scegliere le aree di servizio più piccole, dove c’erano solo i bagni, piuttosto che quelle grandi, provviste di ristoranti e frequentate da una marea di turisti. Uscire in quel modo dall’edificio prefabbricato non fu una mossa astuta. “Cosa fai? Non la senti, la gente qui dietro?” lo implorò la first lady. Nella Contea di McMinn, Tennessee, l’alcol era proibito e questo spiegava la presenza di cinque o sei auto nel piccolo parcheggio sul retro. Non essendoci locali in cui bere, la gente del luogo, persino in serate fredde come quella, utilizzava i tavoli da picnic a mo’ di bar all’aperto. “Nico, se qualcuno ti riconosce...” Lui accelerò il passo e giunse sul retro. Alcuni ragazzi delle superiori erano seduti qua e là intorno ai tavoli a bere birra scadente. Nico passò in mezzo a loro diretto all’ultimo tavolo in fondo, sul margine del bosco. «Ephraim, no!» gridò una ragazzina dai capelli biondi lisci e con la gonna troppo corta. «Sono personali!» «Ma sei venuta così bene», la stuzzicò Ephraim, tenendo il telefono sollevato sopra la propria testa, mentre lei saltava nel tentativo di strapparglielo di mano. Altri due ragazzi – due gemelli dai capelli rossi – lo stavano incitando da dietro. “Sono in quattro”, pensò Nico. Ovvio che erano in quattro. «Dai, facci dare solo una sbirciatina veloce», disse il rosso sulla sinistra. «Ephraim, quelle erano per noi!» urlò la giovane, avvampando per la rabbia, con la birra che
traboccava dal bicchiere. «Voglio solo fargli vedere come sei bella», la rassicurò Ephraim. «Non avevi detto che ti eccita? Sarà ancora meglio di...» «Restituiscile il telefono», intimò Nico. La ragazza smise di agitarsi. Tutti e quattro si voltarono verso di lui. Non erano studenti delle superiori. Erano più vecchi. E anche più stupidi, a giudicare dalla birra Bud Light Lime che stavano bevendo. «Che cosa hai detto?» ribatté Ephraim con tono di sfida, facendo un passo verso Nico. “Nico, ti prego, non farlo”, lo implorò la first lady. “Se ti riconoscono...” «La tua ragazza ti ha chiesto per quattro volte di restituirle il telefono», disse Nico senza staccare gli occhi da Ephraim. «Perché non le dai retta?» Il giovane rimase fermo dov’era. I due amici dai capelli rossi dietro di lui si alzarono. Avevano il petto in fuori e l’aria inequivocabile di chi è pronto ad alzare le mani. Nico diede un’occhiata alla ragazza. Aveva le lentiggini. Proprio come Clemen... Una lattina di birra si alzò in volo e lo colpì alla fronte. La ragazza. L’aveva lanciata lei. «Chi ti credi di essere, stronzo?» urlò, prendendo la rincorsa e spingendolo forte sul petto. Lui, colto alla sprovvista, inciampò all’indietro. «Rispondi, sfigato senza coglioni!» Pochi secondi dopo, i due rossi l’avevano immobilizzata, permettendo al suo ragazzo di... Il pugno di Ephraim arrivò velocissimo e colpì Nico al centro del volto. Lui vide tutto nero e poi le stelle. Un pugno ben assestato, pensò. Ma aveva vissuto dieci anni in un manicomio. Ne aveva presi di molto peggiori. “Nico, hai il mio permesso”, disse la first lady. “Mangiali vivi.” Lui drizzò le spalle, ringraziando con un cenno del capo. Tutti i presenti si stavano già radunando intorno a loro. «Ma guardalo, ha deciso di difendersi!» lo prese in giro uno dei due ragazzi dai capelli rossi. In Nico si riattivarono antichi istinti che lo riempirono di adrenalina, facendolo sentire carico e sveglio come quella prima notte fuori dall’ospedale. Gli formicolavano le orecchie e i denti. Sopra le urla e le risate, udì il ronzio lontano di un colibrì. Eppure, quando Ephraim caricò di nuovo, il pugno implacabile come un treno merci, lui fece un respiro profondo e... chiuse semplicemente gli occhi. L’impatto fu una badilata sulla mandibola, che lo scaraventò di lato, facendo uscire sangue e saliva. “Che cosa fai?” urlò la first lady. “Lo so che te lo aspettavi!” Ephraim attaccò di nuovo: lo colpì allo stomaco, sollevandolo quasi da terra. «Evvai!» berciò l’altro ragazzo dai capelli rossi, girando intorno a Nico, in attesa che cadesse. Lui rimase in piedi, barcollando leggermente, le braccia lungo i fianchi. Sapeva come cavarsi d’impaccio. Ficcandogli i pollici negli occhi. O stringendogli la trachea con la pinza che aveva in tasca. Aveva un mucchio di opzioni. “Tiragli un pugno! Fa’ qualcosa!” ordinò la first lady. Nico, invece, rimase lì con il labbro inferiore gonfio e uno strano sorriso in volto. «Che cazzo hai? Piantala di sorridere!» urlò Ephraim. Lo colpì di nuovo al volto. E poi ancora. La ragazza di Ephraim afferrò una bottiglia di birra posata lì vicino e gliela scaraventò sulla testa da dietro. Nico resistette. L’ultima volta che era stato aggredito, per farlo cadere, erano dovuti intervenire metà degli assistenti dell’ospedale. “Perché non reagisci?!” urlò la first lady. Arrivò un altro pugno nello stomaco. Avrebbe potuto sopportare anche quello, ma decise di arrendersi
alla forza di gravità. Quando crollò a terra, gli amici di Ephraim gli si avventarono contro e cominciarono a tirare calci. Pochi secondi dopo, la piccola banda di teppisti trasformò il suo viso, il suo corpo, qualsiasi punto esposto, in una palla da calcio. Nico si mise in posizione fetale, si tappò le orecchie con le mani. Quella gente però non poteva vedere che, nonostante i calci nel fegato gli avessero fatto venire la nausea, il suo sorriso era più ampio che mai. «Può bastare. Lasciatelo stare», disse alla fine qualcuno. La ragazza gli sputò sui capelli. Qualcun altro gli versò della birra sulla schiena. Mentre il gruppo si disperdeva e la birra gli scivolava addosso come una sottile cascata, Nico rimase sulla terra umida e fredda, ansimante. “Sei soddisfatto adesso? Hai avuto quel che volevi?” lo provocò la first lady. Ancora sorridente, Nico bofonchiò qualcosa che nessun altro avrebbe potuto sentire. La first lady alzò gli occhi al cielo. Lui ripeté la stessa cosa. Quella che aveva detto mentre Ephraim e la sua banda gli tempestavano la faccia di calci. Nico stava ancora mormorando. Una preghiera. Sempre una preghiera. “La ragazza aveva ragione. Sei uno stronzo malato di mente”, aggiunse la first lady. E fortunato, per giunta, concordò Nico, con la sensazione che qualcuno gli avesse bucherellato il petto. Negli ultimi tempi, Dio gli aveva dato così tanto... il sangue del colonnello Doggett, ed entro breve, anche quello del dottor Moorcraft. Ma come ogni buon cristiano ben sa, quando il peccato mostra il suo volto, non potrà esserci redenzione alcuna, e tanto meno salvezza, finché non ci sarà il pentimento. “A proposito, genio, ti hanno appena bucato le gomme con un coltello a serramanico”, aggiunse la first lady. “E hai visto come sei ridotto in faccia? Hai messo in pericolo tutta la missione. Se non chiedi aiuto, non vai da nessuna parte.” Ogni respiro gli costava uno sforzo immane, perdeva sangue e saliva dalla bocca. Tremava in tutto il corpo a causa del pestaggio e riusciva a malapena a muoversi. «C-chiamala», balbettò, indicando una cabina telefonica vicina all’area di sosta. «Dobbiamo chiamarla.» La defunta first lady sapeva a chi si stava riferendo. Non a Clementine. A sua figlia non avrebbe chiesto altro. A lei. La donna che l’avrebbe aiutato.
31.
Oggi Washington, D.C. «Mina, ti garantisco che ho ricevuto la spilla da un ricco donatore», insisto. «Te lo garantisco anch’io, non mi importa quanto tu sia stato gentile con la mia famiglia: se non ripulisci la tua storia da tutte le bugie che mi stai raccontando, chiamo il settimo piano, così potremo continuare il discorso in una stanza chiusa con una dozzina di agenti dei servizi segreti incazzati, che non vedono l’ora di sfogare la loro rabbia repressa sulla tua faccia.» Io rimango impassibile. Lei afferra il telefono. Comincia a digitare. «L’ho presa da un tizio che mi ha minacciato», ammetto. Mina socchiude gli occhi. Non mi crede, ma almeno ha smesso di digitare. «Te lo giuro», aggiungo. «Ero al parco... davanti alla Casa Bianca. Questo tizio si avvicina e mostra un distintivo, dice che è dei servizi segreti.» «Il distintivo era vero?» «Così sembrava.» «Ma non hai visto il nome?» «È stato un movimento veloce. Fidati, la situazione era a dir poco sospetta. Però sapevo a cosa servono le spille e i numeri di serie. Ricordi? Avevamo fatto una mostra agli Archivi.» «L’hai rubata all’agente?» «Scommetto cinquanta dollari che non è un agente», spiego. «Ho pensato che se fossi riuscito a risalire al proprietario della spilla avrei scoperto qualcosa di più su di lui, o almeno su dove l’aveva trovata.» Il suo telefono comincia a emettere un debole suono. È rimasto per troppo tempo staccato dalla base. Lei lo rimette a posto, ma continua a tenere la spilla in mano. «Che aspetto aveva questo presunto agente?» «Calvo. Basso.» Alzo lo sguardo verso di lei. «Molto più basso di te», aggiungo. «E poi aveva queste ciglia... bianchissime.» «Bianche?» «Sì, te l’assicuro. Molto Fiori senza sole.» «E che cosa sarebbe?» «Un vecchio libro horror. Tipo I figli del grano, ma anziché il grano, c’è una soffitta. Comunque, sto dicendo la verità», ribadisco. «Tornando alla spilla, che cosa c’entra con l’attentato a Reagan?» «Insomma, anche se ammetti di aver mentito, adesso dovrei aiutarti?» domanda. «Mina, da quanto tempo ci conosciamo?...» «Questo non significa che ti conosca bene.» «...Te l’assicuro, stiamo dalla stessa parte. So cosa fanno i servizi segreti. Apprezzo molto il vostro lavoro. Ma se non mi spieghi quello che sta succedendo, rischi di mettere in pericolo delle persone.»
Lei abbassa il mento. «Che tipo di pericolo? Perché se sei al corrente di qualche minaccia immediata...» «Non so nulla. Per questo sono venuto qui. Se vuoi, chiama pure... chiama A.J. Ennis», dico, pentendomene all’istante. Coinvolgere A.J. è rischioso di per sé. Ma al momento non mi viene in mente nient’altro. «A.J. è uno dei vostri. Lavora alla Casa Bianca. Garantirà lui per me.» Ha ancora la mano sul telefono, ma non lo solleva. «Mina, se fossi davvero un individuo di cui preoccuparsi, credi che sarei qui a farti queste domande? Per piacere. Dimmi qual è il collegamento fra la spilla e Reagan.» Lei lancia un’occhiata alle fotografie in un angolo della sua scrivania. La sconfitta nel salto in lungo. Suo fratello davanti alla Dichiarazione. L’unica cosa peggiore di ricordare il passato è il terrore di riviverlo. Lei non ha bisogno di altri rimpianti. «Hai mai visto il filmato dell’attentato a Reagan?» domanda alla fine, la voce più dura che mai. Evita di guardarmi in faccia; continua a fissare le sue foto. «Il presidente ha appena finito di tenere un discorso al Washington Hilton, e quando esce dall’hotel ed è sul punto di salire sulla sua limousine, John Hinckley sbuca dalla folla. Spara sei colpi, Reagan cade, e naturalmente scoppia il putiferio. Ma sai che cos’altro succede in quel momento?» «Gli agenti segreti fanno il loro lavoro», rispondo. «Esatto. La pallottola numero uno colpisce alla testa James Brady, l’addetto stampa della Casa Bianca. La numero due centra al collo un agente della polizia locale, Thomas Delahanty, mentre si gira per proteggere Reagan. Poi, quando il presidente è del tutto esposto e vengono esplosi il terzo e il quarto colpo, l’agente Timothy McCarthy si butta addosso a Reagan facendogli scudo con il proprio corpo e prendendosi una pallottola nella pancia, mentre l’agente speciale capo Jerry Parr spinge in fretta Reagan in macchina, evitando che venga colpito alla testa. Da quel momento in poi, è il caos assoluto. Ci sono altri spari. La folla comincia ad aggredire Hinckley, strappandogli i capelli dalla testa. Noi, intanto, facciamo autocritica, per aver controllato tutte le persone all’interno dell’hotel ma non quelle fuori, fra le quali c’era Hinckley, che era arrivato fino al cordone di sicurezza. Ma lo sai perché alla fine ce ne siamo fatti una ragione?» «Perché il presidente non è morto.» «Di nuovo, risposta esatta.» Mina stacca gli occhi dalla scrivania per trapassarmi con lo sguardo. La maggior parte degli archivisti ha il terrore dei confronti. Lei non ha paura di niente. «Se Reagan fosse morto», continua, «le indagini sarebbero ancora in corso. Siccome però è sopravvissuto, tutti gli agenti sono stati invitati alla Casa Bianca, hanno ricevuto una calorosa stretta di mano e un paio di scintillanti gemelli nuovi con il sigillo presidenziale.» «Ma che cosa c’entra tutto questo con la spilla arancione?» domando. «Il mattino dell’attentato a Reagan, la nostra Protection Division distribuì quarantadue spille speciali agli agenti che avrebbero lavorato all’Hilton. Alla fine di quella giornata, mentre Reagan era sotto i ferri e i mercati azionari chiudevano per prevenire un tracollo finanziario, tornarono indietro quarantuno spille.» «Stai dicendo che la quarantaduesima era stata rubata?» «Forse era stata rubata. Forse era semplicemente caduta durante la colluttazione con Hinckley. Non dimenticare che, una volta cominciata la sparatoria, gli agenti presero a correre all’impazzata in mezzo alla folla e furono spintonati in tutte le direzioni.» «Quindi questa spilla...» «Era stata assegnata a un agente di nome Tanner Pope, che rimase nella scorta del presidente per quasi dieci anni. Anche suo padre era nei servizi segreti, una lunga storia. Comunque, quando furono sparati i
colpi, la folla si avventò su Hinckley con una tale ferocia che alcuni agenti dovettero cominciare a tirare pugni per proteggerlo e portarlo via. L’agente Pope era fra questi.» Noto l’espressione di Mina. «Tu, però, non credi che lui abbia perso la spilla in quel frangente, vero?» «Il fatto è questo: Pope era in mezzo alla folla; la gente era impazzita; la spilla andò perduta. Ma... Se si considerano le prove concrete, c’è una foto – solo una – dell’agente Pope in un momento precedente della giornata. Fu scattata all’interno della sala da ballo dell’Hilton prima dell’arrivo del presidente Reagan. Pope è sullo sfondo. Può essere che dipenda dall’immagine sfocata o dalla pellicola vecchia e granulosa degli anni Ottanta, o magari è solo una storia inventata dai servizi segreti. Fatto sta, però, che in quella foto – scattata tre ore prima che Hinckley sparasse i colpi – sembra che la spilla mancasse già dal bavero dell’agente Tanner Pope.» Il condizionatore d’aria calda si spegne e nella stanza cala il silenzio. «Non sono sicuro di seguirti», le dico. «Stai dicendo che John Hinckley ha utilizzato la spilla dell’agente Pope per farsi largo tra la folla e arrivare al cordone di sicurezza?» «Questa è una teoria, anche se non sono neppure sicura che cambi qualcosa. In fin dei conti, Hinckley non aveva bisogno di una spilla. Grazie ai nostri controlli di sicurezza scadenti, la strada per arrivare lì davanti era aperta. Sta di fatto, però, che la spilla dell’agente Pope mancava all’appello da più di trent’anni. Finché non ce l’hai riportata tu. Oggi.» «Posso farti una domanda terra terra? Perché la faccenda ti sembra così sospetta?» Mi sta osservando con più attenzione di quanto abbia mai fatto prima d’ora. «Non sai proprio nulla, vero?» «Non so che cosa?» Mina arriccia il naso come la zanzara sul poster di Dr. Seuss. «Beecher, sono capo archivista da meno di un mese. Perché dovrei essere così informata su Tanner Pope?» Prima che io possa rispondere, aggiunge: «Di recente sono stata contattata dalla sua famiglia. Volevano che inviassi loro le sue credenziali come ricordo». «Non sono sicuro di seguirti.» «Sto cercando di dirti...» riprende spazientita, «che il proprietario della spilla, Tanner Pope, è stato trovato morto tre settimane fa.» Un brivido mi parte dal petto e mi irrigidisce le spalle. Chiudo gli occhi e vedo ancora la foto che mi ha mostrato stamattina il presidente, con il braccio trovato nel Rose Garden. Era magro e sottile, per questo avevo immaginato appartenesse a un giovane. Ma poteva anche essere di questo vecchio, Tanner Pope. «Hai mai visto questa?» domando, estraendo dalla tasca un foglio ripiegato. Sono fotocopie in bianco e nero, le due facce della monetina schiacciata rinvenuta nella mano del cadavere. «Ti ho appena detto che è morto un uomo», dice Mina irritata. «Ho sentito. Sto cercando di darti altri indizi. Hai mai visto questa?» ripeto. Mina guarda il lato con il padre nostro, poi quello con la civetta sull’asse e la bandiera con su scritto HL-1024. «So che vengono indossate come portafortuna», risponde. «E la civetta e il numero? Significano qualcosa nel mondo dei servizi segreti?» «Che cosa c’entrano i servizi?» Prima di poter rispondere, sento il cellulare vibrare nella tasca. Non dovrei tirarlo fuori. Il fatto è che non è il mio telefono normale. È il vecchio cellulare a conchiglia che mi ha dato Marshall due mesi fa: un clone di quello che A.J. usa per le sue chiamate personali. Dovrebbe consentirmi di ascoltarle, ma negli ultimi mesi non ha mai squillato una sola volta. Fino a questo momento. «Devo rispondere», mi scuso con Mina aprendo il telefono e mettendolo in stato silenzioso.
Dall’altra parte si sente un clic e io premo il tasto per ascoltare la chiamata. Per i primi secondi non si sente nulla. Poi... «Ne abbiamo un altro», dice A.J. con il suo inconfondibile accento strascicato del Tennessee. «Bastone numero due.» Bastone? Che cosa intende per «bastone»? «Sicuro?» Una voce femminile conosciuta. Francy. «Hanno appena mandato indietro l’elicottero. Sta tornando a casa. Devi venire qui», aggiunge A.J. Francy rimane zitta. Sento un altro clic, A.J. ha riagganciato. Messaggio ricevuto. «Beecher, hai sentito quello che ho appena detto?» domanda Mina. «Se sai qualcosa di Tanner Pope...» In una tasca diversa vibra l’altro telefono. Quello vero. Il nome del chiamante sul display è King’s Copiers, un negozio di copisteria del Maryland chiuso tre anni fa... sempre che sia mai stato davvero aperto. «Due telefoni?» commenta Mina quando rispondo. «Da quando in qua sei così gettonato?» Sollevo un dito, concentrandomi sulla chiamata. «Pronto...» «Sono io», mi dice nell’orecchio A.J., attento a non identificarsi mai. «Ne abbiamo trovato un altro.» «Un altro cosa?» Si interrompe, irritato. «Un’altra parte di corpo umano. Porta subito il culo qui. Abbiamo trovato un altro braccio.»
32.
Ventinove anni fa Oceano Atlantico «Io lo so dove stiamo andando», disse Julian sputando gli ultimi rimasugli di vomito nell’oceano, lo stomaco schiacciato contro il parapetto di poppa. «Lo so...» Non lo udì nessuno. Anzi no, non è vero. Lo avevano sentito. Ma, come accade in qualsiasi gruppo di ragazzi, la prima cosa che avevano percepito in lui era la debolezza. Qualunque cosa dicesse Julian, non l’ascoltavano. «Ve lo dico io, è Cuba. Cuba», disse Timothy, con una specie di cannocchiale davanti al viso. In realtà si trattava del mirino di un fucile. Dieci minuti prima, Timothy, Nico, Alby e il resto del gruppo avevano fatto una colletta per poter utilizzare per mezz’ora il mirino di un soldato di guardia, un marine che avrà avuto al massimo due anni più di loro. Con quello avrebbero potuto vedere a seicento metri di distanza, ma a quell’ora della sera non si scorgeva altro che nero oceano. «Cuba? No, le Bahamas», suggerì un giovane dell’Arkansas dal volto ovale e con un taglio di capelli anni Ottanta. «Così a sud ci sono solo le Bahamas.» «È Cuba», ribadì Timothy. «Non ci stanno mandando a Cuba», intervenne Nico, mettendo fine alla discussione con la sua possente voce baritonale. I ragazzi percepivano innanzi tutto la debolezza. Subito dopo, riconoscevano i leader. «Ci sono anche le isole Cayman. E Haiti», urlò Alby dall’angolo posteriore a sinistra del ponte, dove si stava esercitando a fare i nodi secondo gli insegnamenti del colonnello Doggett. Nessuno replicò, neppure quelli sdraiati di fianco a lui, che stavano cercando di dormire un po’. Non l’avevano ancora associato a Julian, ma vedendo i ragazzi stringersi intorno a Timothy nel tentativo di dare un’occhiata nel mirino, Alby capì che era solo una questione di tempo. Quaranta ore prima, quando era appena cominciato il viaggio, le giovani reclute avevano ipotizzato di essere dirette in posti come Hilton Head o Savannah. Un ragazzo di Atlanta aveva detto che in Georgia c’era una base sottomarina. L’unica cosa che sapevano, dato che la terra si trovava alla loro destra, era che stavano andando verso sud. Poi, a mezzogiorno, continuando a inumidirsi le labbra irritate dall’acqua salata, avevano visto le impalcature dei razzi di Cape Canaveral e si erano resi conto di essere in Florida. «Miami», aveva detto Timothy, rinfocolando la discussione. «A sud di Miami c’è una base dell’aeronautica», aveva confermato Nico. Era un’ipotesi più che plausibile, solo che poi avevano superato lo skyline di Miami e la barca non aveva rallentato. Via via che la notte di tarda estate inghiottiva il cielo, alla loro destra i porti, i ponti e le spiagge bianche cedevano il posto a una serie di isole impossibili da identificare. A mezzanotte, giunti alle Florida Keys, si leccavano le labbra più che mai. Alle due del mattino, avvistando le luci di Key West, l’estremità meridionale degli Stati Uniti, avevano immaginato di non essere lontani dalla meta. Più giù non c’era nient’altro. Erano stanchi e affamati, e
soprattutto non dormivano da quasi quaranta ore. Poi, quando avevano superato Key West e le luci dei porti erano sfumate nell’inchiostro ondeggiante, fra i dodici nuovi membri dei Plankholders era calato il silenzio. «Buonanotte», disse il soldato di guardia, scendendo in cambusa e lasciando loro il mirino. «Qualcuno mi può dire che cavolo sta succedendo?» domandò Faccia Ovale Arkansas, percependo il rollio dell’imbarcazione e guardando il cielo nero che li avvolgeva. Di più scuro c’era solo l’oceano. Tutt’intorno a loro non si vedeva nulla. Nessuna luce. Nessun punto di riferimento. «Brutta storia», disse Nico, fissando la bussola sull’orologio da polso. «Dice che stiamo ancora diretti a sud-ovest.» «Impossibile», sbottò Arkansas. «Ve l’avevo detto», intervenne Timothy, contento di avere il mirino tutto per sé. «Cuba.» «Non stiamo andando a Cuba», urlò Julian, anche se, di nuovo, nessuno si girò nella sua direzione. «Perché insisti?» gridò qualcuno alle sue spalle. Julian, senza staccare le mani dal parapetto di poppa, si voltò verso l’unico ragazzo più magro di lui. «Lo sai che non fanno caso a quello che dici», lo rimbrottò Alby, seduto a gambe incrociate sul ponte. «Perché continui a provarci?» «Perché ho ragione.» «Bene. Allora dillo a qualcuno che ti sta ascoltando davvero», ribatté Alby, lanciando la corda sopra il parapetto e continuando a esercitarsi a fare nodi. Mentre i suoi capelli rossi sbattevano vorticosamente al vento, Julian rimase zitto. Di fianco a lui, Alby fece un altro nodo. «Julian, te l’ho detto per farti capire che ti sto ascoltando.» «Sì... no... lo so», balbettò lui, mettendosi in ginocchio, ma continuando a fissare Timothy e gli altri. Batté i due incisivi superiori contro quelli inferiori. «Secondo loro è Cuba, ma da quella parte ci sono posti diversi», bisbigliò. «Non è la prima volta che il governo fa questo viaggio.» «Ma che cosa dici?» «È la verità, l’ho letto su uno dei miei libri. La prima volta che vennero qui fu un secolo fa. Ci portarono tutti i prigionieri.» «In che senso, i prigionieri?» «Quelli più importanti di tutti», rispose Julian, mentre la barca continuava a puntare verso sud. «Gli assassini di Abraham Lincoln.»
33.
Oggi Crystal City, Virginia Mentre apriva la portiera del suo SUV con il gomito, Marshall si guardò intorno nel garage sotterraneo. Non c’era nessuno, a parte lui. Era tutto calcolato. La maggior parte della gente parcheggiava al primo livello, oppure al secondo. Marshall scendeva sempre fino al quinto, dove non c’erano più auto in vista. Così nessuno poteva vederlo arrivare. Chiunque altro, al suo posto, avrebbe avuto voglia di festeggiare. Nella mano guantata stringeva il foglio che gli aveva dato il presidente all’ospedale. Eccolo lì, scritto a grandi lettere in grassetto: The SS Needle’s Nest. Il nome della nave di suo padre, il primo indizio per capire che cosa fosse successo tanti anni prima e il vero motivo per cui negli ultimi mesi aveva deciso di sorvegliare Beecher per conto del presidente. Di sicuro, Wallace gli aveva dato quello che voleva. Eppure, mentre apriva la porta rossa antincendio, entrava nel locale dalle pareti di cemento illuminato al neon e si dirigeva verso l’ascensore grigio metallizzato, sapeva anche che i presidenti degli Stati Uniti, soprattutto quelli come Wallace, non hanno l’abitudine di concedere alla gente tutto ciò che vuole. Anzi, di solito, ti danno esattamente il contrario di quel che vuoi, dispensandoti quel tanto che basta a farti sentire in debito nei loro confronti. Marshall conosceva il pericolo insito nei debiti. Soprattutto se il creditore era un presidente. Fu proprio quel pensiero a farlo irrigidire, quando salì sull’ascensore e vide il pulsante dell’undicesimo piano, dove si trovava il suo attico. Ogni mattina, prima di uscire, Marshall lo puliva con cura. Adesso invece era impiastricciato. Sembrava esserci un’impronta digitale. Infilò la mano nella tasca destra, dove teneva un coltello a serramanico. Dalla sinistra estrasse una chiave elettronica e la avvicinò al rettangolino nero posto appena sopra il bottone del suo piano. Aveva scelto quel palazzo per buoni motivi. Nessuna portineria davanti alla quale passare, pochi inquilini da cui essere osservato... e un modo semplice di verificare che non fosse arrivato nessuno in sua assenza. Mentre l’ascensore saliva, Marshall si sfilò con calma i guanti, tirandone la punta con i denti. Le mani erano segnate da un mosaico di cicatrici viola chiaro. Divaricò al massimo le dieci dita. Quando le ustioni cominciano a guarire e le cicatrici rimpiccioliscono, la pelle alla fine si irrigidisce. Per controbilanciare la mancanza di elasticità, ogni due o tre ore Marshall distendeva le ginocchia e i gomiti e allargava le dita. Emise una sorta di ringhio, lottando con una rigidità e un dolore che non l’avrebbero abbandonato mai più. Quando tirava pugni, la sofferenza aumentava ulteriormente. Senza staccare gli occhi dall’impronta sul pulsante, Marshall cercò di convincersi che erano stati i bambini del diplomatico che abitava al sesto piano. Giocavano e schiacciavano bottoni in continuazione. In ogni caso, mentre l’indicatore sopra la porta passava dall’ottavo al nono e poi al decimo piano, non mollò la presa sul coltello a serramanico modificato. Quando arrivò all’undicesimo, l’ascensore si aprì sul piccolo corridoio moquettato che portava al suo ingresso. La porta era socchiusa.
Controllò la serratura. Ancora intatta. Un lavoro da professionista. Il suo respiro rallentò. L’addestramento da marine si impose. Estrasse il coltello, facendo scattare la lama da dodici centimetri. L’aveva modificata anni prima, aggiungendo due solchi ai lati. Quando un coltello normale infilzava qualcuno, la pelle e i muscoli aderivano alla lama. Quei due solchi garantivano lo spargimento di sangue, per così dire. Marshall avanzò adagio, senza sollevare l’arma all’altezza della spalla, ma tenendola puntata verso l’esterno a livello della vita, dove sarebbe stata in grado di arrecare il massimo danno agli organi vitali. Aprì leggermente la porta con la punta del coltello. Alla sua destra si mosse qualcosa. Era là. In cucina. Adesso aveva i capelli castani. Chiaramente una parrucca. Ma gli occhi erano inconfondibili. Di un castano tendente al rossiccio. E scintillanti come quelli del padre. «Anch’io sono felice di rivederti», disse Clementine con un sorriso obliquo.
34.
«Dove vai!?» esclama Mina, mentre raggiungo a lunghi passi la porta del suo ufficio. «È il mio capo. Un’emergenza di lavoro», le dico quando sono già a metà corridoio, mentre A.J. sbraita un indirizzo al telefono. Non mi chiamerebbe mai, se non fosse strettamente necessario. Questo mi dice che c’è in ballo qualcosa di più del ritrovamento di un’altra parte di corpo umano. «Grazie per avermi aiutato con la spilla!» grido a Mina. Lei mi urla qualcosa di rimando, ma quando passo di fianco alla bacheca degli eroi caduti in servizio, sento un rimbombo galoppante sopra di me. Salgo le scale di vetro per capire da dove provenga il rumore e arrivo fin quasi in cima, all’ottavo piano per l’esattezza, dove incrocio un gruppo di agenti in giacca e cravatta che scendono verso l’atrio. Si muovono compatti e con circospezione. Quando si avvicinano, noto l’età e immagino che sia personale esperto. Nessuno è in preda al panico, ma nel quartier generale dei servizi segreti, se scendi otto piani di scale a piedi anziché aspettare l’ascensore, vuol dire che qualcuno ha tirato l’allarme. «Credimi, sono perfettamente d’accordo con te», dice una voce dal caldo accento della Virginia. All’inizio, non lo vedo. È nascosto dal gruppo, ma appena girano intorno alla curva delle scale e raggiungono il mio pianerottolo, lui passa davanti agli altri – un nero enorme dalla pelle particolarmente scura –, chiaramente il capo. Elegante completo gessato. Penna d’oro impugnata a mo’ di spada nella mano sinistra. Un paio di occhiali rotondi con la montatura in tartaruga a raddolcire la pesante corporatura da montagna ambulante. Se non fosse per la spilla con la bandiera americana appuntata sul bavero, sembrerebbe un giocatore di football americano, ma la sua presenza calma e imperiosa mi fa venire voglia di unirmi al gruppo e seguirlo giù per l’ultima rampa di scale. «Direttore Riestra, la sua auto è da questa parte», urla un assistente mentre attraversano l’atrio. Direttore. Non mi stupisce affatto. Se A.J. ha trovato un altro pezzo di cadavere, è ovvio che vengano allertati i pezzi grossi. Il capo dei servizi segreti. Questo però non spiega perché abbia chiamato anche me. Mi stanno nascondendo qualcosa. Alla vista del grande capo, due agenti sbucati dalla mensa si bloccano. Idem gli altri che si trovano nell’ingresso. Quando Riestra assume il ruolo di Mosè, ogni agente si fa Mar Rosso. Nell’angolo dell’atrio in cui mi trovo, il direttore Riestra mi dà le spalle e non mi può vedere, ma io vedo lui. Sta per uscire, ha superato di pochi passi la mensa. Solleva la penna d’oro e si gratta il collo. Poi, senza alcun motivo evidente, gira la testa e mi individua... i nostri sguardi si incrociano. Ho un tuffo al cuore. Succede talmente in fretta che non sono neppure sicuro di aver visto bene. Mi conosce? «Adesso fai amicizia con il capo?» domanda Mina alle mie spalle. Sobbalzo. Non mi ero accorto che mi avesse seguito. «Ma cosa dici», ribatto. «Non sa chi sono.» «Anch’io comincio a dubitare di sapere chi sei e perché sei venuto qui», dice lei. «Ma ti assicuro che lo scoprirò.» Mina guarda il direttore in silenzio. «Sto cercando di aiutarti, Beecher. Davvero. Ma adesso forse è meglio che tu te ne vada.»
Ha ragione da vendere. Attraverso l’atrio come un lampo. Il direttore se n’è già andato, ma se è vero quel che dice A.J., e cioè che hanno trovato un altro pezzo di cadavere e che il responsabile è uno dei servizi, scommetto che il direttore Riestra e io stiamo andando nello stesso identico posto.
35.
«Per piacere, prima di parlare...» mormorò Clementine. «Fuori da casa mia!» ribatté Marshall ad alta voce. «Senti, non potresti solo...» «Perché sei qui? Che cosa stai facendo?» l’interruppe lui, mentre le andava incontro in cucina, impugnando ancora il coltello. «Ma non vedi? Sto morendo.» Marshall aveva notato la voce incrinata. Il volto pallido e scavato. Le parole ingarbugliate, come se avesse la lingua gonfia. C’era qualcosa che non andava nella bocca. Non gliene importava nulla. «Credi che funzioni anche con me quello che fai con Beecher?» «Marshall, per piacere, puoi mettere giù il coltello?» «Dov’è tuo padre? Anche lui è qui?» le chiese, attraversando il soggiorno stile Ikea anni Novanta con le movenze di un cacciatore. Spalancò la porta della camera da letto, andò dritto in bagno, aprendo di scatto la tenda della doccia per assicurarsi che l’appartamento fosse vuoto. Però non si mise a correre. Non si fece prendere dal panico. «Marsh, ci sono solo io», disse Clementine. «Marshall. Ora mi chiamano Marshall», ribatté lui, tornando in cucina e continuando a guardarsi intorno. «Nessuno mi chiama più Marsh da quando avevo dodici anni.» «Va bene. Ma qualsiasi cosa tu stia pensando, non...» «L’ultima volta che sei venuta a dare una mano, tuo padre è scappato da un manicomio criminale e tu sei scomparsa con lui. La volta precedente, hai ammazzato un impiegato degli Archivi.» «È stato un incidente!» «Hai anche sparato al collo a un collaboratore del presidente. Vuoi che vada avanti?» la incalzò. «Ti sei messa con Ciglia Bianche?» «Chi?» «Pelato. Un’aria da fighetto da scuola privata. Ciglia bianche.» «Ezra. Si chiama Ezra.» «Ezra. Ah, ecco.» Marshall la squadrò minaccioso. A differenza della maggior parte delle persone, lei lo guardò dritto negli occhi. Non fissò la pelle del viso simile a cera di candela, né la faccia. Con tutti gli sguardi insistenti che riceveva, lui era in grado di distinguere le due cose. Eppure, non abbassò il coltello. «Ezra lavora con tuo padre, vero?» «Marshall, non hai idea di quello che sta succedendo.» «Dimmi solo perché sei qui. Tu vuoi sempre qualcosa.» «Voglio che metti giù il coltello.» Il coltello rimase dov’era. «Okay, ricevuto. Non hai motivo di fidarti di me», disse Clementine. «Vorrei solo che mi ascoltassi.» «Puoi dire quello che ti pare, tanto io non crederò a una sola parola.» «Invece sì. Per piacere. Ci vorranno solo due minuti», lo implorò Clementine. «Credo che stiano per ammazzare Beecher.»
36.
La maggior parte della gente non ci fa caso quando passa. La porta è sbarrata da assi, tutte le vetrine sono rivestite di giornali. C’è persino un cartello con su scritto: IMPRESE EDILI ENTRARE DALLA PORTA A SINISTRA, SUONARE IL CAMPANELLO Vedendo il quartiere alla moda, da poco riqualificato, mi viene il dubbio che l’indirizzo sia sbagliato. Ma il fatto è questo: uno, conosco l’indirizzo. Due: so che cosa c’era qui un secolo e mezzo fa. Nel 1996 questo edificio situato al numero 437 della Settima Strada di Washington doveva essere demolito. Poi, però, un carpentiere locale fu mandato a controllare che non ospitasse dei senzatetto. Appena entrò nel soggiorno, gli cadde qualcosa sulla spalla. Alzò lo sguardo e notò una lettera penzolante da una fessura del soffitto. In solaio trovò pile di giornali del periodo della guerra civile, cataste di vecchi fascicoli e migliaia di lettere ingiallite. C’era anche un cartello con la scritta UFFICIO DEI SOLDATI DISPERSI DI CLARA BARTON. Più di cent’anni fa, al secondo piano di questa palazzina di mattoni rossi, si trovava l’ufficio della leggendaria Clara Barton che, molto prima di fondare la Croce rossa americana, si era prodigata per trovare i soldati dispersi durante la guerra civile. All’epoca, la Barton ricevette più di sessantatremila richieste da parte di famiglie in cerca dei loro cari dispersi. Insieme a una piccola cerchia di collaboratori, contribuì a trovarne ventiduemila, soltanto scrivendo lettere. Questo è uno dei motivi per cui, ancora oggi, l’esercito distribuisce medagliette d’identificazione a persone come mio padre. Sono oltre vent’anni che promettono di restaurare l’edificio, ma i lavori sono fermi da allora. Mi protendo verso il cartello rivolto alle imprese edili e in un angolo noto una sigla minuscola, GSA, che sta per General Services Administration, ossia l’agenzia responsabile di tutti gli immobili e i terreni di proprietà del governo americano. Mi rimangio quello che ho detto. Questa struttura non è affatto in disuso. Deve sembrare un negozio abbandonato, ma è a tutti gli effetti un edificio governativo, ufficialmente nascosto al pubblico. Mi giro. Dall’altra parte della strada, dietro la vetrina principale del ristorante Jaleo, ci sono due uomini in giacca e cravatta che sorseggiano caffè. Nessuno dei due guarda nella mia direzione, ma persino da qui vedo gli auricolari e le spille blu sui baveri delle giacche. Servizi segreti. Idem quando suono il campanello. La porta coperta di giornali si apre. Le luci sono spente. Non si vede un granché. Una sagoma in ombra mi afferra il braccio. «Su, sbrigati, Beecher. Andiamo», esclama A.J., attirandomi all’interno e dando un’occhiata alla strada. «Ti aspettano di sopra.»
37.
Stava infrangendo la regola numero uno. Non era una regola di poco conto; al contrario, era fondamentale, la prima che le avessero insegnato il giorno stesso in cui aveva cominciato a lavorare: fai il tuo mestiere. Quando il suo predecessore gliel’aveva raccomandato, lei aveva assentito con il capo. Ai servizi segreti, persino le segretarie e il personale ausiliario vedevano minacce dappertutto. Qualche anno prima, il tizio che lavava gli asciugamani della palestra aveva inseguito un saudita dall’aria sospetta per sei isolati, prima di rendersi conto che era un diplomatico. Perciò Mina Arbogast, sin dal primo giorno di lavoro, era sempre stata fedele alla propria missione: fare l’archivista. Svolgere il proprio dovere. Lasciare ad altri il compito di investigare. Non aveva mai infranto questa regola. Fino a oggi. Era un errore? Se lo stava ancora chiedendo ma, per quanto desiderasse dubitare di Beecher, tutte le volte che pensava a lui le tornavano in mente la foto di suo fratello – le braccia slanciate in aria in segno di vittoria – e quel ragazzo gentile che aveva chiesto scusa ed era andato in bagno. Ping, l’ascensore si aprì sul corridoio dell’ottavo piano. L’11 settembre, quando si era schiantato il primo aereo, il capo dei servizi segreti era salito di corsa all’ottavo piano. Anni prima, quando nella sala ovale era arrivata una lettera alla ricina, l’indagine era finita là sopra. All’ottavo piano c’erano il centro di comando del direttore e l’Intelligence Division. Non gli uffici dell’archivista. “Fai il tuo mestiere”, si ripeté Mina, ignorando il centro di comando e dirigendosi spedita verso la porta con la scritta ITU. Internet Threat Unit, l’ufficio che si occupava delle minacce in rete. «Firmi qui», disse la receptionist, schiacciando un bottone per aprire la porta. «Come osi mostrare la tua faccia qua sopra?» gridò una voce femminile. Da un cubicolo vicino, a destra del banco della reception, un’agente ispanica dagli occhi verde muschio tirò indietro la sedia, sorridendo allegramente a Mina. Raquel Dominguez. Un’altra donna. Un’altra maratoneta. E, per come la stava fissando la receptionist, un diversivo perfetto. «Come va il ginocchio?» domandò Mina, mentre scriveva il suo nome sul registro. «Meglio. E la tua anca?» ribatté Raquel. «Mi fa male quando corro. Anche quando cammino. Se vado a quattro zampe, va bene.» «Dovresti farla riposare prima della maratona.» «Lo so», riconobbe Mina. «Ma non lo farai.» «Infatti», confermò lei, fingendo di zoppicare mentre passava davanti alla receptionist che, vedendo il suo tesserino, non si preoccupò neppure di chiederle con chi dovesse parlare. Mina fece un cenno di saluto a Raquel e si insinuò in un labirinto di cubicoli pieno zeppo di giovani agenti, tanto da essere chiamato «zona ristorazione». In tutta la storia americana, il mezzo più diffuso per minacciare il presidente era sempre stata la lettera scritta a mano. Oggi, Dio benedica Facebook, l’ottanta per cento delle minacce arrivava attraverso i
social media, ecco perché ogni scrivania di quell’ufficio era occupata da un agente dal volto fresco e l’aspetto ordinato che smanettava su un computer. Erano prevalentemente uomini e tutti sui vent’anni. A parte uno. «Signor Goddard?» esordì Mina avvicinandosi al doppio cubicolo posto in fondo alla sala. Dovette ripetere il nome, perché lui si girasse. «Ci conosciamo?» domandò l’uomo più anziano, abbassando gli occhiali da lettura. Aveva lo sguardo penetrante di un professore e il pizzetto curato di uno che cerca di dimostrare meno dei suoi sessantatré anni. Non funzionava. Noto per essere l’agente più vecchio in servizio, Harlan Goddard sarebbe dovuto andare in pensione anticipata dieci anni prima, ma dato che si era preso una pausa per fondare un’agenzia investigativa privata che poi era andata in fallimento e in seguito aveva chiesto di essere riammesso nei servizi, ora gli mancava meno di un anno alla pensione piena. «Sono Mina Arbogast», rispose lei tendendogli la mano. «Ufficio dell’archivista.» Goddard guardò la mano, ma non la strinse. «Credevo che l’archivista fosse quel nero noioso con gli occhiali dalla montatura di metallo.» «Sì, infatti, era lui. Abbiamo avuto una promozione.» Goddard alzò gli occhi al cielo. «È una cosa rapida o una rottura di palle?» «Be’, dipende. Se è vero, come tutti dicono, che lei è un grande esperto di storia della marina...» Goddard sbuffò. «Senti, Mina Arbogast, sono stato ammaliato da gente più brava di te. Dimmi che cosa vuoi e falla finita.» «Gliel’ho già detto», disse Mina, estraendo un foglio dalla cartelletta e sbattendolo sulla scrivania di Goddard: era una fotocopia della monetina da un penny appiattita di Beecher, con la civetta che stringeva un’asse fra gli artigli. «Che cosa mi può dire di questa?»
38.
Due settimane fa Athens, Tennessee Nico un tempo ne aveva a decine. Perlopiù erano donne, ma c’erano anche alcuni gay. Tutte e tutti, dieci anni prima, quando lui aveva premuto il grilletto per la prima volta, dicevano di amarlo. O almeno desideravano aiutarlo. Quando cerchi di assassinare il presidente degli Stati Uniti, il 99,9999 per cento della popolazione americana ti odia. L’infamia, però, procura anche alcuni fan. All’inizio si limitano a mandare lettere. Le disperate aggiungono foto, le ingenue dei doni: dolcetti al cioccolato e biscotti fatti in casa che vengono subito requisiti. La gravità del reato non conta. Quando fu arrestato l’attentatore della maratona di Boston, decine di giovani donne gli dedicarono intere pagine web per attirare la sua attenzione. Per Nico non fu diverso. Eppure, dopo il primo anno, la maggior parte delle fan si era dileguata, soprattutto una volta finiti il processo e il circo mediatico. Nel giro di cinque anni, il loro numero si era dimezzato. Ora che di anni ne erano passati dieci, solo le più devote continuavano a scrivere una lettera al giorno o alla settimana. Erano in quattro. Di nuovo quattro, osservò Nico. Una era AnnaBeth. Corrispondeva al profilo standard: non sposata, leggermente sovrappeso e il cuore straripante di amore per gli sconosciuti e per Dio. Non era né strana né malata di mente. Faceva la contabile nell’agenzia assicurativa della cittadina dove viveva e si occupava della distribuzione dei cibi in scatola raccolti dalla sua parrocchia. Nico? Era semplice: gli ergastolani erano i fidanzati migliori e più affezionati del mondo. Che AnnaBeth lo ammettesse o meno, lui non l’avrebbe mai rifiutata e, di sicuro, non avrebbe potuto lasciarla. Essendo per giunta devoto a Dio, quell’uomo si era insinuato nelle zone più profonde dei suoi sogni e della sua vulnerabilità. Molti anni prima, durante il campeggio estivo della parrocchia, uno psicologo con l’alito che sapeva di cioccolato alla liquirizia si era intrufolato nel letto a castello di AnnaBeth e l’aveva immobilizzata, cambiandole per sempre la vita. Nonostante lei si fosse messa a biascicare preghiere, lui non si era fermato. Aveva continuato anche nelle sei estati successive in cui lei era andata in campeggio. Quando AnnaBeth era bambina, nessuno l’aveva salvata. Lei, però, avrebbe potuto salvare Nico. E l’avrebbe fatto proprio ora, suppergiù alle quattro del mattino, sul prato di un’area di servizio autostradale del Tennessee. «Nicky! Nicky mi senti!?» gridò AnnaBeth, china su di lui, gli occhi più strabuzzati che mai, gli ispidi capelli neri che gli sfioravano la faccia. “Nico, dille che non la sopporto quando ti chiama con quel nomignolo!” sbottò la defunta first lady. Lui si svegliò, sbatté le palpebre e si guardò intorno per assicurarsi che non fosse un sogno. «Oh, mamma mia, mi hai spaventata!» esclamò AnnaBeth. «E guarda che faccia...! Chi ti ha fat...?»
«Hai una macchina, vero?» domandò Nico. «Prima dimmi chi...» «Hai una macchina? Ho bisogno che mi porti in un posto.» AnnaBeth raddrizzò la schiena. Sgranò ancora di più gli occhi per l’emozione, come se non fosse capace di sbattere le ciglia. «Chiedimi pure quello che vuoi. Lo sai che mi prenderò cura di te.» Da un decennio a quella parte, AnnaBeth era sempre andata a trovarlo almeno una volta all’anno. E adesso era lì, poteva toccarlo... Non le sembrava ancora vero. «Sono così felice che tu mi abbia chiamata, Nicky.» Nico avrebbe potuto telefonare ad altre tre ragazze. AnnaBeth era del North Carolina, il posto più vicino al Tennessee. “Lo sai che appena saremo arrivati le dovrai spezzare il collo, eh?” disse la first lady. Quando AnnaBeth lo fece alzare in piedi, Nico rimase in silenzio. Lei gli cinse la vita con un braccio e insieme si avviarono verso l’auto.
39.
Ventinove anni fa Oceano Atlantico «Che cos’è, una storia di fantasmi?» domandò Alby, seduto a poppa con le gambe incrociate. «Non è una storia di fantasmi», assicurò Julian, piegandosi su un ginocchio per mantenere l’equilibrio. Non lo fece solo perché era sfinito ed era già notte fonda. C’era il mare mosso, le onde sbattevano contro la barca diretta a sud-ovest nell’oscurità. «Puoi informarti da solo», disse Julian. «Fu John Wilkes Booth a premere il grilletto, ma nel 1865, mesi prima di assassinare Abraham Lincoln, lui aveva progettato l’attentato insieme a un gruppo di cospiratori. Non era solo...» «Ragazzi! Venite a vedere...» bisbigliò Timothy appoggiato al parapetto, guardando attraverso il mirino del fucile. «Mi sembra che ci sia qualcosa!» Come un gruppo di ragazzini che si contendono una rivista di donne nude, lo assaltarono tutti insieme, sgomitando per cercare di dare un’occhiata. «Julian, mi senti?» domandò Alby, notando che era rimasto imbambolato a guardare i compagni. In ginocchio sul ponte, Julian stava giocherellando con un frammento di fibra di vetro, aguzzo ma di piccole dimensioni. «Stavi parlando di John Wilkes Booth», lo incitò Alby. «Ah, sì... no...» balbettò Julian fissando gli altri, ma consapevole di quello che sarebbe successo se si fosse unito al gruppo. «Per me, tutto è cominciato... la settimana scorsa, quando ci siamo incontrati sull’aereo, io venivo da Fort McNair, Washington.» «Ma che cosa c’entra con...?» «Per piacere, la smetti di interrompermi? Ti prego», lo implorò Julian, trafficando con il pezzo di fibra di vetro e infilandoselo sotto un’unghia per curvarlo leggermente verso l’alto. «Sto cercando di dirtelo: cent’anni fa, nel posto dove adesso ci sono i campi da tennis di Fort McNair, c’era un penitenziario con una forca di legno. Nei mesi successivi all’assassinio di Lincoln, quel penitenziario ospitò gli otto cospiratori. Sette uomini e una donna...» «Mary Surratt», disse Alby. «Mary Surratt. Era l’unica donna», confermò Julian annuendo. «Nell’afoso luglio del 1865, dopo che erano state emesse le sentenze, un capitano dell’esercito dell’Unione di nome Christian Rath condusse quattro dei prigionieri – Lewis Powell, David Herold, George Atzerodt e Mary Surratt – sul patibolo e mise loro il cappio intorno al collo. Costrinse gli altri quattro a guardare. Poi, mentre Mary urlava la propria innocenza, Rath batté le mani tre volte. Al terzo colpo, i suoi soldati tirarono un calcio agli sgabelli sotto i piedi dei prigionieri e Powell, Herold, Atzerodt e Mary Surratt rimasero appesi. «Il collo di Mary si spezzò all’istante: fu la prima donna messa a morte dal nostro governo. Uno degli uomini rimase a contorcersi per cinque minuti buoni. Poco dopo, erano spirati tutti e quattro. E sai quali furono le ultime parole di Atzerodt? “Speriamo di rincontrarci in un altro mondo”», concluse Julian. Le parole rimasero sospese nell’aria calda.
Alby diede un’occhiata a sinistra, verso gli altri commilitoni, e si accorse che uno di loro stava cercando di ascoltare, anche se faceva di tutto per non darlo a vedere. Il boy scout. Nico. «Che cosa accadde agli altri quattro prigionieri?» chiese Alby. «Questo è il problema, no?» replicò Julian, sollevando il frammento di vetro con l’unghia e piegandolo verso l’alto. «I quattro che non erano stati impiccati – Samuel Arnold, Ned Spangler, Michael O’Laughlen e il dottor Samuel Mudd – avrebbero dovuto essere trasferiti in una prigione federale di Albany. E invece, nel bel mezzo della notte, un soldato li svegliò e li caricò su una nave sul fiume Potomac.» «Una nave?» «Come questa. Non contrassegnata. Perché non doveva dare nell’occhio. Era una nave ospedale. Mudd lo scrisse in un diario. Pensava li stessero trasferendo in una prigione di Albany...» «Julian...» «... ma quando vide che era diretta a sud, capì che non stavano andando ad Albany.» «Julian, la tua mano!» esclamò Alby, indicando il sangue che gli sgorgava dal dito e si riversava sul ponte. A furia di spingere la scheggia, si era bucato la pelle. Nico e alcuni altri cominciarono a fissarlo. Nessuno si offrì di aiutarlo. «Ragazzi, giuro su Dio che vedo qualcosa!» urlò Timothy, continuando a guardare nel mirino. «Vedi, sta già cominciando», continuò Julian. «Di che cosa stai parlando?» domandò Alby. Julian si succhiò la punta del dito insanguinato. «Non vedi?» insistette Julian. «Come cent’anni fa. C’è qualcosa di malefico in questo posto.» «Che posto? Che cosa stai...» Si udì un forte botto. Un lampo rosso si proiettò nel cielo della notte, curvandosi come un arcobaleno. Un flare. «Visto!? È proprio là!» urlò Timothy, quando la luce del segnale luminoso discese verso l’oceano e svelò i contorni di... qualcosa. «Oh, ca... Adesso sì che lo vedo!» disse il ragazzo dell’Arkansas. E poi un altro. Di lì a pochi secondi, una dozzina di giovani reclute stava indicando un punto lontano. Erano nel bel mezzo dell’oceano, ma più in là c’era sicuramente qualcosa. Qualcosa di grosso. La barca sobbalzò, oscillò violentemente e rallentò. «Tutti in piedi, su, forza!» urlò il marine di guardia, emergendo di corsa dalla cabina inferiore. Dietro di lui c’era il dottor Moorcraft con i suoi occhiali alla Arthur Ashe e un portasiringhe con i vaccini contro la malaria. Senza lasciare andare la corda piena di nodi, Alby balzò in piedi e si unì alla fila di reclute. Accanto a lui, Julian continuava a succhiarsi il dito. Poi ci fu un altro bagliore intenso: il faro della barca puntò la sua luce bianca sull’acqua dell’oceano, palesando la sagoma di quello che aveva tutta l’aria di essere... «Ma è un castello?» domandò uno di loro. «Julian, dove cavolo siamo?» bisbigliò Alby. «Un inferno perfetto. Così lo chiamarono gli autori dell’attentato a Lincoln», spiegò Julian appena si profilò una fortezza in muratura, grande come un intero isolato di città. Uno dei migliori nascondigli dello Zio Sam. «È qui che il governo li nascose per quattro anni: a settanta miglia da Key West, ai margini del Triangolo delle Bermuda. L’Isola del Diavolo.»
40.
Oggi Washington, D.C. Nella porta di legno chiusa in cima alle scale c’è una buca per le lettere. Qui arrivavano le lettere sui soldati dispersi indirizzate a Clara Barton. Appena mi chino per sbirciare dentro, la porta si apre. «Immagino che tu sia Beecher», dice un omone nero con gli occhiali. È lo stesso che ho visto al quartier generale. Leonard Riestra, direttore dei servizi segreti. Osservato da vicino, in piedi dietro un basso tavolo da pranzo del diciannovesimo secolo, sembra ancora più grosso: ha il volto largo e butterato, gli occhi infossati e le mani più massicce che abbia mai visto in vita mia. Mi preparo allo scontro. Invece mi sento dire: «Come stanno Tot e Mac?». Ha la tipica parlata strascicata della Virginia. «Conosce Tot e Mac?» «Sono il capo dei servizi segreti, Beecher. Credi che non abbia mai lavorato con il Culper Ring?» mi domanda, prorompendo in una risata fragorosa. Si accomoda su una sedia alla mia destra, lasciando vuoto il posto a capotavola. «Da quando ho saputo quel che è successo, penso a Tot tutte le sere.» La sua gentilezza è talmente immediata che non posso fare a meno di dubitarne. Mentre mi avvicino al tavolo, l’amica del presidente Francy O’Connor, in un angolo, mi fa un rispettoso cenno del capo, come se fosse veramente felice di vedermi. Quello che mi coglie alla sprovvista è che le credo. L’unica altra persona presente è un ispanico dal fisico in forma, ma con l’aria stanca, che mi fa segno di sedermi accanto a lui. Avrà poco meno di cinquant’anni, a giudicare dalla stempiatura. Immagino che sia il braccio destro di Riestra. Lancia un’occhiata al capo. Qualunque cosa stia succedendo, è nervoso. Mi guardo intorno in cerca del presidente. In un angolo c’è una porta chiusa, ma sembra più che altro un ripostiglio. Per il resto, la stanza è stata restaurata in tutto il suo splendore stile guerra civile, con tanto di libreria di quercia intagliata e pallida tappezzeria con motivo di piante rampicanti che satura l’aria di odore di colla. Con la coda dell’occhio vedo un’ombra passare veloce davanti alla buca delle lettere e sparire subito dopo. Non posso fare a meno di pensare a Wallace che origliava durante il nostro incontro nei sotterranei della Casa Bianca. Con tutte le stanze sicure che hanno, è la seconda volta che scelgono un posto inaspettato. Continuano a dirmi che hanno bisogno di me, ma so bene con chi ho a che fare. Mi stanno nascondendo qualcosa. Forse stanno cercando di fermarmi, di escludermi da qualcos’altro. In ogni caso, se si stanno dando tanto da fare perché nessuno ci veda dalle loro parti, è perché vogliono tenere i colleghi all’oscuro di tutto. Solo questo può spiegare la decisione di farmi venire qui. «È lui quello che stavamo aspettando? Quello?» dice una voce che sembra uscire da un altoparlante. Viene dal computer portatile di Riestra, posato al centro del tavolo. Appena lo gira, compare un uomo anziano dal viso scavato e i capelli bianchi tagliati a spazzola. Dalla postura si capisce che è un militare. In fondo allo schermo si legge CACTUS. Anche se non vedessi il nome in codice dei servizi segreti, riconoscerei le pareti rivestite di legno e la
fila di monitor high-tech alle sue spalle. Ci sono stato due mesi fa: è il posto di comando dei servizi segreti a Camp David. Adesso capisco perché sono nervosi. Sorvegliato sia dai marines sia dai servizi segreti, Camp David è ancora più protetto della Casa Bianca, quindi se è spuntato un altro braccio e si trovava chissà come proprio lì... «Len, gliel’hai già chiesto o no?» bercia il vecchio dallo schermo del computer. «Grazie per la delicatezza», commenta Riestra con una risatina forzata. Sembra il risucchio di un lavandino. «Chiesto che cosa?» intervengo. «Beecher, ti presento il dottor Malcolm Yaeger», dice Riestra, mentre l’uomo si infila un paio di guanti di gomma azzurri. «Il dottor Yaeger è il medico legale del Distretto di Tidewater, Virginia. Inoltre, è un grande patriota.» Ho sentito anche Tot utilizzare questo termine. Grande patriota. Negli anni Ottanta, quando gli ostaggi americani tornarono dall’Iran, un grande patriota li alloggiò nell’elegante resort Greenbrier perché potessero finalmente rilassarsi in tutta tranquillità. Più di recente, dopo il ritiro annuale della CIA, un grande patriota trasportò in aereo i massimi vertici dell’agenzia nella cittadina di Cuero, Texas, per permettere loro di riunirsi a porte chiuse e trascorrere una vacanza fuori programma. A volte i grandi patrioti sono ex membri del governo. Altre, sono normali cittadini che si rendono utili alla bisogna. In ogni caso, chiunque sia il dottor Yaeger, il presidente e i servizi segreti si fidano più di lui – e della sua capacità di mantenere il silenzio – che del medico legale del Distretto di Columbia, a cui in teoria spetterebbe il compito di occuparsi della faccenda. «A.J. ti ha già detto che abbiamo trovato un secondo braccio, vero?» domanda Riestra, anche se sto cominciando a capire che lui non fa mai domande, a meno che non conosca già la risposta. Io annuisco e lui afferra la penna d’oro e lancia un’occhiata alla buca delle lettere alle mie spalle. Mi giro a guardare, aspettandomi di vedere un’altra ombra. Niente. «Quest’altro braccio era sepolto nel giardino, appena dietro Aspen», spiega Riestra, riferendosi allo chalet privato del presidente a Camp David. «Abbiamo portato il dottor Yaeger sul luogo per vedere se corrispondeva all’altro.» «Anche se non si può ancora sapere», ribatte il medico, la voce acuta e meticolosa. «Non potremo dare risposte definitive finché non avremo fatto l’esame del DNA, ma quando smembri una persona... chiunque l’abbia fatto...» Gonfia le guance e solleva un ampio asciugamano che assomiglia a una garza sporca di terra. Non ha bisogno di dirlo. Chiunque abbia fatto una cosa simile è un mostro. Infossato al centro della garza c’è un braccio verde pallido, tagliato all’altezza del gomito. Come nel caso dell’arto trovato nel Rose Garden, lo strato esterno di pelle sta scivolando via a causa del processo di decomposizione. A differenza dell’altro, ha le dita aperte, ognuna leggermente annerita in punta. «Ha anche fatto il taglio più difficile», aggiunge il medico indicando il gomito. «Ha tagliato fra il radio e l’ulna, poi ha strappato la giuntura del gomito. Per quanto ne so, è molto più facile recidere la spalla. Per il resto, le dita delle mani sono simili per dimensioni e conformazione. Anche la superficie ungueale.» Regge il braccio come il vincitore di un concorso terrebbe un mazzo di rose. «Entrambe le mani erano molto curate. La vittima era una persona benestante, oppure gli piaceva apparire tale.» «E qual è l’età, secondo lei?» chiedo. «Sulla trentina, anno più anno meno», risponde, pizzicando la pelle cascante. «A giudicare dal livello di decomposizione e disintegrazione, direi che è morto al massimo due settimane fa», aggiunge, e in quell’istante mi viene in mente Tanner Pope, l’agente dei servizi segreti di Reagan morto – si presume – tre settimane fa. Pope era vecchio. Questo, invece, era giovane.
«Ti dice qualcosa, Beecher?» mi sfida Riestra. Appena mi giro a guardarlo, mi rendo conto che non mi ha mai staccato gli occhi di dosso. Scuoto la testa; il direttore decide di non insistere. Guarda di nuovo la fessura nella porta. Se sta aspettando qualcuno, non è ancora arrivato. Si sente un ronzio: è il telefonino di Francy che vibra. Lei lo tira fuori e controlla chi è. Riestra le lancia un’occhiata e lei lo solleva, cercando di non farmelo vedere. Troppo tardi. L’identità del chiamante è semplicemente SW. Riestra annuisce. Shona Wallace. Quando la first lady chiama, non puoi ignorarla. «Malcolm, ripetigli quel che mi hai detto sul taglio», lo sprona Riestra, anche se io sto ancora guardando Francy. La telefonata non dura molto. Lei bisbiglia qualcosa coprendosi la bocca per non farsi sentire, poi riattacca in fretta. «Lo potete vedere da soli», dice il dottore sullo schermo, girando il gomito nella nostra direzione. «Taglio netto. Non è frastagliato. Ha utilizzato una lama affilata, tipo un coltello da macellaio. Ma se lo osservi da vicino, i numerosi graffi sulle cartilagini e sulle ossa fanno pensare a qualcosa di piccolo, tipo un bisturi.» «Digli di...» lo interrompe Francy. «Non ho finito», ringhia Yaeger. «E tanto per essere chiari, per quanto mi riguarda, la tua presenza qui è del tutto superflua.» Francy fa per dire qualcosa, ma Riestra la mette a tacere con un’occhiata gelida. Mi torna in mente l’incontro nei sotterranei della Casa Bianca. Se quel che dice Francy è vero, lei non sa di preciso perché Wallace mi odi, o cosa fece tanti anni fa per mandare in coma quel ragazzo. È un dettaglio che vale la pena di tenere per sé. «Malcolm, stavi dicendo...» aggiunge Riestra. «Stavo dicendo», continua il dottore, «che osservando il punto in cui il braccio è stato tagliato, la pelle è gialla e cerea ai bordi. Non ci sono lividi...» «E che cosa significa?» domando. «Significa che il lavoro è stato fatto post mortem. Chiunque abbia tagliato il braccio della vittima, ha aspettato che fosse morta», chiarisce il medico, parlando più lentamente e girando il volto scarno nella mia direzione. La scena si ripete intorno al tavolo. Alla mia sinistra, sia il vice stempiato di Riestra sia Francy stanno osservando attentamente la mia reazione. Alla mia destra, Riestra stringe la sua penna d’oro più forte che mai. Io li guardo in faccia a uno a uno. «Che cosa sta succedendo qui?» li sfido. «Non sono sicuro di seguirti», dice Riestra. «Apprezzo l’invito e soprattutto il fatto che mi abbiate informato. Ma considerato che io non so nulla di scienze forensi... e che il direttore dei sevizi segreti probabilmente non ha così bisogno della collaborazione degli archivisti locali... e che ci sono altre centinaia di motivi per cui non dovrei trovarmi qui, non posso fare a meno di chiedermi: perché mi avete fatto venire?» Riestra tamburella con un’estremità della penna sulla stanghetta degli occhiali. «Avete trovato qualcosa anche nella seconda mano, vero?» li sfido di nuovo. Ancora nessuna risposta. «Ho sentito quello che ha detto il dottor Yaeger», continuo. «I tagli erano gli stessi, la lama anche, persino le unghie curate. Perciò, visto che stamattina il presidente mi ha detto che nel pugno del primo braccio c’era una monetina da un penny appiattita che riconduceva a mio padre, ora vi chiedo: che cosa avete trovato in questa mano e cosa c’entra con mio padre?» Riestra lancia un’occhiata al suo vice. Questi scuote la testa.
Riestra lo ignora, si gira verso lo schermo del computer e guarda il dottor Yaeger annuendo in silenzio. «Diglielo, Malcolm.» «Len...» «Diglielo!» ribadisce Riestra con un tono di voce che ricorda a tutti che è il capo di una forza combattente multimiliardaria in grado di sconfiggere la maggior parte dei piccoli paesi del mondo. Sul monitor, il dottor Yeager gonfia di nuovo le guance scarne. Solleva un piccolo cartoncino bianco, puntandolo verso la telecamera. Non è più grande di una figurina di giocatori di baseball, ma pieno di linee orizzontali e verticali, come se fosse stato ripiegato diverse volte. «Quando hanno tirato fuori il braccio, gli hanno trovato questo nel pugno», spiega il dottore. «Non capisco.» «Neppure noi», dice il medico. «Non c’è scritto niente, né da una parte né dall’altra. Francy ha detto che tu hai già visto una cosa simile.» Rigira il cartoncino. Non c’è scritto niente, questo è certo, ma appena lo vedo, mi viene subito in mente un plurindiziato a cui loro pensano di continuo: l’uomo che era ricoverato al St. Elizabeths, ossia la materia di cui sono il massimo esperto. Nico. «Deve pisciarci sopra», dico d’impulso.
41.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo Quel giorno dovevano occuparsi di mattoni. «Altri sei?» domandò il marine di guardia di nome Dominic. «Sì, signore», rispose Timothy, mentre il militare aggiungeva sei mattoni alla pila doppia che il giovane stava reggendo con fatica. «Altri sei?» chiese Dominic all’altra persona in fila – Faccia Ovale Arkansas – che ne stava già portando venti. Dai capelli castani appena rasati del ragazzo scivolò una goccia di sudore. A quell’ora della giornata dovevano esserci più di quaranta gradi. «Sì, signore», rispose, mentre Dominic aggiungeva sei mattoni rossi antichi presi dal mucchio disordinato abbandonato sul limitare della spiaggia. Nico arrivò con un carico triplo. Il primo giorno, quando le nuove reclute erano state incaricate di raccogliere pietre per costruire un muro di contenimento, era stato lui a portarne la quantità maggiore. Idem il secondo. Ora era il nono. «Ancora otto o dieci?» lo sfidò Dominic. Nico continuò a fissare la pila di mattoni appoggiata alla sua divisa mimetica ancora nuova e rimase in silenzio. Gli vacillavano le gambe. Gli occhi cominciarono a guizzare avanti e indietro. L’attribuì al caldo e alla mancanza di sonno. Così come attribuiva l’insistente diarrea a qualcosa che aveva mangiato. «Lo sa meglio di me, signore.» «Bravo. Stai cominciando a imparare, Nico.» «Ma sergente, se potessimo usare la carriola, faremmo molto p...» «Ancora una dozzina», disse il marine, raccogliendo dodici mattoni e facendoli cadere a uno a uno in cima agli altri, per sortire il massimo effetto. «Alby, ancora sei?» continuò Dominic, rivolgendosi alla persona successiva in fila. Alby aveva visto The Karate Kid abbastanza volte da sapere che quando ti dicono di raschiare il pavimento, lo raschi e basta. «Sì, signore!» rispose. «E il tuo amico? Dov’è?» gli domandò il marine. «Julian? Sta arrivando.» «Sei sicuro? Perché secondo i miei calcoli è via da venti minuti. Allora, riproviamo: dov’è il tuo amico?» Alby non rispose, sentendo l’ormai familiare tensione alla nuca. Non gli piaceva mentire. «Alby, hai idea del perché sia stato costruito questo posto?» lo incalzò Dominic, indicando l’unica cosa che si poteva vedere sull’isola: una fortezza esagonale conosciuta con il nome di Fort Jefferson. «Prima della guerra civile, il nostro governo temeva che nemici stranieri invadessero la punta sudorientale dell’America. Ci misero decenni a mandare qui sedici milioni di mattoni e a costruire queste mura possenti. Scavarono anche un fossato tutt’intorno... e hai presente i cannoni in cima?» Indicò i Rodman da venticinque tonnellate in parte ancora puntati oltre il parapetto del muro esterno della
struttura. «All’epoca erano i più potenti del mondo e, grazie alla loro presenza, questa fortezza costiera era la più inespugnabile e costosa che fosse mai stata costruita fino ad allora. Faceva concorrenza ai castelli più grandi ed efficienti d’Europa. Le sue mura erano invincibili», spiegò. «Poi furono inventate le navi a vapore, insieme a nuovi tipi di artiglieria in grado di bucare i mattoni come cuscini. Ora della guerra civile, nessun governo al mondo costruiva più fortezze come questa. Il luogo divenne obsoleto. Lincoln lo trasformò in una prigione per disertori e ben presto fu invaso dalle zanzare e dalla malaria.» «Non sono sicuro di capire, signore.» «Alby, oggi il nostro compito è costruire una nuova nave a vapore, un nuovo carro armato e un nuovo tipo di soldato capace di cogliere chiunque alla sprovvista. Per questo vi abbiamo portato qui. Se vi costruiremo nel modo giusto, sbaraglieremo i nostri nemici. Se invece lo faremo nel modo sbagliato, sarà lui a sconfiggere noi.» «Quando dice “noi”, intende Julian.» «Intendo tutti noi. Compreso Julian», precisò il marine, prelevando quattro mattoni e aggiungendoli alla pila di Alby. «Lo sappiamo tutti che Julian è in difficoltà. Aiutalo ad aiutare sé stesso. Devi trovarlo. Subito.» «Sì... lo troverò, signore», disse Alby, sforzandosi di reggere i mattoni come se fossero un sacchetto della spesa bitorzoluto. Alby era sempre stato una persona nervosa, ma tutto ciò che aveva passato negli ultimi tempi – dall’incidente aereo a quella settimana sull’isola – cominciava a provocargli delle conseguenza fisiche. Il dolore al collo si era trasformato in un gonfiore, uno spesso nodo in cima alla spina dorsale. Non ne aveva parlato con nessuno. Come Nico, non ammetteva mai di provare dolore. «Lo trovo subito», ripeté Alby, e si affrettò verso l’entrata principale della fortezza, inciampando nella sabbia. Mentre attraversava l’ombreggiata arcata di mattoni, osservò le quattro aperture verticali che aveva ai lati. Feritoie. Tre secoli prima, se un nemico si avvicinava al castello, gli arcieri si sistemavano dietro le mura e infilavano le frecce in fessure come queste, uccidendo gli aggressori da uno spazio protetto. Quando le frecce divennero obsolete, si fece la stessa cosa con le armi da fuoco. «Hai visto Julian?» urlò Alby al ragazzo alto del Texas, che lo stava superando di corsa per raggiungere il cortile erboso di Fort Jefferson, un terreno di più di sei ettari punteggiato di palme da dattero e cumuli di sabbia portati dal vento. Il texano lo ignorò. Nessuno voleva avere molto a che fare con Julian. Né con Alby, per la verità. «I mattoni vanno lì!» gli urlò un altro marine di guardia, indicando un mucchio diverso, dove Nico e Timothy stavano buttando i propri. Accanto a loro, altre due reclute stavano posando le fondamenta di una piccola struttura rettangolare grande suppergiù come un campo da squash. All’inizio, Alby aveva pensato che sarebbe diventato un muretto di contenimento o una fognatura. «Qualcuno ha visto Julian?» domandò Alby. Di nuovo fu ignorato. Gettò i propri mattoni nel mucchio, scrutando ogni angolo del cortile. Alla sua sinistra c’era la caserma di cemento. Alla sua destra, la casa di mattoni rossi stile New Orleans dal portico quadrato che ospitava gli alloggi degli ufficiali. Per il resto, il forte era perlopiù deserto e abbandonato, fatta eccezione per un altro settore che era... Naturalmente. La prigione in cui un secolo prima erano stati rinchiusi il dottor Mudd e gli altri cospiratori contro Lincoln. Quando però riprese a correre, Alby notò un lampo arancione. Alla sua destra. Vicino alla porta scorrevole di pino chiaro con su scritto: AREA MECCANICA – VIETATO L’INGRESSO
Dal punto in cui si trovava e grazie alla luce del sole che filtrava dalla porta aperta, Alby non fece nessuna fatica a riconoscere quel bagliore. I capelli rossi di Julian. “Che cavolo combina?” pensò avvicinandosi all’ingresso. Alle sue spalle, Nico e Timothy stavano tornando a prendere mattoni. L’altro marine di guardia e i suoi compagni Plankholders erano di nuovo impegnati a costruire la struttura di mattoni. Come al solito, nessuno stava facendo caso a Alby. Aprì la porta, si infilò all’interno e la richiuse facendola scorrere di lato. Sentì un odoraccio di acqua piovana stagnante e uno ancora più rancido di urina. Lungo la parete di fondo erano allineati tre generatori coperti di ruggine. Sulla sinistra c’erano delle cassette per il latte piene di attrezzi altrettanto arrugginiti. Julian, che dava le spalle a Alby, era in ginocchio con le mani sollevate sul petto. «Julian, stai bene?» Lui non rispose. «Perché sei...?» Alby si zittì, avvicinandosi di qualche passo. «Stai pregando?» Ancora niente. «Julian, per una volta, potresti evitare di fare il pazzo? Ti crocifiggeranno. Il sergente sa che non stai lavorando!» Julian accennò a girarsi. Schioccò le labbra. «Alby, come ti senti negli ultimi tempi?» «Che cavolo dici? Sbrigati, dobbiamo andare!» «Rispondi alla mia domanda. Da quando siamo arrivati su quest’isola... ti senti bene?» domandò Julian, girandosi un altro po’. Aveva qualcosa in mano. Un piccolo libro tascabile. Julian non stava pregando, bensì leggendo. «Alby, credo di averlo scoperto.» «Scoperto cosa?» «Quello che stiamo costruendo. Tutto questo lavoro... tutti questi mattoni», disse. «Lo sai che cosa stiamo costruendo là fuori?» «Un muro di contenimento... un gabinetto all’aperto... Non importa che cos’è. È addestramento: ci fanno lavorare finché...» «Un forno», lo interruppe Julian. «Cosa?» «Una fornace. Ecco perché ci sono quelle», e indicò delle sbarre di ferro ammucchiate in un angolo della stanza, all’incirca del diametro di stecche da biliardo, ma lunghe almeno sei metri. Lì vicino c’era una catasta ordinata di grate di metallo, tipo quelle di un barbecue. «Julian, quand’è stata l’ultima volta che hai mangiato qualcosa? Non hai una bella cera...» «Sta scritto in questo libro. L’ho trovato», continuò Julian, con gli occhi che guizzavano più che mai, mentre sollevava quel vecchio libro tascabile. Aveva una copertina bianca con una foto in bianco e nero di un uomo dell’Ottocento quasi calvo, dalla barba aguzza e troppo lunga. IL DIARIO DEL DOTTOR MUDD, c’era scritto a grandi lettere. Uno dei famosi assassini di Lincoln. «La struttura che stiamo costruendo... era in piedi all’epoca in cui c’era lui... quando la fortezza era stata appena costruita. Si chiama forno per proiettili.» «Dai, forza, usciamo di qui. Hai bisogno di un po’ d’acqua.» «Non mi stai ascoltando, Alby. È tecnologia risalente alla Roma antica. Si parla dei primi superarmamenti costruiti al mondo. I romani erigevano una lunga fornace di mattoni, come due corsie del bowling. Poi prendevano le palle di cannone e le facevano scivolare su queste sbarre di ferro sistemate in pendenza sopra le fiamme. Quando la palla di cannone usciva dall’altra parte, aveva una temperatura superiore a cinquecento gradi. A quel punto, le lanciavano contro le navi nemiche, facendole volare sopra il mare. Una normale palla di cannone fa già un bel po’ di danni. Ma quelle surriscaldate incendiavano una nave intera. All’istante.»
«Julian, mi sa che dovresti...» «Che eleganza, eh?» commentò Julian, afferrando una grata nera e appoggiandosela sulle ginocchia, sopra il libro. «A volte mi chiedo se non sia proprio questa la nostra specialità come popolo: diventare sempre più bravi ad ammazzarci a vicenda.» «Non ad ammazzarci a vicenda», lo corresse Alby. «Tutto questo addestramento serve a combattere un nemico.» «Sì... no...» disse Julian, abbassando lo sguardo e lasciando la mano sospesa sopra la grata nera posata sulle ginocchia. «Intendevo dire proprio questo.»
42.
Oggi Washington, D.C. A.J. contò gli scalini. Erano sedici in tutto. Nel mondo dei servizi segreti, l’agente in prima linea – quello con la schiena praticamente attaccata al presidente mentre si sposta in mezzo alla folla – si dice che sia a un ciglio di distanza. L’uomo che porta il fucile nella limousine presidenziale si trova invece a un braccio dal comandante in capo, mentre quello seduto sull’ambulanza in coda al corteo di auto a sorvegliare la scorta di sangue del presidente sta a tredici auto. In quel momento, l’agente A.J. Ennis, in piedi con i tacchi uniti sul tappeto grigio e rosa ricamato a mezzopunto in fondo alle scale ristrutturate della casa di Clara Barton, era a sedici scalini. Non male, davvero. A meno che, naturalmente, non si sia abituati a stare a un ciglio. “Come sta andando?” aveva chiesto via SMS a Francy, che si trovava nella stanza al piano di sopra insieme a Beecher e al direttore Riestra. A.J. guardò il telefonino. Erano passati dieci minuti e lei non aveva ancora risposto. Fermo ai piedi di quei sedici scalini, A.J. vedeva chiaramente il primo piano. C’era una porta chiusa, e una luce usciva dalla buca delle lettere. Sarebbe stato facile salire a origliare. Ma neppure A.J. era paranoico a tal punto. Non rimproverava a Francy il fatto di trovarsi lì dentro. Lavorava da decenni con il presidente, erano andati al potere insieme, e quando era morta la madre di Wallace c’era anche lei seduta al capezzale dell’anziana. Francy faceva parte della famiglia, soprattutto per la first lady. Ma anche A.J. Trent’anni prima, ai tempi in cui studiavano legge, il padre di A.J. era stato uno degli amici più cari di Wallace. Si erano invitati ai reciproci matrimoni. E durante l’ultimo semestre, quando i soldi erano talmente pochi che la scuola minacciava di negare al futuro presidente l’iscrizione ai corsi finché non avesse pagato la retta, il padre di A.J. aveva telefonato al suo. Il giorno dopo un donatore anonimo aveva staccato un assegno per saldare il conto in sospeso di Wallace. Da allora, non se n’era più parlato. Ma, come accade in qualunque famiglia, nessuno l’aveva mai dimenticato. Anni dopo, quando A.J. aveva presentato domanda per ottenere quel lavoro, non aveva approfittato delle sue conoscenze. I servizi segreti sanno valorizzare il talento. Ma quando aveva fatto carriera fino a entrare nella scorta del presidente, era stato in virtù dell’antico legame che Wallace aveva cominciato a richiedere personalmente la sua presenza. In quei primi mesi, il presidente aveva messo la propria vita nelle mani di A.J. Poi, dopo le visite alla Blair House e a Lake George e, naturalmente, quel viaggio ufficioso nell’Ohio in cui aveva dimostrato la sua lealtà, anche A.J. aveva cominciato a mettere la propria vita nelle mani di Wallace. Eppure, nonostante tutto quel che aveva fatto per lui e tutti i segreti che custodiva, A.J. era ancora lì a piedi uniti su quel tappeto ricamato a mezzopunto, a fissare la porta chiusa, a sedici gradini dall’azione. “Non è così grave”, si disse, anche se non poté fare a meno di pensare che era già successa la stessa cosa all’ospedale, quando il presidente e Francy avevano incontrato Marshall. Loro erano dentro. Lui
fuori. Sbirciando di nuovo la buca della posta, A.J. appoggiò la punta del piede sul primo scalino. Poi la tolse. Ogni giorno vedeva i membri dello staff gareggiare fra loro per entrare nella cerchia più ristretta del presidente. Ma come tutti quelli che ne facevano già parte ben sapevano, non c’era odore peggiore di quello della disperazione. “Va bene così”, insistette fra sé e sé, ben consapevole di portare ancora sul bavero la spilla blu che designava la vicinanza al presidente. “Ti diranno tutto quando avranno finito.” Considerato che di sopra c’era Beecher – per non parlare del suo diretto superiore, Uragano Riestra –, Francy aveva già abbastanza da fare. Era un buon consiglio. Quello giusto. Questo però non significava che, lì in piedi in fondo a quei sedici scalini, ci credesse davvero.
43.
«Pisciare?» «Si fidi. Ci urini sopra», ripeto al dottor Yaeger in teleconferenza. «Inchiostro invisibile», aggiunge il direttore dei servizi segreti. Riestra sa di cosa si tratta. Due mesi fa ho sorpreso Nico a utilizzare l’inchiostro invisibile per scrivere messaggi segreti su un mazzo di carte da gioco. È un trucco rubato a George Washington in persona che, come capo del Culper Ring, se ne serviva per inviare messaggi segreti durante la guerra d’indipendenza. Non era nulla di nuovo. Lo stratagemma risale a migliaia di anni fa; era in uso in numerose zone del mondo, dall’Egitto alla Cina, dove venivano impiegati succhi ricavati da porri, limoni e lime. Ma come sa qualsiasi vincitore di concorso scientifico da quattro soldi, se scrivi una cosa con del succo di limone, basta avvicinare una candela alla carta e, di lì a poco, il messaggio segreto comparirà. Ecco perché George Washington decise di sostituire il processo di riscaldamento con un processo chimico. Lui scriveva il suo messaggio segreto con un inchiostro invisibile chiamato «agente». Il destinatario utilizzava poi un’altra sostanza chimica, detta «reagente», per renderlo leggibile. Finché non fossero riusciti a trovare il reagente, i britannici non avrebbero potuto decifrare il codice. È un trucco che il nostro governo usa tutt’oggi. «Credi che non sapessimo che era inchiostro invisibile?» domanda il dottor Yaeger. «Ho provato tutti i reagenti a nostra disposizione, dalla formula privata dei servizi a quella della CIA, persino dell’MI5.» «Lei dimentica di chi stiamo parlando», sottolineo. «Nico è rimasto rinchiuso al St. Elizabeths per quasi dieci anni della sua vita, senza poter disporre di alcun kit chimico. L’unico liquido che utilizzava laggiù era quello che aveva sempre a disposizione.» Il medico sullo schermo fissa il cartoncino bianco trovato nella mano del braccio rinvenuto a Camp David. Accanto a me, Francy e il vice di Riestra sono talmente silenziosi che si sente il rumore della colla della tappezzeria che si rapprende. «Vai a pisciare sul cartoncino», ordina il capo dei servizi segreti.
44.
«Dove l’hai trovata?» domandò l’agente Goddard, chino sulla scrivania del proprio cubicolo, massaggiandosi il pizzetto grigio. «Un amico», rispose Mina, fissando la fotocopia della monetina appiattita di Beecher. «Il tuo amico è sicuro che fosse un’unità della marina militare?» «Così ha detto.» «Allora perché non hai portato anche il tuo amico?» chiese Goddard. «Non è un dipendente dei servizi segreti.» Goddard sollevò la testa, i suoi occhi da professore erano sempre più incandescenti. «Mina, sono il Danny Glover di tutti gli episodi di Arma letale. Mi mancano centotrentatré giorni alla pensione. Perciò, se hai intenzione di farmi finire nella merda fino al...» «Ma no, non è niente di terribile. È roba ufficiale dei servizi», lo rassicurò lei, notando che era tornato a fissare l’immagine. «Ha individuato qualcosa, vero?» lo incalzò. «La civetta e il padre nostro. Non sono solo... sono qualcosa di più di una semplice civetta e di una preghiera, giusto?» «Veramente, secondo me, rappresentano esattamente quello che sono: il padre nostro sta sempre scritto sulle monete da un penny... e la civetta che stringe l’asse è chiaramente la mascotte dell’unità di riferimento. Ma quello che mi interessa di più è questo.» Puntò il dito incartapecorito sull’iscrizione sotto la civetta: HL-1024. «Non è il numero della loro unità?» buttò lì Mina. « I numeri delle unità non funzionano così», spiegò Goddard. «Le unità della marina militare di solito hanno solo un numero, o due al massimo, tipo Squadrone 7... O, come nel caso della portaerei Nimitz, CVN-68, ma non riesco a pensare a nessuno squadrone della marina militare che abbia tre cifre, tanto meno quattro, come 1024. Persino le unità dell’esercito di solito hanno solo tre cifre. Secondo me, le uniche con quattro cifre sono quelle di riserva o mediche. Come la 4077.» Mina lo fissò in volto. «Quella di m*a*s*h», spiegò Goddard. Ancora niente. Alzò gli occhi al cielo e tornò a fissare l’immagine della moneta. «Ancora più enigmatica è la sigla HL», aggiunse. «Nella marina militare abbiamo squadroni HS, come per esempio l’HS-10, che si occupa di manovre antisottomarino in elicottero, o l’HSC-3, specializzato in combattimenti in elicottero sul mare. C’è persino lo squadrone HSL e il più nuovo HSM. Ma non mi viene in mente nessun HL.» «Allora HL-1024...» «Non è un numero di unità. E se devo tirare a indovinare...» Goddard si avvicinò ulteriormente al foglio, socchiudendo gli occhi per leggere i caratteri minuscoli. Li studiò in silenzio. «Secondo me è una mappa», disse alla fine. «Che cosa?» «Una mappa. Guarda il formato – HL-1024 – due lettere seguite da quattro cifre. È il formato standard di quasi tutte le mappe militari esistenti: due lettere, quattro cifre.»
«Quindi è la mappa di qualcuno?» «O di tutta l’unità. Forse è il luogo dove è stata costituita o dove ha combattuto la prima battaglia. In ogni caso, se dovessi scommettere, e lo faccio sempre, direi che sono coordinate.» Quando Goddard le restituì la fotocopia, lei si concentrò sulla scritta HL-1024. «Mi può dire quale luogo indica?» «No», rispose Goddard, massaggiandosi il pizzetto. «Ma conosco una persona in grado di farlo.»
45.
Dieci giorni fa Carter Lake, Iowa «Mamma mia, che quartiere», commentò AnnaBeth, sporgendosi in avanti per guardare fuori dal parabrezza. «Sarà a sinistra», suggerì Nico dal sedile del passeggero, fissando dritto avanti a sé e non mostrando il benché minimo interesse per le case esclusive del residence Shoreline Estates. Era ancora buio; talmente presto, che non avevano ancora consegnato i giornali. Ci avevano messo più del previsto ad arrivare nell’Iowa. Per non farsi scoprire, avevano viaggiato solo di notte, e ci era voluto un giorno in più per curare le ferite di Nico. Nei motel, lui e AnnaBeth non avevano mai dormito insieme. Non si erano mai baciati. Quasi neppure toccati, cosa che AnnaBeth interpretò come un buon segno. Prima doveva esserci il corteggiamento. A volte posava la mano su quella di Nico, e lui non la ritraeva. “Quando le avrai tagliato la gola, credi che riuscirai a vederla come un fantasma, come me?” domandò la first lady. Nico non rispose. Ci aveva pensato. Di solito continuava a vedere l’ultima sua vittima, ma con il colonnello Doggett non era successo. “Forse funziona solo con le donne”, aggiunse la first lady ridendo. “Di’ la verità, però: che cosa faresti senza di me?” «Eccolo, è questo», annunciò Nico ad AnnaBeth, indicando il ranch vecchio stile, con la facciata in pietra e una ghirlanda di Natale ancora sulla porta. La casa apparteneva al dottor Moorcraft, che sull’isola aveva fatto tutte quelle vaccinazioni a lui, Alby e Timothy. «Il tuo amico sarà felicissimo di rivederti. Sarà una grande emozione per lui», osservò AnnaBeth, il viso rotondo raggiante, la voce così euforica da scoppiettare come fuochi d’artificio. Allungò la mano verso il sedile del passeggero e l’appoggiò su quella di Nico. «E quando ti avrà aiutato a trovare un altro nome... Dev’essere un avvocato, un grande avvocato...» «Se avessi voglia di parlarti di lui, lo farei», sbottò Nico. AnnaBeth si irrigidì sul sedile, ma non troppo. Nico non aveva ancora ritratto la mano. “Come credi che reagirebbe, se sapesse che cosa stai per fare là dentro?” domandò la first lady. Lo sguardo di Nico scivolò di lato, verso il lungo vialetto d’entrata di quella casa marroncina troppo grande, con la ghirlanda di Natale sulla porta. Era lì che Moorcraft era rimasto nascosto tutti quegli anni, nell’Iowa. «Non parcheggiare proprio davanti», disse Nico, indicando la casa accanto. A metà isolato, AnnaBeth spense il motore e si slacciò la cintura di sicurezza. Nico le lanciò un’occhiata. «Posso aspettare qui, se preferisci», propose. «Sarebbe meglio», rispose lui, squadrandola in volto, finché non si fu di nuovo allacciata la cintura. Se fosse andato storto qualcosa, almeno avrebbe potuto portarlo via di lì. Aprendo la portiera con una pedata, aggiunse: «Così gli faccio una sorpresa».
46.
Oggi Crystal City, Virginia «Non mi credi, vero?» domandò Clementine dalla cucina. «Te l’avevo detto che non ti avrei creduto», replicò Marshall, senza posare il coltello e guardando di nuovo verso il soggiorno. «Non credo a una parola di quello che dici, Clementine.» «Ma se vanno a cercare Beecher...» «No. Basta bugie», la interruppe, girandosi verso di lei, e poi di nuovo verso la sala. «Perché lo fai?» chiese Clementine. «Faccio che cosa?» «Quella cosa con la testa. Tutte le volte che parli, ti giri dall’altra parte. Ti...» Fu sul punto di dire qualcosa, ma poi cambiò idea. «Ti preoccupi per il tuo aspetto?» Marshall la fulminò di nuovo con lo sguardo e fece un profondo respiro dal naso. Come un bue. «Non provare a giocarti la carta delle ustioni», l’avvertì. «No, no, aspetta... è per via delle bruciature che... È per questo che vivi così?» continuò, indicando il grande divano in soggiorno, il tavolino in vetro e metallo e la vetrinetta abbinata. «Hai ordinato tutto direttamente dal catalogo, vero? Compresi il piattino per le caramelle e le candele. Non hai foto né immagini incorniciate, non c’è un solo libro in tutto l’appartamento. L’unico oggetto personale che c’è qui dentro è quel quadretto là», disse, indicando l’elegante dipinto poco più grande di un iPad appeso alla parete opposta. Era un ritratto di donna con gli occhi sfocati e senza bocca. Sta entrando in un placido laghetto turchese, il busto e le braccia aperte si fondono morbidamente con l’acqua. La firma in basso è di Nuelo Blanco. «L’ho cercato, questo Blanco. È un quadro da quarantaduemila dollari. Devo proprio chiedertelo, Marshall, questa è la tua vera vita o solo una copertura? Se dovesse andare storto qualcosa, potresti prenderti il quadro, fuggire e ricominciare tutto daccapo, come fece tuo padre quando morì tua madre?» «Evita anche di parlare dei miei genitori. Conosco il tuo modo di combattere, Clementine: con le unghie e con i denti, scavando nel punto emotivamente più debole. Sei come una termite.» «E tu come un mulo», ribatté lei. «Ti ho appena detto che stanno cercando di ammazzare il tuo amico Beecher e tu non fai una piega, ti giri dall’altra parte e ti preoccupi di quello che posso pensare della tua triste faccia bruciata?» Marshall si rifiutò di abboccare. «Sai che cosa ricordo di te, Clementine? I tuoi orecchini.» «I miei... che cosa?» «Quando avevamo circa dodici anni, c’era questa ragazza delle superiori con cui avevi litigato.» «Kathy Stankevich.» «Be’, il nome non importa. Ti stava aspettando nel cortile della scuola; quando erano arrivati di corsa vicino al tuo armadietto per avvisarti, io ero in corridoio. Ti avevano detto che c’era questa ragazza che ti stava aspettando in cortile, e io non dimenticherò mai il modo in cui ti togliesti gli orecchini, te li ficcasti in tasca e uscisti in cortile con i pugni chiusi. Sempre pronta a fare a botte.»
«Sai che cosa ricordo di te, Marshall? Quando eravamo in terza elementare, avevamo fatto una colletta in parrocchia per regalarti un coniglietto. Dicevano che desideravi un animale domestico.» Marshall non reagì. «Sapevamo tutti perché avevamo raccolto i soldi. Tu eri il bambino povero con il papà paralizzato sulla sedia a rotelle. Ogni Natale la comunità sentiva il bisogno di comprarti qualcosa e quell’anno fu un coniglietto.» «Allora, qual è il punto?» «Il punto è che più tardi, quando ci fecero venire tutti alla tua festa di compleanno, mia madre portò il coniglietto a casa nostra. Sai perché? Perché quando lo vide a casa tua aveva lunghe unghie adunche che uscivano dalla gabbia di metallo, perché nessuno giocava con lui da tantissimo tempo.» Marshall mantenne la sua postura rigida. «Ero allergico. Mia madre se lo teneva in camera sua.» «Non ho detto che tu l’abbia fatto apposta, Marshall. Ho detto solo che hai fatto questa cosa tanti anni fa.» Continuò a fissarlo negli occhi. «Quando sai che una persona ha avuto una disgrazia nella vita, la vedi solo com’era prima. Ma nessuno rimane uguale.» Marshall guardò il pavimento e allargò le dita della mano sinistra, tendendo la pelle. Sapeva chi era Clementine. Conosceva le sue disgrazie. E sapeva anche che aveva ragione. «Chi sono queste persone?» domandò alla fine. «Come?» «Prima, quando hai menzionato Ezra per la prima volta, hai detto che volevano uccidere Beecher. Hai usato il plurale. Chi sono?» Clementine si avvicinò al lavandino e sputò sangue. Non fu uno sputo veloce come quello di un giocatore di baseball seduto in panchina. Fu un movimento lento, la saliva si raccolse dietro le labbra, poi rimase sospesa come una luccicante tela di ragno strappata. «Mai sentito parlare dei Cavalieri del cerchio d’oro?»
47.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo Quel giorno si sarebbero occupati di palle di cannone. O, almeno, così era previsto. Alle 4.40 del mattino la sveglia riscosse violentemente Alby da un sogno in cui si trovava in cucina e stava facendo quel gioco con i bambini: camminava trascinando i suoi tre figli – due femmine e il piccolo Beecher – aggrappati alle caviglie. Nel sogno, però, avanzava nell’oceano, e tutti e tre sprofondavano e annegavano. Nel corso dell’ultima settimana, mentre stavano finendo di costruire la fornace di mattoni, aveva trascorso i momenti di pausa sulle rive dell’isola, a fissare l’oceano verde azzurro e a ripetersi che il lavoro lo stava rafforzando. Certi giorni ci credeva. Quella mattina, quando si alzò dal letto e si mise in fila per andare in bagno, sentiva ancora male alle braccia, alla schiena e soprattutto alle mani piene di vesciche. «Era troppo tardi», disse Arkansas riferendosi alla sera precedente, quando i marines di guardia li avevano fatti lavorare alla fornace fino all’una di notte. Alby annuì ed entrò nella doccia, facendo scorrere l’acqua fredda. Sull’isola l’aria condizionata c’era solo negli alloggi degli ufficiali, perciò appena Alby chiuse il rubinetto, si sentì colare sulla fronte calde gocce di sudore pronte a finirgli negli occhi. La diarrea stava peggiorando, cosa che secondo lui dipendeva dal cibo. Anche il dolore pulsante alla base del cranio, che lui attribuiva al debito di sonno. Ma il momento più brutto in assoluto fu quando tornò alla propria branda e vide che il letto accanto al suo, quello di Julian, era già fatto, come se non ci avesse dormito nessuno. «Julian, sei qui?» gridò Alby guardandosi intorno nella stanza, affollata di giovani intenti a infilarsi canottiere e ad allacciarsi gli anfibi. Il caldo era talmente intenso che il sergente aveva smesso di obbligarli a indossare l’uniforme completa. Nessuno rispose. Dove cavolo era finito? Alby ripensò alla notte precedente. Julian era in caserma, a leggere, come al solito. «Qualcuno ha visto Julian?» urlò. «Andiamo, caserma vuota!» li sollecitò Timothy, mentre il gruppo di giovani Plankholders si affrettava a percorrere il corridoio che separava le due lunghe file di letti. Sapevano quali sarebbero state le conseguenze, se non si fossero presentati come unità compatta. Alby, ancora alle prese con le stringhe, raggiunse la porta saltellando e si accorse che uno di loro era rimasto immobile. «Nico, vieni?» disse Timothy. Nico non alzò lo sguardo. Era seduto sulla branda, i gomiti sulle ginocchia, gli anfibi ancora slacciati. «Che cosa fai? Che cosa c’è che non va?» domandò Timothy. «È successo qualcosa di brutto», bisbigliò Nico. «Nico, lo so che è presto. Siamo tutti stanchi...» «Non mi stai ascoltando», ribatté l’altro. «Il mio udito. Sento delle cose. È successo qualcosa di
brutto. Fuori.» «Che cosa stai dicendo?» chiese Timothy. Alby non sentì lo scambio di battute. Era già quasi uscito, in cerca di... «Julian! Sei qui fuori...?» urlò nell’oscurità del mattino. Una raffica rovente di aria salmastra gli provocò la prima ondata di sudore sulla fronte e poi negli occhi. Scese di corsa gli scalini di cemento e setacciò con lo sguardo il cortile erboso. Vicino alla fornace si vedevano tremule lame di luce. Torce elettriche. Secondo il rapporto ufficiale di tre giorni dopo, Alby avrebbe dovuto aspettare il resto dell’unità. Invece si mise a correre. Dapprima adagio, una corsettina leggera. Cercò di autoconvincersi che era tutto normale. La sera precedente avevano usato torce elettriche per trasportare sacchi di carbone nella fornace. Le avevano impiegate anche per accendere il fuoco per la prima volta, per accertarsi che funzionasse. Fra le grida esultanti di tutti i Plankholders, una nuvola nera di fumo era salita in cielo. Quel giorno, alle 4.56 del mattino, nessuno stava esultando. «Julian, sei tu?» domandò Alby, socchiudendo gli occhi nell’oscurità e individuando tre ombre diverse vicino al lato posteriore della fornace di mattoni. Un lampo di luce bianca lo abbagliò, una torcia si era girata nella sua direzione. «Vi avevo detto di farli rimanere dentro!» urlò una voce profonda. «Toglietelo di mezzo!» berciò un altro. Alby conosceva quella voce. Il colonnello Doggett. Socchiuse gli occhi e se li schermò con una mano, ma non riuscì a vedere nulla. Però sentì l’odore. Quando Alby era appena uscito dalla caserma, il vento caldo soffiava nella direzione opposta. Ora si avvicinò, cercando di capire che tipo di odore fosse. Era putrido e dolciastro, talmente intenso da pizzicare le narici e appiccicarsi alla lingua. Non avrebbe saputo descriverlo a parole, ma tutti sanno riconoscere l’odore di marcio. Un fumo nero eruttò vorticoso dal comignolo di mattoni rossi. «Julian...» bisbigliò Alby, correndo verso la fornace. «Portatelo via di qui! Immediatamente!» urlò qualcuno. Le torce ruotarono e cambiarono direzione, facendo luccicare debolmente il fumo nero che ora fuoriusciva dalla porta posteriore e dalle finestre a forma di croce della fornace. Qualunque cosa stesse bruciando lì dentro, era grossa. «Julian...!» gridò Alby quando un paio di mani forti lo afferrarono per i bicipiti. Aveva le braccia talmente viscide di sudore che riuscì a divincolarsi e a correre avanti per vedere meglio. Per poco non inciampò in un anfibio abbandonato. Era carbonizzato. «Julian... Oh, mio Dio... Che cosa hai fatto...!?» Altre mani lo afferrarono. Poi altre ancora. «Lasciatemi stare! È mio amico!» strillò Alby, dibattendosi violentemente in mezzo alle ondate di fumo. Tutti cominciarono a tossire. Lo sportello della fornace stava ancora vomitando fumo, quando un’ombra ampia e familiare si girò verso Alby. Il luccichio della torcia elettrica gli rischiarava la faccia da Babbo Natale. Il colonnello Doggett non disse altro. Con un ultimo strattone, trascinarono via Alby, con gli anfibi che sobbalzavano su quel cortile di mattoni abbandonati. «Lasciatemi!» urlava lui, continuando a tossire e a dimenarsi, ancora determinato a vedere che cosa c’era là dentro.
Non ci riuscì. Il fumo nero usciva turbinoso, dissipandosi appena raggiungeva l’oceano. Nell’oscurità del cortile, i militari di guardia urlarono, costringendo i Plankholders a tornare in caserma. Per tutto il resto della sua breve vita, Alby non avrebbe più dimenticato l’odore putrido e dolciastro che gli pervase le narici quella notte.
48.
Oggi Washington, D.C. «Dottore, che cosa vedi?» urla il capo dei servizi segreti fissando lo schermo. Siamo tutti stretti intorno al computer portatile, come ragazzini curiosi. Sullo schermo non si vede nulla, a parte una sedia vuota. Poi si sente lo sciacquone di un gabinetto. «Malcolm?» insiste Riestra. Yeager compare da destra, stringendo con le dita guantate i bordi del cartoncino bianco umido. Aggrotta le sopracciglia bianche, ancora confuso. «Che cosa dice?» domanda Riestra. «Ditemelo voi.» Appena il medico gira il cartoncino un tempo bianco, compaiono dei segni viola chiaro... «Quelle sono lettere?» chiede il direttore. Tutti ci protendiamo in avanti. Sullo schermo vediamo: «Alfabeto Morse?» domanda Francy. «Non è Morse», risponde deciso Riestra. «Ebraico?» fa il vice. «Neppure.» «Non è neanche inglese, a parte la S», aggiunge il dottore. «È un codice», dico io. «Un codice? Oh, grazie tante, Langdon», mi provoca Riestra. Lo ignoro. Francy sta guardando nella mia direzione. Sono incollato allo schermo, poi comincia a fremermi il sopracciglio. «Lo conosci, Beecher?» chiede il dottore. Sono pressoché immobile. «È già stato utilizzato da Nico?» «Non da Nico. Anche se scommetto che lui lo conosce», osservo, avvicinandomi ulteriormente. «È un cifrario a sostituzione, risalente alla guerra civile. Viene dagli scritti di un uomo chiamato George Washington Bickley.» Francy si gira verso di me. È un nome ridicolo e difficile da dimenticare. «Alla fine dell’Ottocento, Bickley era il capo dei...» «...Cavalieri del cerchio d’oro», interviene Francy. Annuisco, senza staccare gli occhi dal cifrario. Francy tira fuori il telefonino e, con un cenno, si offre di aiutarmi a fare una ricerca online. Scuoto la testa. Come se avessi bisogno di un telefono. «Sei in grado di decifrarlo?» domanda Riestra. «Che cosa dice?» Socchiudo gli occhi, vedendomi riflesso nello schermo. Uno alla volta, sostituisco i simboli con una
lettera. Ci sono solo sette caratteri, immagino sia un nome. Oppure – conoscendo Nico – un qualche luogo criptico e oscuro. Quando finisco di inserire le lettere e comporre mentalmente la parola, provo un senso di costrizione alla gola. «Sembra un messaggio», suggerisco, pensando al presidente. «Beecher, spiegaci che cosa significa!» «È una parola sola: Goodbye.»
49.
Dieci giorni fa Carter Lake, Iowa Quando il dottore si espose al freddo del mattino ancora in accappatoio, non stava pensando né alla sua pressione alta né al divorzio di sua figlia e neppure alla pancreatite acuta che l’aveva afflitto di recente, procurandogli il diabete e una serie di nuovi problemi. Mentre usciva dalla porta di casa e percorreva il lungo vialetto alla ricerca del suo quotidiano, stava pensando alla ragazza con le tette finte che faceva sempre la smorfiosa con lui in lavanderia. Invecchiare era abbastanza difficile di per sé. Nei sobborghi residenziali, era ancora peggio. Quasi quasi, oggi le avrebbe portato un’altra camicia stropicciata, tanto per vedere quanto si sarebbe sporta sul banco. Giunto in fondo al vialetto, si sollevò i solidi occhiali alla Arthur Ashe sul naso, talmente assorto nel pensiero del petto della ragazza da non accorgersi neppure dell’uomo che lo stava aspettando accanto alla cassetta delle lettere. «È più ecologico leggerlo online», disse Nico con la sua voce piatta e monocorde, consegnando al medico il «Wall Street Journal». Il dottore incrociò lo sguardo dell’uomo a cui, tanti anni prima su quell’isola, aveva distrutto la vita. Nico era lì in piedi, dritto come un fuso, il mento sollevato. Il dottor Moorcraft barcollò leggermente, si sbilanciò di lato, perse conoscenza e infine si accasciò sull’asfalto. Nico lo trascinò per le caviglie all’interno della casa.
50.
Oggi Crystal City, Virginia ««I Cavalieri del cerchio d’oro», disse Clementine, in piedi vicino al lavandino, mentre si asciugava il sangue dalla bocca. «Mai sentiti nominare?» «So che tuo padre ne è ossessionato», rispose Marshall. «Secondo lui, John Wilkes Booth ne faceva parte. E anche Lee Harvey Oswald.» «A quanto pare, Wilkes Booth ne faceva parte davvero. E anche Jesse James. Ma lasciamo perdere mio padre per un attimo. Dopo che Ezra è venuto a cercarmi, ho indagato un po’. Durante la guerra civile, di gruppi come i Cavalieri ne erano spuntati a decine dappertutto. Gli abitanti del Sud erano infuriati e avevano bisogno di uno sfogo. A differenza dei massoni e di altre società segrete che si concentravano su tradizioni secolari, i Cavalieri del cerchio d’oro miravano a un risultato molto pratico: volevano che l’Unione si sciogliesse per poter mantenere lo schiavismo. Fondamentalmente, la loro storia è questa: erano un mucchio di razzisti che ambivano al loro personale “cerchio d’oro”: un territorio che comprendeva il Messico e i Caraibi. Secondo alcuni, i Cavalieri si sciolsero alla fine della guerra civile. Altri invece dicono...» «...che fuggirono e passarono alla clandestinità. Beecher mi ha parlato dell’ossessione di tuo padre.» «Lascia perdere mio padre! Credi che non sappia che ha delle teorie assurde? Nella mia famiglia la malattia mentale non è solo una costante. È una vera piaga. Ma ti assicuro, Marsh...» «Marshall.» «Ti assicuro, Marshall, che questo è un fatto storico irrefutabile: dopo la guerra civile – e dopo che John Wilkes Booth ebbe ficcato una pallottola nel cervello di Abraham Lincoln – i Cavalieri del cerchio d’oro scomparvero. Forse si sono ricostituiti negli anni Sessanta, forse no. Ma una cosa è certa: se Ezra riuscirà nel suo intento, torneranno, e il loro obiettivo è il Culper Ring.» Quando lei pronunciò le ultime parole, Marshall rimase immobile. «Su, dai, credi di essere l’unico ad aver passato del tempo con Beecher? Conosco il Ring.» Lui restò impassibile. Non si fidava di lei, ma le informazioni potevano tornare utili. «Perché Ezra ti ha mandato qui?» «Ma hai ascoltato una sola delle parole che ti ho detto? Ezra non vuole avere nulla a che fare con me. Mi ha aiutato solo perché facessi le presentazioni.» «Di che cosa?» «Vuoi dire di chi?» Vedendo l’espressione confusa di Marshall, aggiunse: «Immagina che la tua missione personale nella vita sia rifondare i Cavalieri del cerchio d’oro. Chi è l’assassino presidenziale numero uno – e il più difficile da trovare – con cui vorresti allearti?». Marshall abbassò il coltello e ritrasse la lama. «Nico», bisbigliò. «Ezra vuole reclutare tuo padre.» Clementine sputò di nuovo del sangue nel lavandino. Non le fu necessario aggiungere altro. Se Ezra e i Cavalieri desideravano un’arma potente, era solo per un motivo: erano a caccia di un pezzo grosso. «Vogliono far fuori il presidente», disse Marshall.
«Non solo lui. Pensa a Beecher e al Culper Ring. Il loro compito è proteggere Wallace...» «Credi che a Ezra freghi qualcosa di Beecher e del Ring?» «Marshall, Ezra non pensa ad altro! È convinto che sia stato il Culper Ring a perseguitare i Cavalieri. Secondo lui, sono bestie senza legge che hanno deprivato la sua famiglia dell’eredità che le spettava di diritto. Dovresti vedere la foto che si porta in giro: con che occhi spiritati ti mostra l’immagine di lui e suo nonno insieme a Reagan. La cosa che fa più paura di Ezra è che vuole essere ricordato. Vuole passare alla storia. Insomma, qualsiasi cosa abbia in mente di fare – colpire il presidente o Beecher o entrambi – non mira a qualcosa di piccolo. Vuole un effetto Hiroshima.» Mentre si sforzava di mettere insieme i vari pezzi per farsi un’idea della situazione, Marshall fu tentato di chiederle se fosse al corrente del braccio trovato nel Rose Garden, ma qualcosa gli suggerì di non farlo. Osservò il modo in cui Clementine stringeva il bordo del banco della cucina, come se avesse bisogno di un sostegno per stare in piedi. «Tutto questo, però, non spiega come mai tu sia venuta qui», disse. «Te l’ho già... Guardami, sto morendo!» «In questo, ti credo.» Si fissarono negli occhi. «Quel che non mi convince è la tua improvvisa preoccupazione per l’incolumità di Beecher o Wallace o chiunque non sia te.» «E allora? Pensi che mi sia inventata tutto? Hai idea di quello che ho passato? Guarda! Questo è... » Si infilò la mano in tasca, e quando l’estrasse aveva un piccolo oggetto bianco sul palmo. «Questo è il dente che ho perso starnutendo, mentre salivo in ascensore per venire qui. Ne ho già collezionati dodici. Li tengo in un posacenere dell’auto, e se prendo una curva troppo larga li sento sbatacchiare come dadi.» «Clementine, lo so che...» «No, non sai un bel niente! E dire che dovresti essere quello che mi capisce meglio di chiunque altro!» urlò indicandosi il viso. «Ho le gengive grigie! Ho passato le ultime due settimane su una poltrona da dentista di fortuna per cercare di evitare che mi cadesse la mandibola! E sai che cosa ho capito alla fine? Che non c’è niente da fare. Per quanto mi ostini a pregare, a implorare, o cerchi di convincermi che è la volontà di Dio...» Prese un respiro, ancora aggrappata al banco della cucina. «Tutti dobbiamo scalare la nostra montagna, giusto? Io sono arrivata in cima. E se è vero... e non posso saperlo... Insomma, quando cala il sipario, non ti pare naturale desiderare che l’ultima azione che compi sia buona?» Marshall rimase lì in piedi, notando per la prima volta i denti di Clementine velati di rosso. «Bellissimo discorso, davvero», commentò. «Ma non mi insultare con questa storia di volerti guadagnare due ali da angioletto. Ho già ucciso un uomo e so che l’hai fatto anche tu. Quando diventi un assassino, o un’assassina... quando ti vendi quella parte di anima... certe macchie non vengono più via.» «Questo non significa che stia mentendo sul conto di Ezra», replicò lei. «Sai benissimo che è vero.» «Allora perché vieni a raccontarlo a me, anziché a Beecher?» «Perché devo smettere di fargli del male.» Lasciò cadere il dente sul banco della cucina. «Mentre ero sotto i ferri di quel dentista, in un momento di lucidità, ho capito proprio questo. Ogni volta che mi avvicino a Beecher, lo faccio soffrire. Se è vero che sono arrivata in cima alla mia montagna, devo comportarmi meglio con lui.» «È la prima cosa vera che hai detto oggi.» «Ti sbagli», insistette lei. «E ti sei sbagliato anche sul conto di Kathy Stankevich. Non sono stata io ad attaccare briga con lei. Aveva detto a tutti che mia madre era andata a letto con il padre di Craig Andrade.» «Pensavo che ci fosse andata davvero, a letto con il padre di Craig Andrade.» «Certo che ci era andata. Ma era comunque mia madre», sbottò Clementine, raccogliendo il dente e infilandoselo di nuovo in tasca. «Posso aiutarti a prendere Ezra. Dammi la possibilità di dimostrartelo.»
«Credevo non sapessi che cosa avesse in mente di fare.» «Infatti, non lo so», ribatté lei guardando l’orologio. «Ma, se ci sbrighiamo, so dove trovarlo.»
51.
«Dobbiamo spostarlo», insiste Francy, riferendosi al presidente. Riestra alza l’indice, senza mai smettere di fissarmi con i suoi occhi infossati. «Beecher, sei sicuro che dica proprio questo? Goodbye?» «Controlli lei stesso il codice.» Alzo il telefono con cui ho fatto una ricerca, per assicurarmi di averlo decifrato correttamente. «Durante la guerra civile, i Cavalieri del cerchio d’oro...» «So chi sono i Cavalieri. E so che il Culper Ring li distrusse. Ma se Nico pensa di farne parte... o sta cercando di fondarne una nuova versione...» «Len, dobbiamo davvero trasferirlo», ripete Francy. «E se invece non fosse una minaccia?» domando io. «Se Nico stesse cercando di dirci qualcos’altro?» «Ha seppellito un braccio nel Rose Garden, poi un altro a Camp David con la parola goodbye nel pugno!» ribatte Francy. «Ha ragione lei», interviene Riestra. «Nel nostro settore, si tratta di una minaccia molto particolare.» «O forse è solo uno che manda un cadavere molto particolare», obietto io, indicando lo schermo. «Un braccio – sì, certo – è un messaggio. Ma quando le braccia sono due e della stessa persona...» «Che cosa ti fa pensare che sia la stessa persona?» si intromette il dottore, d’un tratto sospettoso. «Perché, lei non la pensa così?» lo sfido. «Ho visto la punta delle dita... l’inchiostro nero... Mi sta dicendo che non ha preso le impronte digitali di entrambe le mani e non le ha confrontate al computer? Per fare l’esame del DNA ci vogliono alcuni giorni; per prendere le impronte bastano due minuti.» Dal silenzio di Yaeger – e di Riestra – deduco la risposta: le due braccia appartengono decisamente allo stesso corpo. Senza dubbio, i due arti vengono da una persona particolare, anche se il medico legale più importante del paese e il direttore dei servizi segreti volevano tenersi l’informazione per sé. «Perché non mi avete detto che le braccia appartengono alla stessa persona? Vuol dire che avete anche accertato la sua identità?» domando alla fine. «Beecher, lo capisci o no che non tocca a te indagare, bensì a noi?» Riestra si concede una risatina. Gli è ritornato il sorriso in faccia, come se fossimo vecchi amici. «Cioè, non è che io venga a chiederti di raccontarmi che cosa stessi facendo con certi altri archivisti che potresti avere incontrato casualmente.» Non fa il nome di Mina, né specifica di avermi visto al quartier generale dei servizi segreti, ma quando mi mostra i suoi denti bianchi, distanziati fra loro, non ho il minimo dubbio che si stia riferendo proprio a lei. È il capo dei servizi segreti. Sa che sono stato a casa sua. «Mai sentito nominare Kingston Young?» mi incalza Riestra. Scuoto la testa. «Sicuro? Kingston Young», ripete Riestra, abbassando il mento e fissandomi da sopra il bordo degli occhiali. «Mi ricorderei un nome come Kingston. Chi è?» Riestra mi fissa per altri venti secondi buoni. «A quanto pare, una persona a cui mancano due braccia», risponde alla fine, con una leggerezza nella voce che mi fa capire che ho superato la prova. «A giudicare dalle impronte digitali, il proprietario delle braccia è proprio Kingston. La polizia ha detto che è morto due settimane fa», aggiunge. «Ora, per spirito di reciprocità, c’è qualcosa che desideri condividere con
me?» Mi sfodera un sorriso gelido. Non posso fare a meno di pensare che sia un altro esame. Forse è per questo che mi ha fatto venire qui. Non avevo previsto che Mina potesse spifferargli tutto, ma forse invece l’ha fatto. Magari lui sa già tutto di Ciglia Bianche, della spilla arancione e, naturalmente, dell’agente dei servizi segreti chiamato Tanner Pope che pare essere morto anche lui poco più di due settimane fa. Se è così, rivelare quello che so non farà male a nessuno. Eppure, dentro la mia testa sento la voce di Tot che mi ripete la primissima lezione che mi diede quando mi invitò a entrare nel Culper Ring: fidati sempre della pancia. Davanti a me, Riestra continua a sorridere con i suoi denti bianchi e distanziati e si sistema gli occhiali rotondi. Che però rimangono un po’ storti. «Non so niente di più di quello che lei già sa, direttore», gli rispondo. Lui si sporge in avanti e appoggia i gomiti sul tavolo, che si sposta sotto il suo peso. «Darryl, portalo via», dice al suo vice, riferendosi al presidente. «Nel nuovo posto di cui si parlava.» «Ma signore...» «Nel nuovo posto di cui si parlava», ringhia Riestra, abbastanza sottovoce da far calare il silenzio nella stanza. Era successa la stessa cosa anche l’ultima volta che avevano sparato a Wallace. Dopo gli attacchi dell’11 settembre, quando il presidente Bush era stato trasferito in tutta fretta al capo opposto del paese, i servizi segreti hanno imparato la lezione. Da allora sono stati messi a punto protocolli operativi in caso di attacchi terroristici o attentati. Oggi i servizi segreti non decidono a caso dove nascondere il comandante in capo. I luoghi sono stati scelti anni fa, dopo accurate ricerche e analisi delle minacce. In caso di pericolo alla Casa Bianca, il presidente viene trasferito a Camp David; se anche lì non è al sicuro, esiste già un’opzione successiva. Da quel che ho capito, però, Riestra sta introducendo una variante. «Non sarà per niente contento. Neppure la signora Wallace», avvisa Francy. «Sai che cosa li scontenterebbe ancora di più? Ritrovarsi la testa separata dal corpo», ribatte Riestra. Francy digrigna i denti. Il vice del direttore va in un angolo e comincia a bisbigliare qualcosa sul polso. Ma tenendo conto dei conflitti interni e del fatto che sia la Casa Bianca sia Camp David sono ormai compromessi, non si tratta solo di capire come Nico, Ciglia Bianche o Pinco Pallino sia riuscito a entrare. Il problema è che questa persona conosce i programmi dei servizi segreti e sa dove il presidente e la first lady si troveranno di volta in volta. «Sicuri di non stare facendo esattamente quel che il killer vuole che facciate?» domando. Riestra si gira a guardarmi. «Ci pensi», continuo. «L’ultima volta che Nico ha colpito – e ha usato inchiostro invisibile – sapeva che io avrei decifrato il codice. Ci contava. Infatti, quando l’abbiamo inseguito – Francy, tu lo sai già – è stato un altro a sparare apertamente al presidente. Per quel che ne sapete voi, forse adesso stanno facendo la stessa cosa.» «Questo è il bello dell’improvvisazione», dice Riestra. «Nessuno sa dove andrà Wallace adesso, a parte noi.» «Non è vero! Per poterlo trasferire, i suoi agenti devono pur saperlo!» «Ha ragione. Ascoltalo», interviene Francy. «Francy, Beecher... Apprezzo entrambi i consigli. Ma abbiamo finito.» «No, non lo faccia! Trattandosi di Nico... Per quel che ne sa lei, magari il suo obiettivo è esattamente quello di farle cambiare protocollo! Forse è proprio ciò che...» «Ho detto che abbiamo finito.» Il suo vice mi posa una mano sulla spalla, mi solleva dalla sedia e mi spinge verso Francy e la porta. Io inciampo e Riestra si raddrizza di nuovo gli occhiali, con un sorriso più largo che mai. «Non ti preoccupare, Beecher. Finché me ne occuperò io, Wallace sarà perfettamente
al sicuro.»
52.
La porta sbatte fragorosamente alle mie spalle e io rimango solo sul pianerottolo del primo piano. Quando ho sorpreso Riestra a fissare la buca delle lettere, mi è venuto il dubbio che il presidente Wallace potesse essere ancora lì. Poi però scendo le scale e capisco chi era in realtà. Avevo dimenticato che è sempre stato qui, a origliare. A.J. alza lo sguardo, ma lo distoglie in fretta. Il linguaggio del corpo dice che è incazzato, forse con me, forse con il suo capo. In ogni caso, posso approfittarne. «Strano che ti abbiano messo qui, anziché di sopra», lo stuzzico, sperando di portarlo dalla mia parte. Lui mi guarda dritto in faccia, è più alto di me quasi di una testa intera. «Vai fa farti fottere, Beecher.» Dà una spinta alla porta e indica l’esterno. È una giornata luminosa e fredda. Appena prima che la porta si chiuda alle mie spalle, mi volto e mi accorgo che è girato nella mia direzione. Non dice una parola e rimane inespressivo. Ma mi sta fissando. E sta pensando. Può fare il duro quanto vuole. Sapete come vengono chiamati quelli che sgobbano più di tutti ma non ottengono riconoscimenti? Opportunità. Mi allontano di tre passi dal negozio e sento subito vibrare insistentemente il telefonino. Sette messaggi vocali. Mentre ero di sopra mi avevano bloccato il cellulare e, sì, persino per loro è illegale. L’identità del mittente rivela sette diversi numeri generati casualmente. So chi è. La richiamo e lei risponde al primo squillo. «Ti hanno fatto una proposta allettante?» domanda Immacolata Manomissione. «Prima le cose più importanti. Per piacere, dimmi che hai scoperto qualcosa.» «Certo che ho scoperto qualcosa. Tanner Pope», dice la sua voce computerizzata, riferendosi all’agente della scorta di Reagan titolare della spilla e defunto, come il proprietario delle braccia disperse, poche settimane fa. «Insomma, il povero Tanner, morto alla veneranda età di novantadue anni, non ha avuto neppure un necrologio e al suo funerale non c’era nessuno.» «Non ha parenti?» chiedo. «Non sto dicendo questo. Non ha moglie. Né figli. Ma stando a quel che afferma la troppo loquace receptionist della sua casa di cura, pare che abbia solo un nipote di ventinove anni. Si chiama Ezra.» «Credi che sia Ciglia Bianche?» «Spiegherebbe come mai fosse in possesso della vecchia spilla dei servizi segreti del nonno Tanner.» Annuisco fra me e me. Secondo il medico legale, le braccia tagliate appartengono a una persona di età compatibile. Sulla trentina, anno più anno meno. «Che cosa sappiamo di Ezra?» domando a Mac. «Un tipo intelligente, riceveva denaro dal nonno Tanner: scuola privata a Andover; laurea a Yale; ora dottorato di ricerca alla GW’s Elliott School, dove studia politica di sicurezza internazionale. Niente crediti né debiti.» Dall’altra parte della strada, i due agenti dei servizi segreti sono ancora seduti dietro la vetrina del ristorante, fingendo di sorseggiare caffè. «Mac, perché ho la sensazione che tu non mi stia dicendo tutto?» «Perché queste scuole sono gli unici posti dove Ezra ha lasciato tracce di sé. A parte un’e-mail del campus, non ha patente né conti in banca, solo una casella postale per i rimborsi delle tasse... Non trovo neppure un numero di cellulare. Nel XXI secolo, un anonimato del genere è possibile solo in caso di estrema ricchezza o se si è inseriti nel programma protezione testimoni.»
«Insomma, non sei riuscita a trovare nulla.» «Ma per chi mi hai preso? Certo che ho trovato qualcosa: il registro della GW dice che è in vacanza da due settimane.» «Cioè da quando è morto suo nonno?» «Non solo il nonno», osserva Mac, con la voce metallica che comincia a stridere. «A quanto pare, è morto anche il suo povero coinquilino. Un ragazzo di nome...» «Kingston Young», diciamo simultaneamente. Il nodo alla gola è sempre più stretto. «Come fai a conoscere il nome di Kingston?» esclama Mac. «Le braccia sepolte appartengono a lui», spiego, cominciando a correre lungo l’isolato per tornare agli Archivi. Mac, ho bisogno dell’indirizzo di casa di Ezra...» «Già trovato. Il proprietario dell’appartamento dice che non lo vede da settimane.» «E la vittima? Kingston ha dei parenti? Qualcuno con cui parlare?» «Okay. Cerco subito.» «A proposito, il tuo vecchio amico Riestra ti manda i suoi migliori saluti.» «Chi?» «Leonard Riestra. Ha detto che ha lavorato con te e Tot.» «Riestra? Il direttore dei servizi segreti?» ribatte Mac. «È in carica da neanche sei mesi. Non l’ho mai visto in vita mia.»
53.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo Non ci fu alcun funerale per Julian. Sull’isola non c’era neppure una bara. Legarono il corpo carbonizzato su una barella da campo e lo coprirono con una bandiera americana tenuta ferma da corde elastiche. Tutto qui. La salma rimase esposta un giorno e l’indomani era già sparita. Secondo uno dei marine di guardia, l’avevano messa su un cutter della guardia costiera che l’aveva portata alla base aeronautica di Homestead in Florida. Era successo tutto così in fretta che il colonnello Doggett non aveva neppure fatto svolgere la cerimonia con l’elmetto, il fucile e gli anfibi in uso in tutti i corpi militari. Nell’esercito, nella marina, nell’aeronautica o nei marines, quando muore un soldato – anche per suicidio – si espongono il suo elmetto, il fucile e gli anfibi, offrendo a tutti la possibilità di dire un’ultima preghiera. Ma Julian non aveva né elmetto né fucile sull’isola. Nessuno li aveva, come rimarcò Nico. Gli altri membri dei Plankholders si raccolsero da soli nella malandata cappella al primo piano della fortezza, dove le pareti di mattoni rossi erano più decorate che altrove. I soldati si presero per mano e abbassarono la testa. Al centro del cerchio c’era un foglietto che qualcuno aveva trovato tra gli effetti personali di Julian. Era indirizzato alla sorella maggiore. Da quello che i commilitoni poterono capire, i due avevano perso i genitori da piccoli e Julian voleva ringraziarla per tutto ciò che aveva fatto per lui e chiederle scusa per il suo fallimento. Da quel giorno in poi, tutti i Plankholders – da Nico a Timothy a Alby – portarono sempre con sé un biglietto di addio scritto in anticipo. Il colonnello Doggett concesse un giorno di vacanza, permettendo loro di pescare e nuotare con maschera e boccaglio intorno all’isola, mentre il dottor Moorcraft distribuì una pastiglia in più da prendere prima di andare a letto. «Aiuta a rilassarsi», spiegò. Per quasi una settimana, parve funzionare. Finché, una notte, Alby si svegliò alle due, grondante di sudore per il caldo e con un senso di oppressione al petto, come se ci fosse salito in piedi qualcuno. Si alzò di scatto, guardandosi freneticamente intorno. Erano tutti immobili. Addormentati. Per abitudine, diede un’occhiata al letto di Julian. Pochi giorni prima, Timothy gli aveva rubato il cuscino, ma per il resto era rifatto alla perfezione. Quando però controllò le brande della fila opposta, notò che ce n’era un’altra vuota. Quella di Nico. “Probabilmente, sarà andato in bagno, dormi”, si disse Alby, socchiudendo gli occhi nell’oscurità. A differenza del letto di Julian, quello di Nico era disfatto, con le coperte tirate da parte. Il cuscino era ancora infossato. Una cosa in particolare attirò la sua attenzione: posato sul lenzuolo c’era un libro tascabile. «Nico, ci sei?» bisbigliò Alby in direzione del bagno. Niente.
Osservò di nuovo il letto e il tascabile. Anche se non ne vedeva la copertina, era convinto di sapere che libro fosse, ma c’era solo un modo per verificarlo. Sollevò a sua volta il lenzuolo e sgattaiolò nel corridoio tra le file di letti. Il pavimento laminato tremava sotto i suoi passi. Quando fu metà strada, vide la foto in bianco e nero del dottor Mudd sulla copertina. Era certamente il vecchio libro di Julian. Quello che stava leggendo il giorno prima di... Il laminato tremò di nuovo. Stavolta a destra di Alby, molto più in là. Non vicino al bagno, bensì nei pressi della porta. Alby si girò di scatto. La stanza era buia e la porta troppo lontana perché lui potesse vedere alcunché con chiarezza. Solo ombre confuse. ««Nico, sei tu?...» sussurrò. Nessuno rispose. Abbassò lo sguardo e notò che gli anfibi di Nico erano scomparsi. Alby corse in bagno, controllando ogni gabinetto. Tutti vuoti. Osservò di nuovo l’uscita principale. C’era il coprifuoco. Se Nico era uscito... Un lampo di luce entrò attraverso una finestra vicina. Appena Alby si girò, era scomparso. Qualunque cosa fosse, veniva da fuori. Alby ripeté a sé stesso di tornare a letto. Ma conosceva le regole. Se Nico fosse stato visto fuori così tardi, sarebbero stati puniti tutti. Corse a piedi nudi alla porta e l’aprì: «Nico, se sei lì fuori, torna indietro!» bisbigliò. Qualcosa con la coda si infilò in un buco nel muro. L’isola era piena di ratti. Il cortile erboso, la fornace di mattoni... tutto era color argento scuro e brillava debolmente alla luce lunare. Più in là, le onde oceaniche battevano il loro tempo. L’unica luce intensa proveniva da sinistra, da dietro le palme da dattero. Usciva da una sola finestra della casa di mattoni rossi stile New Orleans che ospitava gli alloggi degli ufficiali. Dalla casa del colonnello Doggett. “No. Ti prego, no. Nico, sei troppo intelligente per fare una cosa simile.” Naturalmente, una settimana prima, Alby avrebbe detto la stessa cosa di Julian. Con l’erba che gli pizzicava le dita dei piedi, e sentendo un altro animaletto sgusciare nell’oscurità, Alby corse verso la finestra illuminata. «Nico, deficiente, dove cavolo sei...?» ripeté a bassa voce, piegandosi in avanti e superando di corsa una palma dopo l’altra. Persino di notte, l’aria rovente dell’isola gli bruciava il viso. La sabbia sparsa fra l’erba gli si attaccava ai piedi e una zanzara gli punse l’orecchio. «Nico...!?» Si sporse all’interno delle stanze dai soffitti a volta che chiamavano «casematte». Un secolo prima ospitavano armi e polvere da sparo. In alcune c’erano ancora barili di polvere per i cannoni. Perlopiù, però, servivano solo da magazzini ed erano piene di attrezzi, rocchetti di cavi industriali e cassette per il latte piene di borracce e provviste. Alby udì un rumore di passi pesanti, come se qualcuno stesse scendendo delle scale. Si fermò, nascondendosi dietro una palma morente con il tronco spaccato. Sul portico anteriore della casa del colonnello Doggett si accese una luce intensa. La porta a zanzariera si socchiuse. Stava per uscire qualcuno. Alby sbirciò da dietro l’albero, socchiudendo gli occhi nell’oscurità. Sentì un’altra zanzara ronzargli intorno alla testa. La porta si spalancò. C’erano degli uomini che parlavano, anche se da quella distanza non si sentiva molto. Non poteva neppure vederli. Erano ancora all’interno. «...molto più difficile di quello che pensi», disse uno di loro, dando un’ultima spinta alla porta. Alby conosceva quella voce. Appena Doggett uscì, il portico fu inondato di luce al neon. Il colonnello si voltò
leggermente, tenendo la porta aperta per qualcuno alle sue spalle. Quindici metri più in là, ancora accovacciato nell’oscurità, Alby strinse forte il tronco della palma. «Dovrebbe esserci una barca pronta per te», aggiunse Doggett, guardandosi intorno, al che Alby si abbassò ulteriormente. Altri due anfibi calpestarono rumorosamente il portico. All’inizio immaginò che fosse uno dei marine di guardia, o magari il dottor Moorcraft. In ogni caso, era in tenuta da fatica, senza nome sul petto né mostrine. Come i primi militari che erano andati a prenderlo dopo l’incidente aereo e l’avevano portato dai Plankholders. «Allora, ci vediamo nell’altro mondo?» domandò lo sconosciuto a Doggett. Appena lo sentì parlare, Alby ebbe un fremito. Conosceva quella voce, anche se stava succedendo tutto talmente in fretta che il suo cervello non era ancora in grado di collegarla a una persona. Fu solo quando lo sconosciuto uscì allo scoperto e le luci al neon gli illuminarono il viso... e gli inconfondibili capelli rossi, che si rese conto che non era affatto uno sconosciuto. “Oh, mio Dio... Com’è possibile?...” Alby cadde pancia a terra. La zanzara fece un ultimo giro intorno alla sua testa. Proprio laggiù, sul portico quadrato della casa di mattoni rossi, c’era un uomo con il viso coperto di pallide lentiggini che sorrideva sicuro di sé. I capelli rossi erano rasati, ma cominciavano a ricrescere. Le spalle ora erano ben dritte. E la pelle intatta, senza bruciature né bende né il benché minimo graffio. “No, non... non è possibile! È morto nella fornace otto giorni fa!” Julian. Quello è Julian.
54.
Oggi Baltimora, Maryland Premo il pulsante rotondo sbeccato, sentendolo vibrare sotto il dito. «Chi è?» gracchia la voce di un’anziana nel citofono. «Mi chiamo Beecher White. Ho una consegna da fare. Ho bisogno di una firma.» C’è una pausa, cui segue un forte un rumore metallico che non sarebbe possibile sentire in un edificio moderno. «Come va?» domanda Mac attraverso l’auricolare. Visto che non dico nulla, aggiunge: «Perché sei così silenzioso?». Entro senza rispondere. «Beecher, che succede? C’è qualcosa che non va?» Sono a Baltimora, in una zona chiamata Pigtown, abbastanza degna del nome che porta. Qualche isolato più in là, alcuni palazzi e villette a schiera sono stati ristrutturati. Non questo edificio di quattro piani senza ascensore. Non è terribile, come zona. «È solo che mi ricorda il posto dove sono cresciuto, nel Wisconsin», spiego. «Un quartiere operaio. Ho già vissuto qui, in una vita precedente.» «Allora, bentornato a casa!» Annuisco fra me e me, mentre comincio a salire la scala angusta. Si sente odore di pittura fresca, ma è impossibile non notare la logora moquette grigia, la ringhiera pericolante e la mancanza del rivestimento su diversi gradini. Anche il nostro padrone di casa faceva così: dava una mano di pittura in più, nella speranza di coprire tutte le magagne. «Può lasciare il pacco sullo zerbino», grida la donna da dietro la porta socchiusa dell’appartamento numero 4D. «Mi scusi, signora. C’è bisogno della firma», insisto, sforzandomi di avere una voce particolarmente gentile. La donna vive in una brutta zona: non è scema. Apre la porta di due centimetri, senza togliere la catenella, e mi guarda con un paio di occhi a fessura iniettati di sangue. «Dov’è il pacco?» «Signora Young, mi scusi per il disturbo...» Mi sbatte la porta in faccia. «Signora, la prego», le dico. «Sono qui per farle delle domande su suo figlio.» La porta rimane chiusa. «Suo figlio si chiama Kingston Young, giusto?» domando, pronunciando il nome dell’ex coinquilino di Ezra morto suicida due settimana fa e, secondo i servizi segreti, proprietario delle braccia mozzate sepolte a Camp David e nel Rose Garden. «Se non è della polizia, la chiamo io immediatamente», minaccia. «Dille che sei dell’FBI», mi suggerisce Mac attraverso l’auricolare. Scuoto la testa. «Signora Young, lei non mi conosce, ma mi permetta di dirle una cosa importantissima:
non le racconterò bugie.» «Me l’ha già raccontata, una bugia, dicendo che aveva un pacco da consegnare», ribatte lei. «Adesso basta fare il gentile», mi rimprovera Mac. «Signora, desidero scoprire che cosa è successo veramente a suo figlio.» «Almeno lo conosceva?» mi sfida. «No, ma quello che sto per dirle è la verità assoluta: secondo me, Kingston non si è suicidato.» Fisso il buco della serratura. Passano almeno dieci secondi. La catenella comincia a sferragliare, poi la porta si apre e compare una donna grassoccia sulla sessantina, con eleganti capelli argentei e gli angoli della bocca incurvati verso il basso. Sembra che non dorma da un mese. «Non se ne pentirà, signora Young, glielo prometto.»
55.
Arlington, Virginia Marshall non riusciva a capire bene perché. Ma aveva un brutto presentimento. «Ancora tre minuti», annunciò Clementine dal posto di guida. Teneva la mano sulla maniglia della portiera, ma non l’aveva ancora aperta. Marshall non ci fece caso. Seduto al suo fianco, stava osservando il parcheggio della zona commerciale, concentrato sulla solitaria motocicletta BMW ferma vicino al salone di bellezza per cani. L’unica cosa peggiore di uno snob con la Harley Davidson era un cretino su una BMW. «Quella moto è sempre lì», lo rassicurò Clementine. Alla sua sinistra c’era una Honda Prelude malandata, con un vecchio adesivo sul paraurti, su cui si leggeva il titolo di un talk show radiofonico: ELLIOT IN THE MORNING. «La Honda appartiene all’infermiera. Il dottore parcheggia sul retro», aggiunse Clementine. «Fidati, è sempre così.» Marshall non poteva obiettare nulla. Finora ogni dettaglio corrispondeva esattamente alle descrizioni di Clementine. Il parcheggio deserto. Il traffico sul Wilson Boulevard a debita distanza. Persino la forma circolare della piazza, grazie a cui l’Happy Jade Herbal Shop rimaneva sempre perfettamente nascosto. Ma come Marshall ben sapeva, quando tutto filava liscio, soprattutto se c’era di mezzo Clementine, entro breve sarebbe andato storto qualcosa. L’orologio digitale segnò le 15.58 e il sole invernale scomparve dal cielo. Ancora due minuti. Marshall osservò attentamente il negozio da dietro il finestrino. Un cartello rosso brillante con su scritto CHIUSO teneva alla larga la maggior parte della gente. Le vetrine oscurate spaventavano tutti gli altri, che si guardavano bene dall’avvicinarsi. Non c’era modo di verificare se quello che aveva detto Clementine fosse vero, e cioè che Ezra era lì dentro. «Non è una buona idea», disse Marshall. Clementine scosse la testa nell’istante in cui l’orologio segnò le 15.59. «Allora perché sei venuto?» «Che cosa?...» «Perché sei qui? Se è tutto così terribile, perché ti sei preso la briga di venire?» «Hai detto che sarebbe andato a cercare Beecher.» «No. Se fosse stato solo per Beecher, l’avresti chiamato direttamente per avvisarlo. E invece non l’hai fatto. Non ci hai neppure provato. Tutti facciamo i nostri giochetti personali, Marshall. Non ti giudico, ma che cosa hai detto prima? “Sei un’assassina come me.” Certe macchie non verranno mai via, giusto? Allora, te lo richiedo per la quarta o quinta volta: perché sei venuto qui, in realtà?» Marshall osservò attentamente la donna con la parrucca castana che conosceva sin dai tempi delle elementari. Aveva le zampe di gallina intorno agli occhi, un solco profondo di preoccupazione fra le sopracciglia sottili e la pelle lucida e cerea per via della chemioterapia. Gli ultimi anni avevano lasciato il segno. Ma per lui non era cambiata. Era la ragazza impetuosa di sempre. «Sono venuto per Ezra», ammise alla fine. «È stato lui a seppellire le braccia. Sa che cosa è successo a quel pazzo di tuo padre; e anche al mio, che è morto.»
«Morto?» Marshall rimase immobile sul sedile. «È questa la storia che hai raccontato a Beecher? O invece gli hai detto che cosa è successo veramente?» domandò Clementine. «Non ti preoccupare. Capisco. Abbiamo tutti i nostri segreti, dico bene?» Gli occhi dorati di Marshall la studiarono. Nico. Solo lui poteva averle detto la verità. Clementine fece per aggiungere qualcos’altro, ma quando l’orologio indicò le 16.00 in punto spalancò la portiera e uscì di corsa. Marshall la seguì, mantenendo un passo lento e costante e osservando attentamente la vetrina e la porta del negozio. «Sicura che non sappia che stiamo arrivando?» le urlò dietro. «Non ne ha idea. So come lavora. Sono settimane che vengo qui», insistette Clementine, girandosi di scatto e andando provocatoriamente a piantarsi davanti a Marshall per bloccargli la strada. La determinazione era la caratteristica che Beecher amava di più in lei. Gli sembrava un segno di coraggio. Per Marshall era temerarietà. In ogni caso, come Marshall ben sapeva, la persona più pericolosa da seguire è quella che non ha nulla da perdere. «Credi che abbia messo un cecchino sul tetto, pronto a spararci?» lo sfidò Clementine, vedendolo titubare. «La presenza di un cecchino non ha senso. Se manca il bersaglio, impiega troppo tempo a scendere e inseguirci.» «Allora sei proprio fissato, eh? Secondo te, cercano sempre tutti di tagliarti la testa.» «Non stai ascoltando. Il tuo approccio – questo tentativo di coglierlo di sorpresa – è un errore», disse Marshall, mentre si avvicinavano al negozio. «Non sappiamo neppure se Ezra è qui.» «Certo che è qui. Non manca mai ai miei appuntamenti. Credo che non mi farebbero neppure entrare, se non ci fosse anche lui.» Marshall si fermò, rifiutandosi di seguirla. «Be’? Qual è il problema adesso?» sbottò Clementine. «Quando vieni, Ezra di solito è con te?» «Perché dovr...» «Rispondi alla mia domanda: Ezra è con te o no?» «Finora sì. Di solito, mi ha sempre accompagnato lui.» «Adesso, invece, all’improvviso ci vieni da sola?» «Rilassati. Gli ho detto che sarei arrivata in ritardo, che ci saremmo visti qui.» Clementine proseguì verso l’erboristeria. Marshall rimase dov’era. Più in là, sulla sinistra, sul Wilson Boulevard, qualcuno suonò forte il clacson. Assolutamente normale all’ora di punta. «Me ne vado. Dammi le chiavi», dichiarò Marshall. «Ma che cavolo dici?» «Tu ed Ezra avevate un accordo. Un comportamento abituale. Ora tu lo stai modificando. Dammi le chiavi. Io vado in macchina.» «Ma...» «Le chiavi. Subito!» Clementine alzò gli occhi al cielo e gli lanciò le chiavi. Lui tornò nel parcheggio. Lei continuò a camminare verso il negozio. Siccome tutti e due si rifiutarono di voltarsi indietro, nessuno di loro lo vide arrivare. Non ci furono sgommate. Si udì solo un basso rombo gutturale, come se le fognature si stessero schiarendo la gola sotto i loro piedi. Quando se ne accorse, Marshall aveva percorso metà del tragitto
per arrivare all’auto. Prima ancora di girarsi, sapeva già che cos’era. E dove stava andando. La Dodge Charger nera girò l’angolo e accelerò. Il motore ringhiava furente. «Clementine!...» Era quasi riuscita a lanciarsi fuori dalla traiettoria dell’auto, quando questa la sollevò da terra, mordendole le gambe e graffiandole una coscia con il muso. Quell’istinto di scartare di lato le salvò la vita ma, come un’altalena umana, Clementine si rovesciò all’indietro gambe all’aria, sbattendo la testa per terra. Marshall si bloccò all’istante. Non aveva ancora finito di urlare il suo nome quando il rumore di ossa e vetri rotti si combinò, dando vita a un suono terribile. Un braccio di Clementine rimbalzò sul parabrezza e lei rotolò a terra con gli arti che sbattevano in tutte le direzioni, come se fossero uniti da elastici. Scivolò di schiena sull’asfalto. Il guidatore della Dodge nera inchiodò. Persino nell’oscurità incipiente, era impossibile non riconoscere quella testa calva. E quegli occhi a fessura dalle ciglia bianche. Senza dire una parola, Ezra si sporse dal finestrino. Fissò Marshall minaccioso, puntò la pistola e sparò.
56.
Baltimora, Maryland «È sicura che sia la sua scrittura?» domando. La signora Young annuisce. Quando mi dà la lettera, sta tremando in tutto il corpo, come se gliel’avessero svuotato e riempito di vetro rotto. Sono ancora sul pianerottolo, fuori dall’appartamento, che puzza di un’overdose di pot-pourri. Alle sue spalle vedo tre manichini da sarta, tutti senza testa né braccia. Al polso ha un cuscinetto per gli aghi a forma di pomodoro. «La polizia ha tenuto l’originale», mi spiega indicando la lettera, ma senza guardarla direttamente. «Dicono che me la restituiranno quando... non so neppure quando.» Annuisco come se la capissi. E infatti la capisco. Il mese scorso Clementine mi ha mostrato un biglietto simile scritto da mio padre. Il messaggio di un suicida, anche se non sono ancora per niente convinto che si sia tolto la vita da solo. «L’ha scritto il giorno del suo compleanno. Lo legga», aggiunge. Cara mamma, il motivo è questo: sono ventisette anni che vivo su questo pianeta, eppure non vorrei rivivere neppure ventisette giorni della mia vita. Quando ti chiederai perché io l’abbia fatto, rileggi questa frase. So che penserai che sia tutta colpa tua. Ti voglio bene per questo. Ma è una mia scelta. So dove sto andando. So cosa sto facendo. Non ho paura delle conseguenze di questo mio gesto. Grazie soprattutto per quella giornata ai moli dopo la morte di papà. Ti prego, chiedi scusa a Ezra da parte mia per il disastro che lascio. Tuo figlio, Kingston «Ha usa«to un fucile», dice. «Si è puntato la canna contro il mento, ha mirato al soffitto e...» Prende un respiro, rivivendo il momento. La polizia non mi ha fatto entrare. Hanno detto che l’esplosione gli ha portato via tutta la faccia...» Lancio un’occhiata alla signora Young e lei non distoglie lo sguardo. I suoi occhi morti mi implorano, cercano una cosa che non può essere sostituita. Mia madre ha la stessa espressione quando parla di mio padre. La luce del viso non è solo diminuita. È scomparsa del tutto. «Lo so che è la sua scrittura... Queste sono le sue parole...» continua, con voce più chiara. «Ma anche se continuo a rileggerla – a questo punto la so a memoria – ...va bene, si teneva dentro la sua disperazione, ma io continuo a non capire perché non ci sia più. Sa come ci si sente quando la persona a cui tieni di più al mondo scompare dalla tua vita e non sai neppure perché?» Fisso il volto scavato della donna. Quando avevo dodici anni, fu il pastore della mia parrocchia a farmi il discorso su come nascono le api e gli uccellini. A tredici anni, il vicino mi insegnò a radermi. E dacché io ricordi, ho sempre celebrato la festa del papà ricordando quella festa del papà di tanti anni fa in cui aprii l’armadietto delle medicine di mia madre e trovai un post-it su cui, con mano malferma, lei
aveva scritto: HAI TUTTA LA FORZA NECESSARIA PER SUPERARE QUESTO GIORNO. Non ce l’ha neppure adesso. Invece io oggi mi dico che ce l’ho. «Signora Young, suo figlio si è sbagliato su una cosa: io so che lei gli ha regalato più di ventisette belle giornate. Ora, la prego, lasci che io l’aiuti ad aiutarlo per l’ultima volta.» Lei annuì e si strinse il ponte del naso fra indice e pollice per trattenere le lacrime. «Nella lettera, suo figlio ha menzionato una persona di nome Ezra. Lei lo conosceva bene?» «La polizia mi ha chiesto la stessa cosa. Ezra era il suo coinquilino. Ma è un bravo ragazzo. Di buona famiglia. Era proprio il tipo che faceva per mio figlio.» «Non sono sicura di seguirla.» Si stringe il naso più forte di prima. Non sta trattenendo le lacrime. Sta pensando. «Quando mio marito morì, tutti vennero a parlarmi di lui e a dirmi quanto fosse bravo. E infatti lo era. Come tutti, in certi momenti, sapeva essere assolutamente meraviglioso. Ma a volte era anche meschino. Quando si trattava di soldi dava il peggio di sé. E di solito non capiva che i problemi peggiori che aveva se li era creati da solo.» «Lei sta dicendo che Kingston...» «Guardi in che quartiere viviamo. Da quando Kingston era piccolo, sapevo che lui non c’entrava niente con questo posto. Ed era anche un gran lavoratore. Era deciso ad andarsene da qui. Poi, però, conobbe Ezra... uno che aveva soldi... una persona con gusto che sapeva quanti anni bisognava aspettare prima di aprire una certa bottiglia di scotch... Pare che suo nonno avesse lavorato per il presidente Reagan. Quando Kingston incontrò Ezra, tutto il suo mondo diventò più grande. Ma non solo per i contatti che gli procurò. Ezra non si dava mai arie ed era gentile.» «Gentile?» Fa un mezzo passo indietro, per consentirmi di dare un’occhiata al suo appartamento. «Figliolo, prendo dieci dollari per fare l’orlo a un paio di pantaloni. Quindici per accorciare le maniche di un vestito, e in questo quartiere la maggior parte della gente se le arrotola e buonanotte. Anche con i prestiti che concedono agli studenti di dottorato, sa quanto costa abitare e mangiare nel Distretto di Columbia?» Annuisco, so bene perché vivo nei sobborghi residenziali del Maryland. «Kingston non me l’ha mai detto, ma so che Ezra lo aiutava sempre a pagare la spesa, i pasti e tutto il resto. Gli regalò persino un cappotto invernale, quando gli vide addosso la vecchia giacca pulciosa di sempre.» «Non sembra proprio il nostro uomo dalle ciglia bianche», commenta Mac nell’orecchio. Mi ero quasi dimenticato della sua presenza. «Forse non è lui?» «Signora, posso chiederle un favore? Per caso ha un’immagine di Ezra? Ci serve solo per l’archivio.» «Tipo una foto? Del coinquilino di mio figlio? Non credo... No, un momento, sì che ce l’ho. Aspetti... Ecco... venga», dice, facendomi cenno di entrare. Mentre la seguo in soggiorno, lei sfoglia delle foto impilate su un tavolino. «Quando i ragazzi sono andati a vivere in quella casa ho fatto una foto per mostrare a mia sorella i pavimenti di legno massiccio. Be’, comunque, quando l’ho scattata, Ezra era... ah, eccolo qui.» Estrae una foto dal mucchio e me la passa. È un’immagine granulosa, scattata con una macchina fotografica vecchia, e mostra un tipico appartamento da universitari: futon, ampia asse di legno sostenuta da blocchi di cemento come tavolino, persino una chitarra. In un angolo sulla sinistra, un giovane con una camicia sbiadita a quadri verdi e gialli sta arrivando dalla cucina, la bocca socchiusa, come se stesse parlando. È decisamente calvo. Ma, osservando meglio, noto un volto assonnato dai lineamenti gradevoli, ciglia folte e stile preppy. Una cosa è certa: questo non è il tizio con le ciglia bianche che ci stava spiando davanti alla Casa
Bianca. Sento un nodo allo stomaco. È assurdo. Come fa a essere l’uomo sbagliato? «Sicura che sia Ezra?» domando. «E chi dovrebbe essere, sennò?» ribatte la signora Young sempre più nervosa. Guardo di nuovo la foto, ricordando gli occhi a fessura del tizio che assomigliava a Andy Warhol. «Beecher, mandami una copia», sbraita Mac nell’orecchio. «Signora, posso usare il suo bagno, per piacere?» La signora Young punta il dito verso la cucina. «Seconda porta a sinistra.» Mi muovo rapidamente con la foto in mano, pronto a mandarla per MMS a Mac. A metà corridoio, noto le varie foto incorniciate esposte su entrambi i lati. Risalgono a decenni prima. Foto di Natale scattate al centro commerciale, ritraggono sempre la signora Young e Kingston, ogni volta con un maglione fuori moda diverso. Sto quasi per andarmene via senza accorgermi di nulla, quando... Oh, mio Dio. Strizzo gli occhi per essere sicuro di aver visto bene. Non c’è dubbio. In ogni foto di Natale, anno dopo anno, il figlio morto... Kingston... ha i capelli biondi, quasi bianchi, a caschetto, e un sorriso imbarazzato. Ha anche occhi a fessura e sopracciglia decisamente bianche. Che bastardo. «Cosa succede?» mi incalza Mac, insospettita dal mio silenzio. «Ezra non è Ezra.» «In che senso?» «L’uomo che stiamo cercando... quello con le ciglia bianche. Si farà anche chiamare Ezra e si sarà anche rasato la testa come Ezra, ma te lo garantisco: lui è quello che avrebbe dovuto essere morto due settimane fa. Il suo vero nome è Kingston Young.»
57.
“Via, via, via! Via di qui!” pensò Marshall. Salì in fretta sulla macchina a noleggio di Clementine e, sentendo un colpo di arma da fuoco, abbassò la testa e mise in moto. “Fai retromarcia! Scappa!” Era l’unica via di salvezza. Essere scaltri. Rimandare lo scontro. Dal lato opposto del parcheggio si udì un’altra esplosione proveniente dal sedile anteriore della Dodge nera di Ezra. Un altro sparo. Mentre inseriva la retromarcia, Marshall vide il corpo di Clementine tremante e scompostamente abbandonato sull’asfalto. Le era caduta la parrucca. Per sua fortuna, l’auto non l’aveva investita in pieno. Naturalmente, non avrebbe voluto abbandonarla. Ezra, però, aprì di nuovo il fuoco e Marshall non aveva alternative. In situazioni del genere, bisogna per forza fuggire. Poi, però, quando si voltò a guardare Clementine e la sua testa calva... “Maledizione...” Inserì la marcia e pigiò sull’acceleratore. Le ruote girarono turbinosamente, schizzando ghiaia e neve sciolta. Mentre l’auto sfrecciava in avanti, Marshall estrasse a sua volta la pistola, sparando dal finestrino con la mano sinistra e tenendo il volante con la destra. A quella velocità, sapeva di non poter colpire il suo avversario. Ma almeno l’avrebbe distratto. Ezra, infatti, si abbassò sul sedile e smise di fare fuoco. Marshall diede ancora più gas. L’auto si scagliò come un missile contro il bersaglio: la fiancata della Dodge nera, il punto più vulnerabile, fra la portiera anteriore e quella posteriore. L’impatto fu un violento digrignare di denti metallici. L’auto di Marshall infilzò la Dodge, che praticamente si incassò intorno al cofano della macchina a noleggio. Marshall aveva mirato a un obiettivo preciso. Ora la Dodge era inutilizzabile. Ezra non poteva più fuggire. L’auto nera scivolò di lato e andò a sbattere contro una colonna di stucco della galleria piena di negozi, scaraventando in aria un cestino dell’immondizia di metallo. La scivolata terminò a poca distanza dalla vetrina dell’erboristeria. Sbalzato dal sedile del guidatore, Ezra ricadde pesantemente su quello del passeggero. «Clementine, mi senti?» urlò Marshall, allontanando l’airbag dal viso e cercando la pistola, volata via al momento dello scontro. Clementine era ancora distesa su un fianco, tremante. Marshall diede un calcio alla portiera e, ignorando il dolore intenso al petto causato dall’impatto con il volante, la raggiunse di corsa. «Clemmi, apri gli occhi!» urlò, afferrando la parrucca caduta lì vicino. Non gli piaceva vederla calva. Gli ricordava il funerale di sua madre. Clementine rimase immobile, ma il petto continuava a... Stava respirando. Aveva una profonda escoriazione sulla guancia. Le usciva sangue dalla bocca, insieme a un filo di ferro. Marshall lo tirò fuori per evitare che la facesse soffocare. Sembrava un apparecchio di contenzione, ma aveva due denti finti alle estremità. Un ponte. Tenendo quello in una mano, cercò di rimetterle in testa la parrucca, che però continuava a scivolare a
terra. «Clemmi, ti prego, se mi senti, fai segno di sì con la testa.» Niente. In altre circostanze avrebbe chiamato un’ambulanza, ma lei era la figlia di Nico, tutt’ora il ricercato numero uno in tutto il paese. Girò Clementine sulla schiena e si chinò accanto a lei. Le mise una mano sotto il collo e l’altra sotto le ginocchia. Le posò la parrucca sulla pancia, talmente attento a non farla cadere per terra da non accorgersi neppure di avere una canna di pistola infilata sotto l’ascella. «Ma che c...!?» Alle sue spalle, Ezra non disse una parola. Si limitò a schiacciare il grilletto. Pop.
58.
«Beecher, vattene subito da lì», mi urla Mac nell’orecchio. «Quand’è l’ultima volta che ha visto il coinquilino di suo figlio?» domando alla signora Young, che o è la più abile mentitrice di tutti i tempi o ignora completamente il fatto che suo figlio non solo è vivo e vegeto, ma di recente si è ispirato a Il talento di Mr. Ripley, impossessandosi della vita di Ezra. «Non so», risponde lei diffidente. «L’ultima volta che ho visto Ezra... Più o meno a Natale. Perché?» «Devi uscire di lì, immediatamente!» ribadisce Mac. «Era al funerale di suo figlio?» chiedo, rimanendo con la signora Young. «No, non l’ho visto, ma so che ha firmato il libro delle condoglianze ed era...» Comincia a barcollare e per poco non va a sbattere contro un manichino. «Mi scusi, mi può dire che cosa sta succedendo?» Non so quale sia stata la mossa più spregevole, da parte di questo bastardo con le ciglia bianche: lasciare che sua madre lo credesse morto o ammazzare il vero Ezra e presentarsi al proprio funerale solo per firmare il libro delle condoglianze e confondere le acque. In ogni caso, Ciglia Bianche voleva impossessarsi della vita di Ezra per diversi motivi. «Due minuti», dico a Mac. «Con chi sta parlando? Sa qualcosa di mio figlio?» balbetta la donna, con gli occhi traboccanti di lacrime. «Beecher, se Ciglia Bianche è furbo come pensiamo noi, ha messo qualcuno a sorvegliare la casa di sua madre!» insiste Mac. Come a conferma di quello che ha appena detto, il suono stridulo del citofono invade la stanza. «Non risponda», intimo alla signora Young. Lei va nel panico e si precipita a schiacciare il pulsante. Non posso biasimarla. Non mi conosce. «Signora, mi chiamo Leonard Riestra, dei servizi segreti degli Stati Uniti.» Appena sento la sua voce profonda, frugo nelle mie tasche per capire se mi hanno rintracciato. Sono entrambe vuote. So che non possono individuare la posizione del mio cellulare. Se ne occupa Mac. Rimane però la mia auto, anche se per il momento non ci posso fare niente. «Il direttore non viene mandato a casa della gente», mi avvisa Mac, appena la signora Young gli apre il portone. Se Riestra si presenta di persona, vuol dire che stanno facendo sul serio. Anch’io. Da secoli il Culper Ring lavora fuori dal sistema, per proteggere gli Stati Uniti da qualsiasi forma di abuso. Nelle ultime ore continuo a vedere Riestra. Forse sta solo cercando di proteggere il comandante in capo. Forse lui e Ciglia Bianche sono d’accordo. In ogni caso, mi rimane questa convinzione: qualsiasi messaggio contengano quelle braccia mozzate, per seppellirle così vicino al presidente bisogna per forza farsi aiutare da qualcuno all’interno del sistema. «Perché sono arrivati i servizi segreti? Che cosa sta succedendo?» domanda la signora Young. Guardo fuori dalla finestra, verso la stradina dietro il palazzo. Al momento, sono leggermente in vantaggio rispetto ai servizi segreti. Non ho fatto errori; se mi trovassero qui, non sarebbe grave di per sé. Il problema è che mi bloccherebbero in questo soggiorno per tre ore, tempestandomi di domande. «Dov’è l’uscita antincendio?» domando. «Non c’è nessuna...»
«Per piacere, lo so che c’è. Si esce dalla finestra della camera da letto?» Questo lo devo a Marshall. Mi ha insegnato a non entrare mai in nessun posto, a meno che non sappia come uscirne. La donna non risponde. Fuori rimbomba il tramestio del branco che sale le scale. Riestra non è solo. «Lei non ha nulla da nascondere», rassicuro la signora Young. «Può dire loro che ha parlato con me. Sanno chi sono. Riferisca pure tutti i particolari. Dica ogni cosa a tutti gli agenti presenti.» Corro in camera da letto, un piccolo rettangolo angusto che mi ricorda tristemente quello dove dormo io stesso. La sveglia su un solo comodino. Cuscini stropicciati su un solo lato del letto. Vivo così da troppo tempo. Dalla finestra vedo la scala antincendio di metallo arrugginito. «Lei sa che cosa è successo a mio figlio, vero? Lei non pensa che si sia suicidato», mi grida dietro la signora Young, mentre scuoto la finestra chiusa. Quando finalmente cede, strati di vernice vecchia cadono sul pavimento e il freddo mi avvolge. Si sente bussare pesantemente alla porta. Riestra è arrivato. La signora Young non si muove, rimane con me. «Signora, le prometto una cosa.» Sono a cavalcioni sulla finestra, con un piede già fuori. «Ho intenzione di trovare il colpevole. So che cosa vuol dire ignorare perché sia scomparsa una persona cara.» Mi guarda annuendo con le lacrime agli occhi. I colpi sulla porta diventano sempre più forti. «Signora Young, per favore, apra!» Chino la testa ed esco sulle scale antincendio, scendo in fretta, con la ruggine che mi graffia le mani. Secondo piano... primo... Tiro un calcio alla vite di metallo che libera la scaletta a pioli. Mi calo verso il basso afferrando una sbarra dopo l’altra e poi mi lancio dall’ultima, atterrando sulle suole. Prima di riuscire a rialzarmi, sento un clic alle mie spalle. «Siamo i servizi segreti», dice A.J. «Secondo te, non teniamo d’occhio l’uscita sul retro?»
59.
L’arma, una pistola d’antiquariato, sparò una piccola pallottola da moschetto nera che fece esplodere la parte anteriore dell’ascella di Marshall, portandosi via pezzi di muscolo, pelle e sangue. Durante la guerra civile, questo tipo di arma doveva essere ricaricata a ogni colpo, reinserendo la polvere da sparo. La versione modificata utilizzata da Ezra offriva più possibilità di tiro. Marshall rimase per mezzo secondo a fissare i frammenti di pelle della propria ascella come se stesse guardando un livido di cui ignorava l’origine. Poi ricordò l’addestramento militare e si infilò la mano nella voragine sanguinolenta, che gli inghiottì le dita fino alle nocche. Se c’era un proiettile, non riusciva a trovarlo. Il cuore fece un battito lungo e doloroso. Poi arrivò la fitta bruciante. Gli cedettero le gambe. Crollò a terra afferrandosi l’ascella e stringendo i denti, determinato a non urlare. Gli uscì comunque un suono, un gemito gutturale simile all’ululato di un cane morente. «Sai, se ti avessi colpito tre centimetri più in là avrei preso il polmone», disse Ezra, in piedi sopra di lui. «Ma non ti preoccupare. In quella parte di ascella non ci sono vene importanti né organi vitali. Anche se la perdita di sangue finirà per crearti dei problemi.» «D-dovevi spararmi in testa», ringhiò Marshall. Ezra sorrise. «Credi che sia venuto ad ammazzare te? Ho fatto le mie ricerche, Marshall. So chi sei.» «Non sai niente di me.» «Non è vero. Ho un motivo per volerti cooptare nella mia squadra. Allora, ecco la tua opportunità», concluse Ezra accovacciandosi accanto a lui e posandogli la mano sulla spalla. «Ti piacerebbe entrare a far parte dei Cavalieri del cerchio d’oro?»
60.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo Stavano facendo colazione come al solito. E siccome era venerdì, i cuochi avevano aggiunto dei pezzi di bacon alle uova per farli contenti. Da quando era morto Julian, ai Plankholders veniva fatta qualche concessione in più. Le truppe di solito apprezzavano. Anche Alby avrebbe gradito; sennonché, lì seduto al tavolo della mensa a ripensare alla notte precedente, quando aveva visto Julian vivo e vegeto, non gliene importava un granché della colazione, tanto meno di un po’ di uova al bacon. «Lo mangi, il biscotto?» domandò il ragazzo dell’Arkansas, sedendosi davanti a lui. «Veramente, no», rispose Alby, spingendo il vassoio verso il commilitone e sforzandosi di far sembrare tutto normale. «Ehi, che brutta cera!» aggiunse Arkansas. «Che cavolo ti è successo?» «Eh? No, no, sto bene. Solo che... ho dormito di merda stanotte.» Arkansas annuì. Molti avevano avuto gravi problemi di diarrea. «Allora non mangi neanche le uova?» gli chiese. Alby girò il vassoio, spingendo le uova dall’altra parte del tavolo. «A proposito, hai visto Nico?» domandò. «È lì dietro di te.» Alby si girò e Nico era lì in piedi, silenzioso come non mai, con le sue uova al bacon sul vassoio. «Posso mettermi qui?» chiese, con voce nasale. «Certo. Sì, certo», balbettò Alby, indicando la sedia accanto alla sua. Non l’aveva visto entrare, né tanto meno fare la fila per la colazione. Sembrava quasi sbucato dal nulla. Ma a inquietarlo di più fu il fatto che si fosse seduto al suo tavolo. A parte Arkansas Faccia Ovale e... be’, Julian... non si sedeva quasi mai nessuno vicino a lui. Tutti gli altri erano ai loro posti abituali. Timothy e gli energumeni al solito tavolo. I marines al loro. Al centro della stanza, il colonnello Doggett sedeva da solo a un capo del suo desco personale. «Lo mangi, il biscotto?» domandò Arkansas a Nico. «Lasciami in pace, Faccia Ovale», lo minacciò quello, coprendo il biscotto con la mano e tirando fuori un libro dall’aria familiare. Lo stesso che era sul suo letto la notte precedente. Il vecchio libro di Julian. Il diario del dottor Mudd. Appena si era svegliato, venti minuti prima, Alby aveva sentito il desiderio di rivelare a qualcuno – a chiunque – quello che aveva visto nella notte appena passata. Ma mentre osservava Nico assorto nella lettura dell’ultimo libro che aveva visto leggere a Julian, qualcosa gli suggerì di tenere la bocca chiusa. Almeno finché non avesse raccolto più informazioni. Per un po’ rimase a osservare il colonnello Doggett seduto a capotavola. L’ufficiale non ricambiò lo sguardo, non lanciò neppure un’occhiata nella sua direzione. Se Doggett avesse saputo che poche ore prima era rimasto nascosto dietro quella palma da datteri, quel mattino non sarebbe stato neppure lì.
“Poco ma sicuro”, concluse Alby. Dieci minuti dopo, Doggett si asciugò la bocca e prese il vassoio. Si alzò da tavola facendo un cenno di saluto ai marines e poi al dottor Moorcraft. Quando però infilò il vassoio sporco nella rastrelliera, Alby si rese conto che stava per fare qualcosa che non aveva fatto mai: si stava dirigendo verso i tavoli dei Plankholders. «Stanotte avete dormito tutti bene?» domandò il colonnello Doggett, fermandosi a metà strada fra il tavolo degli energumeni e quello di Alby. «Sì, signore», rispose prontamente Timothy insieme ad alcuni altri. Nico non reagì in alcun modo, non alzò neppure la testa dal libro. Per mezzo secondo – non di più – gli occhi castani del colonnello si soffermarono su Nico e poi su Alby. Il primo tenne lo sguardo basso. Durò solo un istante. Sembrò un’eternità. «A me piace il bacon nelle uova. Le rende più buone, vero?» chiese il colonnello, ottenendo in risposta un altro «Sì, signore!». Tutto qui. Doggett non guardò più Nico. E neppure Alby. Lui, però, stava osservando il suo superiore, la sua faccia, la postura a punto esclamativo e l’unica cosa che aveva sottobraccio: una cartellina di cartoncino. Niente di strano. Tutti i colonnelli si portano in giro fascicoli. Eppure, mentre Doggett salutava con un cenno della testa, girava i tacchi e si avviava verso la porta, Alby non poté fare a meno di pensare che, da qualche parte su quell’isola, dovevano esserci altri fascicoli. Documenti che spiegavano cosa stesse succedendo davvero. «Ti spiace se mangio anche le crocchette di patate?» domandò Arkansas a Alby. Senza dire una parola, Alby si alzò dalla sedia. Quando il colonnello aprì la porta a zanzariera e uscì dalla mensa, Alby lo seguì. Sapeva cosa doveva fare e dove avrebbe trovato quello che stava cercando.
61.
Oggi Arlington, Virginia «Vai a farti fottere», sibilò Marshall, sforzandosi di prendere un respiro, con la sensazione di avere una spina nel polmone. «Prima di rifiutare...» cominciò Ezra. «Ho già rifiutato. Se vuoi continuare a combattere... ti ho detto dove sparare la prossima pallottola», ribatté, allontanandosi strisciando da Ezra e da Clementine, ancora semincosciente. Il corpo di Marshall era sotto shock. L’ascella era in fiamme. Si portò una mano sulla piaga e il sangue sgorgò lungo le dita, gocciolando a terra. A giudicare dal respiro affannoso, era improbabile che la pallottola gli avesse trapassato di netto l’ascella. Doveva aver colpito qualcosa di interno. «Dove vuoi andare? Alla tua auto?» domandò Ezra. «Non fare il martire. Sai benissimo che non lascerai da sola Clementine. E di sicuro non sei in grado di spostarla. È una situazione che fa riflettere: in momenti come questo, non sarebbe bello poter contare su qualcuno?» «Fottiti. Mi hai sparato.» «Avresti mai parlato con me in circostanze diverse? Avrei dovuto mandarti un SMS, tipo: VUOI CHE TI PARLI DEI CAVALIERI? Magari con aggiunta di faccina sorridente...» Mentre si trascinava sul terreno, Marshall si guardò la camicia e vide una macchiolina di sangue allargarsi vicino al capezzolo. La pallottola era rimbalzata sulle costole. «Sei una persona disgustosa e neppure tu sai quanto», disse Marshall, pronunciando le parole come colpi di tosse, con i polmoni contratti. «I cosiddetti Cavalieri...» «Non hai idea di che cosa siano, i Cavalieri!» «So esattamente che cosa sono! Credi che non abbiamo saputo delle braccia sepolte? E credi che Clementine non mi abbia detto nulla della fotografia melensa che ti porti in giro, dove tu e tuo nonno siete insieme a Ronald Reagan? Sai quante foto gli avranno scattato quel giorno, mentre sorrideva e stringeva mani? Non meno di un’ottantina! Questo non fa di te una persona speciale! E di sicuro non sei chiamato a compiere nessuna missione divina! Sei un moccioso che sta dando la caccia al Culper Ring solo in nome di una vendetta immaginaria.» Ezra rimase lì in piedi con l’abituale postura squadrata, a leccarsi il labbro, che si era gonfiato dopo lo scontro fra le auto. «Riponi molta fiducia nel Culper Ring, per essere uno che sa così poco di quella organizzazione.» «Qualunque cosa tu stia per dire, è una menzogna», insistette Marshall, continuando a strisciare verso la macchina, con il dolore che si rinnovava a ogni respiro. «Senti un po’: hai idea di chi sia il capo del Culper Ring e di cosa rappresenti davvero? O sei anche tu ingenuo quanto Beecher?» Marshall si fermò per guardarsi indietro. Ezra indossava vestiti nuovi di zecca. Un soprabito spigato. Una polo. Jeans scuri costosissimi. Ma a giudicare dalla stoffa in eccesso dei calzoni, stretti dalla cintura... Non erano della sua misura. Come se stesse indossando gli abiti di un’altra persona. Persino la
cinghia: la fibbia era girata verso sinistra, come se lui fosse mancino. Eppure impugnava la pistola con la destra. C’era qualcosa che non andava. Perché uno dovrebbe mettersi i vestiti di un altro? «Inquietante, vero?» lo incalzò Ezra. «Credi di combattere per gli angeli del Culper Ring. E se invece avessi scelto la parte sbagliata?» «Dimmi perché hai messo la moneta nel braccio sepolto.» «Devi essere completamente perso, eh? Quando uno manda un messaggio...» «Parlami di mio padre.» «Prima le cose più importanti. Voglio che ti unisca a noi, Marshall. E credo che lo farai, quando avrai scoperto qual è la vera missione dei Cavalieri del cerchio d’oro...»
62.
Baltimora, Maryland A.J. mi osserva attentamente con le braccia conserte sopra la cravatta, senza dire una parola. Tutte le volte che mi vede, fa sempre quello arrabbiato, ma mentre mi fissa dall’alto in basso, con la grossa cassa toracica che si alza e si abbassa, mi pare che respiri in modo diverso. «Immaginavo che fossi con Francy e il grand’uomo», lo sfido. Con fare distratto, alza lo sguardo verso la palazzina di mattoni, osservando attentamente la scala antincendio, ma senza rispondere. «Riestra deve tenerci davvero tanto a questo caso, per venire qui di persona», aggiungo. A.J. si guarda intorno in quella stradina a forma di L, come se io non ci fossi neppure. «A.J., hai sentito quello che ti ho...» Gira lentamente gli occhi verso di me. Mastica una gomma immaginaria. «Qui dietro non c’è traccia di Beecher», comunica nel microfono nella sua manica, guardandomi dritto in volto. Arretro di un passo, confuso. La spilla con lo sfondo blu è scomparsa dal suo petto. Non è più nella scorta di Wallace. Ancora scioccato, mi avvio verso la strada principale. A.J. scuote la testa, poi si ricompone. Non è facile per lui. Prima di poter cambiare idea, indica con un cenno del capo la direzione opposta, il vicolo che passa dietro un edificio vicino. “Da questa parte?...” gli domando con lo sguardo. Mi volta le spalle. Capisco l’antifona e mi metto a correre, dapprima lentamente poi, appena sento una finestra aprirsi quattro piani sopra di noi, accelero. «Ha detto che Beecher è uscito da questa parte!» urla Riestra dalla scala antincendio. «Controllo di nuovo!» grida A.J. «Sicuro che non sia scappato sul tetto?» Corro talmente forte da non sentire la risposta. Mi fiondo fuori dal vicolo, arrivo sulla strada e giro rapidamente a sinistra, per tornare... Screeech. Un’auto si materializza dal nulla e inchioda davanti a me. «Non fare quella faccia. Forza, sali!» grida una donna anziana dal naso largo con capelli grigi a caschetto e un paio di occhiali fuori moda dalla montatura di corno. Di solito sento la sua voce nell’orecchio, alterata da un modulatore. Magica Grace, altrimenti nota come Immacolata Manomissione. «Mac, che cosa...» «I servizi hanno rintracciato la tua auto. Per questo sapevano che eri qui.» «Chi te l’ha detto?» domando, aprendo in fretta la portiera e sedendomi al posto del passeggero. Mi lancia un’occhiata sopra il bordo degli occhiali. Ai polsi porta due braccialetti di velcro per il tunnel carpale. Apre il velcro, poi lo richiude. «Qual è il mio compito, Beecher? Credi che non abbia nessuno nei servizi?» Pigia sull’acceleratore. Guardo nello specchietto retrovisore, vedendo rimpicciolire l’edificio dietro
di noi. «Perché non mi hai detto che eri qui?» chiedo. «Mi è solo giunta voce che l’auto stava venendo qui. Speravo che uscissi prima del loro arrivo.» «Ti sei sbagliata.» «Su una cosa, però, non mi sbaglio di sicuro», conclude. «A questo punto, Riestra non sta cercando solo Ciglia Bianche, ma anche te.»
63.
«Per capire i Cavalieri», cominciò Ezra, nascondendo l’arma sotto il cappotto, «prima bisogna comprendere il Culper Ring.» «So già tutto del Ring», replicò Marshall, ancora disteso sulla pancia, digrignando i denti per fare un profondo respiro. Con un po’ di fortuna, l’impatto delle auto era stato abbastanza forte da indurre qualcuno a chiamare un’ambulanza. Chiuse gli occhi e tese le orecchie. Non sentì nulla. «Tu conosci la storia che ti ha raccontato Beecher... quella che Tot ha raccontato a lui.» «Vai al punto. Se pensi che il Ring sia cattivo...» «Cattivo? Credi che sia una specie di gioco per bambini? Quello che Washington creò con il Ring... per me è una cosa estremamente ammirevole, più di quanto tu possa immaginare. Anzi, in quei primi anni il Ring funzionò a meraviglia. Tuttavia, ci sono cose che il Culper Ring non è in grado di fare. Mai sentito parlare di Thomas Hickey e William Tryon?» Marshall scosse la testa, tenendo il mento basso. Era finalmente in posizione: poteva vedere chiaramente sotto l’auto grigia. Durante lo scontro, gli era volata via la pistola. Doveva essere da qualche parte lì sotto. «Nel 1776 Thomas Hickey aveva il compito di proteggere uno dei più grandi generali dell’esercito. Il suo amico Tryon era il governatore di New York. Loro due, insieme al sindaco della città, progettarono di uccidere il capo di Hickey, un uomo di nome George Washington.» Ezra attese che Marshall alzasse lo sguardo, ma siccome non lo fece, aggiunse: «Immagini come saremmo messi oggi, se fossero riusciti nel loro intento? Lascia perdere Benedict Arnold. Il nome da ricordare è quello di Thomas Hickey. Per fortuna, però, il Culper Ring fece il proprio dovere, catturando Hickey e tutte le persone coinvolte. Questa è la sua missione: proteggere il presidente.» «La presidenza», lo corresse Marshall ansimando. La spina nel polmone sembrava scendere verso il basso. «Cercano di proteggere la presidenza. Ma ogni cosa ha i suoi limiti. Alla fine, Hickey fu giudicato colpevole e fu la prima persona a essere giustiziata per tradimento in quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America. Perché il messaggio risultasse ben chiaro, George Washington costrinse tutto l’esercito ad assistere all’impiccagione. Ventimila uomini videro Hickey pendere dalla forca con il collo spezzato. Una giusta punizione, no? Sennonché Hickey fu l’unico a essere punito. Gli altri cospiratori – il sindaco, persino il governatore, tutti e due pezzi grossi – furono lasciati in libertà. Come al solito. Alcuni dicono che andò così per insufficienza di prove, altri che Washington voleva evitare ulteriori conflitti politici.» «Arriva al punto.» «Ho fatto delle ricerche sul tuo conto, Marshall. Tre anni nei marines, poi espulso per insubordinazione e condotta non consona a un ufficiale. Ti chiesero di fare una cosa che non ti piaceva, vero? È così che ti sei procurato le ustioni? Oppure è stato un incidente da civile?» Ancora prono, Marshall teneva le mani premute sulla ferita, sentendo il cuore pulsare nell’ascella. Cercava la pistola con lo sguardo, ma non vedeva altro che vetri rotti. «L’esercito ti ha addestrato bene, però. Allora, parliamo pure di addestramento», continuò Ezra. «Qual
è il pugno più importante durante un combattimento?» Marshall non rispose. «Lo sai benissimo: il primo», disse Ezra. «Insomma, quando il gruppo del governatore Tryon cercò di uccidere George Washington – e se la cavò, senza pagare lo scotto –, diciamo che non tutti i membri del Culper Ring pensavano di dover essere così clementi. Non dimenticare che eravamo nel 1776. Nel bel mezzo della rivoluzione americana. Considera la posta in gioco. Avevano sparato al nostro leader. Se stai cercando di garantire la sicurezza di un paese, porgi l’altra guancia o reagisci per scoraggiare future iniziative di questo tipo? Gli uomini del Ring cominciarono a discutere fra loro. Come qualsiasi altro gruppo, è come una lastra di vetro: una volta che si forma una crepa, si allarga lentamente e alla fine... si spacca.» «Ho capito», grugnì Marshall a denti stretti, cercando di ricordare gli insegnamenti ricevuti durante l’addestramento. «Da quella frattura nacquero i Cavalieri del cerchio d’oro.» «Detto così, sembra molto semplice. Non so neppure se all’epoca si fossero dati un nome. Erano solo alcuni uomini nella stanza sul retro di una taverna. Poi se ne aggiunsero altri. In seguito, cominciarono a riunirsi regolarmente per discutere. Alla fine stabilirono le loro soluzioni. Qualche anno dopo il governatore Tryon fu trovato morto, vittima di un male sconosciuto. E sai chi altro morì? Suo figlio, e in seguito anche sua figlia. Il gruppo di Tryon smise per sempre di minacciare il nostro paese.» Steso a terra, Marshall fissava la macchia di sangue che si allargava sulla sua camicia. «Assassinare dei bambini non è una vittoria.» «Non è una vittoria neppure farsi tagliare la gola dal nemico nel bel mezzo della notte. Non fare finta di non capire. Come marine, hai giurato di garantire la sicurezza del tuo paese. Per oltre duecento anni i Cavalieri hanno fatto la stessa cosa, rimanendo nell’ombra e combattendo battaglie che nessun altro voleva combattere», spiegò Ezra, parlando più rapidamente. «Pensa a... pensa alla seconda guerra mondiale. Il governo degli Stati Uniti spese milioni per assoldare i migliori scienziati nazisti e impedire loro di lavorare per i nostri nemici. A un certo punto, quattro fra i più esperti costruttori di bombe nazisti cercarono di fuggire in Unione Sovietica. Altri tre si stavano avvicinando ai nostri nemici in Egitto. Grazie ai Cavalieri, nessuno di loro riuscì nel proprio intento. Fu una decisione difficile? Certamente. Ma fu anche giusta? La sicurezza di duecento milioni di americani contro sette traditori nazisti determinati ad ammazzarci tutti... Che cosa avresti fatto tu, Marshall?» domandò. «Se questo paese è riuscito a vivere in pace per così tanto tempo, è perché qualcuno ha preso decisioni difficili come queste.» «Il discorso mi è piaciuto di più quando l’ha urlato Jack Nicholson a Tom Cruise in Codice d’onore.» «Non fare finta di essere diverso da quello che sei. I soldati sono sempre soldati. Hanno bisogno di combattere.» «Ti sbagli.» «No, che non mi sbaglio. Lo vedo che non stai più guardando sotto la macchina in cerca della tua pistola. Non stai più neppure facendo l’inventario dei vestiti che ho addosso. Guardami negli occhi e dimmi che non stai pensando alla missione dei Cavalieri. Appena prima dell’11 settembre, nelle ore precedenti lo schianto di quegli aerei sul World Trade Center, centinaia di famiglie saudite lasciarono gli Stati Uniti nel bel mezzo della notte, come se sapessero che cosa stava per succedere. Il governo saudita, con tutto il suo petrolio, se la cavò senza pagare lo scotto, avvalendosi dell’immunità della corona. Credi che sia stata una reazione giusta, da parte dei nostri leader? Questo è il paese in cui dovremmo vivere?» L’unica risposta di Marshall fu il suo respiro affannoso. «So che anche tu ti sei trovato a prendere decisioni difficili come queste. Oggi ti sei portato la pistola», continuò Ezra. «Quando sei venuto qui con Clementine, pensavi di compiere un arresto come
privato cittadino o di ricorrere a una soluzione fondata su un po’ più di giustizia?» Marshall rimase zitto per un minuto buono. Si girò su un fianco, sentendo la spina nel polmone. «Hai detto che il Culper Ring ha dato la caccia ai Cavalieri. Perché?» «Jack Ruby.» Marshall si accigliò. «Tu sei fuori di testa. Totalmente.» «Fidati, quando lessi i diari, ero dubbioso quanto te. Ma devi capire: in oltre duecento anni di storia, da John Wilkes Booth a Lee Harvey Oswald, ci sono sempre stati individui che hanno cercato di utilizzare il nome dei Cavalieri a fini personali. Booth sosteneva di essere un Cavaliere, anche se perlopiù si pensa che il suo fosse solo un tentativo di depistaggio. Si vociferava che lo fosse persino Oswald. Nessuno di loro era un vero Cavaliere. Ma nei giorni successivi alla morte di JFK, mentre il paese era ancora sotto shock per aver visto esplodere la testa del presidente, Lindon Johnson non si rivolse al Culper Ring. Lui contattò i Cavalieri e ingaggiò un uomo che sarebbe diventato uno dei suoi membri più famosi.» «Stai dicendo che Jack Ruby era un Cavaliere?» «Fece quello che era necessario per garantire la sicurezza di questo paese. Sii obiettivo. Se Ruby non avesse premuto quel grilletto, il giovane comunista Lee Harvey Oswald avrebbe avuto un processo che si sarebbe protratto per mesi, in cui avrebbe inveito contro il governo, distraendoci dalla minaccia sovietica. Te la vedi Jackie Kennedy sul banco dei testimoni, devastata dal pianto, mentre gli avvocati più scaltri del mondo costringono lei e tutti noi a rivedere l’istante in cui le cervella del suo giovane marito venivano spruzzate sul suo tailleur rosa? Suvvia, Marshall, rispondimi con onestà. In piena guerra fredda, che cosa era meglio per il nostro paese: rivivere per un altro anno l’assassinio del presidente, con tutto il tormento emotivo che comportava, o lasciarci tutto l’incidente alle spalle?» Marshall fissò Ezra senza dire una parola. Ma sentiva ancora il consiglio che gli aveva dato il suo capitano quando si era arruolato: “Preferisco essere giudicato da otto miei pari, piuttosto che essere trasportato da otto di loro in una bara”. «Non possiamo smettere di essere ciò che siamo», aggiunse Ezra. «Tu sei diverso da Beecher. Tu capisci quello che lui non capirà mai. Lo sapeva anche mio nonno. Il Culper Ring è uno scudo perfettamente disegnato. A volte il presidente ha bisogno di uno scudo protettivo. Altre volte, invece, gli serve qualcosa di più aggressivo. Che agisca nell’ombra.» In silenzio, Marshall riuscì a fare un lieve sorriso. «So che mi capisci. Non avevo dubbi. Allora, rendiamo la cosa ufficiale», continuò Ezra, tendendogli la mano per sollevarlo. «Vuoi entrare anche tu nei Caval...» La pistola sparò un colpo, e un fiotto di sangue schizzò in avanti. Ezra non se l’era aspettato. Quando Clementine gli era arrivata alle spalle e, malcerta sulle gambe, aveva premuto il grilletto, lui si era girato per metà. La pallottola avrebbe dovuto colpirlo alla nuca ma, poiché si era voltato, gli aveva trapassato la guancia destra, spaccando la pelle e portandosi via anche un po’ di osso. «Aahhh! La mia faccia!» urlò Ezra, inciampando in avanti, addosso a Marshall, che riusciva a malapena a tenere la testa sollevata. «Brutta troia fuori di testa! Ti ammazzo!» Mentre Ezra continuava a barcollare, Marshall rotolò sulla schiena, scoprendo un’ampia pozza di sangue. «Per piacere, dimmi che lo sai, che dice un mucchio di stronzate», balbettò Clementine, zoppicando verso Marshall. «Sparagli di nuovo, non lasciarlo andare», ribatté lui. Era grigio in volto. Ogni suo respiro produceva un rantolo. Lottando per restare in equilibrio, Clementine premette di nuovo il grilletto. La sua testa calva era
lucida di sudore. Mancò il bersaglio, e la vetrina di un negozio vicino andò in frantumi. Scattò l’antifurto. Di lì a poco sarebbe arrivata la polizia. Clementine si avvicinò a Marshall incespicando e gli si inginocchiò accanto. «Oh, mio Dio... che cosa ti ha fatto?» Il sangue continuava a sgorgare dall’ascella. «Non... non lasciarlo andare!» urlò Marshall, cercando di muoversi, ma invano. Molto più in là, Ezra girò l’angolo e si allontanò dalla piazza, coprendosi il volto con una mano. Clementine sentiva un dolore pulsante alle gambe. Aveva il viso e le braccia pieni di graffi. O inseguiva Ezra o soccorreva Marshall. In realtà, non aveva scelta. Zoppicando, si affrettò a raggiungere l’erboristeria, dove c’erano bende e materiale medico, e diede uno strattone alla porta. Quando però entrò e fu accolta dal profumo di incenso al sandalo, non c’era traccia dell’infermiera con l’uniforme verde salvia. E neppure del suo gatto bianco. «Per piacere, ho bisogno di aiuto!» urlò Clementine, sentendo il sapore del proprio sangue in bocca. “Non svenire”, si disse. «Hanno sparato a una persona!» Nessuno rispose. Senza perdere tempo, Clementine si sforzò di correre, ma riuscì solo a zoppicare rapidamente in direzione del locale sul retro. Lo sportello del frigorifero che nascondeva la stanza sterile era spalancato. Solo quando ci fu entrata, ricordò che non era mai aperto. Prrr. Scorse il gatto bianco striminzito in un angolo alla sua sinistra. Clementine trasalì e, girandosi di scatto, vide il paffuto medico asiatico piegato in avanti sul carrello con gli strumenti. L’assistente era accanto a lui, abbandonata a faccia in giù sulla poltrona da dentista improvvisata. Lungo le loro spine dorsali correva una linea scura, sottile e irregolare, che impregnava i camici come la striscia di una puzzola. Sangue. A giudicare dal foro scuro che avevano sulla nuca, erano stati colti di sorpresa. Prrrr, fece il gatto con più insistenza. Sotto il piede sinistro dell’infermiera c’era una pozza di sangue. Il felino ci girò intorno, tentando di avvicinarsi alla padrona, ma tenendosi alla larga dal sangue. Clementine udì un suono di sirene in lontananza. “Scappa!” si disse. E invece il suo primo istinto fu quello di... «Vieni qui!» esclamò. E, con tutto il corpo indolenzito, prese in braccio il gatto. Lo stanzino delle medicine alle sue spalle era chiuso a chiave. Frugò in alcuni armadietti aperti, afferrando bende, garze e tutto ciò che le sembrò poter tornare utile. Strinse al petto l’animale: «Non opporre resistenza, gatto!». Quando tornò zoppicando nel negozio e poi uscì, le sirene stavano strepitando con intensità doppia rispetto a prima. «Marshall, ce ne dobbiamo andare di qui», urlò, allungando il braccio per raccogliere il ponte di metallo con i denti finti. Gettò ogni cosa, compreso il gatto, dentro il finestrino aperto dell’auto. Marshall rimase immobile. Aveva il volto pallidissimo, gli occhi socchiusi, umidi e cerei, come se non fosse più cosciente. «Marsh, no! Non mi abbandonare!» gridò Clementine, afferrandolo per il braccio sano e cercando di trascinarlo verso l’auto. Ma era troppo pesante. Le sirene urlavano sempre più forte.
64.
Baltimora, Maryland «E sei sicuro di non averlo visto?» domandò il direttore Riestra. «Crede che non sappia riconoscere la sua faccia?» ribatté A.J. «Ho controllato personalmente entrambi i vicoli», aggiunse, indicando ciascun passaggio fra le mura dei palazzi. A dire il vero, lo stesso A.J. era ancora sorpreso dalla propria decisione di lasciar andare Beecher. Non l’aveva previsto. Come ogni gesto improvviso, era stato dettato dalla pancia, più che dal cervello. «Se Beecher è stato qui, vuol dire che era già scappato.» «Continui a ripeterlo. Ma quando sono entrato nell’appartamento, la finestra della signora Young era ancora aperta. Ha detto che Beecher era appena uscito.» «Mah, sarà andato sul tetto. Forse è più veloce di quello che pensavamo. Non so, che cosa vuole che le dica?» Riestra si riaggiustò gli occhiali sul naso, poi fece schioccare le labbra. «Sai qual è la più grande prerogativa dei servizi segreti per me, A.J.? La precisione. Il nostro servizio di scorta è una macchina perfettamente oliata. Fai otto ore di turno, vai a casa a riposare e poi, per accertarti di essere sempre fresco, assumi una nuova posizione in cui devi ricominciare tutto daccapo. Turno del mattino, del pomeriggio, di mezzanotte. È come una Ford Modello T. Funziona sempre. «Naturalmente, bisogna stare attenti al sistema di rotazione. Quindi a volte ti trovi direttamente in posizione uno, accanto alla spalla sinistra del presidente; altre, in posizione avanzata, prima che lui arrivi; altre ancora, tieni a bada la stampa o sorvegli i monitor in un sotterraneo. «Ma, ripensando alle ultime settimane, sai che cosa ho scoperto? Tu, A.J., sembravi sempre occupare la posizione uno. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, tu avevi costantemente quel compito: spalla sinistra del presidente. Allora sono andato un po’ più a fondo, e sai perché ti assegnavano quella posizione?» A.J. era immobile, rigido come una quercia. In un angolo del vicolo, un gruppetto di foglie morte prese a vorticare come un minitornado. «Ho fatto una ricerca; è stato affascinante», continuò Riestra. «Avevi quella posizione perché il capo di gabinetto della Casa Bianca richiedeva personalmente la tua presenza. Ma sai che cosa ho scoperto? Il capo di gabinetto non ti conosce poi così bene, quindi ho dedotto che la richiesta venisse da qualcuno che sta ancora più in alto. E se pensiamo a quanto sia in alto il capo di gabinetto, be’... chi altro avrebbe potuto pretendere una cosa simile?» «Signore, non sono sicuro di seguir...» «Mi stai remando contro, stronzo. So che stai mentendo su Beecher. So che l’hai visto scendere dalla scala antincendio. Perciò, qualsiasi questione privata ci sia fra te e il presidente – non mi importa se ti tiene sempre vicino per farsi fare un pompino al giorno...» «Signore, non è...» Riestra afferrò A.J. per la spalla, pizzicandogli forte la pelle del collo. Lo attirò a sé e gli bisbigliò: «Non hai idea di quanto poco ti manchi a passare la peggiore giornata della tua vita. Per me puoi
conoscere anche Dio in persona, non me ne frega niente. Quando ti faccio una domanda, tu non mi racconti palle, chiaro?». A.J. annuì. Il fiato di Riestra puzzava di sigaretta. «Ti rispedisco al centro di addestramento», concluse il direttore, dirigendosi infuriato verso la parte anteriore dell’edificio. «Se Wallace ti vuole, che venga a prenderti lui stesso.» Mentre era lì in piedi in quel vicolo, a rivedere al rallentatore la fine della propria carriera, A.J. non era sorpreso. Sapeva che sarebbe successo, prima o poi. Dal momento in cui il presidente gli aveva chiesto quel primo favore personale nell’Ohio, aveva capito che camminava su un filo sottile, dal punto di vista morale. Se la persona più potente del mondo viene a chiederti personalmente un piacere, è difficile dire di no. Ma più le richieste aumentavano, più il filo si torceva lentamente, a formare un cappio. A.J. ebbe la tentazione di chiamare Francy o l’ex medico della Casa Bianca, Stewart Palmiotti, o addirittura di comporre il numero privato che l’avrebbe messo in comunicazione con Wallace in persona. Invece rimase lì immobile, pervaso da quel senso di perdita e imbarazzante sollievo che si prova alla morte di una persona che ha sofferto troppo a lungo. Nell’angolo, le foglie continuavano a turbinare. In fondo al vicolo, il direttore Riestra era quasi arrivato alla sua berlina nera. Quel piccolo dettaglio irritante – Riestra che si infilava nella propria auto – rimase sospeso nell’aria a solleticare le zone più recondite del suo cervello. Se al direttore fosse importato qualcosa delle braccia sepolte, non sarebbe dovuto rimanere al piano di sopra a parlare con la signora Young? Non avrebbe dovuto raccogliere più informazioni sulla vittima? Invece, era salito in macchina – da solo, senza il capo del suo staff – e se n’era andato. “Mmm”, pensò A.J. “C’è un’altra persona a cui interesserebbe molto la faccenda.”
65.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo Quel giorno si sarebbero occupati dei cannoni. Come avevano fatto quello prima e anche il precedente. «Questo, usa questo qui», disse la guardia di nome Dominic, passando a Alby un lungo palo con un raschietto di metallo in fondo. Erano tre giorni ormai che i Plankholders avevano il compito di pulire e aggiustare i cannoni Rodman da venticinque tonnellate che c’erano sull’isola. Durante la guerra civile, erano stati prodotti solo trecentoventi esemplari di questo tipo. Fort Jefferson ne possedeva sei – tuttora intatti – uno per ciascun bastione, sistemati sul tetto della fortezza esagonale e puntati verso l’esterno. All’epoca, questi cannoni potevano sparare un proiettile a tre miglia di distanza, fino a Loggerhead Key, e per questo erano i più potenti del mondo. Nel XX secolo, i carri di ferro su cui venivano montati erano stati venduti dall’esercito come metallo da fondere. Sicché, essendo troppo pesanti per essere spostati, i cannoni erano rimasti ad arrugginire per decenni su quel terrapieno esposto all’aria salmastra e alla sabbia. Due giorni prima, Alby e gli altri Plankholders avevano usato un martinetto idraulico per sollevarli a uno a uno, poi ci avevano infilato sotto un bel po’ di tronchi per spostarli su dei blocchi di granito e puntarli ancora più in là oltre i parapetti. Il giorno precedente avevano usato martelli e spatole per grattare via le escrescenze e gli strati di ruggine spessi uno o due centimetri dalla superficie esterna di ogni cannone, soprattutto nei punti a contatto con la sabbia. Quel giorno, sei di loro, compresi Alby e Nico, erano armati di lunghi raschietti a forma di mezzaluna che avrebbero usato come giganteschi cotton fioc per entrare nelle bocche dei cannoni profonde più di quattro metri. Uno era pieno di uccelli e granchi morti. Un altro conteneva bottiglie decrepite. Tutti erano rivestiti, all’interno, di spessi strati di sterco di ratto e residui vegetali. Per sei ore di fila, Alby rimase ad arrostire al sole, sforzandosi di grattare via tutto ciò che poteva. Stando a quello che aveva detto il marine di guardia, una volta finito il lavoro avrebbero inserito in ogni cannone un apparecchio elettrico grosso come una scatola da scarpe e infine avrebbero coperto le bocche. L’apparecchio avrebbe dovuto aiutarli a monitorare i cambiamenti di temperatura all’interno dei cannoni e il livello di umidità, a scopo conservativo. Se ci fosse entrato un animale, li avrebbe informati. Persino un cadavere, aveva aggiunto Dominic con la sua risata aspirata. Per il momento, Alby era ancora impegnato a raschiare via strato su strato di sterco di ratto, sudando così intensamente da cominciare ad avere le dita raggrinzite. Là sopra sul tetto non c’era ombra e, con l’estate alle porte, non arrivava neppure un alito di vento. «Trentanove gradi esatti», borbottò Nico, rivolto a nessuno in particolare. Eppure, per i Plankholders, trovarsi sul tetto di Fort Jefferson presentava un vantaggio: la vista. Erano tre giorni ormai che fissavano l’oceano, affascinati dall’orizzonte verde azzurro. In quei momenti l’isola era davvero l’unico posto rimasto al mondo. L’attenzione di Alby, però, non era attratta dal mare, bensì
da altro. In quei tre giorni, mentre gli altri Plankholders continuavano a guardare in alto e verso l’esterno, Alby volgeva lo sguardo in basso, all’interno, godendo di una visuale perfetta sul cortile esagonale della fortezza. Da là sopra, si vedeva tutto: la cima di ogni albero, il tetto di ogni edificio e, naturalmente, ovunque la gente stesse andando. Per tre giorni consecutivi, Alby continuò a osservare. Alla fine ne fu certo: ogni mattina, il colonnello Doggett usciva dalla mensa per tornare negli alloggi degli ufficiali, e nel giro di dieci minuti un’altra persona seguiva lo stesso tragitto. Il dottor Moorcraft.
66.
Dieci giorni fa Carter Lake, Iowa Il dottor Moorcraft si svegliò di soprassalto, convinto di essere a letto. Era seduto nella cucina di casa, le mani legate dietro la schiena con fascette di plastica da elettricista. «Ma che... Perché sono... Il dito!» urlò, dimenandosi sulla sedia e facendola sbattere sulle piastrelle in stile mediterraneo, frenetico come un cane che cerca di mordere la propria coda. «Ti ho scorticato il mignolo», spiegò Nico, seduto davanti al dottore, i palmi delle mani appoggiati sul tavolo rustico d’antiquariato. In mezzo a loro era posata la pinza dal becco lungo, aperta. “Guarda come è larga la pinza quando è aperta”, disse la defunta first lady. “Sembra...” “...tipo una croce”, dissero Nico e la first lady all’unisono. Nico sorrise. Essere capiti era la cosa più bella del mondo. «Ma perché stai... Con chi stai parlando?» domandò il dottore. «Sì, sì, sono d’accordo», disse Nico alla first lady. «Il prossimo sarà l’anulare.» «Nico, qualsiasi cosa tu stia vedendo... Non conosco la tua storia, ma hai assunto farmaci antipsicotici e neurolettici per anni. Se smetti di prenderli, le allucinazioni peggior...» «Non porti la fede», lo interruppe Nico. «Neppure il colonnello Doggett ce l’aveva.» «Hai visto Doggett? È così che hai...?» «Tua moglie è morta? Oppure ti ha lasciato, come ha fatto quella di Doggett?» «Figliolo, non mi stai ascoltando. Sto cercando di aiutarti.» «Questa è la seconda bugia che mi dici. In tutti questi anni mi è stato detto che la mia malattia... che Dio mi aveva scelto per questo. Che è stato Lui – Lui – a farmi in questo modo... a mettermi dentro la malattia. Adesso so che non è vero.» “Dio ti aveva fatto bene”, disse la first lady. «Dio mi aveva fatto bene!» concordò Nico, tenendo le mani posate sul tavolo, come se stesse nascondendo qualcosa sotto il palmo sinistro. «Che cos’hai in mano?» chiese il medico, continuando a dibattersi per cercare di liberarsi le braccia. Era evidente che soffriva ma, come gli specialisti del St. Elizabeths, si sforzava di mantenere la calma. «Sai perché indossiamo tutti la fede all’anulare sinistro?» lo sfidò Nico. «Risale ai tempi degli antichi romani e degli egizi: all’epoca si pensava che il quarto dito della mano sinistra fosse collegato a una vena che portava dritta al cuore. La chiamavano vena amoris. La vena dell’amore.» «Figliolo...» «In realtà, è una stupidaggine. È provato che si sbagliavano di grosso. Ma è così che funziona la medicina, no? A volte commette errori gravissimi», sibilò Nico sporgendosi in avanti, sempre più cupo in volto. «Sono certo che il discorso ti sia sembrato perfetto mentre te lo ripetevi mentalmente, ma qualunque cosa tu abbia deciso di fare, non ha senso. Perché dovr...» «Ho cercato nei tuoi cassetti, dottore. Ho trovato questo.» Nico tese la mano a coppa e la sollevò,
mostrando un mucchietto di dentini bianchi, più di venti o trenta. “Denti da latte”, commentò la first lady quando Nico ne rovesciò alcuni, facendoli rimbalzare sul tavolo. «Vivi in questa casa da molto tempo, vero?» aggiunse Nico. «Ci sono così tanti denti... È qui che hai cresciuto i tuoi figli. Quando il governo ti ha procurato una nuova vita, è qui che ti sei nascosto per tutti questi anni. Ma non...» «È tua figlia, vero?» “Non rispondere”, gli suggerì la first lady. «La ragazza di cui parlava il telegiornale. Quella che, da quanto si dice, ti avrebbe aiutato a fuggire. So che è tua figlia.» Nico si irrigidì, continuando a sbattere le ciglia. «Chi te l’ha detto?» «È malata, giusto?» domandò il medico. «Sei venuto qui per questo?» “Tagliagli l’altro dito”, lo esortò la first lady. “Prendi il coltello. Tagliaglielo nel punto in cui prima c’era la fede nuziale. Non credere a una sola parola che dice, finché non lo avrai pelato come un acino d’uva.” «Spiegami quali sono i sintomi», aggiunse il dottor Moorcraft. «Come si presenta? È cancro?» Malgrado le continue proteste della first lady, Nico annuì. «Da quanto tempo? Sai a che stadio è?» chiese Moorcraft. Nico parlò con un filo di voce. Fissò il tavolo. «Le stanno cadendo i denti.» Moorcraft non fece una piega. Era praticamente immobile. Nico, però, a furia di stare a contatto con medici, sapeva quando l’incubo era ancora peggiore di quello che loro avevano previsto. «Mi dispiace che soffra», aggiunse. «Devi aiutarla», insistette Nico. «Non credo che tu ti renda con...» «Tu. Devi. Aiutarla!» sbottò Nico, poi balzò in piedi, si slanciò in avanti, sul tavolo, sparpagliando i denti e investendo la faccia di Moorcraft con il suo alito caldo. Alla fine gli diede uno spintone, facendolo ribaltare all’indietro con la sedia. Mentre cadeva, il dottore si torse e atterrò su un fianco. Il gomito, bloccato dietro lo schienale, sbatté per terra. «Il mio braccio!...» Nico si inginocchiò per spostarglielo, in modo che non fosse più schiacciato dalla sedia. Ma lasciò l’anziano sul pavimento. «Devi aiutarla!» ringhiò di nuovo. «Non mi stai ascoltando! Vorrei poterla salvare. Vorrei poterti dare tutto quel che ti serve, pur di farti uscire da casa m...» «Ci hai iniettato qualcosa! Tu sai che cos’era!» «Non importa che cos’era!» replicò il dottore, ancora immobilizzato a terra. «Eravate stati scelti per un esperimento. Ci furono effetti collaterali che nessuno aveva previsto e ora in tua figlia sta avvenendo una divisione incontrollata di cellule anomale, mai viste prima d’ora. Sai qual è il rimedio? Un bel niente.» Nico, ancora inginocchiato, scosse la testa. «Con te – e tua figlia – stavamo cercando di fare qualcosa di nobile, di grandioso. Ma credi davvero che se vieni qui a scorticarmi vivo, io all’improvviso tiri fuori una fialetta con un magico elisir verde? Non è un film di spie, Nico. Non esiste alcun antidoto segreto da versarle in bocca appena prima che muoia. Se la malattia di tua figlia è in uno stadio così avanzato, mi spiace, ma non c’è più niente da fare.» Nico continuava a scuotere il capo con fare disperato. La first lady si inginocchiò di fianco a lui,
cingendolo con un braccio. «Adesso tua figlia ha bisogno di te. Più che mai. Ma se vuoi davvero aiutarla...» Disteso a terra sulle piastrelle in stile mediterraneo, Moorcraft allungò il collo e si girò verso Nico. «...la cosa migliore da fare è accertarsi che non soffra.» Nella gola di Nico si formò una voragine, un cratere turbinoso ed elastico che si estendeva fino al petto e scendeva giù, fin’oltre lo stomaco, risucchiandolo da dentro, svuotandolo. Accanto a lui, la first lady gli bisbigliò che faceva parte del piano divino, ma se lui ripensava alle ultime settimane... Tutti i padri coltivano dei sogni per la propria figlia. Per decenni li aveva tenuti nascosti, rinchiusi nel profondo. In fin dei conti, di solito, la gente non rivela a nessuno i propri sogni più grandi. Poi, due mesi prima, Clementine era tornata nella sua vita. All’inizio era dubbioso. Non conosceva quella donna e c’era una marea di gente che voleva così tanto da lui. Eppure una notte, quando dormivano ancora in macchina, Nico era stato svegliato di soprassalto da un rumore proveniente da fuori. Sbirciando dal finestrino posteriore, aveva ascoltato. Era Clementine, a capo chino. “Ti prego, Dio, proteggi mio padre.” Stava pregando. Per lui. Sentì un nodo in gola. Non ne aveva mai parlato con la figlia, ma in quel momento, come padre, Nico aveva riaperto quel vecchio scrigno, e con cautela e curiosità era tornato agli antichi sogni. Nelle ultime settimane erano stati il suo carburante, il suo scopo. E ora, mentre era lì in ginocchio in quella cucina, per quanto si sforzasse di riafferrarli, ormai erano andati in fumo. Il ritorno di Clementine gli aveva cambiato l’esistenza. Eppure, avrebbe dovuto aspettarselo: nella vita, soprattutto nella sua, certe cose non potevano essere cambiate. “Nico, parlami”, insistette la first lady. «Il dottore sta dicendo la verità», disse Nico, tornando all’abituale tono monocorde. «Sì, infatti! Lo giuro su quei denti da latte!» lo supplicò Moorcraft. “Lo devi uccidere”, disse la first lady. Nico non la sentì. Stava ancora fissando il dottore. «Come facevi a sapere chi era Clementine?» «Clementine?» «Mia figlia. Quando ne hai parlato prima, come facevi a sapere che era mia figlia?» «Nico, sai quanti soldi sono stati investiti su di te? Credi davvero che non ci informassimo su tutto quello che facevi?» Lui annuì. «E i fascicoli di allora, dove sono finiti?» «Mah, se devo tirare a indovinare... Saranno ancora dove li abbiamo lasciati. Sull’isola.» «Apprezzo la sincerità.» Nico si alzò in piedi e si guardò intorno in quella enorme cucina rustica in stile spagnoleggiante. «Questa stanza è più grande della sala ricreativa del St. Elizabeths», aggiunse. «Mi spiace che ti abbiano rinchiuso in quel posto», disse il dottor Moorcraft, ancora legato alla sedia, disteso su un fianco. «Non avrei mai voluto...» Il medico non ebbe il tempo di pronunciare quelle parole. Nico afferrò la pinza a becco lungo dal tavolo e gliela ficcò in gola con forza. Il sangue gli schizzò sul mento e sulle labbra. Tirò indietro il braccio e infilzò di nuovo il medico. E poi ancora. E ancora. “Oh, finalmente, tesoro! Siamo quel che siamo e non possiamo cambiare”, commentò la defunta first lady sorridendo. Ormai Nico era in preda alla frenesia: afferrò Moorcraft per i capelli, gli trafisse il collo, il volto, la guancia. «Mi hai rubato mia figlia! Mi hai rubato la sua vita! La rivoglio!» ringhiò, sbattendo le ciglia sugli occhi colmi di lacrime e spruzzando saliva mentre parlava. «Ridammela! Ridammi la sua v...» «N-Nico...?» Una voce femminile risuonò nella stanza. Una voce di donna più giovane.
Nico si girò a guardare. La tizia sovrappeso che lo aveva portato lì – AnnaBeth – era immobile sulla porta, un ispido boccolo nero le era caduto sulla guancia. «Oh, mamma mia... Nico, che cosa sta succedendo?» balbettò, cominciando a vacillare. “Adesso è diventata una testimone”, sbottò la first lady. “Sai che cosa devi fare.” «Q-quello è l’avvocato?» balbettò AnnaBeth con gli occhi traboccanti di lacrime. Sembrava desiderosa di fuggire, ma le sue gambe rimanevano immobili. «Pensavo fossi venuto... Avevi detto che dovevi parlare con lui.» «Ti avevo detto di rimanere in macchina», ribatté Nico, afferrando il dottore per i capelli. «Dovevi parlargli», mormorò AnnaBeth. «Perché stai... Che cosa hai fatto?» “Nico, se dice a qualcuno che sei qui...” cominciò la first lady. Non aveva bisogno di finire la frase. «Mi fidavo di te!» urlò AnnaBeth. «Ho detto a tutti che eri buono!» “Sai che cosa fare con i testimoni”, aggiunse la first lady. Nico annuì, detestandosi per questo. Lasciò andare i capelli di Moorcraft. Il cadavere del medico cadde pesantemente a terra, sciaguattando nella pozza del suo stesso sangue. Nico impugnava la pinza, che aveva ancora dei pezzi di carne sul becco. Si diresse verso AnnaBeth. «Nicky, ti prego», singhiozzò AnnaBeth. «Noi due stiamo insieme, no? Ti prego, non farlo!» Mentre lui si avvicinava, la donna chiuse gli occhi. «Dovremmo stare insieme!» “È colpa sua, non tua”, aggiunse la first lady. AnnaBeth serrò le palpebre. Nico era vicinissimo – quasi naso contro naso – sentiva il suo fiato in faccia. L’ultima cosa a cui pensò fu il suo cane: chi avrebbe pagato il soggiorno al canile? Per un lungo istante ci fu solo silenzio. Quando AnnaBeth riaprì gli occhi, nella cucina non c’era più nessuno. “Ma sei scemo?! Che cosa stai facendo!?” urlò la first lady mentre Nico attraversava con calma il salotto, diretto alla porta principale. “Devi tornare a chiudere la faccenda!” Nico la ignorò. Certe cose, nella vita, non potevano essere cambiate. Altre, invece, dovevano essere cambiate. “Te ne pentirai”, lo avvertì la first lady. “Questa è la cazzata a cui ripenserai, quando ti ritroverai steso a terra e sarai ingabbiato per l’ultima volta!” Nico aprì la porta e si diresse all’auto senza rispondere. Sapeva cosa doveva fare. E dove doveva andare: nell’ultimo posto in cui avrebbe voluto mettere piede, là dove era cominciato tutto.
67.
Oggi Washington, D.C. Seduto sulla sua Dodge grigia parcheggiata, A.J. fissava il telefonino che utilizzava solo per le chiamate private. Conosceva il numero sul display, lo sapeva a memoria: era di Beecher. L’unica cosa che non sapeva era se premere il tasto CHIAMA oppure no. Per altri due minuti immaginò vari scenari possibili. Beecher avrebbe apprezzato molto le informazioni. E se era vero, come diceva il presidente, che il Culper Ring era fatto di persone in gamba, forse sarebbero state anche in grado di proteggerlo. Ma lì seduto nella sua fredda auto, con i piedi sempre più gelati, non poté fare a meno di pensare a quello che sarebbe successo l’indomani mattina, quando sarebbe tornato al centro di addestramento dei servizi segreti a Beltsville. Nello stesso identico posto in cui, tanti anni prima, aveva cominciato la sua carriera di agente. Per A.J. era finita. Nella vita le opzioni sono due: andare avanti o indietro. E, in realtà, non sei tu a scegliere. Schiacciò il tasto TERMINA e digitò un numero del tutto nuovo. Squillò una volta sola e poi qualcuno rispose. «Mi sembrava che avessimo fatto un discorso sull’utilizzo di questa linea», disse Francy. «Lo so. Solo che...» Si ricompose, deciso a non implorare nulla. «Volevo accertarmi che foste arrivati senza intoppi.» La sentì alzare gli occhi al cielo. «È il tuo modo di cercare di capire dove siamo?» Certo che sì. Nelle ultime settimane, da quando Palmiotti se n’era andato dalla Casa Bianca e Francy era entrata nella cerchia del presidente, A.J. si era sentito escludere da ogni cosa. Ma c’era sempre un modo per rientrarci. «Pensavo poteste avere qualche problema», continuò A.J., attento a usare la seconda persona plurale, e non la prima. L’aveva imparato presto: l’unico modo di uscire dai pasticci era riconoscere di esserci finito. «Che problema?» domandò Francy. «Riestra.» Lasciò che il nome rimanesse sospeso in aria. «Per piacere, potresti smetterla di fare il misterioso? È irritante», ribatté Francy. «Ti sto ascoltando.» «Se n’è già andato.» Francy si bloccò. «In che senso “andato”?» «È salito in macchina e se n’è andato. Da solo. Non ha parlato con la signora Young. Non le ha fatto domande. Non si è neppure fermato per cercare di capire come mai il braccio di Kingston sia stato trovato sepolto nel Rose Garden. Da quel che ho capito, l’unica cosa che gli interessa è trovare Beecher.» Di nuovo, Francy rimase in silenzio. «Secondo te, Riestra è un Cavaliere.» Era un’affermazione, non una domanda. «Sto solo dicendo che sono stati giorni molto duri. E so quanto
sia sgradevole sospettare che uno dei propri uomini possa lavorare per il nemico. Ma te lo giuro, Francy, mi conosci. Conosci la mia famiglia. Sono due generazioni. Siamo pronti a dare la vita per la sicurezza di Wallace... dell’intero paese.» Non seguì altro che silenzio. Sentì Francy bisbigliare in sottofondo: «Sì, signora». Non era solo in compagnia del presidente. C’era anche la first lady. «Dimmi solo di che cosa avete bisogno e io lo faccio», aggiunse A.J., ben consapevole di stare implorando. Di nuovo, silenzio. Finché... «In realtà, ci sarebbe una cosa che potresti fare per aiutarci.» «Parla pure, sono qui.» «Stavolta dovrai ascoltare lui in persona.» A.J. strinse le fredde dita in pugni vittoriosi. Erano esattamente le parole che voleva sentire. «Dimmi solo dove siete.»
68.
Washington, D.C. Mentre saliamo in ascensore, Mac non parla. Tiene la testa bassa per non essere inquadrata dalla telecamera. Non vorrebbe trovarsi qui. Neppure io. A volte, però, non si hanno alternative. «Beecher, è una stupidaggine», bisbiglia, mentre la porta dell’ascensore si apre e io esco nel corridoio bianco splendente, illuminato al neon, del reparto di terapia intensiva. «Con tutto quello che sta succedendo...» «So cosa sta succedendo. Ma c’eri anche tu quando mi hanno chiamato gli infermieri. Hanno detto che è capitato qualcosa a Tot. Se fossi tu in coma, non vorresti che qualcuno venisse a trovarti?» Mac ha settantadue anni. La risposta è scontata. «Promettimi che faremo in fretta.» «Promesso.» Saluto con un cenno del capo l’infermiera giamaicana che fa sempre il turno di notte e le chiedo: « Jocelyn, lui come sta?». «Sempre uguale», risponde lei, come se non fosse accaduto niente di particolare. «Uguale? Mi hanno detto che è successo qualcosa, che stava male. Ci ha chiamato un numero dell’ospedale.» L’infermiera Jocelyn scuote la testa. «Non chiamiamo nessuno. A meno che...» Si interrompe, cercando di tranquillizzarci, mentre ci precipitiamo verso la stanza di Tot. «C’è tua sorella con lui. Non l’avevo mai vista. È stato carino, da parte sua, venire a trovarlo.» Mac e io ci blocchiamo, guardandoci in faccia. Ho una sorella che vive nel Wisconsin e si prende cura di nostra madre. L’altra si è trasferita a Philadelphia, e da quando vivo nel Distretto di Columbia, non mi è venuta a trovare neppure una volta. Chiunque si trovi nella stanza di Tot, non è mia sorella. Mi fiondo verso la porta scorrevole della stanza 355, la apro di scatto. La luce è soffusa. Tot è nella posizione abituale, testa inclinata di lato, bocca aperta, palmi rivolti in alto come se stesse implorando la morte. Seduta in un angolo su una poltroncina reclinabile di legno e vinile dell’ospedale, c’è una donna alta con la pelle olivastra e i capelli biondo miele. L’archivista dei servizi segreti. La mia amica Mina. «Sai, Beecher, per essere un ragazzo intelligente», mi dice, «non sempre ti comporti in modo intelligente.»
69.
In quanti posti puoi nascondere un presidente degli Stati Uniti? C’era una quantità sorprendente di nascondigli, come A.J. aveva appreso durante i primi mesi di servizio nella scorta presidenziale alla Casa Bianca. Ce n’erano in tutta la città di Washington: banali come i rifugi antiaerei sotto gli edifici, ma anche seminterrati di alberghi o sale macchine sotterranee collegate con i monumenti nazionali, persino il campo da basket della sede dell’FBI, una stanza rivestita di acciaio all’interno della Biblioteca del Congresso e un sottomarino vicino alla casa del vicepresidente. Eppure si trattava di luoghi provvisori, da utilizzare quando il capo della nazione doveva essere nascosto in tutta fretta. Se non c’erano rifugi vicini, i servizi segreti potevano crearne uno all’istante: il giorno prima di ogni visita presidenziale in una città, enormi aerei cargo C-17 trasportano camere blindate da installare nell’hotel di turno: atterrano sempre alle 13.00. Nella stanza del presidente, gli agenti spingono divani e poltrone contro una parete, montano la camera blindata pannello per pannello e applicano pellicole antiesplosione alle finestre. Se il presidente deve essere spostato, gli elicotteri della Andrews Air Force Base sono pronti a trasferirlo in strutture più stabili, come il ricovero antibomba della Casa Bianca. Se questo è compromesso, verrà condotto a Camp David. Se anche quella residenza è compromessa... La lista va avanti. Eppure, mentre A.J. sgomitava in mezzo al traffico della Route 50, transitando lentamente davanti all’Iwo Jima Memorial, sapeva che tutti quei nascondigli non erano più utilizzabili. Accese la radio e cercò di abbandonarsi a una vecchia canzone dei Red Hot Chili Peppers che gli ricordava i tempi in cui si era laureato e si era trasferito nel Distretto di Columbia. Sentiva ancora l’odore del suo primo appartamento, dove c’era una moquette impregnata di profumo e piscio di cane. La canzone non ebbe l’effetto calmante di un tempo. Non era la prima volta che i Cavalieri si intrufolavano alla Casa Bianca, chiunque fosse il loro capo al giorno d’oggi. Il secondo braccio, sepolto a Camp David, aveva seminato ancora più panico del primo nei servizi segreti. Quindi, se avesse dovuto indovinare dove fosse nascosto al momento il presidente, avrebbe pensato a un posto tipo Mount Weather, quella cittadina tranquilla della Virginia. Ogni anno, quando il presidente pronunciava il discorso sullo «stato dell’Unione» di fronte alle massime cariche del Congresso, della corte suprema e di tutto il gabinetto di ministri, a Mount Weather veniva nascosto un membro del governo costretto a rimanere in disparte, in caso un gruppo terrorista avesse lanciato una bomba e assassinato il resto dell’esecutivo. Una decina di anni prima, quando troppi giornalisti erano venuti a conoscenza di Mount Weather, la cittadina era stata espunta dalla lista dei nascondigli presidenziali. Dopo l’11 settembre fu segretamente reintrodotta dalla Homeland Security, affinché fungesse da base per gli altri membri del governo, in caso di attentato terroristico. Il presidente aveva un bunker sotto l’edificio 409. E a tutt’oggi, sul retro delle carte d’identità dei massimi esponenti dello staff della Casa Bianca, c’erano indicazioni per raggiungere la struttura in questione. Senza dubbio, era un’opzione realistica. Ma prevedibile, stando a quanto diceva Francy.
Ecco perché, mentre usciva dalla George Washington Memorial Parkway, A.J. non era ancora sicuro di essere diretto nel posto giusto. Eppure, secondo Francy, era proprio quello. Giunto ai segnali di stop alla fine della rampa, girò a sinistra. Come era immaginabile, l’ampia carreggiata era vuota; bloccata da barriere di metallo gialle e cartelli con su scritto IL CANCELLO CHIUDE ALLE 19.00. Per giunta, la strada era di acciottolato, per costringere le auto a rallentare. Qui non erano ammessi gli sconosciuti. E neppure la velocità. Più in là si ergeva l’inconfondibile monumento dalla grande arcata neoclassica. Ma quello che lo indusse ad attenuare il volume della radio e a zittire l’assolo del basso degli Hot Chili Peppers fu la vista delle due sentinelle davanti alla barriera. Indossavano giubbotti arancioni fosforescenti come normali addetti alla security notturna, ma A.J. notò gli auricolari. Servizi segreti. Qui un normale visitatore si aspetta di trovare presidenti morti, non vivi. L’insegna diceva ARLINGTON NATIONAL CEMETERY. Quando abbassò il finestrino, l’agente di guardia disse: «Sei A.J., vero?».
70.
«Che cosa stai facendo!? Togliti subito di lì!» le dico, precipitandomi nella stanza di Tot e girando intorno al letto. «Beecher, non sono venuta a fare del male a nessuno», mi assicura Mina. «Voglio solo parlarti.» «Allora fa’ come tutti gli altri. Chiamami! Usa il telefono! Oppure segui l’esempio del tuo capo: rintraccia la mia auto!» Non abbocca. Rimane lì impassibile, le gambe accavallate. È il modo di combattere anche di mia madre. Mi fa uscire di testa. Mi giro per vedere come sta Tot e per la prima volta mi accorgo che Mac è scomparsa. Non è neppure entrata. Non la biasimo. Se è così brava nel suo lavoro è perché si accerta, da decenni ormai, che le persone come Mina ignorino la sua esistenza. «Chi era quella donna anziana?» domanda quest’ultima, lanciando un’occhiata alla porta a vetri scorrevole. «Una collega archivista», rispondo. Mina cambia posizione sulla poltrona. Non mi crede, ma lascia correre. «Perché non mi hai chiamato?» la sfido. «Saresti venuto?» Non rispondo. «Come facevi a sapere che sarei passato di qui?» «Gina dell’ufficio Affari legislativi. Abbiamo preso insieme il master in scienze bibliotecarie. Dice che vieni qui tutti i giorni. Io avevo solo bisogno che arrivassi un po’ prima.» Non dico una parola. Le macchine che tengono in vita Tot continuano a lampeggiare e a emettere il solito coro di sibili e bip. «Allora è lui Tot. Quello di cui parli sempre. È molto importante per te, eh?» aggiunge. La fisso in silenzio. «Beecher, me ne rendo conto. Capisco che tu non abbia voglia di parlare con me, quindi te lo dico subito: se è vero che il direttore Riestra ha rintracciato la tua auto, vengo a saperlo in questo momento. E se non mi credi, be’... se fosse stato davvero il capo a orchestrare tutto, secondo te, in questo momento staresti parlando con me... o con lui?» Mentre rifletto sulla domanda, mi girò di nuovo verso Tot, rimboccandogli istintivamente la coperta sotto i piedi. Indossa le calze blu antiembolia per evitare che l’eccessiva permanenza a letto crei coaguli di sangue. «Ascolta», continua Mina. «Non sono venuta qui per immischiarmi negli affari tuoi. Me ne vado via subito, prima però...» Apre la borsetta. «La monetina che ti interessava, quella con la civetta...» Mina estrae un foglio ripiegato. «Ho scoperto che cosa significa HL-1024. Sono coordinate. Indicano un posto su una mappa.» Mi porge il foglio in attesa che l’afferri. «Perché lo stai facendo?» le chiedo. «Solo perché ho permesso a tuo fratello di farsi una foto proibita?» «Non hai ancora capito, vero? James è sepolto con quella foto. È nella sua bara. Me l’ha chiesto
espressamente», mormora con la voce rotta. «Sei una brava persona, Beecher. Se stai cercando qualcosa... so che non mi chiederesti nulla, se non fosse importante.» Prendo il foglio, senza però aprirlo. «Grazie, sei molto gentile.» Lei si gira verso Tot, scrutandolo con occhio da archivista. «Si trova qui per questo? C’entra qualcosa, la monetina?» Non rispondo. «Beecher, quando avevi bisogno di aiuto, mi hai chiamata e io ho risposto immediatamente. Ma la cosa più importante è questa: se non ti fossi fidato di me, non mi avresti neppure contattato. Perciò ti prego di non trattarmi come se fossi una nuova impiegata che spinge il carrello nella sala schedari. Qualsiasi cosa tu stia cercando, ha chiaramente a che fare con la spilla dei servizi segreti che mi hai portato. E siccome il proprietario di quella spilla è morto tre settimane fa ed è in qualche modo collegato all’attentato al presidente Reagan – e, chissà per quale motivo, il mio capo, il direttore Riestra, è abbastanza coinvolto da rintracciare la tua auto –, be’, come diceva la mia tata, quando sei nella cacca fino alle ginocchia, o ti arrotoli le braghe o le maniche.» «In questo caso, non sono sicuro che rimboccarsi le maniche sia la soluzione giusta.» «Allora dimmelo tu qual è: puoi dire a me che cosa sta succedendo davvero, oppure puoi aspettare di dirlo ai miei capi, appena ti troveranno. Personalmente, penso di essere un’opzione di gran lunga più sicura. E te l’ho dimostrato diverse volte.» Un altro sibilo profondo risuona nel tubo respiratorio di Tot. Gli guardo le mani per vedere se si stanno muovendo. Non è cambiato nulla. Tutto è fermo da settimane. «Come è rimasto ferito tuo fratello?» domando alla fine. «Ma che cosa c’ent...» «Ho passato tre ore con lui. Abbiamo parlato di baseball, vecchi documenti e anche di come il tubo dell’ossigeno continuasse a fargli sanguinare il naso. Ma non mi ha mai detto come è stato ferito.» Lei tace, ma non a lungo. «È accaduto anni fa.» «Afghanistan?» «Iraq. Vorrei poter dire che eravamo molto uniti come fratelli, ma James aveva quasi dieci anni più di me. In famiglia c’eravamo solo io, lui e nostra madre, che lavorava sempre, era sempre impegnata per noi. James non eccelleva a scuola, ma era sempre lui a preparare la cena e a fare la lavatrice. Entrò nell’esercito perché secondo lui era un modo economicamente vantaggioso per imparare a fare il meccanico; intanto mandava i soldi a casa, perché io avessi più possibilità di scelta di quante ne avesse avute lui. Niente male, per un tifoso sbruffone dei Red Sox.» «È rimasto ferito mentre era in servizio?» «Tutti pensano che i soldati restino uccisi saltando in aria sulle granate, ma è raro che la morte sia così spettacolare. James si trovava davanti al cancello principale della base, quando arrivò un’auto rossa guidata da un sedicenne che si sporse fuori dal finestrino e chiese delle indicazioni stradali. Appena James si avvicinò abbastanza da parlargli, vide che aveva in grembo una ciotola gialla piena di esplosivi. Bum, punto e basta. Miracolosamente, James sopravvisse, ma lo shrapnel gli lacerò i polmoni e gli si conficcò nella spina dorsale; una scheggia sottile arrivò persino al cervello. Non tornò mai più come prima, neppure dopo anni di operazioni chirurgiche e terapie. L’hai visto anche tu: si sforzava di mettere insieme frasi compiute e, quando ci riusciva, era solo per dirti che odiava la sedia a rotelle e la sacca per colostomia o che una certa formazione dei Red Sox di cinque anni prima avrebbe potuto vincere quel giorno. Ecco perché volevo che trascorresse almeno una bella giornata. Quando cominciò a ripetersi e a smaniare per quelle vecchie squadre, i medici dissero che stava avendo dei piccoli ictus cerebrali. Dissero anche che forse era vicino alla fine. Avevano ragione», concluse sporgendosi in avanti
e fissandomi con occhi assenti, assorti nel ricordo. «Mi dispiace.» «Apprezzo il tuo bisogno istintivo di consolarmi. Ma se la morte di James mi ha insegnato qualcosa...» disse, indicando Tot dietro di me, «è che quando non hai il padre che desideri, trovi il padre di cui hai bisogno.» Guardo l’uomo che mi ha accolto nella sua vita sin dal mio primo giorno di lavoro agli Archivi. Un sibilo roco e profondo rimbomba nel suo tubo respiratorio. Ho già perso un padre. Non voglio perderne due. «Non è così male, come consiglio», ammetto alla fine. Lei ride. «Grazie, per aver abbassato così tanto le tue aspettative nei miei confronti. Mi aiuta a tenere a bada la mia fastidiosissima autostima.» «Sai a che cosa mi riferisco.» «Eh, già. So anche che qui c’è in ballo molto più che una monetina schiacciata con su il padre nostro. Non è solo un progetto di lavoro, vero? È una questione piuttosto intima.» Continuo a fissare le tracce di sangue sulla sonda gastrica di Tot, tenendo in mano il foglio ripiegato con le coordinate. Se Riestra sapesse che lei è qui, non le permetterebbe mai di consegnarmele. Anzi, Mina sa che il suo capo mi sta inseguendo. Offrendomi il suo aiuto, rischia di perdere il lavoro e la vita. Tot mi direbbe di non fidarmi mai di nessuno. Ma lui non è veramente qui con me. Mina sì. E, a volte, per toglierti dalla cacca, hai bisogno di una mano in più. «Lì c’era l’unità di mio padre», dico. Mi guarda accigliata, confusa. «Le coordinate che hai trovato. Sul penny. Quello è il posto dove si trovava mio padre e dove credo sia morto.» «Allora avevo ragione. È una questione di famiglia», ribadisce lei, continuando ad annuire, come se stesse rivivendo la propria battaglia. «Non te ne pentirai, Beecher.» «Certo che sì. Anche tu. Ti dirò il resto per strada. Le coordinate indicano un posto lontano?» «Dipende», risponde Mina. «Hai un aereo?» «Veramente, sì.» Apro la porta a vetri e sbircio in corridoio. È libero. Mac se n’è andata da un pezzo. Tiro fuori il telefono per chiamarla. Lo schermo è già acceso. CHIAMATA IN CORSO. «Mac? Sei tu?» domando al telefono. «Non fare quello che stai per fare», mi avverte. Mi fermo dove sono, guardando Mina avviarsi verso gli ascensori. Ho bisogno di privacy per parlare. «Mi hai acceso il telefono?» bisbiglio. «Hai ascoltato tutto?» «E adesso sei tu che devi ascoltare me, Beecher. Questa donna è fin troppo disponibile per essere un’agente dei servizi segreti, soprattutto perché temiamo che Ciglia Bianche l’abbia sfangata proprio perché si è avvalso della collaborazione di un agente dei servizi segreti.» «Lei non è un’agente. È un’archivista. E un’amica.» «Non hai idea di dove ti stia trascinando.» «Certo ce l’ho, e vuoi sapere che cos’altro so? Che è l’unica ad avermi dato una risposta su mio padre, a suo rischio e pericolo.» «Questo non significa che stia dalla tua parte.» «Se non stesse dalla mia parte, non ti pare che a questo punto sarebbe venuto qui anche Riestra?» Neppure Mac può negarlo. Il penny dei Plankholders si trovava nel pugno del braccio sepolto per un motivo ben preciso. Quella moneta è un messaggio. E ora un posto. Alla fine scopriremo che cosa ci vuole indicare e, soprattutto, chi è il mittente. «Lei mi sta portando nel luogo dove è morto mio padre»,
spiego, raggiungendo di corsa gli ascensori. Mina ne sta già tenendo uno aperto. «Allora, ci puoi procurare un aereo, sì o no?»
71.
Ezra era proteso verso lo specchio del bagno, talmente vicino da vedere i suoi pori sul naso, quando squillò il telefono. Non rispose. Non poteva. Con una mano reggeva ago e filo, con l’altra teneva unita la pelle della guancia per chiudere i due lembi. La ferita sembrava peggiore di quello che era in realtà, una riga diagonale di carne viva e ustionata. Naturalmente, era stata Clementine a sparare il colpo. Ezra l’aveva sempre saputo, sin dal primo istante in cui aveva deciso di contattarla, che era una bestia. Come suo padre, del resto. Però aveva pensato che, facendo leva sull’interesse personale di quella donna, avrebbe potuto avvicinarsi al proprio obiettivo. Digrignando i denti, spinse l’ago nella pelle del viso. La bucò con decisione, tirò il filo, gli fece fare un giro e lo strinse per chiudere la ferita. Per la verità, il dolore non gli dispiaceva. I grandi gesti richiedevano un grande sacrificio. Il telefono riprese a suonare. Di nuovo, non rispose. Da un programma di una TV via cavo che parlava di esperienze estreme nella natura, aveva imparato che per cucirsi da soli le ferite bisognava intrecciare cinque fili. Una farmacia gli aveva fornito il resto: aghi, filo beige e un bagno che odorava di alcol in cui chiudersi e stare in pace per venti minuti. Si infilzò nuovamente con l’ago, diede un altro punto, lo strinse, e la ferita si richiuse. Per apportare il tocco finale, tamponò il nodo con colla Krazy Glue, continuando a pensare a come starebbe stato tutto più facile, se non avesse fatto quello che aveva fatto al medico e all’infermiera nell’erboristeria. Non se ne pentiva, non aveva avuto scelta. Lo conoscevano troppo bene, e per portare a termine la missione dei Cavalieri, tutto doveva essere... Il telefono aveva appena finito di squillare. Ora ricominciò. Chiunque fosse, continuava a riprovarci. «Parla», disse Ezra, dopo aver accettato la chiamata. «Scusi, ero... sono Jocelyn, l’infermiera. Dell’ospedale. Aveva detto... ehm... che avrebbe dato una ricompensa, se avessimo visto qualcosa nella stanza di Tot.» «Dipende da cosa avete visto.» «Il tizio di cui voleva sapere. Beecher. È venuto qui.» «È ancora lì?» «Dipende se ha ancora quei mille dollari che aveva promesso. So per certo che sta andando in un aeroporto. Se mantiene la sua promessa, le dico dove è diretto.» Siccome Ezra non rispose, lei aggiunse: «Senta, ho una figlia nelle Special Olympics che vuole partecipare ai giochi nazionali. Se non trovo i soldi, non ci potrà andare. Allora, vuole sapere dov’è andato Beecher o no?». Ezra si guardò allo specchio del bagno, sentendo i punti che gli tiravano la pelle, mentre gli si disegnava un sorriso in volto. «Infermiera Jocelyn, sarò lì fra dieci minuti.»
72.
A.J. ci era già stato, in quel cimitero. La sua pro-prozia – infermiera dell’esercito durante la seconda guerra mondiale – era sepolta lì. Non stava simpatica a nessuno dei parenti, ma tutti apprezzavano il servizio da lei reso alla nazione, perciò ogni volta che passavano per il Distretto di Columbia andavano a farle visita al Cimitero Nazionale di Arlington. A.J. aveva visto le lapidi perfettamente allineate. Aveva visto anche l’eterna fiamma di JFK e le tombe che a suo padre piacevano ancora di più: quella di Joe Louis e Lee Marvin. E, naturalmente, aveva visto la sentinella di guardia alla tomba del milite ignoto, che in quel momento era lì al buio con il suo lucido fucile M14 sulla spalla. Quando A.J. imboccò il tortuoso sentiero dietro il monumento, la sentinella non si voltò, né si mosse di un millimetro. Procedendo in salita e seguendo la luce lunare e le indicazioni di Francy per raggiungere la Sezione 3 del cimitero, A.J. si infilò la mano in tasca in cerca del cellulare. Era ancora tentato di chiamare Beecher. Non sapeva spiegare perché. Il presidente lo stava invitando a tornare nella famiglia, evidentemente si fidava di lui al punto di farlo venire qui. Ma più risaliva la collina e più lapidi vedeva, più il pollice continuava ad aprire il telefonino a conchiglia per poi lasciarlo richiudere. Davanti a lui svettava la sua destinazione, visibile anche nell’oscurità. Fra le oltre trecentomila tombe del Cimitero di Arlington, solo due erano mausolei. Uno era questo, un edificio in marmo bianco dal tetto a capanna con due cespugli rotondi davanti. Sopra una porta di metallo annerito era inciso il nome MILES. Giovane eroe della guerra civile, il generale Nelson Miles era giunto al vertice dell’esercito statunitense. In seguito, però, aveva criticato la politica americana nelle Filippine, attirandosi l’inimicizia del presidente Teddy Roosevelt che, quando Miles andò in pensione, si rifiutò persino di mandargli l’usuale messaggio di congratulazioni. Bastò questo a far capire a A.J. il motivo per cui Wallace aveva scelto quel posto. Ogni sua scelta, come quelle di tutti i presidenti, conteneva un messaggio. Miles aveva trascorso il resto dei propri giorni come un signor nessuno. All’età di ottantacinque anni, un giorno era andato al circo con i nipoti; quando la banda aveva cominciato a suonare l’inno nazionale si era messo sull’attenti, aveva fatto il saluto militare alla bandiera ed era crollato a terra, stroncato da un infarto. Il nuovo presidente, Calvin Coolidge, aveva fatto ammenda, procurandogli una sepoltura in grande stile. Quasi un secolo dopo, A.J. calpestava l’umida terra diretto verso quel riconoscimento a Miles. Le finestre del mausoleo erano coperte di assi di legno marcio che sbattevano al vento. Uno scoiattolo si arrampicò su una colonnina intagliata dell’edificio e ridiscese rapidissimo, appena lo sentì arrivare. Mentre si faceva strada fra le tombe vicine, A.J. continuava a fissare il mausoleo. All’interno non c’erano luci accese. Nei dintorni non si vedevano telecamere e – cosa ancora più strana, considerato il protocollo per le visite presidenziali – neppure militari di guardia. Per la prima volta, gli venne il dubbio che il mausoleo fosse in qualche modo collegato a un sotterraneo. Avvicinandosi ai cespugli rotondi e alla porta d’ingresso, si chiese se fosse il caso di bussare o solo... Rrrrrrrrrr.
La porta di metallo si spalancò stridendo sul pavimento di pietra. Un volto familiare sbucò dall’oscurità. «Non ti preoccupare, non ci sono fantasmi», lo rassicurò Francy O’Connor. «Lui è...? È lì?» domandò A.J., riferendosi all’unico lui che contasse qualcosa. Francy guardò alle spalle di A.J. per accertarsi che non ci fosse nessun altro. «Non è contento neppure lui. Adesso entra. Prima che esca tutto il caldo.» A.J. raggiunse a lunghi passi la porta aperta e, in quell’istante, nel mausoleo si accese una luce.
73.
È quasi mezzanotte quando arriviamo davanti al cancello di rete metallica chiuso. Lì davanti, un uomo allampanato di mezza età con una giacca sportiva da quattro soldi e senza cappotto socchiude gli occhi alla luce dei fari dell’auto e apre un lucchetto. Come sistema di sicurezza non è un granché. Mi sporgo dal finestrino del passeggero. «Siamo venuti per vedere...» «Mr. Mullligan vi sta aspettando», dice l’uomo, indicando con un lungo dito elegante la nostra meta: l’ampio hangar alla nostra destra. «Mr. Mulligan?» domanda Mina lanciandomi un’occhiata, mentre schiaccia l’acceleratore e procede. Annuisco, sapendo che è un appellativo di fantasia. Mr. Mulligan si riferisce a Hercules Mulligan, il sarto irlandese che duecento anni fa era il nome più celebre di tutta la guerra d’indipendenza e salvò la vita del presidente George Washington (per ben due volte!), rivelando i piani degli inglesi al Culper Ring. Mulligan non era un membro ufficiale del Ring, ma quando c’era bisogno di lui, era sempre disponibile. Proprio come l’uomo che ci sta aspettando. «Non sapevo neppure che ci fosse un aeroporto da queste parti», commenta Mina mentre entriamo in un parcheggio coperto, al riparo da sguardi indiscreti. Ecco perché siamo arrivati fino a Manassas, Virginia. Se ci alziamo in volo da Reagan o Dulles, persino su un charter privato, siamo esposti a ogni genere di telecamera di sorveglianza. Ma l’aeroporto di Manassas permette ai ricconi di andare e venire dalla capitale senza neppure essere visti. «Sei Beecher?» chiede una voce del Sud, anche se la parlata è più sull’aggressivo, stile Kentucky, che sul tranquillo, stile Virginia. Alto e vestito di nero con una sobria giacca da marinaio, si è tinto di biondo i capelli a spazzola per nascondere i suoi settant’anni. La fibbia della cintura e i bottoni della camicia sono perfettamente allineati. Non c’è dubbio, è un ex soldato. Mac ha detto che lavora per una delle grandi agenzie del governo; si è rifiutata di specificare quale. «Mr. Mulligan», rispondo, tendendo la mano. Mulligan non me la stringe. Tiene la destra infilata in tasca e ci fa segno di seguirlo sul retro dell’aviorimessa. «Sei più giovane dell’ultimo», dice. L’ultimo? Tot mi aveva detto che per anni non avevano più arruolato nessuno nel Ring. «Di’ a Mac che, se muore mia moglie, resta sempre la prima che chiamerò», aggiunge, facendo in modo di rimanere sempre qualche passo davanti a noi. Si ferma sul retro dell’hangar, offrendoci per la prima volta la possibilità di osservare bene il vero motivo per cui siamo venuti fin qui. Mac mi ha dato tre cose per il viaggio. La prima è questa: un jet privato con due linee nere sottili sulla fiancata. La maggior parte delle compagnie aeree preferisce mantenere un profilo basso, evitando di mettere il proprio logo sugli aerei privati, anche se a volte è nascosto nel numero sulla coda. Qui si legge N619LM. Lockheed Martin. Il miglior fornitore dello Zio Sam. «Fammi un favore», si raccomanda Mulligan, appena il pilota si sporge dall’abitacolo. «Vedi di non andarti a schiantare con il mio aereo.»
74.
All’interno della cripta c’era un bel tepore: avevano una stufetta e una luce. A.J seguì Francy nel mausoleo e si guardò intorno. C’erano salme dappertutto, nascoste dietro antiche lastre di marmo, ognuna contrassegnata da una targhetta ricoperta di ragnatele su cui era inciso il nome del defunto. Addossato alla parete posteriore c’era un tavolo rotondo di ferro, su cui erano posati un vaso di fiori secchi e due calici che non venivano toccati da decenni. Quando la pesante porta si chiuse alle loro spalle, A.J. sollevò un sopracciglio. Non aveva ancora visto sentinelle, telecamere né scale segrete che portavano a un bunker sotterraneo. «Il presidente non è qui, vero?» domandò. Francy si sedette sul bordo del tavolo di ferro battuto, le braccia lungo i fianchi. «Quindi mi hai fatto venire qui per...» cominciò A.J. Ci pensò su un attimo. «È un esame. Stai mettendo alla prova la mia lealtà.» «Dovevamo sapere con chi stavi parlando.» «Allora chiedimelo; te lo dico! Lo sai che non sto con i Cavalieri!» «E Beecher?» lo sfidò Francy. «Sappiamo che l’hai lasciato scappare. No, sul serio, A.J., per me non è un problema. Abbiamo bisogno di Beecher e del Ring per questa faccenda. Ma quando succedono cose del genere e non ci dici niente... Insomma, dobbiamo sapere per chi stai lavorando realmente. E con chi stai comunicando, oltre che con noi.» «Ma sei pazza? Non ho chiamato nessuno! Neppure mio padre! Controllami pure il telefono. Forza, guarda il registro delle chiamate!» Francy chiuse la mano intorno a una ragnatela per staccarla dal muro. «Già fatto.» «Che cosa?» «Il tuo telefono. Lo stiamo controllando da un’ora.» Allargò le cinque dita come un mago alla fine di un gioco di prestigio. «Hai superato la prova, A.J. Avresti potuto chiamare chiunque e dire che eravamo qui. Ma non l’hai fatto.» Lui rimase lì in piedi, sentendosi già soffocare per il caldo. «Hai davvero così poca considerazione di me?» «Non fare quella faccia. Conosci la situazione. Sai bene fin dove sono arrivati i Cavalieri. Rispondimi con sincerità: se fossi al mio posto e Wallace ti avesse chiesto di controllare attentamente tutti – anche il telefono di sua figlia per vedere se lo stanno utilizzando per seguire i nostri movimenti –, credi che non avresti fatto la stessa cosa?» Ora toccò a A.J. rimanere zitto. «Esatto», disse Francy. «A proposito, vuoi dirmi che cosa sa Beecher del passato di Wallace, perché non mi pare normale che i presidenti in carica pensino così tanto a degli umili archivisti, anche se fanno parte del Culper Ring.» «Se Wallace volesse dirtelo, te lo direbbe.» «D’accordo, hai ragione», ribatté Francy. «Adesso sei pronto ad aiutarmi a scoprire dove sono diretti veramente Beecher ed Ezra?» Sul volto di A.J. si disegnò un piccolo sorriso. «Non sai da quanto tempo aspettavo che mi facessi
questa domanda.Âť
75.
Da qualche parte in South Carolina «Ha funzionato?» bisbigliò Marshall nel sonno. «Ha funzionato che cosa?» domandò Clementine. Marshall sbatté le palpebre e vide la luce al neon. Luce al neon significava stanze d’ospedale e operazioni. Ma quello non era un ospedale. Glielo suggeriva il naso. C’era odore di tè nero. E gatti. Era disteso sulla schiena. Sul petto aveva una coperta sottile di poliestere, tipo quelle dei motel da quattro soldi. Clementine, seduta sul bordo della brandina ribaltabile su cui era sdraiato, lo stava guardando. Aveva un’escoriazione sulla guancia, anche se si stava formando la crosta. La stanza continuava a traballare. «Siamo su un treno?» chiese Marshall, cercando di alzarsi a sedere, nonostante il forte dolore all’ascella. Ora ricordava. Gli avevano sparato. Ezra aveva usato un revolver d’antiquariato riadattato, probabilmente per fare un qualche parallelo storico terrificante che solo Beecher avrebbe apprezzato. Ecco perché detestava... «Ha funzionato che cosa?» ripeté Clementine. Stava dando un pezzo di formaggio a un gatto bianco macilento che teneva in grembo. A Marshall non piacevano i gatti. Gli sembrava che sapessero la verità sul suo conto. «Gli hai portato via il gatto?» «Aveva bisogno di un nuovo padrone. Prima però hai chiesto se qualcosa aveva funzionato», disse Clementine. «A che ti riferivi?» Marshall fissò lei e il gatto. «Non ne ho idea.» Si guardò intorno e si accorse di essere senza camicia. Strisce di cerotto gli coprivano la ferita. Ora ricordava il tè nero. Clementine aveva preso scatole di garza dallo studio del dentista. Marshall le aveva detto di imbeverla di tè nero e poi di strizzarla. Il dolore vero era arrivato quando lei aveva dovuto infilare la garza nella ferita. Era svenuto dal dolore, ma i tannini nel tè avevano contribuito a restringere i vasi sanguigni e a facilitare la coagulazione. Era stato indubbiamente quello a salvargli la vita. «Perché siamo su un treno?» domandò Marshall. «Credi che avrei potuto farti passare da un aeroporto? Non eri in grado di parlare, né tanto meno di stare in piedi. Il treno con il trasporto delle auto partiva prima che facesse buio. Il facchino mi ha aiutato a metterti su una sedia a rotelle. Gli ho detto che oggi sei stato sottoposto a una durissima chemioterapia perciò, se vedi il tizio, fai finta di avere il mio cancro.» Marshall sollevò il braccio per valutare il dolore all’ascella. Clementine aveva tolto la pallottola con un paio di pinzette. Il dolore pulsante sarebbe durato per un po’. Aveva sopportato di peggio. Il respiro, però, era ancora pesante. Più del dovuto. Fuori dal finestrino oblungo, il cielo appariva buio. Era notte fonda. «Hai bisogno di dormire», suggerì Clementine. Marshall annuì. Incastrato nella testiera del letto c’era il biglietto già obliterato del treno. Destinazione: Florida.
«Che cosa c’è in Florida?» «L’unica persona che ci può aiutare», rispose Clementine. «Andiamo da mio padre.»
76.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo «Devo pisciare», disse Alby. Fu semplicissimo. Il marine di guardia quasi non si girò neppure, quando lui scese di corsa le scale in muratura che dal tetto portavano alla caserma. Poi, però, non andò al gabinetto della camerata. Appena giunto a terra, si sbottonò la camicia e tirò fuori un giornale non letto di una settimana prima, “Stars and Stripes”. All’isola non arrivavano molte notizie. I giornali giungevano una volta alla settimana da oltremare e non insieme alle derrate alimentari e all’acqua fresca. Se l’avessero scoperto, avrebbe detto che stava portando la nuova edizione al dottor Moorcraft. A quel punto, aveva capito lo schema. Ogni giorno dopo colazione Moorcraft andava negli alloggi degli ufficiali con una pila di fascicoli. Alcune ore dopo usciva dall’edificio in stile New Orleans e li portava in qualche recesso della labirintica fortezza di mattoni. Alby si incamminò con tutta la calma di cui era capace, fingendo di leggere il giornale. Come previsto, poco più in là, il dottor Moorcraft stava uscendo dalla casa del colonnello. Puntuale come un orologio. Nascosto dietro il giornale, Alby mantenne un’andatura costante. Trenta metri davanti a lui, il medico si inoltrò fra le stanze della fortezza. Stando a quel che aveva detto Julian, ai tempi della guerra civile quelle stanze avevano ospitato cannoni e armi da fuoco. Oggi erano piene di sabbia ed escrementi di ratto. Appena il corridoio girava a sinistra, cominciava il vero labirinto. Praticamente non c’erano né finestre né luce. Il dottor Moorcraft all’improvviso scomparve dietro un angolo. Alby non si fece prendere dal panico. Era da una settimana che si chiedeva dove andasse a imboscarsi. Ora era tutto chiaro. Più avanti c’era una targa inchiodata al muro: CELLA DEL DOTT. MUDD GIRARE A SINISTRA Sin dal primo giorno in cui i Plankholders erano arrivati sull’isola, quello era il luogo che ispirava le migliori storie di fantasmi: il vecchio carcere in cui avevano rinchiuso gli uomini che avevano cospirato contro Abraham Lincoln. Quando Alby girò l’angolo, non sentì rumori. Nessuno che camminava, correva o trascinava i piedi nella sabbia. Solo il ritmo familiare delle onde in sottofondo. Socchiuse gli occhi nella penombra del corridoio. Un granchio arancione avanzava lateralmente sul pavimento di pietra. Per il resto... Il dottor Moorcraft era scomparso. Confuso, Alby svoltò l’angolo. Il giornale si era inumidito nei punti in cui lo stringeva nelle mani. In quella parte della fortezza il soffitto era più basso e il corridoio più stretto. Davanti a lui c’era un’arcata che incorniciava la porta di metallo di una cella, tipo quelle che si vedevano nei vecchi film western. Sopra, un’asse di legno con una scritta intagliata a mano:
LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH’ENTRATE! Eccola. La soglia della cella del dottor Mudd. Quando si avvicinò, vide che la porta con le sbarre di metallo era ancora chiusa con una catena. Non aveva senso. Dov’era...? Fuuuup. Il rumore era giunto da dietro, dal corridoio principale: sembrava una porta che strisciava sul pavimento. Alby si girò immediatamente. Quando tornò di corsa in corridoio, sentì lo scatto di una serratura che veniva chiusa. Ecco. Alla sua sinistra c’era un altro corridoio stretto, ma stavolta le pareti erano di mattoni dipinti di bianco. In fondo, una vecchia porta di legno. Alby c’era già stato, durante gli esercizi di orientamento. Un tempo quella era una delle stanze in cui veniva conservata la polvere da sparo. Ora, siccome si trovava all’interno e non si affacciava sull’oceano, era il rifugio antiuragano dove si sarebbero riparati, se per caso ci fosse stata un’altra tempesta. Adesso sì che i conti tornavano. Ogni giorno il dottor Moorcraft si vedeva con il colonnello. Poi, una volta terminato l’incontro, il medico veniva qui. Il nascondiglio perfetto per i suoi fascicoli. Alby si allontanò, continuando a fingere di leggere «Stars and Stripes». Di lì a poco, il dottor Moorcraft sarebbe uscito di là. Più tardi quella sera, Alby avrebbe trovato ciò che stava cercando.
77.
Oggi Da qualche parte in North Carolina «Allora è questa?» domando, sporgendomi sopra la scrivania di eucalipto del jet privato per guardare il grande foglio di carta chiazzata. La mappa trovata da Mina. È rimasta arrotolata per talmente tanto tempo, che per tenerla aperta abbiamo dovuto metterci sopra le mie scarpe. «Ha qualcosa di speciale?» «Tutte le mappe sono speciali», spiega Mina dal lato opposto della scrivania, mentre si rifà la coda di cavallo. È l’una di notte passata, ma nonostante le luci soffuse e i sedili di pelle reclinabili, nessuno dei due riesce a dormire. «Pensa alle mappe che utilizzava Magellano per fare il giro del mondo. Erano piene di rotte commerciali di cui tutti i paesi rivali desideravano impadronirsi. Per secoli, come disse una volta una persona più intelligente di me, i portoghesi hanno controllato le Indie perché padroneggiavano le mappe.» Studio la nostra cartina, corredata di una vecchia immagine satellitare che sembra essere stata scattata durante la guerra fredda. Al centro si vede un edificio esagonale in bianco e nero, interamente circondato dal mare. Fort Jefferson, conosciuta anche come Isola del Diavolo o prigione degli assassini di Abraham Lincoln e, per qualche ragione, pure di mio padre e della sua unità dei Plankholders. Se l’istinto non mi inganna, è anche il luogo dove è lui morto. «Tutto bene?» domanda Mina per la quarta volta in un’ora. Continuo a fissare la mappa. «Perché sei venuta?» «Scusa?» «No, sul serio, Mina. Hai fatto il tuo lavoro, mi hai trovato questa cartina, mi hai indicato la direzione in cui andare. Perché salire sull’aereo con me ed esporti a questo rischio?» Non ha esitazioni. «Perché tu hai fatto la stessa cosa per me, Beecher. Quando mio fratello ha avuto bisogno di te, gli hai regalato la giornata più bella della sua vita. Voglio ricambiare. E se invece mi sono sbagliata ed è tutta una menzogna, be’, allora immagino che sia il caso più importante della mia vita.» Il discorso fila. «Adesso dimmi qual è la vera ragione», aggiungo. «Te l’ho appena detto...» «No. Non l’hai fatto in nome di una specie di ricompensa karmica e neppure per risolvere un caso. Sarai anche un’archivista come me e persino un’amica, ma innanzi tutto sei un’impiegata dei servizi segreti. Il compito numero uno è riferire qualsiasi attività sospetta. Quindi, venire qui senza protezione, aiuti e neppure una copertura, se per caso dovesse succedere un disastro e all’improvviso ti ritrovassi nella cacca fino al collo... Avresti potuto chiamare un supervisore e seguire tutto dal tuo ufficio. Riprovaci, Mina, e stavolta rispondimi sul serio. Perché. Sei. Qui. Con. Me?» Sul lato opposto della scrivania ribaltabile, Mina si alza in piedi. È troppo alta per l’abitacolo dell’aereo. Abbassa il mento sul petto. Parla con un filo di voce. «Non lo so.» Le sue parole, così cariche di una solitudine fin troppo familiare per me, colgono persino lei alla sprovvista. Io non mi muovo di un millimetro. Questa ragazza ha qualcosa di indescrivibile. Questa giovane testarda, inarrestabile. So che ama il passato quanto me. Ma diversamente da me, ha trovato il
modo di accettare la sua storia personale... e di trarne forza. È l’unico modo di raggiungere il futuro. «Sono felice che tu sia qui», le dico. «Anch’io.» Non posso fare a meno di sorridere. «Beecher, questo sarebbe un buon momento per baciarmi.» «Lo stavo per fare.» «Sì, cert...» Sollevo il tavolo, catapultando la mappa e le scarpe dall’altra parte della cabina. È più alta di me di almeno sei centimetri. Questo mi eccita ancora di più. Le mie dita scivolano sulla sua nuca. L’attiro verso di me, premendo forte le labbra sulle sue, mentre le nostre lingue si cercano. Ha un sapore caldo e, chissà come, familiare. Non c’è niente come un bacio perfetto. Questo però è decisamente frettoloso. «Mmm», mormora lei sospirando. Mi bacia morbidamente sulla guancia e mi sussurra due parole all’orecchio. «Ricomincia daccapo.» Io sono rivolto verso la parte anteriore dell’aereo, Mina vero il retro. Il movimento del jet la spinge ulteriormente contro di me, è più vicina che mai. Ha un corpo così forte, i muscoli tesi. Come una puledra. «È per questo che volevi il jet privato, eh?» bisbiglia, con le labbra che vibrano contro le mie. «Per me andrebbe benissimo il sedile posteriore di una Toyota.» «Tenero. Sei carino, Beecher. Ma credi davvero che otterresti la stessa cosa sul sedile posteriore di una Toyota?» dice ironica, sfoderando un sorriso cupo e malizioso che mi rimarrà impresso per ore. Oggi mi è sembrato il giorno più lungo e più breve della mia vita. Però adesso so finalmente che cosa voglio per il mio compleanno. Sopra le nostre teste, vicino alle luci e ai pulsanti, c’è un bottone rosso con su scritto NON DISTURBARE. Quando siamo saliti a bordo, non avevo capito a che cosa servisse. Adesso sì. Clic. Una luce rosata mi dice che è acceso. Ci la sciamo cadere su una poltroncina reclinabile vicina. Mina comincia a sbottonarmi la camicia, baciandomi sul collo e più giù, sul petto. Questa ragazza ha davvero qualcosa di speciale. E ora ne sono avido.
78.
Sandford, Florida Nove ore più tardi Marshall si svegliò. Era mattina, e sentiva un dolore pulsante all’ascella. Clementine era ancora lì, il viso gonfio, con il gatto addormentato in grembo, a vegliare su entrambi. Non si era mossa. Per un po’, lui rimase disteso nel vagone letto, intontito dal ritmo vorticoso del treno. «Perché mi hai salvato?» domandò alla fine Clementine, in tono senza dubbio riconoscente. «Che cosa stai dicendo?» «Vicino all’erboristeria. Quando Ezra mi ha investito con l’auto. Avresti potuto mettere in moto e scappare. E invece sei venuto a salvarmi.» «Meriti di essere salvata», replicò Marshall, anche se evitò di guardarla in faccia. Lei si bloccò, incapace di contenere un sorriso. «Adesso non illuderti troppo», la ammonì Marshall. «Sto solo dicendo...» «Ti stai illudendo.» «No, solo che di solito la gente non fa cose del genere per me. A meno che non voglia qualcosa in cambio.» «Io non voglio niente.» «Lo so», disse lei, allungando la mano verso la sua. Marshall la ritirò, ma dal volto segnato di Clementine non scomparve il sorriso. Aveva le mani graffiate e l’occhio sinistro rosso, perché le si era rotto un vaso sanguigno. «A proposito, che cosa ti stava bisbigliando all’orecchio Ezra?» aggiunse. Marshall rivide il suo aggressore che gli proponeva di entrare nei Cavalieri. Di diventare uno di loro. «Niente. Deliri da demente.» Il treno continuava a sobbalzare. «Be’, comunque, dove siamo?» «A Orlando, credo. Fra poche ore arriveremo a Miami.» Marshall annuì, aprendo e chiudendo i pugni. Aveva dormito troppo. Le cicatrici erano rattrappite e aveva la pelle rigida. Soprattutto sui gomiti, sulle ginocchia e sulle nocche. Se li fletteva troppo bruscamente, aveva l’impressione di lacerare le cicatrici. «Senti male quando lo fai?» gli domandò Clementine. «No», rispose lui, di gran lunga troppo in fretta. Clementine sapeva che stava mentendo, ma non glielo fece notare. Guardò la mano dell’amico. Lui la ritirò di nuovo. «Sai che fai la stessa cosa mentre dormi?» disse Clementine. «Ho provato a tenerti la mano e ogni volta ti sei divincolato.» Visto che Marshall non rispondeva, lei aggiunse: «Non è sano vivere così». «Non avevo capito che all’improvviso ci eravamo messi a scambiarci consigli esistenziali.» «Marsh, sto solo dicendo che...» «Marshall.» «Per piacere, mi ascolti? Qualsiasi demone ti porti dentro nella vita, con il tempo si rafforza.» Disteso sulla schiena, Marshall fissò le luci al neon, continuando a piegare le dita e a tendere la pelle. «Sai, in Francia, le cicatrici non sono neppure considerate brutte», continuò Clementine. «Anzi,
vengono apprezzate in quanto segni di esperienza e grandi avventure. È solo in America che cerchiamo di nasconderle perché ci imbarazzano. Per i francesi, sono testimonianze di vita vissuta fino in fondo.» «Sono stato in Francia. La gente mi fissava esattamente come qui.» «Questo non significa che sei...» «Clementine, apprezzo la terapia di gruppo, ma lascia che ti spieghi una cosa. Una volta all’anno vado al centro ustioni per fare un controllo e tutti gli innesti che servono. L’ultima volta ho visto una famiglia in corridoio: si tenevano stretti e piangevano. Il figlio era bruciato vivo mentre scendeva da un autobus della città. Una gang locale lo aveva spruzzato di benzina e gli aveva dato fuoco. Quel povero ragazzo era carbonizzato. Le orecchie e il volto si erano sciolti. Sul novanta per cento del corpo aveva riportato ustioni di terzo e quarto grado. Significa che arrivano ai muscoli e alle ossa», spiegò Marshall. «Così, quando il padre del ragazzo notò la mia faccia, mi prese da parte, indicò il figlio e mi domandò: “Come si fa a superare un’esperienza del genere e sopravvivere?”. Io lo guardai dritto negli occhi e gli dissi: “Non ce la farà”». Il treno continuava a sferragliare. «Non era necessario dirglielo», commentò Clementine. «Secondo te, è meglio mentire e infondere false speranze? Non tutte le storie hanno un lieto fine, e non tutte le ustioni in faccia sono segni di vita vissuta.» Clementine lo guardò, si ficcò la mano in bocca e staccò qualcosa dal palato. Estrasse il ponte di metallo con i denti finti. Glielo gettò sul petto ancora gocciolante di saliva. «Tutti abbiamo le nostre cicatrici», farfugliò, sfoderando un sorriso da zucca di Halloween con tre denti aguzzi e affilati che le pendevano dalle gengive come stalattiti. Marshall inclinò la testa di lato. Sapeva che la stava fissando, ma era più forte di lui. Clementine non si mosse, anche se avrebbe voluto farlo. «Quella cosa che hai detto della Francia, sulle cicatrici...» domandò alla fine Marshall. «È vera?» «Non lo so.» Si infilò il ponte in bocca. «Me l’ha detto un terapista anni fa. Ho scelto di crederci», ammise, protendendosi in avanti e allungando – di nuovo – la mano verso quella di Marshall. Lui aveva il pugno serrato, ma stavolta non lo ritrasse. «Che cosa mi dici del tuo fidanzato, Beecher?» «Non è mai stato il mio fidanzato. Neppure in quinta elementare. Inoltre, credi che lui sappia che cosa significa vivere così?» domandò, indicando la faccia di Marshall e poi la propria. Lui la fissò in volto, il pugno più stretto che mai. Con tutta la dolcezza di cui era capace, Clementine gli sollevò la mano. La pelle era simile a cera di candela, bitorzoluta e rigida al tatto. Abbassò la testa e gli baciò delicatamente la nocca centrale. Lui la lasciò fare. Sul dorso della mano Clementine vide un’escrescenza bianca, un punto in cui le ustioni erano profonde. Vi posò le labbra e gli diede un altro bacio. Ora era molto vicina, talmente vicina da essere immersa nel suo profumo. Odorava come un vecchio negozio di ferramenta. Clementine avvertì una sensazione familiare alla nuca che non provava da molto tempo. Desiderava avvicinarsi ancora di più. Alzò il mento, si piegò sulle labbra di lui e... «Clementine, no...» Successe così in fretta che lei era ancora in movimento. Marshall agitò la mano per respingerla. «No, davvero, non lo faccio.» «N-non volevo... avevo solo pensato che...» «Lo so che cosa hai pensato. E se ti fa sentire meglio, ci ho pensato anch’io. Però non mi va.» Per un attimo, Clementine rimase lì immobile. Mentre il treno sobbalzava, sentì il proprio stato d’animo passare impercettibilmente dall’imbarazzo alla rabbia e alla compassione. «Posso farti una domanda, Marshall? Questo è il tuo modo di punire te stesso o sei solo terrorizzato all’idea di essere
felice?» Lui si girò verso la parete. Non disse più una sola parola, finché il treno non fu arrivato a Miami.
79.
Il pilota ci lascia dormire fin quasi alle otto del mattino. Il problema è che siamo a Key West. «Sembra chiuso», dice Mina, la giacca invernale sul braccio, già sudata sotto il sole della Florida. Quando attraversa il parcheggio, la coda di cavallo è di nuovo al suo posto e lei non ha esitazioni. Neppure io. La nostra meta si trova sul marciapiede opposto rispetto all’aeroporto di Key West: un’agenzia che assomiglia più che altro a una roulotte sgangherata, completa di veranda malandata... e un cartello con la scritta CHIUSO sulla vetrina. Ovvio che è chiuso. A Key West non apre niente prima delle nove. O delle dieci a trenta, come dice il cartello. «Avremmo dovuto aspettare sul nostro aereo», commenta lei. Le lancio un’occhiata. «Anche a me piaceva l’aereo.» Sul suo viso sboccia un sorriso aperto e generoso che mi manda completamente in deliquio. «Buongiorno, buongiorno», ci saluta una voce maschile quasi un’ora dopo, mentre aspettiamo sulla panchina davanti all’agenzia. Alla nostra sinistra, un uomo di mezza età assurdamente abbronzato con una camicia hawaiana sbottonata giunge dal parcheggio su una bicicletta arrugginita. Ha capelli grigi arruffati tirati indietro dal vento e gli manca un canino a sinistra. «Quali esperienze strabilianti posso offrirvi oggi?» ci domanda. In piedi su un pedale, con tutte e due le gambe dalla stessa parte della bicicletta, raggiunge d’inerzia il cartello pubblicitario piazzato sul marciapiedi davanti all’agenzia: TOUR DI KEY WEST IN IDROVOLANTE. L’Isola del Diavolo è circondata dall’oceano. Non ha piste di atterraggio. L’unico modo per raggiungerla è via mare, in quattro ore di viaggio... o con l’unica compagnia di idrovolanti autorizzata. «Per piacere, mi dica che lavora qua», dice Mina. «Sì, certo, non sono l’uomo delle pulizie», ribatte lui con una risata da pirata, estraendo un mazzo di chiavi dalla tasca. Quando apre la porta, il campanello suona Kokomo dei Beach Boys. «Dove possiamo portarvi oggi?» «Isola del Diavolo», rispondo. Lui annuisce, per nulla sorpreso. «Adesso la chiamano Dry Tortugas. Funziona meglio per gli affari», spiega, mentre ci conduce all’interno e va dietro un alto banco bianco che gli arriva al petto. Le pareti sono tappezzate di viste aeree di Key West e delle isole vicine. «Il problema è che il servizio del Parco ha chiuso l’isola – Fort Jefferson – dopo l’ultimo uragano. Ci sono danni strutturali ai muri e, con i tagli alla spesa pubblica, non sono esattamente una priorità per il governo federale. È vietato l’accesso ad aerei e turisti.» «L’abbiamo visto. Su Internet», replico, togliendomi lo zaino dalle spalle. Mac mi ha dato tre cose per il viaggio. Questa è la seconda. Apro lo zaino, tiro fuori due mazzette di banconote non segnate e le sbatto sul tavolo. «Ho una prenotazione.»
80.
La strada rimanente la percorsero in macchina, con Clementine alla guida. Arrivarono a Miami la mattina presto. La stazione era a sole poche ore di auto da Key West. Clementine aveva già fatto quel viaggio, dieci anni prima, quando aveva ventidue anni, durante quel periodo difficile ad Atlanta. Alle tre del mattino, un fidanzato ubriaco, un ragazzaccio con una banda di amici ancora peggiori di lui, aveva dichiarato che sarebbero dovuti andare dritti alle isole Keys... e che se avessero fatto abbastanza in fretta, la sera dopo sarebbero riusciti a vedere il tramonto. Anche allora aveva guidato lei, i finestrini abbassati, l’aria nei capelli e un album dei Sonic Youth che predicava a palla tutte le lezioni di vita che a ventidue anni sembrano così irrefutabili. All’epoca, Clementine e il suo ragazzo si erano tenuti per mano – saldamente – per tutto il viaggio sull’autostrada a due corsie US1. Ogni volta che avevano incontrato un ponte – e ce n’erano a decine – ed erano passati sopra l’ammiccante acqua cristallina, se l’erano stretta ancora più forte. Oggi, con il gatto bianco striminzito in grembo e Marshall seduto sul sedile di fianco a lei, sapeva che non era il caso di afferrargli la mano. Da quando erano saliti in macchina, praticamente non aveva detto una parola. All’inizio, lei aveva pensato che fosse a causa dell’imbarazzo provato durante il viaggio in treno. Ma vedendo come si teneva il braccio e respirava con la bocca aperta... Non stava sudando – sulle guance non aveva né pori né ghiandole sudoripare, erano stati distrutti dal fuoco – ma aveva un brutto colorito in faccia. «Sto bene», le disse, prima che potesse domandarglielo. Il gatto bianco si mosse di scatto, avvolgendo la coda intorno al polso libero di Clementine. Anche il suo vecchio felino l’abbracciava con la coda in quel modo, quando era in ansia o noioso. «Puoi aprire un po’ di più il finestrino?» chiese Marshall. «Mouse non gradirà.» «Mouse?» «La gatta, le ho dato un nome. Le piace il formaggio», spiegò. «E poi, se apro il finestrino, mi vola via la parrucca.» A quel punto, lui restò zitto e distolse lo sguardo, ma sbatteva troppo le palpebre. Stava decisamente male. «Marshall, devo portarti da un...» «Non ho bisogno di un dottore. La ferita è a posto. È pulita. Ezra ha messo qualcosa sulla pallottola.» «Che cosa?» «Durante la guerra civile, i soldati confederati mettevano del veleno sui proiettili e poi li rivestivano di cera per sigillarli. Così facevano danni anche se colpivano di striscio. Ezra sta riorganizzando i Cavalieri. Usa i loro vecchi trucchi.» «Allora dobbiamo proprio andare da un...» «Sono a posto», ribatté lui, alzando la voce minaccioso. «Se fosse grave, non riuscirei neppure a stare in piedi. Qualunque cosa ci fosse sulla pallottola, l’organismo ha solo bisogno di tempo per smaltirla.» Clementine avrebbe voluto obiettare, ma poi toccò con la lingua i bordi frastagliati di un ennesimo dente prossimo a staccarsi, uno degli ultimi che le erano rimasti. Era da un po’ che stava perdendo
sangue, da prima che scendessero dal treno. Negli ultimi chilometri di strada la bocca continuava a riempirsi di quel sapore salato e metallico, più di quanto non avesse mai fatto prima. Sapeva che cosa significava. Afferrò il volante con forza e, sentendo la coda del gatto sempre più stretta intorno al polso, lanciò un’occhiata al brutto ponte che avevano davanti: una squallida piattaforma di cemento incorniciata da due pali del telefono che con i loro cavi formavano due sorrisi paralleli su entrambi i lati del passaggio. Di solito, i ponti le piacevano. Su un ponte, una volta, aveva baciato Beecher. Oggi, quindi, cercò di concentrarsi sulla bellezza, sulle onde ammiccanti tutt’intorno e persino sulla prospettiva di rivedere suo padre entro breve. Eppure, mentre le ruote dell’auto sobbalzavano sulle giunture di cemento, non poté fare a meno di notare che persino sotto il sole del mattino le onde avevano smesso di occhieggiare. Probabilmente, non l’avevano mai fatto neppure dieci anni prima. Quando Clementine superò il ponte e passò accanto al cartello azzurro, giallo e arancione brillante con su scritto BENVENUTI A KEY WEST- PARADISO USA, l’unica cosa su cui riuscì a concentrarsi davvero fu l’insistente e inequivocabile sensazione che il suo ritorno a Key West sarebbe stato un viaggio di sola andata. Incredibilmente, si rese conto di non essere così dispiaciuta. Da tanto tempo, dal momento in cui le avevano diagnosticato la malattia, il suo più grande timore era stato quello di soffrire da sola. Ora si sentiva meno sola di prima. «Gira qui a sinistra», le disse Marshall, indicando un piccolo cartello dietro l’outlet di scarpe di fronte a loro. «L’agenzia degli idrovolanti dovrebbe essere poco più in là.»
81.
«Siete solo voi due?» domanda l’amico con la camicia hawaiana. «Solo noi», rispondo, guardando fuori dalla vetrina della compagnia di idrovolanti per tenere d’occhio il parcheggio e la pista privata più in là. Metto sul banco altri soldi per convincerlo a non stampare veri biglietti. L’altra metà del denaro gliela darò al ritorno. Basta che i nostri nomi non vengano inseriti in nessun sistema rintracciabile. «Tranquillo, non arriva nessuno», bisbiglia Mina. Mi posa la mano sulla spalla. Non serve a nulla. «Quanto avevi detto che ci avrebbe messo il pilota ad arrivare?» domando. «È arrivato venti minuti fa», scherza Camicia Hawaiana. Io e Mina ci voltiamo. Ci sfodera il suo sorriso sdentato. «Per chi ci avete presi, per la Pan Am? Siamo a Key West; fatevi un drink. Jamie McDonnell IV: stewart di terra, di volo... e pilota... per servirvi.» Giuro su Dio che si è aperto un altro bottone della camicia. «A proposito», aggiunge il pilota Jamie, «state andando su un’isola, quindi non avrete acqua. Se volete, andate nel capanno sul retro e prendetevi un minifrigo portatile con delle bottiglie. Vengono solo un dollaro l’una.» Gli lancio un’occhiataccia. «Okay, bibite e acqua sono gratis», concede, consegnandomi la chiave. «Le bevande alcoliche, però, devo farvele pagare, perché sono care.» Mentre Jamie termina il suo lavoro al computer, qualsiasi cosa stia facendo, io e Mina ci dirigiamo verso il prefabbricato sul retro che assomiglia a un piccolo fienile rosso. «Pensi che terrà la bocca chiusa?» domando. «Gli hai dato tremila dollari. Quel tipo va in giro senza scarpe», osserva Mina. «Non parlerà.» Do un’altra occhiata in giro, apro il lucchetto e spalanco la porta del magazzino. «C’è odore di cacca di procione», commenta Mina, e io concordo. A sinistra ci sono due frigoriferi e a destra alcuni minifrigo portatili. «Io prendo l’acqua, tu il minifrigo», dice. La seguo all’interno, guardandomi un’altra volta alle spalle. Se i miei calcoli sono giusti, so che cosa mi attende sull’isola, e non è solo un fascicolo. Non vorrei mai che sparasse proprio a lei. «Mina, stavo pensando...» «Lo sapevo, adesso ti metti a dire che sei preoccupato per la mia incolumità.» «Non stavo dicendo quello.» «Okay, allora che cosa stavi per dire?» Rimango lì a osservarla, mentre preleva diverse bottiglie di acqua dal frigo. «Voglio stare ancora di più con te, Mina. Voglio sedermi a un tavolo insieme a te e consumare un buon pasto e avere tutto il tempo di vedere che donna straordinaria sei. Lo sai che l’isola non è un posto sicuro. Se ti porto con me...» «Va bene, allora sarò chiarissima. L’unico modo per impedirmi di venire su quell’isola è chiudermi in questo magazzino.» «Ci avevo pensato.» «Ci hai pensato davvero, eh?»
Non ribatto. Lei getta le bottiglie in un minifrigo portatile azzurrino. «Allora, che cosa ti ha dissuaso?» domanda. «C’è un bel lucchetto sulla porta. Perché non mi hai chiuso dentro?» «Se lo facessi, sarei uno stronzo.» «E poi perché?» «Come?» «Qui stiamo parlando di tuo padre. Di come è morto. Tutto quello che desideri sapere al mondo. Se avessi modo di trovare delle risposte e per questo dovessi fare lo stronzo, lo faresti. Quindi... Ieri notte ci siamo divertiti? Sì? È per questo? No. È ora di essere onesti con noi stessi. Perché sono ancora qui?» La guardo. «Per lo stesso motivo per cui sei salita sull’aereo», rispondo. Con una mano raccolgo il minifrigo e lo tengo sottobraccio, con l’altra afferro la sua e mi metto a correre verso l’agenzia. «Non te ne pentirai», mi promette, mentre la porta del capanno sbatte forte alle nostre spalle.
82.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo Alby si era offerto di pulire le latrine per una settimana. Ne valeva la pena. «Tieni gli occhi aperti», disse Timothy in fondo al corridoio, la torcia incastrata sotto l’ascella. Alby annuì, asciugandosi la fronte. Stava sudando molto – più del solito – anche se non era una notte così terribile. Non era scemo, ogni settimana il dottor Moorcraft somministrava ai Plankholders nuove iniezioni e nuovi farmaci. Mentre controllava di nuovo il corridoio buio, Alby scacciò una zanzara inesistente. Le due del mattino erano passate da un bel po’; la maggior parte dei Plankholders era esausta e stava dormendo. Timothy, piegato su un ginocchio, stava infilando una graffetta raddrizzata nella serratura della porta di legno. Alby aveva scoperto questa capacità di Timothy durante la prima settimana sull’isola, quando l’aveva sorpreso a usare una tecnica simile per rubare una scatola di M&M’S alle arachidi dall’armadietto chiuso a chiave della mensa. «E come diceva il grande Houdini... “Ho solo aperto questo stupido affare”», annunciò Timothy, girando il pomello e spalancando la porta. «Ehi, non dimenticare che hai promesso di fare il palo», gli ricordò Alby, appena Timothy si fu alzato e fece per andarsene. «Stai scherzando, vero?» «Guarda che questa cosa riguarda anche te. Dovresti...» «Alby, puoi dirmi tutto quello che vuoi, tanto non me ne frega niente. Lo sai benissimo che non mi sei simpatico. E non voglio aiutarti. Solo che non mi va di pulire merda più del necessario.» Il collo indolenzito di Alby si irrigidì più che mai. Avrebbe voluto tirare un pugno a Timothy, premere con i pollici sul suo pomo d’Adamo più forte che poteva. E invece rimase lì impalato. «Cinque minuti», lo implorò. «Non chiedo di più.» «Cinque. Non uno di più», lo avvertì Timothy, alzando gli occhi al cielo. «Se arriva qualcuno, bussa.» Alby afferrò la torcia e si infilò rapidamente nella stretta stanza dalle pareti di mattoni che odorava come una vecchia libreria. Non fu difficile capire perché. La parete di fondo era coperta di scaffali di metallo nuovi di zecca pieni di volumi, tutti d’argomento medico: Anatomia di Cobb, Biologia dello sviluppo, Psicologia anormale, Psicologia criminale, La scienza del comportamento umano. A un’altra parete erano addossati armadietti pieni di vecchie scatole sbiadite con la scritta: KIT DI SOPRAVVIVENZA FORNITI DALL’UFFICIO DELLA DIFESA CIVILE. Avanzi della guerra nucleare della fine degli anni Sessanta. Alby, però, era concentrato sulla parete alla sua destra, dove c’era una scrivania incastrata fra due schedari grigi. L’ufficio privato del dottor Moorcraft. Si avvicinò subito al cassetto più in alto e, mentre la torcia proiettava ombre in tutta la stanza, l’aprì di scatto. Con sua grande sorpresa, vide che il primo... il secondo... tutti e tre i cassetti erano vuoti. Si infilò la
torcia sotto l’altro braccio e corse al secondo schedario. Tombola. Una lunga fila di fascicoli, ognuno contrassegnato da un’etichetta scritta a macchina, oscillò avanti e indietro. Alby cominciò subito a sfogliarli. Bendis, Brian... DeConnick, Matthew... Mancava il fascicolo di Julian Marlin, ma gli altri c’erano tutti: Hadrian, Nicholas... Lusk, Timothy... e, in fondo, White, Albert. Fece per prendere il proprio fascicolo, ma poi lì dietro individuò un’altra cartellina. Sull’etichetta si leggeva: VOLO 808. 808? Era il loro aereo, quello che aveva avuto l’incidente. Perché mai avrebbero dovuto... Senza pensarci due volte, Alby afferrò il fascicolo e lo aprì sulla vicina scrivania. Dentro c’erano copie dei biglietti aerei, decine. Ce n’era un mazzo spesso quasi tre centimetri, tenuto insieme da una molletta per fogli. Appena sotto vide delle schede, una cinquantina, ognuna con un nome, un indirizzo, una foto tessera graffettata a un angolo e dettagli personali. Diede una scorsa alle immagini. Non riconobbe nessuno, a parte... Lei. Conosceva quella donna. Era la hostess di terra con il viso aguzzo e le tette ugualmente appuntite. Era stata lei a farli passare in prima classe. La scheda diceva che si chiamava Rachel Dagen. Di Holland, Michigan. Alby continuò a sfogliare. Vide l’anziana che era seduta dietro di loro, dall’altra parte del corridoio. Anche il vecchio. Lei era di Chicago. Lui di Malapan, New Jersey. Sotto la voce «stato civile», risultavano entrambi «liberi». Una goccia di sudore scivolò lentamente dal naso di Alby e andò a spiaccicarsi sul foglio. Il nodo sulla nuca si irrigidì. Non aveva senso. Chiuse gli occhi, l’immagine dell’incidente aereo era ancora vivida nella sua mente... l’anziana che scuoteva le spalle del marito... Aveva gli occhi azzurro ghiaccio e la pelle bianchissima. Non c’era dubbio, portavano entrambi la fede nuziale. Più confuso che mai, Alby guardò in cima alla scheda. Anche lì, come su tutte le altre, si leggevano tre parole in svolazzante corsivo: AVALON TALENT AGENCY Alby puntò meglio la torcia per accertarsi di aver letto bene. “Un’agenzia di spettacolo? Perché mai l’esercito dovrebbe aver bisogno di attori?”
83.
Oggi «Siete a posto con l’acqua?» domanda il pilota. «Ne abbiamo un bel po’», risponde Mina indicando il minifrigo, mentre tutti e due lanciamo un’occhiata al parcheggio. È ancora vuoto. «Adesso dobbiamo proprio andare», aggiungo, diretto alla porta, cercando di sospingere Jamie fuori, verso la pista. Ci manca solo che faccia altre domande. «Allora, di dove siete?» «Arizona», risponde Mina. «Ohio», dico io in contemporanea. Il pilota Jamie ci fissa per un secondo di troppo. «Me li date lo stesso, tutti quei soldi?» «Sì.» Un sorriso gli illumina la faccia. «Allora siete i miei due regali di compleanno. Su, andiamo, comincia la festa!» Prende il suo zaino mimetico, si china sotto il banco e si avvia alla porta. Ha ancora i piedi scalzi. «Forza, si parte! La pista è in fondo a destra», annuncia. Apro la porta e attaccano le note di Kokomo. Ma appena usciamo... «Beecher?...» urla una voce femminile. Indossa una parrucca castana, ma conosco quella voce. Sin dalla prima volta che mi baciò, quando avevamo tredici anni. Clementine. Ha la guancia gonfia e piena di croste. Tiene in braccio un... che cos’è? Un gatto? Dietro di lei spunta Marshall, con una fasciatura al braccio fatta alla bell’e meglio. Lei è messa male. Lui sembra messo ancora peggio. «Immagino siano vostri amici, eh?» domanda il pilota Jamie. Nessuno risponde. «Okay... allora... sapete che cosa faccio adesso?» aggiunge. «Vado a preparare l’aereo.»
84.
«Saresti dovuto andare in ospedale», dico a Marshall, indicando la benda che gli avvolge la spalla. «Fammi vedere.» Scuote la testa. Non gli piace mostrare debolezza. Lancia un’occhiata feroce all’agenzia di noleggio di idrovolanti. Si sofferma soprattutto su Mina. “Che cosa ci fa qui?”, mi chiede con lo sguardo. «Ho cambiato idea. Lei è a posto», lo rassicuro. «No, un attimo», interviene Clementine, ancora frastornata. «Come facevi...» Si interrompe e si gira verso di me. «Come fai a sapere che cosa è successo al braccio di Marshall? E lei chi è?» domanda, indicando Mina. La ignoro e mi rivolgo a Marshall, accennando alla pista alla nostra destra: «Dobbiamo andare. Il tempo string...» «No. Smettila di parlare», farfuglia Clementine. Guarda prima me e poi Marshall. «Siete due bugiardi di merda.» «Abbassa la voce», le intima Marshall. «Hai detto a Beecher che stavamo arrivando... e che mio padre... Hai telefonato dal treno e hai organizzato questo piccolo ritrovo. Eravate d’accordo sin dall’inizio.» «È vero?» domanda Mina. Pensa davvero che sarei venuto fin qui senza sapere che cosa avrei trovato? Sorrido a Marshall. So che non ricambierà il sorriso. Noto però che non sta guardando me. È concentrato su Clementine, la sta fissando. Non dovrei stupirmene. I due si scambiano un’altra occhiata. Come sempre, a causa della rigidità della sua pelle, è difficile capire a cosa stia pensando, ma so riconoscere uno sguardo contrito. «Tu sei la figlia di Nico», sbotta Mina. «E tu chi sei?» la sfida Clementine. «Io lavoro per i servizi segreti, che sarebbero felicissimi di sapere dov’è tuo padre», ribatte Mina. Torreggia su Clementine e le si avvicina abbastanza da farglielo sentire. Dieci anni fa, a quel punto, Clementine si sarebbe tolta gli orecchini e avrebbe cominciato a tirare pugni. Oggi rimane immobile. «Dice sul serio?» mi chiede Clementine. Poso una mano sulla spalla di Mina, l’attiro verso di me e le bisbiglio all’orecchio: «Lei sta cercando le stesse risposte che cerchiamo noi. Sa dove sono nascosti i fascicoli. L’ha detto a Marshall: sono ancora sull’isola, insieme a qualcos’altro». Mina mi fulmina con lo sguardo. Se vuole denunciarci, può farlo adesso. Per un attimo, nessuno si muove. «L’aereo ci sta aspettando. È meglio andare», dice Mina. Però glielo leggo in faccia: il discorso non finisce qui. E di sicuro non ha finito con Clementine. Quest’ultima è proprio davanti a me e mi lancia un’occhiata, anche se a lasciarla perplessa è soprattutto la mia mano sulla spalla di Mina. Lascio la mano dov’è, ricambiando lo sguardo di Clementine, poi passo a Marshall, che mi squadra alla sua maniera, per farmi capire che devo lasciarla in pace. Ci conosciamo sin dai tempi dell’asilo. Fra
vecchi amici, si può combattere una guerra intera senza dire una sola parola. «Immagino che così otterremo tutti quello che vogliamo, eh?» borbotta Clementine, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Non le piace essere presa in giro. Nemmeno a me, tanto meno da lei. «Tu e Marshall avreste potuto dirmi che avevate in mente di incontrarvi. Vi avrei aiutato comunque», ringhia fissandomi. Quando si avvicina, vedo che c’è qualcosa che non va nella sua bocca. Le mancano dei denti. Guardo Marshall. Mi ha detto solo che cosa avremmo trovato sull’isola, non quanto fosse malata. Clementine continua a guardarmi, la bocca spalancata, i lineamenti raddolciti. “Non lasciarti intenerire”, mi dico. Anche Mina alza gli occhi al cielo. Clementine fa sempre così, punta sempre alle mie emozioni. Solo un cretino si farebbe fregare di nuovo. Non sono più così scemo. Ma sarei un bugiardo, se dicessi che è facile. Clementine è stata la mia prima vera passione. La prima ragazza che ho baciato. Tutte le volte che mi si avvicina, lo sento a livello chimico. E se devo essere del tutto sincero, lo avverto ancora di più quando vedo come guarda Marshall. «Dio mio, sembra di essere in presenza di due divorziati», commenta Mina. Clementine le lancia uno sguardo feroce. «Beecher, io sto dalla tua parte, idiota», mi dice. «Sono sempre stata dalla tua parte.» «Mi hai detto la stessa cosa l’ultima volta che ti ho vista. Ricordi che cosa è successo dopo? Mi hai abbandonato per poter aiutare tuo padre a svignarsela.» «È mio padre. E voi dovreste essere quelli che mi capiscono meglio di chiunque altro! Ma che non vi fidiate di me...» «Clemmi, se non mi fidassi di te, non saresti neppure qui adesso!» Fa mezzo passo indietro, stringendosi il gatto al petto. Neppure lei può negarlo. «Era più prudente non dirti nulla», le dice Marshall. «No. Ma non capisci? Il fatto che sia qui...» Clementine si interrompe, passando dalla rabbia al panico. «Siamo nei guai.» Alzo gli occhi al cielo. Un altro trucco dei suoi. «Beecher, quand’è l’ultima volta che hai visto Tot?» «In che senso?» «All’ospedale. So che vai a trovarlo. Ogni giorno, puntuale come un orologio. Rispondi alla mia domanda: hai visto Tot ieri sera?» Io e Mina annuiamo insieme. «Sì, ma che cosa c’entr...» «Ezra. Ti ha spiato, all’ospedale. Me l’ha detto lui», spiega Clementine. «Sta cercando di distruggere il Ring, perciò se ti ha visto andare via...» Non ha bisogno di dire altro. Mi giro verso il parcheggio vuoto. Ovunque lui sia, non può essere troppo lontano. «Dobbiamo muoverci», insiste Marshall. Tre minuti dopo, stiamo salendo sugli ampi pontoni dell’idrovolante bianco e blu. «Non vorrei fare il guastafeste», urla Jamie, quando Clementine si appresta a salire a bordo, «ma di solito i gatti non sono ammessi. Una parte dell’isola è un santuario degli uccelli e...» «Il gatto viene con noi», ribatte Clementine, passandogli rapidamente davanti. Il minuscolo velivolo è stato appena dipinto all’esterno, ma dentro è malconcio, puzza di sabbia e crema solare. Sulla cloche è appiccicato un adesivo con un marchio di vini: CASTRONOVO VINEYARDS. Quando allacciamo le cinture di sicurezza, io e Mina siamo seduti sui due flosci sedili davanti, in similpelle verde. Clemmi e Marsh sono fianco a fianco dietro di noi. Lo giuro, sento lo
sguardo rovente di Clementine sulle nostre teste. «È veramente il peggior appuntamento a quattro a cui abbia mai partecipato», dice Mina, cercando di alleggerire l’atmosfera. Nessuno di noi risponde. “Tutto bene?” mi domanda Mina con un’occhiata. Conosce già la risposta. «Allacciarsi le cinture... anche se non è che facciano una gran differenza, se andiamo a schiantarci», scherza il pilota Jamie, afferrando la cloche e accendendo una dozzina di interruttori diversi sulla console. Gira una chiave e il motore parte borbottando. Indossiamo le cuffie giallo sbiadito che penzolano dal soffitto. Lui segue un cavo solitario sul pavimento collegato a un iPod di prima generazione e preme il pulsante centrale. Nelle nostre orecchie comincia una musica tropicale. «Per cinque dollari metto Margaritaville. Per venti non la metto», scherza, sfoderando l’unico sorriso a bordo del velivolo. «Senti, possiamo andare e basta?» ribatto. «Ai tuoi ordini», risponde lui, schiacciando un consunto pedale grigio argento. Mentre l’idrovolante comincia a scuotersi e ad acquistare velocità, sbircio nella cabina di pilotaggio. Jamie è ancora scalzo. «Addio, Key West. Prossima fermata: Isola del Diavolo.»
85.
«Immagino che la guardia costiera ci metterà circa un quarto d’ora a scoprirci», spiega il pilota Jamie, annodando le cime e gettando l’ancora del suo ballonzolante velivolo adagiato sulla spiaggia. «Non posso aspettare molto di più.» «Faremo in fretta», prometto, balzando sull’umida sabbia dal pontone. Il mare tutt’intorno è verdeazzurro, ma non c’è tempo per apprezzarlo. Jamie osserva Mina, Clementine e Marshall saltare a loro volta e atterrare schizzando un po’ d’acqua e lasciando impronte profonde nella sabbia. Marshall si muove lentamente. Clementine e Mina continuano a guardarsi in cagnesco. Ma nessuno dice una parola, finché non siamo arrivati a metà spiaggia. «Ti ha riconosciuta», bisbiglia Mina a Clementine. «Chi? Il pilota?» domanda Clementine, girandosi a guardarla. «Non è vero.» «Sì, invece», concorda Marshall. Mentre risalgo la spiaggia di corsa, osservo Jamie e cerco di farmi un’idea. È ancora lì sul pontone con la cima in mano. Guarda nella nostra direzione, ma non per molto. Finché non saremo tornati indietro, non avrà il resto della somma promessa. «Sono mesi che fanno vedere la tua faccia nei telegiornali. Si è accorto che hai una parrucca in testa. Non è scemo», insiste Marshall. Clementine scuote la testa, cullando il gatto come un bambino. «Se sapesse chi sono, se ne andrebbe subito.» «Chi ti ha detto che non lo farà?» domanda Mina. Mentre ci riflette su, Clementine accelera il passo, salendo su una passerella di legno che porta all’enorme fortezza in muratura che si erge di fronte a noi come una città fantasma affacciata sul mare. Marshall la segue a pochi passi di distanza, lasciando che sia lei a guidarci. Come ho già detto a Mina, Clementine sa dove andare. Cerco di rassicurarmi dicendo che è un bene, ma più ci avviciniamo alla fortezza, più sento un familiare nodo allo stomaco. Non ho fatto questo viaggio solo per recuperare vecchi documenti, bensì anche per incontrare l’altra persona che si trova su quest’isola. L’unica che è stata qui con mio padre e che è veramente in grado di darci le risposte che cerchiamo. Afferro la mano di Mina, anche se il contatto non mi calma come avevo sperato. Mi guardo intorno in cerca di segni di vita. La spiaggia è coperta di alghe e rami rotti. L’uragano, ovunque si sia abbattuto, è stato forte. Per terra, dietro un cestino dell’immondizia rovesciato, c’è un cartello che annuncia: FORT JEFFERSON PARCO NAZIONALE DI DRY TORTUGAS Mina mi stringe più forte la mano. Eccolo: il luogo indicato dalla monetina appiattita... il luogo nascosto nel pugno del braccio sepolto nel Rose Garden... il luogo che ospitò i Plankholders... e che, se va bene, mi svelerà come è morto veramente mio padre tanti anni fa. “Sei pronto?” mi domanda Marshall con lo sguardo. Rimango zitto. Sa quanto sia importante per me. E io so quanto sia importante per lui.
Il ponticello di legno passa sopra un fossato largo circa venti metri e termina sotto un’ombrosa arcata di mattoni, dove un alto cancello di metallo nero funge da ingresso ufficiale della fortezza. Vi è appeso un cartello con la scritta VIETATO L’ACCESSO. «È aperto», annuncia Clementine, infilandosi lateralmente nella fessura fra i battenti. La catena che lo teneva chiuso è a terra, insieme a un lucchetto con l’anello trinciato di netto. Chiunque l’abbia aperto, doveva essere provvisto quantomeno di un tronchese. Marshall si batte sul fianco per ricordarci che ha ancora la pistola. Dall’espressione di Mina, si capisce che rimpiange di non essersela portata anche lei. Mentre seguiamo Marshall sotto l’arcata, l’unico rumore che sentiamo è il ritmo costante delle onde alle nostre spalle. Eppure non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che qualcuno stia osservando tutti i nostri movimenti. «Da che parte?» domanda Marshall, mentre Clementine si guarda intorno nel cortile centrale, sforzandosi di orientarsi. Anche qui, come sulla spiaggia, regna la devastazione. L’erba sta morendo, è coperta di sabbia e foglie morte, e quasi tutte le palme sono oblique, prostrate dall’uragano. «Dove ti ha dato appuntamento?» le domando. «Aspetta un attimo», dice, ancora incazzata all’idea che Marshall mi abbia chiamato dal treno – in realtà, sia prima che durante il viaggio – e mi abbia già detto tutto il resto. Come dicevo, sto cercando qualcosa di più che dei fascicoli. «So che c’è anche lui sull’isola», aggiungo. Riascolto mentalmente la teoria di Wallace, secondo cui Nico, per qualche motivo, mi terrebbe d’occhio e mi proteggerebbe. Se non lo pensassi anch’io, non sarei neppure venuto qui. Clementine tira fuori il cellulare. Si è dimenticata che ci troviamo nel bel mezzo del nulla. Sull’isola non c’è campo. «Si è persa», ironizza Mina. «Clemmi, lascia che ti aiuti», dico. «Come cavolo fai?...» «È comunque un edificio governativo. Nel 1992 l’isola fu trasformata in parco nazionale, il che significa che i documenti, la planimetria e i progetti architettonici sono tutti conservati agli Archivi Nazionali. L’altra sera sono andato a prendere i piani di recupero dopo il disastro ambientale: ti aiutano sempre a scoprire nicchie e angoli nascosti. Dimmi che cosa vuoi sapere.» Lei lancia un’occhiata a Marshall, che assente con il capo. Alla fine, annuncia: «La grouper cam». Naturalmente. Dieci anni fa, per attirare più turisti, il governo ha installato una telecamera subacquea sotto il molo principale. Soprannominata grouper cam, riprende i pesci ventiquattro ore su ventiquattro. Inutile dire che sul web non ha suscitato il clamore sperato, ma per farla funzionare in questo ambiente fortemente salino, è necessario conservare i server e l’hardware, oltre alle decine di lenti subacquee di riserva, in uno dei pochi magazzini protetti dell’isola. Un nascondiglio perfetto. Cerco a mia volta di orientarmi... “Eccola là.” Alla mia sinistra, c’è una casa a due piani in stile New Orleans con il portico divelto. «Da questa parte», grido, e gli altri si affrettano a seguirmi in fila indiana.
86.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo “Niente... Non c’era niente di vero...” Chino sulla scrivania di metallo, la torcia ancora incastrata sotto l’ascella, Alby stava sfogliando freneticamente i fascicoli. La morsa dietro il collo era sempre più forte. Il sudore gli colava dal naso, dal mento, dalla fronte. Eppure non riusciva a distogliere lo sguardo. I fondi provenivano dall’esercito, dalla cosiddetta Divisione di psicologia militare. Le ricerche erano in corso da anni. Stando a quel che dicevano quelle carte, una volta avevano studiato un gruppo di studenti in un campus: ognuno di loro veniva osservato di nascosto, mentre si imbatteva in una persona distesa a faccia in giù in una pozza di fango. Si fermava a salvare la vittima o tirava diritto per la sua strada? L’esercito voleva sapere se c’era modo di prevedere la reazione delle persone. E, cosa più importante, se fosse possibile cambiare tale reazione. Più Alby leggeva, più i conti tornavano. I biglietti aerei già staccati... l’agenzia di spettacolo... Tutti i passeggeri dell’aereo, dalla coppia di anziani dietro di lui al personale di volo, erano stati ingaggiati e pagati, erano attori che interpretavano un ruolo. Questo significava che l’incidente, il camion di benzina che si era schiantato contro l’aereo, persino il fumo nero che li aveva investiti da dietro... era tutto una finzione. Ripensandoci, non aveva mai visto vere fiamme. C’erano solo fumo e persone che urlavano. In base a quello che stava leggendo, era stato un test per stabilire come tutti loro – Nico, Timothy e Alby – reagivano ai momenti critici. Durante il corso di orientamento, il colonnello aveva detto ai Plankholders che erano stati selezionati per un motivo. Ed era vero. Ma fu sfogliando ulteriormente quelle pagine che si sentì rivoltare lo stomaco e le budella in procinto di esplodere: «apatia dello spettatore... tendenze narcisistiche... indifferenza verso gli altri... Ne abbiamo identificati dodici». Alby strinse le natiche, il dolore premeva da dentro. Tendenze narcisistiche. Dodici. Lesse e rilesse il documento. Da quel che poté capire, il volo 808 era stato sicuramente un test. Ma non volto a selezionare eroi. Bensì codardi... persone egoiste... che fuggono da un aereo in fiamme senza soccorrere altri passeggeri bisognosi di aiuto. Lui e i suoi commilitoni erano fatti così. Non erano i più coraggiosi. E neppure i più audaci. Secondo la definizione del dottor Moorcraft, il più grande segreto dei Plankholders era semplicemente il fatto di essere, in base ai più accurati accertamenti dell’esercito, quelli che pensavano solo a sé stessi. Mentre Alby rileggeva quelle parole per l’ennesima volta, sentì delle feci acquose colargli lungo la gamba. Non perché gli avevano dato del codardo. Bensì perché sapeva che era vero. «Timothy, devi assolutamente leggere questa roba!» bisbigliò tenendo una pila di fascicoli fra le mani. Non ricevette risposta. Vicino alla porta regnava il silenzio assoluto. «Timothy?...» Alby corse verso l’uscita. Ma quando girò l’angolo, trovò ad aspettarlo un’ombra del tutto diversa. Doggett fece un solo passo avanti. Alby ne fece due indietro. «Vorrei tanto che tu non avessi fatto
questa cosaÂť, disse il colonnello.
87.
Oggi Passo dopo passo, le mie scarpe si riempiono di sabbia, mentre le onde continuano a frangersi sulla costa. Anni fa, quando avevamo tutti dodici anni, facevamo un gioco chiamato CPB: Corri, Prendi e Bacia. Scappavamo dalle ragazze. Se riuscivano ad acciuffarti, ti davano un bacio. I più furbi, come me, si facevano prendere apposta. A Marshall non succedeva mai. Lui era il ciccione del gruppo. Poteva andare lento quanto voleva, tanto non lo baciava nessuno. Oggi, invece, Clementine non riesce a staccargli gli occhi di dosso. Neppure Mina. Lui è mezzo metro dietro di noi. Si sta sforzando di mantenere il passo di marcia, ma dal modo in cui si tiene il braccio, è più difficile di quello che aveva previsto. Sta veramente molto male. Chiunque altro si fermerebbe. Lui va avanti, a denti stretti. Mentre giriamo intorno a una palma caduta, Marshall indica qualcosa con il mento. Tre piani sopra di noi, distribuiti sul bordo superiore del forte, ci sono sei enormi cannoni Rodman da venticinque tonnellate. Ognuno di essi sarebbe un ottimo nascondiglio. Colgo il messaggio: qui fuori all’aperto, siamo facili bersagli. «Dentro», dico, girando bruscamente a sinistra, poi a destra, per infilarmi in una delle stanze con i mattoni a vista che si trovano nelle vicinanze. «Casematte», commenta Mina, che conosce bene la storia. Quasi tutto Fort Jefferson è costituito da armerie aperte e comunicanti, chiamate casematte. Sistemate fianco a fianco, ognuna con la sua arcata in muratura, formano catacombe di mattoni che si insinuano nei meandri della fortezza. L’intero labirinto è pieno di sabbia e foglie morte. Marshall rallenta alle mie spalle. Individua qualcosa più avanti. La notiamo anche io e Mina, sopra un mucchietto di sabbia: un’orma. Clementine non è turbata. Era proprio quello che stava cercando. Più in là, un cartello marrone e bianco del parco nazionale, con una freccia puntata verso sinistra, ci indica la strada per raggiungere la CELLA DEL DOTTOR MUDD. Ecco. Ci siamo. Uno stretto corridoio con le pareti di mattoni dipinti di bianco serpeggia all’interno della fortezza. Secondo i documenti, queste stanze sono i cosiddetti «magazzini del bastione». È qui che veniva tenuta la polvere da sparo – barili e barili – in stanze prive di finestre, dai muri particolarmente spessi e dall’ingresso angolare, a labirinto. Così si riduceva il rischio di formazione di scintille ed esplosioni. «Marshall, se la stanza è chiusa a chiave...» Lui mi passa davanti, frugando nelle sue tasche in cerca di un grimaldello. Giriamo a sinistra e poi rapidamente a destra, nel dedalo di mattoni bianchi, quando all’improvviso sentiamo un rombo fragoroso proveniente da fuori. Ci blocchiamo all’istante. Conosco quel rumore: è un motore d’aereo. Persino Clementine si ferma. «Secondo voi, è il nostro pilota che se ne va?» domanda Mina.
«O un altro aereo che arriva», dico io. «In ogni caso...» Un altro rumore. Questa volta un cigolio più vicino. Marshall spinge forte la pesante porta di legno in fondo al corridoio. Sopra c’è un cartello con su scritto: VIETATO L’ACCESSO RISERVATO AL PERSONALE DEL PARCO «Marshall, aspetta!...» Troppo tardi. La porta era aperta. Quando si spalanca sbattendo contro la parete, lui è già dentro. Lo seguo di corsa e sento odore di muffa e libri bagnati. Due lightstick posati su una piramide di scatole diffondono un’intensa luce verde. Davanti a una parete è accatastato il materiale per la grouper cam, fra cui un server ormai datato, lenti di ricambio e una marea di respiratori, mute da sub, bombole di ossigeno e attrezzature per l’immersione. Sistemati alla rinfusa nel resto della stanza ci sono scaffali arrugginiti, schedari di vari colori e armadietti di ferro, tipo quelli che si trovano nelle scuole. Innanzi tutto, però, su ogni ripiano libero sono allineati bricchi d’acqua, barattoli di burro d’arachidi e almeno una cinquantina di lattine di frutta secca, noci, grano, persino cibo per neonati. Questo non è solo il posto più adatto a conservare merce di vario genere... «Era il loro rifugio antiuragano», conclude Marshall. Io e Mina concordiamo lanciandoci un’occhiata. In quasi tutti gli edifici governativi, gli ex rifugi antiaerei sono diventati magazzini. Dietro di noi, Clementine si sta ancora guardando intorno in quell’ambiente verde pallido. Non sta cercando oggetti, bensì una persona. «Qualcuno ci ha preceduto», osserva Mina, dirigendosi verso un alto schedario arrugginito in fondo al locale. Marshall la segue zoppicando. Il cassetto centrale è completamente all’infuori, come una linguaccia. Abbandonate su un mobile più basso lì accanto, ci sono due pile convergenti di fascicoli alte venti centimetri. Quasi tutti i fogli sono infilati in cartellette marroni a fisarmonica. Il resto è in cartelle sospese, estratte dallo schedario. «Beecher, devi assolutamente venire a vedere», esclama Mina, cominciando a sfogliare le carte. Il cuore mi martella nelle costole. La raggiungo di corsa, afferrando una manciata di fascicoli e togliendomi lo zaino dalle spalle. Marshall mi zoppica accanto e apre i cassetti dell’altro schedario. Contengono documenti, molti con carta carbone rosa, ma mentre li passa in rassegna... «Questi risalgono agli anni Cinquanta, a prima che arrivassero i nostri padri», dice. Continua ad aprire cassetti e aggiunge qualcos’altro, ma io sono troppo assorto nella lettura rapida. Bendis, Brian... DeConnick, Matthew... Fuerstman, Alan... Senza perdere tempo, vado in fondo: Pagano, Ralph. No. Dev’essere dall’altra parte. Cambio pila di fascicoli, prelevando l’ultimo in ordine alfabetico. Spicca sugli altri come se avesse preso fuoco. Anche nel bel mezzo di un uragano, chiunque è in grado di trovare il proprio nome. White, Albert. Mio padre.
88.
Cominciano a tremarmi le mani. Tengo gli altri documenti premuti contro il petto. «Beecher, non adesso», mi intima Mina. «Mettili nello zaino. Andiamo via!» So che ha ragione. Anche se è una vita che aspetto questo momento, non è il caso di mettersi a leggere frettolosamente proprio adesso. Più tardi ci sarà tempo di farlo come si deve. Ma appena apro il fascicolo – lo giuro su Dio – è come se avessi evocato lo spirito di mio padre: me lo sento accanto, che guarda da sopra la mia spalla. “Non leggere”, mi implora. Mi spiace, papà. Devo farlo per forza. La prima pagina è una fotocopia scura simile a pelle di cipolla, grinzosa e ondulata per l’umidità. Guardo in cima al foglio, cercando di mettere insieme le parole, ma non riesco a ricavarne un significato. Il mio cervello viaggia troppo veloce. Capelli: biondi Occhi: castani Statura: 1,75 Era più basso di me. Raddrizzo la schiena, non mi sono mai sentito tanto alto in vita mia. Mi si riempiono gli occhi di lacrime. «Ma sei fuori!?« mi urla Marshall, dando uno schiaffo alle carte che tengo in mano e accennando allo zaino con la testa. «Leggi dopo! Dobbiamo andare!» Accanto a me, Mina comincia a prelevare documenti dal cassetto sotto quello di mio padre. Di colpo, torno alla realtà, mi tengo stretti i miei fascicoli e lancio a Mina lo zaino, ricapitolando mentalmente le informazioni. “Uno e settantacinque. Capelli biondi. Occhi...” «C’è qualcosa che non va!» grida Clementine alle nostre spalle. Ci giriamo tutti di scatto. Ferma sulla porta, sta ancora scrutando la stanza. Dall’espressione che ha in volto, si capisce che suo padre avrebbe dovuto trovarsi in questa stanza. «Se è arrivato per primo... e ha trovato i documenti...» balbetta, «perché li ha lasciati qui?» «Perché è un sociopatico», borbotta Mina. «Stai attenta a quello che dici!» sbraita Clementine, con voce sorprendentemente tremula. «Piantatela tutte e due!» dico io. «Forse voleva che li prendessimo noi.» «O forse non c’è scritto nulla», ribatte Clementine, cominciando a barcollare e ad andare nel panico. Continuo a dimenticarmene. Lei non è in cerca di risposte, bensì di una cura. «Clemmi, smettila. Non puoi saperlo», prova a rassicurarla Marshall. Le corre incontro, afferrandola per il gomito. «Magari è da qualche altra parte sull’isola.» «Dove potrebbe essere?» «Dimmelo tu. Ha per caso menzionato un altro posto?» Lei scuote la testa. «M-mi ha detto... ha detto che ci saremmo incontrati qui.» «Non potrebbe essere da qualche altra par...»
«C’è una cappella!» annuncio. «Che cosa?» «Al primo piano. L’ho vista sulla planimetria. C’è una cappella», ripeto. Sanno a cosa mi riferisco. Anni fa, quando Nico sparò al presidente, era convinto che fosse stato Dio in persona a ordinargli di esplodere il colpo. Sosteneva inoltre che l’Onnipotente gli avesse affidato la missione di combattere i massoni, assassinare la first lady e compiere ogni genere di follia. Le cappelle esercitano un’attrazione irresistibile su di lui. «Dobbiamo andare a controllare là», concorda Mina, ancora impegnata a estrarre carte dai cassetti. Finché non li avrà svuotati, non si muoverà di lì. Seguo Clementine, quando all’improvviso... Clang! Il gatto le sfugge dalle braccia. Ci voltiamo tutti a sinistra. Il rumore proviene dall’esterno del locale. È un baccano tremendo, stridulo e martellante al tempo stesso. Qualunque cosa sia, qui dentro non siamo soli. Skreek! Come sempre, Marshall è il primo a reagire. Si precipita fuori dalla stanza verso la fonte del rumore ma, a giudicare da come zoppica, non si sta muovendo molto in fretta. «Ha bisogno di aiuto. L’hanno avvelenato!» mi dice Clementine, appena lui scompare dietro l’angolo. «Avvelenato?» «Beecher, aiutalo e basta», mi supplica. Non capisco se stia parlando di Marshall o di suo padre. In ogni caso, si mette a correre. Non va molto lontano, ha i denti velati di rosso: le stanno sanguinando le gengive. «Clemmi, la tua bocca...» Lei barcolla, non si regge quasi in piedi. «Devi aiutarlo», insiste, sapendo che io sarò più veloce. «Marshall ha bisogno di te e se è arrivato Ezra...» Io rimango comunque immobile. Voglio lasciarla sola, so che dovrei farlo, ma... Clang! «Non sono la tua ragazza, Beecher! Vai e basta!» mi implora con la voce rotta. Mi giro verso Mina, che continua a prelevare documenti. Sta guardando nella nostra direzione, gli occhi sgranati, pieni di tristezza. “Dalle retta”, mi dice con un’occhiata, sapendo che neppure Clementine può mentire in questo momento. “Sicura?” le chiedo con lo sguardo. «Ci penso io a prendere i fascicoli. Vai», mi esorta Mina, estraendo un’altra pila di incartamenti. «Devi prendere tutto, fino all’ultimo foglio.» «Credi di avere il brevetto dell’archivista irreprensibile?» ribatte. Indica i fascicoli che ho in mano: riguardano mio padre, il padre di Marshall e Nico. «Vuoi darli a me?» Scuoto la testa. Questi me li tengo io. «Dobbiamo aiutarlo!» grida Clementine, uscendo dalla porta zoppicando. «Mina, grazie. Davvero», dico mentre lei comincia a ficcare le cartelline nello zaino. Mi guardo intorno in cerca di un’arma. Vicino all’attrezzatura subacquea c’è una piccola bombola di ossigeno che assomiglia a una corta mazza da baseball. Non trovo di meglio. Senza posare i documenti, l’afferro e mi affretto a raggiungere Clementine. Pochi secondi dopo, l’ho già superata e sbuco in corridoio, ripercorrendo il bianco labirinto. Clementine fa fatica a starmi dietro. «Vai! Ti prego!» mi implora, e io accelero il passo.
Clang! Dal rumore, sembra che qualcuno stia spaccando qualcosa, tipo sfasciando un’auto con un’ascia... o un altro oggetto di metallo. Screek! «Tutto bene?» urlo a Marshall, che è poco più avanti di me e sta zoppicando nella galleria principale. Con il fiatone, indica a destra, da dove proviene il baccano: la cella del dottor Mudd. Ma appena gira l’angolo, il fragore cessa. Se Ezra è già qui... «Vai! Non guardare me! Vai!» bisbiglia Marshall. Impugno la bombola di ossigeno come una mazza, correndo più forte che posso. Questa è l’unica zona della fortezza in cui il pavimento va in discesa. Via via che percorro la successione di stanze e arcate, il corridoio si restringe sempre di più. Aumenta anche il buio. Qua sotto ci sono ancora finestre, ma non molte. Ai tempi della guerra civile, questa era l’entrata del carcere, delle segrete dove rinchiudevano tutti i prigionieri, fra cui il dottor Mudd e gli altri autori della congiura contro Lincoln. Clang! «Nico, sei tu...?» bisbiglio. Niente. Nelle parti principali della fortezza, i mattoni hanno un’aria logora e ammaccata, ma qui stanno praticamente crollando dal soffitto e dalle pareti. La presenza di un’unica, minuscola feritoia, larga meno di dieci centimetri, spiega come mai. La struttura ha quasi duecento anni e questo è il lato dell’isola maggiormente colpito dall’uragano. Ci sono pezzi di mattoni sparpagliati per terra. Più in là, si vede un’ultima arcata. Lì sopra è inchiodata al muro un’antica asse di legno, con una scritta a caratteri bianchi intagliati: LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH’ENTRATE! Quando passo sotto l’insegna per entrare nel carcere vero e proprio, mi rendo conto di quanto sia veritiero quel monito. Qui i mattoni non sono solo rossi. Vicino agli spigoli del soffitto appaiono neri e fuligginosi, come se ci fosse stato un incendio. Abbandonato per terra c’è un nastro giallo della polizia che invita alla cautela. Non dovremmo trovarci qui. E neppure lui: l’uomo con i capelli neri a spazzola che mi dà le spalle. Nico. È in un angolo dell’ampia stanza e mi dà le spalle. Ha una vanga in mano, sembra non accorgersi della mia presenza. Eppure ha un udito eccezionale. Si inclina a destra, come se qualcuno gli stesse bisbigliando qualcosa all’orecchio. Me ne ero quasi dimenticato. La sua amica immaginaria. «Nico, sono io», dico. «Sono...» Nico brandisce la vanga come un ariete, scagliandola forte contro il muro. Frammenti di mattoni rossi e neri si spargono sul pavimento di pietra. «Dobbiamo andarcene di qui», provo a convincerlo. «Porta un po’ di rispetto», ringhia con voce tagliente. «Non sai dove ti trovi? Tuo padre è morto in questa stanza.»
89.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo Sull’isola non c’erano molti luoghi in cui tenere i prigionieri, perciò rinchiusero Alby nella segreta. Era la stessa cella di mattoni di quattro metri per quattro che aveva ospitato il dottor Mudd più di un secolo prima. Come il suo predecessore, Alby fu incatenato per il polso all’anello arrugginito attaccato al muro con dei tasselli. Non avrebbero voluto immobilizzarlo in quel modo, ma era necessario per somministrargli l’iniezione. Per calmarlo, aveva detto il dottor Moorcraft. Nelle prime ore, Alby continuò a urlare e a dibattersi, anche se su quell’isola non serviva a molto. Il secondo giorno era ormai sfinito e senza voce. Aveva anche una fame terribile. Gli avevano dato un secchio di legno per i suoi bisogni fisiologici, ma praticamente nulla da mangiare. Il terzo giorno rimase semplicemente afflosciato sul pavimento di pietra, agitando la mano per scacciare zanzare inesistenti. E una falena, anche se in qualche recesso del cervello sapeva che sull’isola non c’erano falene gialle. Lì vicino, appena fuori dalla cella, il dottor Moorcraft aveva sistemato una scrivania di legno e persino una base di metallo per un’alta bandiera americana, uno dei pochi lampi di colore su cui Alby poteva concentrare lo sguardo, soprattutto dopo il tramonto, quando calava il buio. Si teneva la bandiera per la notte, quando era illuminata da un cono di luce artificiale. Durante il giorno, fissava fuori dalla sottile finestra – larga sei centimetri al massimo – che dava sul fossato antistante la fortezza. Secondo il dottor Moorcraft, durante la guerra civile tutte le feci e l’urina provenienti da ogni gabinetto dell’isola confluivano in quel fossato. L’obiettivo era quello di mandare un messaggio agli estranei in arrivo e di punire i prigionieri del carcere, che ogni notte erano costretti a dormire in mezzo al fetore. Chissà perché, aveva anche detto a Alby che il dottor Mudd e gli altri prigionieri avevano scavato una galleria sotterranea. Alby trascorse gran parte di quella giornata a cercare di fare leva su qualche punto del pavimento di pietra. Non trovò il tunnel, anche se i suoi colpi sulla parete smossero una pietra del soffitto, da cui cadde qualche granello di fine polvere nera. Alby ignorava che si trattava di polvere da sparo, conservata nelle stanze sopra di lui. L’unica fonte di luce, a parte l’apertura nel muro, era un’alta lampada alogena collegata a una presa che si trovava fuori dalla stanza, molto più in là, nel rifugio antiuragano. Due volte al giorno, il dottor Moorcraft si sedeva alla scrivania e faceva domande a cui Alby si rifiutava di rispondere. Alby aveva solo una domanda per lui: «Perché sono ancora qui!?» urlò, appena il medico abbassò la luce alogena, facendo calare l’oscurità. Alby era entrato in una zona proibita. Un chiaro segno di insubordinazione. Il giorno prima era arrivata la nave con i rifornimenti. Perché non l’avevano mandato via dall’isola? «Perché non mi avete mandato a casa?!» Come al solito, Moorcraft se ne andò senza rispondere. Fuori, le onde continuavano a frangersi sulla costa. Una grande luna di tre quarti insinuava una sfumatura argentea attraverso la finestrella. Per il resto, lo attendeva un’altra notte sul pavimento di pietra, ad ascoltare i ratti che correvano in tutte le direzioni. Almeno fino a due ore dopo – ben oltre la mezzanotte – quando il tramestio degli animali d’un tratto
cessò. Il silenzio improvviso gli fece aprire gli occhi di scatto. Anche quando non si vede nulla, si avverte la presenza di un’altra persona in una stanza. Si alzò a sedere, cacciando uno sciame di zanzare. «Chi è?» bisbigliò nell’oscurità. Si sollevò in ginocchio, la catena attaccata al polso sbatté contro la pietra e i mattoni. Da dietro le sbarre, non poteva vedere molto lontano. Oltre la scrivania, il corridoio girava a sinistra. «State cercando di farmi un’altra iniezione?» Di nuovo nessuna risposta. C’era qualcosa che non andava. Quando il dottor Moorcraft e le guardie gli facevano le iniezioni, non rimanevano lì nascosti nell’oscurità. Forse era veramente pazzo; forse si era immaginato tutto. Alby socchiuse gli occhi, il suo respiro era perfettamente sincronizzato con lo sciabordio delle onde. Sapeva che c’era qualcuno. Lo sentiva. Non poteva essere Timothy. Timothy lo odiava troppo. Forse era Arkansas Faccia Ovale. Quello però, se si sedeva vicino a lui – e perlopiù senza parlare –, in realtà lo faceva solo per ottenere frittelle di patate e biscotti in aggiunta. No, più Alby rimaneva lì in ginocchio, con la catena arrugginita che gli tirava il polso, più si convinceva che poteva essere solo uno di loro. Lo stesso che stava leggendo il libro di Julian. «Nico, lo so che sei tu», disse alla fine. Ancora niente. «Nico, sei venuto qui per un motivo. Non rimanere lì fermo come un codardo!» Di nuovo, niente. «Dai, non vuoi sapere che cosa ci stanno facendo?» lo implorò Alby. «Sai quante iniezioni ci hanno fatto? Credi che sia normale? Ho visto le prove! Ci stanno iniettando della roba, Nico! Siamo dei topi da laboratorio! Se mi fai uscire, ti dico tutto! Ti faccio vedere!» Mentre Alby continuava a urlare, la stanza rimase buia e le ombre parvero muoversi. Chiunque si fosse nascosto dietro l’angolo, se n’era andato.
90.
Oggi Mina dava le spalle alla porta. Si stava muovendo in fretta, infilando manciate di documenti nello zaino. Sentì Clementine correre – in realtà stava zoppicando, un passo su due picchiava forte sul pavimento di pietra – per stare dietro Beecher e Marshall. In men che non si dica, anche quei rumori echeggianti svanirono e nel magazzino tornò la quiete abituale. A Mina non dispiaceva il silenzio. Come la maggior parte degli archivisti, lo prediligeva. Quello che invece non aveva gradito era stato l’incontro a sorpresa con Clementine. Beecher non le aveva detto nulla. Lui sapeva che ci sarebbe stata anche lei – e lo stesso Nico – perché si era messo d’accordo con Marshall. Ma Mina poteva fargliene una colpa? In realtà, no. Beecher era stato solo cauto e prudente. Inoltre, anche Clementine era stata tenuta all’oscuro di tutto. Allora come mai provava un disagio così forte? In fondo, sapeva perché. Aveva preso la decisione sbagliata? Avrebbe dovuto denunciarli? Estrasse il cellulare dalla tasca. Non c’era campo. Come dal momento in cui erano saliti a bordo dell’idrovolante. Eppure, mentre finiva di svuotare l’ultimo schedario e chiudeva lo zaino, il suo problema più grande era semplicemente questo: continuava a dare le spalle alla porta. Non si era neppure accorta che il nuovo arrivato sull’isola era entrato nella stanza. «Clementine, sei tu?» disse Mina. Si era girata per metà, quando vide la mano dell’uomo sollevata in aria. Calò su di lei, colpendola alla testa con il calcio della pistola. Mina barcollò, ma rimase in piedi. Era forte come un toro. Però non servì a nulla. La colpì un’altra volta e poi ancora e ancora, finché lei non cominciò a sanguinare e poi cadde a terra di faccia. “Grandioso!” pensò l’uomo, afferrando lo zaino pieno. Era già tutto bell’e impacchettato.
91.
«Che cosa hai detto?» domando. Nico non risponde. Scaraventa la vanga contro il muro staccando altri mattoni rossi e neri, ma sa che l’ho sentito. Scuote la testa, continuando a parlare con l’amica immaginaria. «Come fai a sapere che mio padre è morto qui?» lo sfido, con i fascicoli infilati sottobraccio. «All’epoca questa stanza era diversa. Non era vuota come adesso. Era divisa in una mezza dozzina di celle minuscole, Benjamin», spiega, chiamandomi come sempre con il mio secondo nome. Pensa di essere la reincarnazione di George Washington e che io sia il generale Benedict Arnold. Fidatevi, è veramente un pazzo furioso. Di solito, però, parla con la sicurezza dei matti. Ora ha il tono – e l’aspetto – di uno che si è sgonfiato, perso in un vecchio ricordo. «Sai chi altro è stato trasformato in questo posto? Sai di chi era questa cella?» La vecchia targhetta di ottone affissa al muro dice che questa era la cella del dottor Mudd. A me, però, interessa solo mio padre. «Nico, dimmi come hai...» «Qui è cambiata anche la vita di Samuel Mudd. Lui era un razzista pieno di odio, uno degli assassini di Abraham Lincoln. Quando però sull’isola scoppiò un’epidemia di febbre gialla, le quattro infermiere presenti sul posto morirono. E anche il dottore dell’esercito. Lui era l’unico ad avere competenze mediche ed era incatenato al muro nel punto esatto in cui ci troviamo noi adesso. «I suoi carcerieri non avevano scelta. Su quest’isola vivevano quattrocento persone. La febbre gialla causava vomito ematico e dolori talmente atroci che, quando uno si ammalava, sistemavano accanto al suo letto una bara di fortuna, in attesa che morisse. Poi lo posavano sul bordo dell’isola, lasciando che la marea lo portasse via. In assenza di cure mediche appropriate, la febbre gialla avrebbe ucciso tutti coloro che si trovavano lì. «Conosco la storia del dottor Mudd.» «Allora saprai che quando lo fecero uscire da questa cella lui diventò un uomo nuovo. Diverso. Prima era un razzista vendicativo, voleva che i neri fossero tenuti in catene. Poi, da un giorno all’altro, si mise a lavorare instancabilmente, senza mai dormire, per salvare tutti, bianchi e neri. D’un tratto, divenne un eroe. Qui dentro era stato redento. Poco dopo lo perdonarono. Vedi?» domanda, ormai totalmente privo del suo spirito e della sua energia. «Mudd non era diverso da noi. Abbiamo tutti un corpo che contiene molte versioni di noi stessi.» «Nico, come fai a sapere che mio padre è morto in questa stanza?» Lui si blocca, posa la vanga a terra e solleva un sopracciglio in direzione della porta. Sente arrivare qualcuno. «Uno, due, tre, quattro», mormora fra sé. «Sempre quattro.» «Come fai a sapere che mio padre...» «Siamo su un’isola, Benjamin», risponde, girandosi verso di me. «Le sentivamo tutti, le urla.» La parole mi squarciano il petto come un trapano. Lascio andare il braccio con la bombola di ossigeno lungo il fianco: d’un tratto pesa una tonnellata. Deve essere una bugia. Non dice mai la... «Nico!...» urla una voce di donna. Alle mie spalle, Clementine fa irruzione nella stanza. Marshall le zoppica accanto. Sono spalla a spalla, talmente vicini che non si capisce se si stiano tenendo per mano o se lei lo stia sostenendo. Ma
appena Clementine vede suo padre, si affretta verso di lui. Da sola. Il rapporto più complicato che avrai mai nella vita sarà sempre quello con i genitori. Ha anche un suo linguaggio segreto. Clementine spalanca gli occhi, come se gli stesse facendo una domanda. Nico distoglie lo sguardo. Sa che lei sta cercando una cura. E, ancor peggio, conosce la verità: qualunque cosa ci sia scritta sui fascicoli, non salverà la vita della figlia. Clementine, però, non rallenta il passo. Non teme più per sé stessa, bensì per suo padre. Più lei si avvicina, più Nico si rattrappisce, come se si stesse raggomitolando su di sé. Scuote la testa, si gira di nuovo verso il muro, premendo la fronte contro i mattoni. Non sta parlando con l’amica immaginaria. Non sta parlando con nessuno. «Nico... non fa niente, non ti preoccupare», dice lei, prima ancora che io capisca che cosa sta succedendo. Quando una persona si mette a piangere, lo senti fisicamente anche dalla parte opposta della stanza. È un campo gravitazionale emotivo che attira tutti. Nico ha le spalle curve. Trema in tutto il corpo. Non vorrebbe piangere, ma è più forte di lui. «Mi dispiace moltissimo», singhiozza. «Credevo che i documenti... volevo solo salvarti!...» «Va bene... va bene così», ribadisce Clemmi. «No, che non va bene. Quei peccati sono dentro di te... Sono i miei peccati... Dovrebbero essere in me, non in te.» «Nico, non sono peccati.» «Invece sì! Non vedi? Ogni giorno ho pregato Dio perché ti facesse diversa da me. Adesso, però, finalmente capisco...» Ora che le lacrime fluiscono liberamente, comincia a parlare più in fretta. «No. Senti. Mi ascolti?» lo interrompe Clementine, posandogli una mano sulla spalla. «Non sono peccati. Okay? Non sono peccati», insiste, con voce calma e perfettamente controllata. È veramente straordinario. Più Nico va in pezzi, più Clementine trova la sua stabilità. «Sto abbastanza bene», insiste lei. «Guardami. Sono a posto.» Nico non se la beve; si rifiuta di guardarla. «So perché Dio l’ha fatto», dice, premendo la fronte e le dita contro il muro. «Nelle ultime settimane... negli ultimi mesi... non sento più dolore. Niente mi scalfisce. L’unica cosa che mi fa soffrire è quando Dio punisce...» Prende un respiro. «...quando punisce te.» Clementine serra la mandibola, sforzandosi di tenerla ferma. «Non ti devi preoccupare per me, papà.» Rieccoci: papà. Nico si gira verso la figlia e si abbandona fra le sue braccia aperte. I suoi singhiozzi sono piccoli sbuffi d’aria che seguono il loro ritmo incostante. «Ti ho trovato. Sono qui», ripete lei, stringendolo a sé. «Non ti lascio più.» Lancio un’occhiata a Marshall, rimasto all’entrata della stanza, malcerto sulle gambe. «Clementine», urla, appoggiandosi al muro per sostenersi. «Se vuoi farlo uscire da questo posto, dobbiamo andare via. Subito.» So che Marshall ha ragione e mi metto a correre. Clementine concorda, mi segue e sospinge il padre verso la... Nico inclina la testa; ho già visto questa scena. Sta sentendo un rumore. Getto a terra i fascicoli e impugno la bombola di ossigeno come una mazza da baseball. Marshall sta per attraversare l’arcata di corsa. Si ferma, poi arretra alzando le mani, come se ci fosse una rapina in corso. «Uno, due, tre, quattro, cinque», borbotta Nico. «Non dovrebbero essere cinque.»
Eppure è così. Sotto la buia arcata, è impossibile non distinguere la testa lucida del nuovo arrivato. E la grossa ferita frastagliata sulla sua guancia destra, dove gli ha sparato Clementine. «Siete davvero così scioccati?» domanda Ezra, entrando nella stanza e puntando una pistola d’antiquariato sul petto di Marshall. Lascia cadere ai propri piedi lo zaino di Mina pieno di documenti. «Personalmente, ho sempre immaginato come sarebbe andata a finire.»
92.
«Marshall, lo so che hai una pistola», dice Ezra, tronfio come sempre. Marshall, le mani in alto, rimane in silenzio e arretra lentamente verso di me. È alla mia sinistra e sembra sul punto di crollare a terra. Nico e Clemmi sono alla mia destra. «Hai davvero una pessima cera», aggiunge Ezra, continuando a puntare l’arma sul suo petto. «Adesso lanciami la rivoltella, altrimenti sarai messo ancora peggio di adesso. Conto fino a due. Uno...» «...due, tre, quattro, cinque», bisbiglia Nico, confuso. È sul Pianeta Nico, quasi non si accorge neppure della pistola di Ezra. Marshall è ancora immobile. So che tiene l’arma sotto la cintura, nella parte posteriore dei pantaloni. Ezra alza gli occhi al cielo e preme il grilletto. La vecchia pistola fa uno sbuffo nero. La spalla buona di Marshall schizza sangue. Lui cade all’indietro, contro il muro, grugnendo come un animale ferito. Ma, chissà come, rimane in piedi. «Marsh!...» urla Clementine, precipitandosi verso di lui ma fermandosi di botto, appena Ezra le punta la pistola addosso, per poi dirigerla verso Nico e di nuovo verso di me. Eppure non posso fare a meno di notare il modo in cui Ezra continua a fissare Nico, neanche fosse una star di Hollywood. «Beecher, metti giù quella stupida bombola di ossigeno», mi avverte Ezra. «E tu, Nico, la vanga.» Poso la bombola a terra. Nico bisbiglia di nuovo qualcosa fra sé e sé e lascia andare la vanga. Il metallo sbatte sul pavimento. Non riesco a staccare gli occhi dallo zaino di Mina. Se Ezra le ha fatto del male... «Con te sono incazzato», dice a Clementine. «E anche con te...» aggiunge, voltandosi verso Marshall. «Avresti dovuto accettare la mia offerta. Forza, te lo dico per l’ultima volta, la pistola.» Marshall estrae la rivoltella da dietro la schiena e la getta verso Ezra. L’arma si ferma a poca distanza dai suoi piedi. «A questo punto, il dolore sarà veramente insopportabile, vero?» domanda Ezra, raccogliendola da terra. «E sommato al colpo di ieri... Immagino che tu sappia del veleno, no?» Marshall respira affannosamente, a denti stretti, e non risponde. «Sinceramente, sono molto stupito che tu sia ancora fra noi. Nei diari dei Cavalieri c’è scritto che è...» «Cavalieri?» domanda Nico, riscuotendosi all’istante. «...che è molto potente», continua Ezra, sempre fissando Marshall. «Se non avessi tutte quelle ustioni, avresti visto la tua pelle colorarsi lentamente di giallo. Sai che cosa significa? Insufficienza epatica. Forse, però, questo è l’unico vantaggio di essere così orrendi. Il tuo corpo è troppo testardo per rendersi conto di essere già morto.» «I-io ti... amma...zzo», lo minaccia Marshall, accasciandosi e sbattendo il sedere per terra. Clementine vorrebbe soccorrerlo. Nico bisbiglia di nuovo qualcosa all’amica immaginaria. Stanno parlando fitto. «Vedi, è per questo che volevo arruolarti, Marshall. Mio nonno sarebbe stato fiero di te.» «Tuo nonno? Intendi dire quello del vero Ezra?» mi intrometto io. «Ti rendi conto di quanto sei malato, Kingston?» Quando pronuncio il suo vero nome, non fa una piega. «Hai sentito quel che ti ho detto? Sappiamo che hai ucciso Ezra e gli hai rubato la vi...»
«Per piacere, la vuoi piantare di essere così supponente?» mi fa Ezra, lanciando un’altra rapida occhiata a Nico, che continua a bisbigliare. «Credi che il nome conti qualcosa? Ezra aveva soldi a palate e si poteva togliere tutti gli sfizi che voleva, ma non apprezzava nulla. L’anno scorso, avreste dovuto vedere che scenata ha fatto quando si è accorto che la sua auto nuova non aveva il riscaldamento nei sedili. E quanto all’eredità che gli aveva lasciato suo nonno, non aveva capito nulla della missione. Non ne aveva colto il potenziale. Per lui era un motivo di imbarazzo! Di imbarazzo! Te lo immagini, Beecher!? Tutta quella storia, tutti quegli anni di lavoro per garantire la sicurezza del paese... Lui voleva gettare tutto nella spazzatura.» «Allora tu l’hai ammazzato.» «No. Ho fatto quello che richiedeva la missione. Quello che i Cavalieri hanno sempre richiesto. Per garantire la sicurezza di questo paese, bisogna prendere decisioni difficili», dice Ezra. «Nico, se non la smetti di bofonchiare, sparo in faccia a tua figlia!» Mi aspetto che Nico lo aggredisca. Invece sta ascoltando attentamente qualcuno, ma non Ezra. Qualsiasi cosa stia dicendo l’amica immaginaria, lo sta devastando. È la prima volta che lo vedo spaventato. «Ti rendi conto, almeno, dell’assurdità di ciò che dici?» domando a Ezra. «Continui a parlare di questa grande missione, ma come si fa a garantire la sicurezza del paese entrando di nascosto alla Casa Bianca e minacciando il presidente?» Ezra stacca gli occhi da Nico e li punta su di me. «Minacciare il presidente?» Scoppia a ridere, una raffica di scherno infantile. «Beecher, sono entrato alla Casa Bianca solo per dimostrare al presidente Wallace quanto sia vulnerabile. E, cosa più importante, per dirgli che possiamo aiutarlo.» Aiutarlo? Lancio un’occhiata a Marshall. È ancora a terra, la mano sulla spalla. Ma è confuso quanto me. «Ti sei perso, eh, Beecher?» insiste Ezra. «Pensavo... visto che ci hai inseguiti fin qui... che stessi cercando i fascicoli di mio padre...» Ezra sorride, ormai aveva smesso di ridere da un pezzo. «Che cosa dovrei farmene, dei fascicoli del tuo defunto padre? Te l’ho già detto, la missione dei Cavalieri è sempre la stessa da secoli: garantire la sicurezza di questo paese. Allora fatti una domanda da solo: quando si parla di sicurezza, chi è la bomba a orologeria vivente che vuole assassinare Wallace e mettere in pericolo tutti noi?» Oh, mio Dio. Alla mia destra, finalmente capisco che cosa sta bisbigliando Nico: «Sono io il peccatore... sono io il peccatore». Ezra punta la pistola contro il suo vero obiettivo. «Il Ring non c’entra niente, Beecher. E nemmeno tu.» Senza dire altro, mira Nico Hadrian. E il dito inizia a far pressione sul grilletto.
93.
«No!...» Troppo tardi. Il dito di Ezra preme il grilletto fino in fondo. Mi butto sulla mia destra e, mentre finisco di pronunciare la sillaba, afferro la bombola di ossigeno e mi piazzo davanti a Nico. Sollevo la bombola contro il petto e chiudo gli occhi. “Tot, mi spiace, non potrò più venire a trovarti.” Temendo di colpire la bombola, Ezra solleva la pistola in aria nell’istante in cui esce il colpo. Segue uno sbuffo di fumo nero accompagnato da odore di zolfo. La pallottola sfreccia sopra di noi e va a schiantarsi con fragore assordante. Ci piovono in testa frammenti di mattoni. I muri sono talmente vecchi e danneggiati che viene giù metà soffitto. «Ma sei davvero così scemo?» ringhia Ezra. «Togliti dai piedi, Beecher.» Mi punta contro l’arma. Sono ancora davanti a Nico. «Sai cosa succede se lo fai», lo avviso, tenendo la bombola contro il petto. «È lui che vuoi proteggere? Nico? L’idolo dei pazzi furiosi che la scorsa settimana se n’è andato in giro ad ammazzare gente? Te l’ha detto Clementine? Ha ucciso un colonnello in pensione! Gli ha scorticato le dita! Credi che non sparerà di nuovo al presidente? Chiediglielo tu stesso! Nico, vuoi uccidere il presidente Wallace?» Dietro di me, Nico sta sbattendo le palpebre per liberare gli occhi dalla polvere. Mentre Clementine gli strofina la schiena, lui fissa il pavimento borbottando fra sé: «...dovrebbero essere solo quattro. Sempre quattro. Se togli il peccatore... ne rimangono quattro». «Lo senti o no?» domando a Ezra. «I tribunali esistono per un motivo. E anche gli istituti psichiatrici. Nico sarà anche pazzo, ma ha i suoi diritti.» «Questo desideri per lui? Avrà il suo bel processo, e poi? Scapperà di nuovo?» «Allora tu gli spari in testa? Questa è la tua soluzione?» «Non ho nessuna intenzione di discutere con te di morale o del nostro sistema giudiziario, Beecher. Noi Cavalieri abbiamo il nostro modo di procedere. Il Culper Ring ne ha un altro. Ma dagli scienziati nazisti fino a Lee Harvey Oswald, ti garantisco che il mondo è molto più sicuro da quando ci siamo noi.» «Allora spara», lo sfido, tenendo ancora stretta la bombola. Ezra fa una smorfia. «Nei film, quando buchi una bombola di ossigeno, esplode. Ma nella vita reale non è una bomba: esce solo un fischio.» «Io so solo che alla fine dello Squalo, hanno usato una di queste per far fuori il bestione più grosso. Se tu sei un fan di Mythbusters – Miti da sfatare, sono cavoli tuoi, io mi fido di Spielberg. Spara e falla finita.» «Ti aspetti davvero che rinunci?» «Certo che rinuncerai. E sai perché? Perché se ti stesse davvero a cuore la sicurezza dell’America, avresti già rischiato la vita, premendo il grilletto. Ma tu, Ezra... o Kingston... o come diavolo ti chiami adesso, non cerchi la sicurezza. Tu cerchi la gloria. Questo è il tuo guaio. Non è il bene del paese a motivarti, e neppure il senso di giustizia. Quello che ti interessa è il prestigio sociale. Ecco perché secondo te la vita del tuo coinquilino era tanto fantastica. Ecco perché volevi che il suo celebre nonno
fosse il tuo. Ed ecco perché ti porti in tasca quella stupida foto di cui ci ha parlato Clementine. Sei superficiale quanto una qualsiasi testa di cazzo che pensa di far parte di una cerchia esclusiva solo perché ha una foto con il presidente. Sappi questo: ai Cavalieri del cerchio d’oro si diede la caccia non per la loro filosofia, bensì solo perché erano degli snob convinti di sapere meglio di tutti noi come bisogna governare il mondo. Ed è per questo che sarete sempre sconfitti. Non state combattendo per la giustizia, ma per voi stessi.» Ezra preme le labbra una contro l’altra. «Hai finito?» «Credo di sì.» Inclina la testa di lato, abbassa la pistola, prende la mira e preme il grilletto. Uno sbuffo di fumo esce dalla canna. Sento una puntura d’ape alla gamba. Vedo il foro – grosso come una monetina da un quarto di dollaro – prima ancora di rendermi conto del dolore. Dentro ci sono sangue, pelle bruciata e frammenti di stoffa. Scioccato, ci infilo il dito. C’è un buco. “Mi ha sparato”, penso, e il tempo si sblocca e si rimette in moto. «Aaaaaah...!» urlo, afferrandomi la gamba. «...Beecher! Beecher!» grida Marshall, ancora a terra, cercando di attirare la mia attenzione. Indica la bombola di ossigeno. «Non lasciarla andare!» Troppo tardi. Ho la gamba in fiamme. Mi accascio per il dolore. La bombola di ossigeno mi sfugge di mano. No. Me la strappano di mano. Sono piegato in avanti, sto per cadere a terra. Accanto a me, Clementine è una sagoma sfocata. Con un unico movimento fluido, si lancia verso di me, mi strappa la bombola dalle mani e punta dritta al bersaglio: Ezra. “Clemmi, no!” urlo nella mia testa. Nico l’afferra per un braccio, tentando di trattenerla. Lei è troppo rapida. Si avvicina a Ezra, tenendo la bombola davanti a sé come uno scudo. Infuriato com’è, non ha la minima esitazione. Ezra punta la rivoltella e fa fuoco. C’è un altro sbuffo di fumo nero, e la pallottola colpisce la bombola in pieno. L’impatto non fa molto rumore. Ma è devastante.
94.
Il botto è tremendo. Quando lo sento, la bombola di ossigeno bucata è già in volo: l’improvviso rilascio di pressione l’ha trasformata in un fuoco d’artificio di acciaio che schizza verso l’alto. Cerco di urlare qualcosa. Clementine ed Ezra vengono scaraventati all’indietro e li vedo sospesi a mezz’aria. Succede tutto con estrema violenza e rapidità. In quella stanza dal soffitto basso, la bombola non ha spazio per muoversi. Nel giro di un istante, si scaglia contro il soffitto, rimbalza e inverte la rotta, polverizzando il pavimento, per poi sollevarsi di nuovo, zigzagando con incurante ferocia. Prima mi sono sbagliato; non è un fuoco d’artificio. È un missile fuori controllo. Soffitto, pavimento, soffitto. Ogni impatto ha l’effetto di una palla da demolizione scagliata avanti e indietro. In alto, la copertura della stanza si spacca, aiutata dalla forza di gravità; vomita un flusso di mattoni, seguiti da blocchi di arenaria e duecento anni di polvere. In basso, è persino peggio. La bombola si abbatte sulla pietra calcarea con fragore tonante, scuotendo tutta la stanza. Prima che possa rendermi conto di quello che sta succedendo, il pavimento si inclina e Clementine ed Ezra precipitano all’indietro. Lei si mette a urlare. Anche Nico sta gridando e, pur non vedendo nulla, so che sta tendendo la mano verso la figlia. Dall’alto piove una fitta coltre di sabbia e fuliggine. Per mezzo secondo, il mondo diventa grigio cenere. Poi, in quello stesso mezzo secondo, è tutto finito. La bombola giace inerte dall’altra parte della stanza. In alto, il soffitto continua a rigurgitare sottili cascate di polvere e macerie che scendono come sabbia in una clessidra. Che diavolo?... «Dove sono finiti?» urla Marshall, coperto di polvere, tossendo in modo incontrollabile. Ancora steso a terra, indica il lato opposto della stanza. Clementine ed Ezra sono... Dove sono? Ignorando il dolore pulsante alla gamba, mi alzo in piedi. Sbatto le palpebre nella nuvola di polvere e mi metto a correre verso... «Clemmi?...» All’inizio avevo pensato che fosse solo stata sbalzata all’indietro. Quando però arrivo sul luogo dell’esplosione, lei ed Ezra sono scomparsi. Agito la mano per diradare la polvere. A terra c’è un buco frastagliato delle dimensioni di una vasca da bagno, pieno di mattoni, macerie e... «Beecher... Beecher, sono qui!» Clementine tossisce, la sua voce è flebile e lontana. «Qui sotto!» Socchiudo gli occhi. Non vedo quasi nulla. C’è una crepa nel pavimento di pietra calcarea. Seguo la voce di Clementine. Una grossa lastra si è spaccata, scoprendo quella che sembra una stanza piuttosto bassa al piano inferiore. «Clemmi, ascoltami. Dimmi che cosa vedi.» «Sembra una galleria.» Naturalmente. Avevo quasi dimenticato dove siamo. Duecento anni fa, qui c’erano le segrete della fortezza. Alcuni prigionieri dovevano essersi scavati una via di fuga, nascosta dalla lastra di pietra. «Non mi sento la gamba! C’è qualcosa che non va nella mia gamba!» grida, in preda a un dolore
evidente. Farfuglia più del solito, come se l’impatto le avesse portato via gli ultimi denti. «Dobbiamo farla uscire di lì», insiste Marshall, sforzandosi di alzarsi. Non riesce quasi a reggersi in piedi. Il sangue dell’ultima ferita gli impregna un lato della camicia. Guardo Nico, l’unico di noi a non essere caduto. Non dice una parola, non sembra neppure accorgersi della mia presenza. Pochi secondi dopo, però, è di fianco a me, a scavare fra le macerie. «Qui, credo che sia qui», dico a Marshall e Nico, indicando in fondo a destra. «Beecher, ti devi sbrigare! Ezra si è alzato... e se ne sta andando!» continua Clementine. Ha il respiro affannoso, come se non le funzionassero i polmoni. «Lo vedo... lo vedo muoversi! Sta strisciando nel cunicolo... sta cercando di scappare.» Ci diamo furiosamente da fare per tirarla fuori. Marshall raggiunge in fretta l’altro lato della buca, utilizzando il braccio buono per spostare un pezzo di soffitto rimasto incastrato. Il sangue gocciola sul pavimento. Mentre togliamo i mattoni, sento un leggero ticchettio. Qualcosa sta fuggendo rapidamente dalla buca. Prima vedo la spessa coda, poi gli occhi neri brillanti. Sono due... tre... Anzi, no: decine di grossi ratti neri. «Qua sotto c’è qualcos’altro, Beecher! Qualcosa mi sta toccando!» urla Clementine. «È un topo, molto piccolo», le dico, mentre un fiume di grossi ratti emerge in superficie e il pavimento sembra tremare. Quando ci passano accanto, faccio un salto per evitarli. Nico e Marshall se ne accorgono appena. «Ezra continua a strisciare! Sta scappando!» ripete Clementine. Noi togliamo un altro strato di mattoni. «No! Non fate così! Non funziona!» urla lei. Ben presto vediamo perché. Sotto i mattoni c’è un’enorme lastra di arenaria – come un’asse da surf seghettata incastrata diagonalmente nella buca. È caduta dal soffitto ed è certamente quella che sta immobilizzando Clementine. La spingo. Pesa una tonnellata. Non si muove. «Non riesci a spostarla!» mi rimprovera. A questo punto, la polvere si sta posando. Guardo di nuovo nella buca, accorgendomi dell’odore marcio di zolfo. Non vedo Clementine tutta intera – pezzi di pavimento e strati di macerie formano un intrico che ostruisce la vista – ma quando solleviamo un alto blocco di calcare compare la sua faccia. È quasi due metri sotto di me e mi sta guardando. Ha la bocca aperta. I denti sono scomparsi. Dopo la caduta e l’esplosione, sembra che non gliene sia rimasto nemmeno uno in bocca. È tutta nera in viso e due rivoli di sangue le escono dalle narici a formare una Y. Ma quel che mi fa male è vedere l’espressione dei suoi occhi. Conosco Clementine da quando andavamo alle elementari. L’ho vista in estasi ed euforica, arrabbiata e furiosa, scioccata e sorpresa. Ho visto le sue palpebre diventare pesanti durante un bacio. E chiudersi come l’otturatore di una macchina fotografica, quando sapeva che sua madre era ubriaca. Ma non l’avevo mai vista sconfitta. Come adesso. I suoi occhi castano rossicci sono sbarrati: cerca di farmi credere di essere tranquilla. Non funziona. «Devi... devi trovare la pistola di Marshall», mi dice. Ogni respiro le costa una fatica immane. «Che cosa...» «Trovala e basta!» insiste. «Quando siamo caduti... ho visto che è sfuggita di mano a Ezra. Guardati intorno!» Io, Marshall e Nico cerchiamo in punti diversi della stanza. È completamente sottosopra, piena di mattoni, blocchi di pietra e sporcizia. Ma, proprio per questo, un’arma di lucido metallo dovrebbe risaltare ancora di più. Eccola. «Vista! Presa!» le urlo, raccogliendo la pistola e tornando alla buca. «Vuoi che te la passi?»
«Non c’è tempo. Devi... devi fermare Ezra. Puntala qui sotto e spara!» «Cosa?! Ma non lo vedo! Come...» «Spara e basta, Beecher! Punta la pistola e premi il grilletto!» Confuso, socchiudo gli occhi per cercare di vedere all’interno della buca. Clementine si sposta e il pavimento sembra oscillare insieme a lei. Sdraiata sotto la lastra di calcare, è coperta da una sostanza simile a sabbia nera che riempie buona parte della buca collegata alla galleria. L’odore di zolfo. Ecco da dove veniva. «Polvere da sparo», commenta Marshall. Annuisco. La tenevano nei bastioni di tutta l’isola. Nel corso degli anni doveva essere penetrata fino a quel cunicolo. Clementine è immersa nella polvere da sparo. Comincio a comprendere la situazione. Se apro il fuoco, appena il colpo esplode a terra schizzando scintille, tutta quella polvere... Lei guarda in alto, prendendo un lungo respiro affannoso che sembra l’ultimo della sua vita. «So quello che faccio, Beecher.» Più in là nella galleria, Ezra si trascina freneticamente nella terra mista a sabbia. «Ha già girato l’angolo», aggiunge. «Se questo tunnel porta alla spiaggia... è l’unico modo per fermarlo.» «Con una tempesta di fuoco? Tutta quella polvere da sparo in uno spazio così ristretto... Appena s’infiamma, la galleria si trasforma in un cannone. Tu saresti...» «Io seguirei lo stesso identico destino che mi attende in ogni caso, come sappiamo tutti», farfuglia con voce rotta. Sta già rantolando, comincia a spegnersi. Con la mano libera, si toglie la parrucca. «Guardami. Guarda quanto poco rimane di me.» Fisso la bocca sdentata e la testa calva lucida di sudore. Con il viso imbrattato di terra e sangue, pare ancora più pallida, ancora più malata. Non sembra in fin di vita. Sembra già morta. «Ma possiamo comunque tirarti fuori di lì.» «No, Beecher... non potete», rantola. «Stavolta no. Mi hai già aiutato abbastanza. Ora, ti prego... per una volta... lasciami fare qualcosa di buono per te. Non c’è più tempo.» Rimango immobile. Se c’è una cosa che ho imparato nel corso degli anni è che ogni persona che incontri tira fuori una parte diversa di te. Sin da quando eravamo bambini, persino quando mi faceva del male, Clementine ha sempre tirato fuori il lato migliore di me. Che mi piacesse o no. «So che non sei in grado di farlo», dice. «Passa la pistola a Marshall.» «Ma se noi...» «Dalla a Marshall!» urla, con gli occhi traboccanti di lacrime e una bolla di sangue che esce scoppiando dal naso. Prima che io possa proferire un’altra parola, Marshall mi strappa l’arma di mano fissando Clementine. Si scambiano un’occhiata e lei annuisce, sforzandosi di prendere un altro respiro. Non le resta molto da vivere. Il volto di plastica di Marshall è impenetrabile, irrigidito dalle cicatrici. Certe cose, però, non devi per forza vederle. Le senti e basta. Durante il viaggio in treno fin qui, è successo qualcosa fra loro. «Non è necessario che tu lo faccia», dice lui. «Sì, invece. Mi hai salvato per un motivo. Questo», insiste Clementine, più tenace che mai. «È la tua occasione. Se non fermi Ezra adesso, lui... continuerà a cercarti, a darti la caccia.» «Sono in grado di proteggermi da solo», ribatte Marshall. «E chi proteggerà Beecher?» «Non ho bisogno di protezione!» sbotto.
«E mio padre? Chi lo proteggerà?» aggiunge lei, lanciando un’occhiata a Nico, che continua a togliere disperatamente mattoni dalla buca. Quando le manca di nuovo la voce, mi rendo conto per la prima volta che non sta combattendo solo per noi. Sta lottando per lui. «Nell’istituto psichiatrico dove lo rinchiuderanno di nuovo, credi che qualcuno avrà qualcosa da ridire, quando Ezra andrà a bussare alla sua porta? Saranno felici di vederlo morto», mormora. «È mio padre. Per piacere... se non posso fare altro nella vita, lasciatemi salvare mio padre.» Marshall è lì in piedi, la pistola ancora lungo i fianchi. «Stai prendendo una decisione affrettata.» «Sto prendendo l’unica decisione possibile! Se sono venuta a casa tua...» Dalla gola le esce un lamento strozzato. «...Se sono venuta a casa tua, è solo perché sapevo di essere ormai alla fine. Non mi restano anni da vivere. Neppure settimane! Voglio che il tempo che mi rimane serva a qualcosa. Ti pare così brutto? Voler servire a qualcosa?» Marshall non si muove. Lei non si arrende. «Lo so... lo so che mi capisci, Marshall. So che ci sei passato anche tu, e so che dopo tutte quelle cure per le ustioni, dopo aver combattuto e sofferto così tanto... quello che desideri veramente – persino adesso – è un po’ di pace», farfuglia, grattandosi la testa calva. «Concedila a me, questa pace. Ti prego. È ora. Se fermiamo subito Ezra, pensa a quanto dolore risparmierai a tante persone.» Marshall cambia leggermente posizione. Questa è la cosa che comprende meglio di chiunque altro. Il dolore. «Sicura di sapere quello che fai?» domanda. Clementine fa un respiro affannoso. Si sforza di sorridere. «Viene per tutti il momento che fa da spartiacque tra il prima e il dopo», dice. «Questo sarà il tuo.» Marshall fa due passi indietro. Grazie alle pietre che ricoprono Clementine, l’esplosione dovrebbe dirigersi verso Ezra, ma ora Marshall ha trovato un’angolazione più sicura, caso mai dovesse propagarsi parzialmente verso l’alto. Continuiamo a sentire Ezra strisciare nel cunicolo. Marshall ha esaurito il tempo a sua disposizione. Anche Clemmi. Quando solleva la pistola, gli trema la mano. La punta nella buca, verso la galleria piena di polvere da sparo. Circa due metri sotto di noi, Clementine chiude gli occhi. Il dito di Marshall si curva sul grilletto e... Niente. «Non ce la faccio. Non... non posso vederti bruciare», sussurra Marshall, abbassando l’arma. «Devi farlo! Sta scappando!» lo implora Clementine. Non negarmi questa cosa!» Continuo a sentire Ezra che si trascina, ma il rumore è sempre più lontano. Un istante dopo, la pistola viene strappata dalle mani di Marshall. Nico la stringe forte, la punta in basso, verso sua figlia. Il resto accade nel giro di pochi secondi. Per un attimo, Clementine sembra quasi risollevata. Ha gli occhi allagati di lacrime. Anche Nico. Sta dondolando la testa, bofonchiando qualcosa all’amica immaginaria. «No, lo so... così ne resteranno tre, non quattro», bisbiglia. Comincia a tremargli il mento. Il pollice della mano libera batte sulle dita restanti, dall’indice al mignolo, come se stesse contando. Uno... due... tre... quattro... È indubbiamente a pezzi. Ma non si fermerà. Nico non le dice una parola. Clementine tace a sua volta. Non hanno bisogno di parlare. Lui cerca di tenere la testa sollevata, ma continua a cadergli, come se il mento fosse attirato verso il basso dal peso del suo corpo che si sbriciola. Torce il viso per porre un’ultima domanda silenziosa alla figlia.
Clementine annuisce ripetutamente, serrando le mascelle, sforzandosi di tenerle insieme. Guarda in alto, con le lacrime che scorrono dagli occhi alle tempie e dietro il cranio calvo. Ha smesso di chiedere. Ora sta implorando. «Ti voglio bene», dice Nico, con la voce che si incrina, mentre solleva la pistola. «Anch’io ti voglio bene, papà», risponde lei, le parole strozzate dalle lacrime. Gli basta quello. Il pollice batte su tutte le dita per un’ultima volta. Quattro... tre... due ... uno... Nico preme il grilletto. Prima ancora che parta il colpo silenziato, Marshall è già in fuga. Mi afferra la spalla, per indurmi a seguirlo. Ci stiamo precipitando a tutta velocità verso l’uscita, attraverso il passaggio libero. La pallottola sfreccia verso quintali di polvere da sparo. Dietro di noi, anche Nico si mette a correre. Poi cala il silenzio, come se fossimo tutti sott’acqua. Sono ancora in movimento e non sento né l’esplosione né il botto assordante. Una vampa rovente erutta strepitando dalla buca nel pavimento, bruciandomi la nuca. L’onda d’urto è abbastanza violenta da sollevarmi da terra. L’ultima cosa che vedo è l’espressione sul volto di Marshall, mentre si gira a guardare quello che accade dietro di lui.
95.
È Nico a trovare il corpo. Lui stesso è pieno di ustioni. Ha il collo e le braccia gonfie, coperte di vesciche, i capelli dietro la testa strinati, eppure torna nella cella, si cala nella buca e la prende fra le braccia. Non piange. Rimane lì seduto senza parlare, lo sguardo perso nel vuoto, mentre stringe la figlia a sé. Il corpo carbonizzato di Clementine è ancora sotto il blocco di pietra calcarea. La mandibola è sparita, come pure le orecchie. La mano sinistra è quasi interamente incenerita. Eppure Nico la tiene stretta, e la sua postura è tornata alla rigida perfezione di sempre. Accanto a me, Marshall ha visto abbastanza. È giallo e gonfio in volto. Continua ad abbassare lo sguardo, nella buca, per poi distoglierlo subito. Prima penso che sia per via di tutta quella carne bruciata. È in grado di sopportare ogni cosa, fuorché questo. Eppure, anziché stendersi a terra o aspettare i soccorsi sulla spiaggia, rimane dov’è, senza mai allontanarsi troppo e tornando di continuo a guardare il cadavere. Aveva fatto la stessa cosa con la bara della madre quando eravamo piccoli. Marshall può fare il duro quanto vuole. Fra tutte le ferite che si porta addosso, questa è particolarmente profonda. I fascicoli dei Plankholders sono tutti bruciati. Persino quelli nello zaino. Se li è portati via l’esplosione, che ha anche riscosso Mina dall’incoscienza provocatale da Ezra nel magazzino. Ferma sotto l’arcata, una mano premuta sulla contusione dietro il capo, si rifiuta ancora di entrare nella stanza. Quanto al cadavere di Ezra, il cunicolo porta a un’enorme protuberanza rocciosa sulla spiaggia. L’esplosione di tutta quella polvere da sparo ha trasformato l’intera galleria in un cannone, scaraventando ogni cosa verso il mare. Il nostro pilota dell’idrovolante è morto: Ezra l’ha ammazzato perché ha attaccato briga quando l’ha visto arrivare. Grazie alla radio installata sul velivolo, però, abbiamo chiamato la guardia costiera, che ci sta raggiungendo. Ci metteranno un po’, ma alla fine troveranno i resti di Ezra. Nel frattempo, non possiamo fare altro che aspettare. Nico sa che ora, se vuole, ha la possibilità di fuggire. Ci ha detto di avere ormeggiato una piccola barca a motore sul lato opposto dell’isola. Se scappasse, non sono sicuro che cercherei di fermarlo. E non so neppure se ci riuscirei, con la gamba ferita e la nausea che mi ritrovo. Lui, però, rimane dov’è, nella buca, a fissare le pareti carbonizzate del cunicolo e a dondolare avanti e indietro con la figlia tra le braccia. Ogni due o tre minuti, le sussurra qualcosa nell’orecchio carbonizzato. Poi, di punto in bianco, smette. «D’accordo», dice, la testa leggermente girata di lato, verso l’amica immaginaria. Sbatte alcune volte le palpebre e, d’un tratto, i suoi occhi così vicini fra loro sono estremamente concentrati. «Lo so. Lo farò.» Adagia delicatamente il cadavere di Clemmi, si alza, perfettamente eretto, e si arrampica per uscire dalla buca. «Nico, stai bene?» domando. È come se non esistessi neppure. «Probabilmente, sei ancora sotto shock», aggiungo. Non fa caso a me. Si dirige con calma e in silenzio verso la parete in fondo, la stessa su cui stava
infierendo con la vanga quando l’ho visto per la prima volta qui dentro. Per alcuni secondi si guarda intorno. Il manico di legno dell’attrezzo è scomparso. Rimane solo la lama di metallo, sepolta sotto un mucchio di cenere in un angolo. Lui non pare turbato. Fissa intensamente il muro. La parete è annerita. Mancano pezzi di malta e fra i mattoni si sono creati dei fori. Per dieci secondi buoni, rimane lì a osservarli attentamente. «Mi riporteranno di nuovo al Saint Elizabeths, vero, Benjamin?» mi chiede alla fine. «Mi sa che non hanno alternative.» «Voglio che tu la seppellisca vicino all’ospedale. Così posso andare a trovarla», dice d’impulso, continuando a fissare il muro. «Lì vicino c’è un cimitero. I pazienti hanno il permesso di andarci.» Annuisco, guardandolo attentamente in volto. «Credo che lei ne sarà felice.» Si avvicina ulteriormente al muro, infila l’indice piegato a uncino in uno dei buchi privi di malta. Lo gira di lato, come se stesse pulendo la fessura. «Volevo aiutarla. È solo per questo che ho fatto del male a quei...» Infila il dito in un altro foro. Poi in un altro ancora. Sta cercando qualcosa. «È mia figlia, Benjamin. Stavo solo tentando di salvarla.» «Lei lo sapeva. Ci ha detto che quando...» Il dito ha toccato qualcosa nel muro. Nico si blocca e stavolta ci ficca dentro due dita per tirare fuori un oggetto. È piccolo. Lo studia con attenzione tenendolo posato sul palmo; non riesco a vedere di cosa si tratti, ma è decisamente... «Nico, che cosa hai trovato?» Lui si gira leggermente da un’altra parte, bisbigliando qualcosa all’amica immaginaria. «Nico, hai sentito quello che ti ho detto?» Lui continua a parlare sottovoce, perso nel suo mondo. Comincia a dondolare il capo. Vuol dire che sta pregando. Dondola quattordici... quindici... sedici volte, come sempre. «Amen», conclude. «Se hai trovato qualcosa, devo sapere che cos’è!» sbotto, sorpreso dal mio stesso fervore. Mi vibra tutto il corpo. Anch’io sono ancora sotto shock. Nico si volta tenendo la mano sinistra chiusa. Di solito, i suoi occhi scuri guizzano avanti e indietro. Per una volta, sono perfettamente concentrati su di me. Provo la sensazione di prima nel rifugio antiuragano, come se il fantasma di mio padre fosse tornato. «Sei venuto qui per un motivo, Benjamin. Vuoi sapere come è morto tuo padre?»
96.
Ventinove anni fa Isola del Diavolo Alcuni pensano di sapere quando moriranno. Alby White era uno di quelli. Aveva sempre immaginato di morire giovane. Quella notte avrebbe constatato dolorosamente che era vero. Aveva dormito male come al solito. Poi, senza motivo, si era svegliato. A volte, il corpo sa quando è ancora notte fonda. Aveva la guancia bagnata di bava. Sbattendo le palpebre nell’oscurità, guardò oltre le sbarre della cella e notò che i ratti se n’erano andati. Non c’era più movimento. Non si udiva il minimo rumore. L’alta bandiera americana era issata là fuori e oscillava impercettibilmente. «Nico, sei tu?» disse Alby rivolto verso l’ingresso. Non ci fu risposta. «Lo so che sei tu. Lo so che sei lì fuori, Nico.» Ancora nulla. «Se sei qui, lo sai che c’è qualcosa che non va. Lo senti, vero?» domandò Alby, la voce roca per la disidratazione. «Devi sapere quello che hanno fatto. L’incidente aereo... Julian... sono tutte finzioni!... Julian è vivo!» Alby lasciò la frase sospesa nell’aria. Ma di nuovo non ottenne risposta. Finché... Un’ombra si spostò. Minuscoli frammenti di mattoni scricchiolarono e si incrinarono. «Come fai a saperlo?» domandò Nico, comparendo lentamente da dietro l’angolo. Alby balzò in piedi, la catena attaccata al polso picchiettò contro il muro. Era una settimana che non vedeva commilitoni. Eppure, mentre si alzava, si assicurò che il cucchiaio di plastica che aveva nascosto nella parte posteriore delle mutande fosse al suo posto. L’aveva fatto sparire due giorni prima, era l’unico utensile che gli davano in quei giorni. «Come fai a sapere dell’incidente aereo... e di Julian?» ripeté Nico, entrando nella stanza, talmente concentrato sul suo compagno, che per poco non inciampò nel lungo cavo della lampada alogena. «L’ho visto... e ho visto anche i documenti», spiegò Alby. «Sin dall’inizio, hanno... Tutto quello che fanno è una messinscena. È tutto un test.» Nico sbatté le palpebre alcune volte, più del normale. Quando si avvicinò alla cella, Alby notò che aveva qualcosa in mano. Un sacchetto. «C’era crostata alla pesca per dessert. So che ti piace», disse. Alby ringraziò in silenzio, tendendo la catena per poter afferrare il dolce fuori dalle sbarre. Nico posò il sacchetto sul pavimento, appena fuori dalla cella. Alby sentì il profumo dello zucchero e del caramello. Ne aveva una voglia matta. Fece per allungare la mano, ma poi si bloccò. «Hai paura che ci abbia messo dentro qualcosa?» domandò Nico. «Se fossi in loro, farei così. Manderei un amico. Scommetto che hanno cominciato a metterci della roba nel cibo sin dal primo giorno», commentò Alby, agitando la mano per scacciare zanzare immaginarie. «Io non ti farei mai una cosa simile», ribatté Nico, continuando a sbattere le palpebre. «Puoi fidarti di
me.» «Perché dovrei?» «So che stai nascondendo un cucchiaio», disse Nico. «Ieri sera tardi ero qui... e anche il giorno prima. Ti ho visto usarlo per togliere la malta fra i mattoni. Dovresti cercare il tunnel. Nel suo libro, il dottor Mudd parla di una galleria segreta che avevano scavato per uscire di qui.» «Non c’è nessuna galleria.» «Forse non l’hai ancora trovata. In ogni caso, non ho detto a nessuno quello che stavi facendo. A nessuno.» «E questo dovrebbe provare la tua lealtà?» «Di quale altra prova hai bisogno?» «Fammi uscire.» «Alby...» «Perché mi porti della crostata alla pesca, Nico? Se vuoi davvero liberarti dal senso di colpa, staccami da questa catena, fammi uscire da questa cella. Moorcraft tiene la chiave nel cassetto centrale», disse indicando la scrivania di legno. «Nasconde la chiave proprio qui?» domandò Nico. «Solo quella della catena. Quella della cella se la porta via. Ma almeno così potrò muovermi... arrampicarmi... fare qualcosa la prossima volta che verranno per un’iniezione.» Nico lanciò un’occhiata al tavolo, soffermando lo sguardo sulla bandiera americana. Avrebbe rimpianto quel momento per tutti gli anni a venire. «Hai detto che è nel cassetto centrale?» chiese. Poi scostò la sedia dalla scrivania, e la gamba rimase impigliata nel cavo della lampada alogena. «La lampada!» urlò Alby. Nico riuscì ad afferrarla al volo e a raddrizzarla. Rimanendo concentrato sulla scrivania, aprì il cassetto centrale, sollevò in fretta delle carte finché estrasse una vecchia chiave cilindrica arrugginita con il dente a forma di E. Dentro la cella, Alby si lanciò in avanti, infilando la mano fra le sbarre, tendendo la catena al massimo. All’esterno della cella, Nico sollevò in alto la chiave, fuori dalla portata di Alby. «Promettimi che non farai del male al colonnello», gli disse. «Non voglio fare del male a nessuno.» «Promettimelo e basta. Puoi scappare... metterti a correre... fare tutto quello che ti pare. Lui però rimane... Non puoi fargli del male.» Si udì un rumore di passi in corridoio, come se stesse arrivando qualcuno. «Nico, te lo giuro sui miei figli. Voglio solo uscire di qui.» Sbattendo le palpebre due volte in rapida successione, Nico lasciò andare la chiave, facendola cadere sul palmo aperto di Alby. Lui si avvicinò subito al muro e la infilò nella serratura alla base del polso. «È quella giusta?» domandò Nico, arretrando lentamente. Alby, ancora alle prese con la serratura, non rispose. Dietro di loro, il rumore di passi diventò più forte. «Devi sbrigarti», lo incalzò Nico. «Ci sto provando!» Mentre Nico arretrava verso l’uscita, inciampò con un piede in qualcosa. Di nuovo il cavo della lampada... Lo urtò con il tallone. Come un albero appena tagliato, lo stelo cadde rapidamente, direttamente addosso a lui. Nico cercò di gettarsi in avanti mentre la lampada gli piombava sulla spalla. L’impatto la fece rimbalzare di lato, verso la bandiera americana, e sbattere contro il muro di mattoni
dove... Whoosh! La lampadina alogena esplose. Un lampo di luce bianca li abbagliò. Nel giro di pochi istanti, la bandiera americana prese fuoco, spargendo frammenti infuocati in tutte le direzioni, verso la scrivania e la sedia. Nico rimase di sasso, vedendo il fuoco dividersi fulmineo in due fili serpeggianti. Uno sgusciò sul pavimento di pietra; l’altro si arrampicò sul muro, scoppiettando, sprizzando scintille e dirigendosi quasi di proposito verso la cella. «Alby, muoviti!» Le fiamme saettavano sul muro, come la scrittura di Dio. Dalle stanze di sopra era penetrata della polvere da sparo, che si era sparsa fra i mattoni. Alby girò la chiave. La serratura si aprì di scatto. «Forza! Aprila del tutto!» urlò Nico, afferrando le sbarre arrugginite e strattonando la porta, nella speranza di liberare il compagno. Per un attimo, Alby fu sul punto di liberarsi dalle catene. Dovevano ancora trovare il modo di aprire la porta della cella. Quando però si voltò e vide le fiamme inghiottire lentamente la stanza... il fumo nero gli entrò nei polmoni e lui cominciò a tossire... Era esattamente come... sull’aereo. Stava rivivendo la stessa identica scena dell’aereo. Per un istante, rimase immobile. Senza dire una parola, afferrò la polsiera della catena e ci infilò la mano. La schiacciò forte e questa si chiuse di scatto, come una manetta. «Che cosa stai facendo?» urlò Nico dalla parte opposta delle sbarre. La cella era ancora chiusa. «Credi che sia scemo? Non vedi? È un altro test... come quello sull’aereo.» «Alby, questo non è un test!» «Non hanno detto niente neppure a te, vero?» Con il sorriso sulle labbra, Alby prese la chiave e si diresse verso la finestrella. «No-no-no! Non farlo!...» Con un rapido movimento del polso, Alby lanciò fuori la chiave. Questa cadde nel fossato e affondò nell’acqua senza essere udita da nessuno. «Qualcuno ci aiuti! Abbiamo bisogno di aiuto!» Nico urlò nel corridoio principale. La scrivania di legno aveva preso fuoco, le fiamme guizzavano in superficie. Nico avrebbe potuto allontanarsi di corsa e invece... Fuori dalla cella, aprì tutti i cassetti in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa, per aprire la porta e liberare Alby. Dentro la stanza, incatenato al muro, Alby si rifiutava di muoversi. L’incendio continuava a propagarsi. Stava ancora cercando di sorridere, ma il fumo cominciava a essere intollerabile. «Vedrai. Stanno solo... È come l’altra volta. Hanno simulato di nuovo un incendio per vedere se riescono a farci... a farci... Lo so che cosa state facendo! Non sarò più la vostra cavia!» urlò al cielo. Si sedette a terra, a braccia conserte. «Alby, per piacere... Devi uscire di lì!» «No, vedrai. Fanno sempre così. Come con quei due vecchi sull’aereo... e Julian. Sta’ a vedere... vai a chiamare il colonnello. Non mi lasceranno morire.» Ora le fiamme erano alte, si arrampicavano sui muri fino al soffitto. L’asta di legno che aveva sostenuto la bandiera americana era diviso in due. Il vessillo era scomparso, consumato. Nico afferrò quello che restava della metà inferiore del bastone e lo staccò dal piedistallo. Corse verso la porta della cella e lo infilò tra le sbarre a mo’ di leva. «Aiutooo! Qualcuno mi aiuti a farlo uscire!» gridò, preparandosi a dare una spallata alla leva. «Alby, alzati! Ti prego, devi lottare!»
«Per dargli un’altra soddisfazione? Per dimostrargli che possono prenderci in giro quanto vogliono? Qualcuno deve pure ribellarsi!» rispose Alby, tossendo in mezzo a un fumo ormai così denso da impedirgli quasi di vedere alcunché. Tutti i muri erano in fiamme. Il calore gli ustionava la faccia, le braccia, le caviglie. «Non ci lasceranno morire», disse quando la stanza cominciò a tremare. Nico prese la rincorsa e diede una spallata violenta. Il bastone era talmente sottile che si spaccò in due. Non servì a nulla. L’unico modo per aprire la porta... «Timothy, posso farla aprire da Timothy!» esclamò Nico, anche se Alby non stava ascoltando. «Sì, sì, colonnello! Dacci pure dentro!» urlò Alby, quando il fuoco prese a ruggire. «Vedrai, Nico. Hanno delle canne per spegnere l’incendio! Arriveranno di corsa! Vedrai!» ringhiò. Stava soffrendo. Il calore era insopportabile. Un pezzo di muro incandescente gli cadde sul collo, appena dietro l’orecchio. Un altro gli colpì il dorso della mano. La pelle era piena di bolle e vesciche. Lui si rifiutava di urlare, di arrendersi. «Non ti sto abbandonando! Vado a prendere Timothy! Te lo giuro, torno indietro!» disse Nico, cominciando a correre. «Non ce ne sarà bisogno...» rispose Alby tossendo, mentre il fuoco gli infiammava i polmoni. Il dolore alla gola, era... come sull’aereo, si disse. Esattamente come sull’aereo. «Vedrai... non ci lasceranno morire!» Ora Nico era scomparso. Al suo ritorno, non avrebbe trovato più nulla. Alby agitò la mano per allontanare il fumo e le zanzare immaginarie dal viso, non poteva più aprire gli occhi. Prima ancora di provare dolore e rendersi conto di avere la testa incendiata, sentì l’odore dei propri capelli bruciati. «Date pure il peggio di voi! Io resisto!» proclamò di nuovo, e le ultime sillabe divennero l’ululato di un animale. «Io ce la faccio!» gridò, continuando a rifiutare di alzarsi, anche se ormai non sarebbe stato in grado di farlo comunque. Per tutta la vita, Alby aveva sempre immaginato di sapere quando sarebbe morto. Era convinto di morire giovane. Ma anche se ti aspetti una cosa, non è detto che tu sia pronto ad affrontarla. «Lo so che mi stai sentendo, colonnello! Mi senti... mi senti...» Uno stridulo ronzio invase lo spazio. Le zanzare erano scomparse. Anche il nodo dietro la nuca. Per Alby White la cosa più terribile non fu il dolore. Bensì la rapidità della presa di coscienza. La vita richiede tempo. La morte, invece, si rivela in un istante. Mentre la sua pelle si scioglieva sul pavimento di pietra, Alby smise di urlare, di fare previsioni. Alla fine, non gli restò altro che il bisogno di chiedere scusa. “Mi dispiace”, pensò, visualizzando la moglie... le bambine... e l’ultimo nato, il suo unico figlio maschio. “Mi dispiace di averti deluso, Beecher.”
97.
Oggi Per tutta la vita ho immaginato che a questo punto mi sarei sentito bene. «Sono tutte palle», dice Marshall con un colpo di tosse. «Pensa pure quello che vuoi», ribatte Nico, con voce più neutra che mai. «Questi sono i fatti.» Lì in piedi, cerco di digerire il racconto, con il cuore che mi pulsa senza sosta nella gamba. L’ampia prigione sembra più piccola, come se si stesse restringendo. Non mi ero neppure accorto dell’arrivo di Mina, ma ora la sento dietro di me, le sue mani sulle mie spalle. Mi divincolo e mi guardo intorno, cercando di immaginare dove fossero le sbarre, dove si trovasse la cella di mio padre. Eppure, intorno a me non vedo altro che i neri segni del rogo che infestano le pareti, simili a macchie di Rorschach. Sembrano ombre urlanti. «Beecher, esci di qui. Hai bisogno di aria fresca», mi suggerisce Marshall. Rimango dove sono. Ho vissuto per tutta la vita lontano da mio padre. Ora, però... la sua vicinanza... è come se mi avessero strappato l’anima dal petto. Il corpo mi dice di piangere, ma le lacrime non escono. «Ho sempre immaginato che fosse morto da eroe. Avrei voluto che fosse morto da eroe», mormoro. «E invece è stata una morte inutile.» «È morto perché è stato ingannato», dice Nico. «C’ero anch’io. È morto a causa dei loro test. Delle loro menzogne. Delle loro manipolazioni.» So che è vero. Capisco come sia successo, ma in tutti questi anni il fatto di non conoscere mio padre ha avuto come unica conseguenza l’idea che potesse essere... chiunque. Il direttore finanziario di una startup, uno scienziato che studiava le virtù terapeutiche delle piante... Quando eravamo piccoli, le mie sorelle dicevano che era uno che riparava orsacchiotti, mentre io fantasticavo che fosse un progettista di scivoli acquatici e ottovolanti, e che li disegnasse con più curve del normale solo per me. Qualunque sogno avessi, per quanto assurdo e sproporzionato, lo proiettavo facilmente su di lui. Ora, però, anziché vedere il potenziale di mio padre, vedo solo i suoi limiti. «Perché mi hai raccontato tutto questo?» domando a Nico. Lui sbatte le palpebre, confuso dalla mia improvvisa rabbia. «Non eri tu che volevi sapere?» «Ma non è per questo che mi hai raccontato la storia! Sapevi che mi avrebbe fatto male! Avresti potuto dirmi qualcosa di bello su mio padre... avresti potuto regalarmi un momento memorabile! E invece...» «Ti ho detto la verità, Benjamin.» «No, hai preso la verità e l’hai usata come un coltello! Sapevi che rivelandomi quanto aveva sofferto... L’hai fatto apposta, ben cosciente del dolore che mi avresti provocato! Saresti dovuto morire tu al suo posto, egoista di merda!» Mi avvento contro di lui con il pugno chiuso. Mina mi attira verso di sé e poi mi si para davanti, cercando di bloccarmi. Benché sia alta e robusta, praticamente la scavalco. Non ho visto Marshall muoversi, eppure ho addosso anche lui, mi sta trattenendo per il petto e le spalle, insieme a Mina. «Dovresti essere morto tu!» urlo a Nico. «Non lui! Avrebbero dovuto uccidere te!» Mi libero dalla stretta di Mina, facendola quasi cadere. Marshall è ferito, non potrà resistere più di
tanto. Nico barcolla leggermente. Non ha intenzione di difendersi. Vuole che vada fino in fondo. «Adesso basta!» ringhia Marshall. Preme le dita sotto la mia ascella. Il braccio e la coscia mi si addormentano all’istante. Come un burattino separato dai fili, perdo slancio e mi accascio, sbattendo quasi la faccia sul pavimento. Marshall cade insieme a me. È completamente esausto. Durante l’ora di anatomia dell’ultimo anno di scuola superiore, la nostra classe sezionò un gatto. Io mi rifiutai, perché a casa avevamo un micio. «Fai finta che sia una rana morta», mi disse l’insegnante. «Mi piacciono le rane», replicai. «Allora scegli un animale che non ti piace. Fai finta che sia un serpente. O un verme. Tutti odiano i vermi. Altrimenti fai un po’ quel cavolo che ti pare.» Immaginai che fosse un topo di fogna. Oggi, però, mentre cado in ginocchio, graffiandomi i palmi sulla ruvida pietra, tutta la mia rabbia si spegne di fronte a un fatto incontrovertibile: è successa la stessa cosa a mio padre. Mentre facevano i loro test, i loro esperimenti... tutto quello che lo portò alla morte... per loro, lui non era altro che un topo, un verme. Le lacrime mi sgorgano dagli occhi e gocciolano dal naso. Tutto il mio corpo si disintegra sul pavimento. Non riesco a fermare il tremore alle dita, alle mani. Sono sotto shock. Mi metto carponi. “Come hanno potuto?... Come può una persona... Mio Dio, papà...” Piango, continuando a rivedere i suoi ultimi momenti di terrore, con le piaghe delle ustioni che mi bruciano nel cervello. «Sono stati loro! L’hanno massacrato!» urlo, senza sapere di preciso contro chi sto inveendo. Marshall crolla a terra. Mina mi si inginocchia accanto, stringendomi a sé. «È tuo padre», sussurra. «Merita di essere compianto.» A quel punto, mi lascio andare. Appena lei mi abbraccia, cede qualcosa dentro di me. Scoppio a piangere in modo incontrollabile. Per due minuti Mina mi avvolge e mi accarezza la schiena. Il muco che mi esce dal naso le imbratta gli abiti. «Mi devi una camicia», scherza. Rido e piango in un unico respiro stizzoso. Passa un minuto buono, prima che riprenda a respirare normalmente. Mi asciugo gli occhi, e lei sa che non c’è nulla da dire. «Non avresti dovuto raccontarmelo», mormoro alla fine, alzando lo sguardo verso Nico. «Sarebbe stato meglio.» Lui, in piedi sopra di me, continua a dondolare. «Mia figlia è morta, Benjamin. Non c’è più. Non ti lamentare del dolore che ti procura il passato. Non capisci? Hai avuto quello che volevi. E anch’io.» Fa per aggiungere qualcos’altro, ma quando i nostri sguardi si incrociano vedo che sta tremando anche lui. Continuo a trattarlo come se fosse fatto di acciaio, ma in realtà è evidente che lui stesso era... un topo da laboratorio. Come mio padre. «Nico, ascolta... Mi dispiace per... Clementine era... lei era...» mi blocco, mi stacco da Mina e finalmente ammetto che io stesso avevo sperato di trovare qualcos’altro in quei fascicoli. Una cura per Clemmi. «L’amavo anch’io.» Appena sente queste parole, Marshall mi guarda. Anche Mina. E Nico. Avvertiamo un ronzio familiare in lontananza. Un idrovolante in arrivo. Mi asciugo gli occhi, mi alzo in piedi e mi dirigo verso l’uscita. Nico mi afferra la spalla. «Non volevo ferirti parlandoti di tuo padre, Benjamin.» «Lo so. E di nuovo, mi dispiace per...» «Smettila di parlare», dice. Come al solito fa un passo di troppo, invadendo il mio spazio personale. «Io sono venuto qui per un motivo. In questa stanza. La first lady... la... la donna con cui parlo...» Prende un respiro. «Mi ha detto che tuo padre voleva che ti dessi questa...»
Nico tende la mano, il pugno chiuso, rivolto in alto. Me ne ero quasi dimenticato; prima, quando l’ho trovato qui... con quella pala... aveva tirato fuori qualcosa dal muro. Senza fare troppe scene, apre la mano. Sul palmo c’è un oggetto rotondo di metallo. È talmente corroso e arrugginito che, a prima vista, sembra un vecchio tappo di bottiglia. Inclina il palmo per farlo cadere sulla mia mano. Me l’avvicino al viso per vedere meglio. È una spilla. Al centro, sotto le macchie di ruggine arancione, c’è un’immagine in bianco e nero. Assomiglia quasi a... «Charlie Chaplin?» domando. Sollevo lo sguardo verso Nico. «Non capisco.» «Quando eravamo qui sull’isola, tuo padre se la portava dappertutto.» La vecchia spilla sembra più pesante nella mia mano. «Lui... Questa era di mio padre?» «Non so perché ci tenesse tanto. Forse era solo un modo di dimostrare che era stato qui. Ma alcune ore prima che morisse avevo visto che la stava nascondendo. Io lo guardavo, ma lui non sapeva che ero lì. Doveva averci messo dei giorni, a scavare nella malta. Qualsiasi cosa significhi, aveva deciso di nascondere proprio questa. Di proteggerla. Ho pensato che volessi riaverla.» Inclino la spilla. Sotto la ruggine, la mia immagine riflessa si piega e si distorce su un’ammaccatura, come in uno specchio magico. Neanche a un ritrovo di superfan di Charlie Chaplin riuscirei a vendere questo affare per più di pochi centesimi. Eppure mi ricorda una cosa che mi disse una certa persona durante uno dei miei primissimi giorni di lavoro agli Archivi. Stavamo rovistando tra gli scaffali, circondati letteralmente da milioni di vecchie pagine inutili. Prelevando un fascicolo ingiallito da un ripiano, questa persona pronunciò le parole che ora ripeto a Nico, fissando la vecchia spilla rotonda di mio padre. Il mantra fondamentale dell’archivista: «Tutto ha il suo valore. Per la persona giusta». Nico mi fissa, sforzandosi di fare un sorriso sbilenco, che continua a tremare e a disintegrarsi. Questa intensità emotiva mi coglie alla sprovvista. «Credo che Clementine mi vedesse così», dice, con gli occhi traboccanti di lacrime. «Ero importante solo per lei. Era l’unica che... che mi amava.» «Nico, mani in alto!» urla una voce profonda dietro di noi. «Non ti muovere!» Quando ci giriamo, vediamo due massicci agenti della guardia costiera puntare le pistole contro il viso di Nico. Fanno irruzione nella stanza e lo sbattono a terra, ammanettandolo dietro la schiena. Altri due si precipitano verso Mina, che indica Marshall, privo di conoscenza. Nico non oppone resistenza, non dice una parola. Io cerco di mimare con le labbra “grazie”, ma lui non mi vede. Non stacca mai gli occhi dai resti carbonizzati della figlia. Mentre lo trascinano fuori dalla stanza, io li seguo zoppicando e rivolgo un ultimo saluto a mio padre, stringendo nel pugno il volto arrugginito di Charlie Chaplin.
98.
Una settimana dopo La Casa Bianca Stavolta mi portano all’ingresso principale. «Sei fortunato. Lo senti il tintinnio?» mi domanda la signora di mezza età dal volto squadrato, con fin troppo entusiasmo nella voce. È la segretaria dell’uomo più potente del mondo. Non si entusiasma così facilmente. «Il maggiordomo ha appena portato limonata fresca», aggiunge. «È di buon umore.» Io sono a disagio, cambio continuamente posizione sulla poltrona dall’alto schienale davanti alla scrivania della donna. Finora Wallace mi aveva ricevuto in un ufficio riservato della residenza, in un bunker sotterraneo di Camp David e, la settimana scorsa, in una lavanderia nei sotterranei della Casa Bianca. Durante questi incontri, il presidente temeva che il Culper Ring avesse le prove di ciò che aveva fatto tanti anni prima al college. È l’unica cosa che gli fa veramente paura, posto che sia possibile incutergli timore. Quindi, per evitare che qualcuno mi vedesse entrare, mi facevano passare per gli ingressi di servizio. Oggi mi hanno detto di presentarmi al cancello nordoccidentale, un’entrata pubblica. La più pubblica che ci sia, visto che si trova accanto all’ufficio stampa. Wallace, qualsiasi cosa abbia in mente, non vuole più tenermi nascosto né nascondersi da me. Eppure ho notato come mi fissava il marine di guardia, quando mi sono presentato sul marciapiede lì davanti. E anche gli agenti in borghese che mi hanno accompagnato all’ala ovest. Gli addetti alla sicurezza della Casa Bianca non sono tenuti a essere cordiali. E lo sono ancora di meno quando vedono qualcuno fare il loro lavoro. «Deve solo finire una telefonata», aggiunge la segretaria più potente del mondo. Alla mia sinistra, dietro la porta curva della sala ovale, vedo il presidente Orson Wallace di profilo, seduto alla sua scrivania. Non è al telefono. Sta leggendo un fascicolo. Appesa alla parete dietro la segretaria c’è una foto incorniciata del presidente che lancia una palla da wiffleball al figlio di otto anni. È un’istantanea scattata sul prato della residenza, anche se Wallace indossa giacca e cravatta. Per quelli che hanno la possibilità di avvicinarsi così tanto al comandante in capo è un messaggio fin troppo chiaro sulle priorità del presidente. Per gli altri è un monito, affinché stiano bene attenti a quello che chiedono, dato che non fanno parte della famiglia. Per me – anche se naturalmente quella immagine sdolcinata mi fa pensare a mio padre e a tutti i giochi che non condivideremo mai – il vero significato della foto è molto più semplice: quando arrivi alla sala ovale, non stai più giocando a wiffleball. Ormai sei in un campionato di altissimo livello. «La sta aspettando», annuncia la segretaria, facendomi sentire improvvisamente in ritardo. Balzo su dalla sedia. Mentre attraverso la soglia per entrare nella sala ovale, faccio del mio meglio per dissimulare l’andatura zoppicante causata dalla pallottola di Ezra. La gamba non è del tutto guarita, anche se il presidente non deve per forza saperlo. «Fai ancora fatica a camminare, eh?» domanda Wallace, e sembra sincero. Mi sta già venendo incontro, torreggiando su di me. Dimentico sempre quanto è alto.
«Se hai bisogno di uno dei nostri medici, dillo pure. Sono i migliori», dice, sgranando gli occhi grigi, come se fosse pronto a evacuare un intero centro medico per me. «Vieni. Siediti. Non possiamo permettere che tu ti faccia male.» Indica uno dei divani di velluto marrone scuro al centro della sala ovale. Lui, però, non ritorna alla sua scrivania e non si siede neppure sul sofà davanti al mio, bensì direttamente accanto a me. Così ci ritroviamo entrambi a fissare l’antico orologio a pendolo che – io lo so – è qui dai tempi di Gerald Ford. Conosco il trucco. Gli uomini comunicano fianco a fianco, spalla a spalla, ecco perché amano parlare camminando, seduti in macchina o a un evento sportivo. Le donne preferiscono la comunicazione faccia a faccia, che gli uomini invece tendono a utilizzare solo in caso di conflitto o quando sentono il bisogno di sfoggiare il proprio rango. Wallace, che di solito se ne sta dietro la sua grande scrivania, ora vuole farmi capire che siamo nella stessa squadra. «Devi provare questa limonata, ci mettono dentro un filo di mirtillo rosso», mi suggerisce il presidente degli Stati Uniti, indicando la caraffa di cristallo sul tavolino basso. «Non mi piacciono i mirtilli rossi. Troppo dolci», replico. Finge di sorridere e si piega in avanti per riempirsi il bicchiere. Il ghiaccio tintinna sonoramente contro il fine cristallo. Quando si appoggia allo schienale del divano, l’unico rumore che si sente nella stanza è il lieve ticchettio dell’orologio a pendolo. «Non ti ho fatto venire qui per litigare, Beecher. È stata una grande vittoria. Per tutti noi.» «Non tutti.» Annuisce in silenzio, facendo un respiro per calmarsi. Alla fine, concede: «Mi spiace per Clementine. So che lei...». «Adesso, la prego, eviti discorsi in cui finge di trovare del buono nella vita di Clementine. Mi ha convocato per un motivo. Mi dica qual è.» Sospira. Il ticchettio dell’orologio sembra sempre più forte. «Ti ho fatto una promessa, Beecher. Ho intenzione di mantenerla.» Mi volto e lo guardo direttamente in faccia. L’uomo più potente del mondo sta roteando la sua limonata rosa, creando un piccolo vortice nel bicchiere. L’attività principale di un presidente è sedurre. «Non sono sicuro di seguirla», ribatto. «Hai fermato Ezra. Ci hai aiutato ad arrestare Nico. Per questo sei stato scelto da Tot. Il Ring è orgoglioso di te.» Si gira alla sua sinistra, ed è la prima volta che noto la spessa cartelletta a fisarmonica posata al centro della sua scrivania ordinata. «L’FBI e i servizi hanno setacciato l’appartamento di Ezra», spiega. «Nell’ultima settimana abbiamo esaminato attentamente il suo computer e il suo telefono. Da quello che abbiamo capito, ha pagato un fattorino del fiorista della Casa Bianca. Così è riuscito a entrare. Per il resto, ha fatto tutto da solo. Non aveva contatti né con Riestra né con altri dei servizi. E anche se è indubbio che mirasse a rimettere insieme i Cavalieri del cerchio d’oro, non era ancora riuscito a fare nulla. Grazie a te.» «E il suo cadavere? La guardia costiera ha...» «È tutta la settimana che raccolgono pezzi. Cinque giorni fa hanno trovato un braccio. Hanno detto che alcune altre parti saranno state mangiate dagli squali.» Prende un sorso di limonata, socchiudendo gli occhi. «Posso farle un’ultima domanda?» Continuo a fissarlo, per vedere la sua reazione. «Lei conosceva la vera missione di Ezra, vero? Sin dall’inizio sapeva di non essere nel mirino, perché il suo vero bersaglio era Nico.» Wallace continua a sorseggiare limonata, senza aprire gli occhi. «Perciò quelle braccia sepolte...» continuo, «in realtà, servivano solo a dimostrare qualcosa. Ezra non
stava cercando di assassinarla, bensì di evidenziare i limiti del suo sistema di sicurezza.» Il presidente abbassa il bicchiere, evitando di girarsi verso di me. Fissa l’orologio a pendolo. «La prima volta che entrò alla Casa Bianca, disse che aveva una proposta da farmi. Voleva che l’aiutassi a ricostituire i Cavalieri. La prima missione sarebbe stata quella di dare la caccia a Nico e ucciderlo... per la sicurezza del paese.» «Perciò le braccia sepolte...» «Le braccia – con il penny e i codici – non c’entravano con tuo padre. Erano il suo modo di dimostrare quanto fossero numerose le falle di cui Nico avrebbe potuto approfittare. Naturalmente, il nostro vero timore era: chi altro lo stava aiutando?» Ci rifletto su, ripensando alla nostra prima conversazione nella lavanderia sotterranea. «Ero certo che non mi stesse dicendo tutto quello che sapeva.» «Se l’avessi fatto, non ci avresti aiutato», mi sfida il presidente. Ora stiamo fissando tutti e due l’orologio. «Abbiamo fatto entrambi quello che andava fatto, Beecher. Prova a metterti nei nostri panni. A quel punto, non sapevamo con chi stesse collaborando Ezra: con te, Nico, Riestra e i servizi... Non conoscevamo le alleanze», spiega Wallace. «Quando però abbiamo capito che il Ring poteva rivelarsi la soluzione migliore e abbiamo trovato quel penny, be’... Francy ha detto che non saresti mai intervenuto senza qualche incentivo personale.» Si volta verso il fascicolo sulla sua scrivania. «Mi spiace di averti depistato. Davvero. Ma ero fermamente intenzionato a mantenere la mia promessa.» Io seguo il suo sguardo. Sulla scrivania non c’è quasi nient’altro, oltre a quella cartelletta. Persino il telefono è in un cassetto. A destra c’è una scatola di legno contenente l’interfono rosso con cui il presidente chiama i propri collaboratori. Ai due angoli esterni, in cornice d’argento, sono esposte alcune fotografie della famiglia Wallace, fra cui una di lui bambino con sua madre e un’altra di lui con i suoi quattro predecessori. Ogni cornice è rivolta verso l’esterno, perciò lui non può vederle, quando è seduto alla scrivania. Come non può vedere le due alte bandiere dietro la sua sedia, che compaiono in tutte le fotografie. Ogni arredo della sala ovale ha lo scopo di essere visto da qualcun altro. «Insomma quel fascicolo...» «Beecher, pensa pure quello che vuoi di me, ma io sono un uomo di parola. Tu hai fatto la tua parte con Ezra. Ora tocca a me fare la mia.» Senza posare il bicchiere, si alza dal divano e afferra la spessa cartelletta. «So che hai già visto una parte dei documenti. Qui troverai il resto», dice, passandomi l’incartamento. «La verità su tuo padre.»
99.
Le prime pagine del dossier sono le stesse: il colore dei capelli e degli occhi di mio padre, statura e peso. Ogni carattere è impresso sulla carta dalla macchina da scrivere. Queste non sono vecchie fotocopie come quelle sull’isola, bensì gli originali. Poi ci sono fogli su fogli di rapporti scritti a mano. Alcuni sono documenti medici e riportano il ritmo cardiaco di mio padre e la pressione sanguigna. Altri sono comportamentali, e contengono descrizioni tipo: «Reagisce intensamente agli stimoli della rabbia e della minaccia». Una delle ultime pagine è un certificato di morte. Alla voce «causa del decesso» c’è scritta la stessa cosa che avevano detto a mia madre trent’anni fa: «Annegamento accidentale per incidente automobilistico su ponte militare». A differenza dell’ultima volta, non mi tremano le mani mentre leggo. «Nico mi ha detto come è morto veramente», dico al presidente. Mentre do una scorsa al resto dei documenti, lui rimane in silenzio. La cartellina a fisarmonica contiene vari fascicoli. Dopo quello di mio padre ce n’è uno con su scritto: OPERAZIONE: PLANKHOLDER. Lo tiro fuori, sfogliandolo lentamente. Queste sono fotocopie, ma quasi ogni pagina è coperta da nere righe orizzontali: omissis. Sul fascicolo successivo leggo SAGAMORE, WISCONSIN. La città dove sono cresciuto, insieme a Clementine e Marshall. Anche queste pagine sono piene di omissis. Non ha senso. Che cosa c’entra la nostra città con tutto questo? Guardo Wallace, appoggiato alla scrivania, gli occhi fissi sulla moquette color crema. Non è una situazione piacevole per lui. «Perché c’è un fascicolo su Sagamore?» Il presidente sposta il peso sull’altra gamba, tenendo gli occhi bassi. «Apprezzo la pausa a effetto», gli dico. «Ma sappiamo entrambi che lei ha letto la versione senza omissis.» «Beecher, il nome John Karlin ti dice qualcosa?» Scuoto la testa. «Karlin è morto alcuni anni fa. Aveva un dottorato in psicologia della matematica, era laureato in ingegneria elettrica e suonava il violino a livello professionale.» «È quello che ha eseguito l’esperimento su mio padre?» «Non c’entrava nulla con tuo padre. Né con la tua città. Era un esperto in scienze sociali che lavorava ai laboratori Bell Labs. Dopo la seconda guerra mondiale, quando si stavano progettando i telefoni, è stato il dottor Karlin a escogitare un modo per sistemare i numeri sulla tastiera: 1-2-3 sulla fila di sopra, 4-5-6 su quella di sotto...» «So come sono fatte le tastiere.» «Ma sai anche perché sono organizzate in questo modo? Perché il dottor Karlin studiò i limiti degli esseri umani. Scoprì che con questa disposizione si ottiene la massima accuratezza nel comporre i numeri. All’epoca, si temeva che le persone non riuscissero a ricordare neppure sette numeri di fila. Così
il dottor Karlin esaminò i pulsanti rotondi e quadrati e si chiese se fosse meglio inserire i numeri in un cerchio o in un quadrato. «Oggi questa disposizione è accettata internazionalmente, viene utilizzata anche per le calcolatrici, le tastiere dei bancomat e dei distributori automatici del mondo intero. Tutto grazie a quest’uomo modesto del New Jersey. Stabilì anche quale fosse la lunghezza ottimale di un cavo, tagliando in segreto ogni notte il filo ai collaboratori, per vedere quando cominciavano a lamentarsi. E sai che cosa dimostrò? Che lo studio dei fattori e dei limiti umani batte qualsiasi ricerca di mercato. Meglio lasciar perdere i punti di forza. Se vuoi conoscerci, impara a individuare i nostri limiti.» «Immagino che mi stia raccontando tutto questo per un motivo.» Il presidente mi lancia lo stesso tipo di occhiata che aveva costretto i leader del Pakistan a tornare al tavolo dei negoziati. «La ricerca del dottor Karlin non fu utilizzata solo dai Bell Labs. Anche i nostri militari erano interessati. Devi capire che per più di un secolo l’esercito aveva speso miliardi di dollari per cercare di rispondere a una semplice domanda: fra mille soldati, come si fa a individuare quello che si distinguerà e diventerà un vero leader? Non abbiamo ancora una risposta definitiva. Ma trent’anni fa, sapendo che le debolezze sono importanti quanto i punti di forza, un piccolo gruppo di persone all’interno dell’esercito si pose un interrogativo diverso, eppure affine. Era possibile individuare i soldati che avevano buone probabilità di rivelarsi deboli? Era possibile riconoscere i soldati peggiori? E – cosa ancora più importante – era possibile trasformare un cattivo soldato in un soldato eccezionale?» «Mi sta dicendo che mio padre era il cattivo soldato che avevano deciso di studiare?» «Lasciamo perdere i buoni e i cattivi. Tutti abbiamo dentro sia il paradiso sia l’inferno. Sai chi l’ha detto?» «Oscar Wilde.» «E aveva ragione», continua il presidente. «Insomma, ispirandosi alla ricerca sul telefono del dottor Karlin, questo gruppo cominciò a studiare i limiti dei nostri soldati. Le iniezioni che fecero a tuo padre e agli altri Plankholders avevano lo scopo di tirar fuori la loro personalità più autentica. Era solo un amplificatore.» «Di che cosa?» «Di quello che erano già. Pensaci, Beecher. Che cos’è più importante per un corpo militare? Individuare i più forti o scartare i più deboli?» Scuoto la testa, intuendo dove vuole arrivare. Nico mi ha già parlato delle iniezioni e di tutto ciò che facevano sull’isola. Poi però guardo la cartellina con su scritto SAGAMORE... «Continuo a non capire cosa c’entra tutto questo con la mia città.» Wallace fissa il ritratto a olio di Abraham Lincoln alla sua sinistra. «Beecher, in questo momento ci siamo solo io e te. Solo noi», dice Wallace. «Capito?» Non sta cercando di pararsi il culo. Per la prima volta da quando ci conosciamo, il presidente degli Stati Uniti d’America sembra estremamente preoccupato. Annuisco, continuando a stringere la cartellina. Cerco di prendere un respiro, ma è come se il mio petto non riuscisse ad allargarsi. Nella sala ovale ci sono quattro porte curve. È la prima volta, mi rendo conto, che sono tutte chiuse. «Non erano brave persone», riprende Wallace. «Dalle prime relazioni, si capisce che erano soddisfatti di quello che stavano facendo con i Plankholders. Sembra davvero orribile, ma persino la morte di tuo padre li convinse di essere sulla strada giusta. Da quel momento in poi, il programma fu ampliato. Anziché limitarsi a identificare la debolezza, cominciarono a chiedersi se fosse possibile prevederla. L’egoismo è una caratteristica appresa? È possibile risalire alle sue origini? Potrebbe essere addirittura ereditaria? Per trovare risposte, non bastavano poche settimane su un’isola. Per eseguire un vero studio
scientifico, avevano bisogno di un luogo in cui osservare azioni ripetute nel tempo. Sul lungo periodo», spiega, con un solco profondo tra le sopracciglia. «Decenni.» Guardo di nuovo la cartellina con su scritto SAGAMORE. «Un momento. Mi sta dicendo...» «Non ti sei mai chiesto come mai la tua famiglia e quelle di Clementine e di Marshall siano andate a finire tutte nella stessa cittadina? È una coincidenza veramente incredibile, non credi, Beecher?» Cerco di prendere un altro respiro. Ho i polmoni bucati, si stanno sgonfiando. «Il grande segreto non era tuo padre», dice il presidente. «Il segreto era la città stessa.» Scuoto la testa incredulo. «Giuro sulla vita dei miei figli che vorrei che non fosse vero», aggiunge. «Ma chiedi a tua madre come ha trovato Sagamore. Se dovessi tirare a indovinare, direi che uno dei consulenti per l’elaborazione del lutto mandati dall’esercito le parlò di questa splendida nuova comunità nel Wisconsin. Probabilmente l’aiutarono a ottenere un mutuo per acquistare la casa, dicendo che rientrava tra le facilitazioni concesse dall’esercito in caso di morte. Poi, nei mesi successivi, quando il padre di Marshall e quello Nico terminarono il proprio periodo di servizio, furono indirizzati lì a loro volta. Il primo pastore della vostra chiesa era un ex cappellano militare. Ogni settimana compilava dei rapporti. Ho letto il fascicolo, Beecher. Utilizzarono tre città, tutte nel Midwest. La tua si concentrava sugli individui che creavano disordine e infrangevano le regole.» Serro la mandibola. «Un anno dopo, in una delle altre città, un ragazzo dell’Arkansas si ritrovò delle pustole intorno all’ano. Presto sviluppò un cancro mai visto prima d’allora. Quando Nico cominciò a sentire le voci in testa, il programma fu interrotto e privato di finanziamenti, anche se uno dei medici – un certo Moorcraft – continuò a mandare un rapporto annuale con nuove osservazioni sui figli dei soldati in questione.» «Figli?» Intensificando lo sguardo, Wallace prosegue: «Per un po’, sembrò quasi che avesse ragione. Prima della fine della scuola superiore, Clementine e Marshall erano già stati arrestati alcune volte. Marshall era persino riuscito a farsi sbattere fuori dai marines. Forse erano così per natura, forse invece avevano imparato dall’ambiente in cui erano cresciuti, ma nei casi più estremi la genetica aveva previsto ogni cosa: le mele erano cadute vicinissime all’albero. A parte in un caso. Su di te, Beecher, si erano sbagliati». Il presidente rimane lì seduto, ancora appoggiato al bordo della scrivania. Si aspetta che cominci a inveire o a strillare per lo shock. Invece me ne sto lì ad ascoltare ogni dettaglio – ogni sillaba – con ritrovata calma. Non è stupido. Sono troppo silenzioso. «Sapevi già tutto», dice. Gli lancio un’occhiata. Lui ricambia. Come tutti i presidenti, detesta essere spodestato. «Chi te l’ha detto?» mi sfida. «Quando le hanno mandato i fascicoli dagli Archivi, hanno dovuto digitalizzarli», spiego. «Insomma, il tuo Culper Ring... la vostra hacker è entrata nel nostro sistema?» «Il vostro sistema è una fortezza. Gli Archivi sono molto più accessibili.» Aspetto una reazione violenta. Invece sembra a disagio. «Beecher, se sai già tutto da una settimana, perché non hai detto nulla?» «Mi creda, lo farò. Tutto quello che quegli scienziati hanno fatto a Nico e a mio padre... persino a me e agli altri che vivono nella nostra città... Non potete fare queste cose.» «Non sono stato io.» «Lo so. Ma qui... in questo momento... avevo bisogno di sapere che cosa avrebbe fatto Lei, presidente.»
«Quindi stavolta quello sottoposto a un test sarei io?» domanda Wallace. «Volevi sapere se ti avrei detto la verità?» «Ha idea di tutte le vite che sono state devastate da questi esperimenti? Clementine è morta! Nico è impazzito! Mio padre arrivò a chiudersi in una cella in fiamme, tanto era malato e paranoico! Perciò mi scusi se sono pessimista, ma questo governo che ho difeso con tutte le mie forze... Che razza di governo fa cose simili?» «Lo stesso governo di sempre: composto dal popolo, dal...» «No. Ho già sentito il discorso ufficiale. Adesso mi interessa solo che sia fatta giustizia.» «Non sarà mai fatta giustizia. Lo sai meglio di me. Intere famiglie sono state rovinate. Non abbiamo avuto alcun riguardo per gente che si è fidata di noi al punto di rischiare la propria vita. Possiamo dare tutti i risarcimenti che vogliamo – e ne daremo –, ma il denaro non renderà giustizia a nessuno. È impossibile. Tutto quello che possiamo fare è rendere noto ciò che sappiamo.» Gli lancio un’occhiata dubbiosa. Ero convinto che avrebbe insabbiato tutto. «Beecher, ricordi quando il presidente Clinton fece ammenda per gli esperimenti sulla sifilide condotti nella cittadina di Tuskegee? O quando Obama chiese scusa per un programma degli anni Quaranta, con cui furono inoculate di proposito malattie sessualmente trasmissibili a centinaia di latinoamericani? Qualsiasi altra cosa accada, ci assumeremo le nostre responsabilità. Se vuoi, posso nominarti cofondatore del comitato di indagini indipendenti che stiamo costituendo. Proprio mentre stiamo parlando, stanno preparando l’annuncio ufficiale. E le scuse. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere sentirle per primo.» Ascolto le sue parole, ma mi pare un’assurdità. Procurerà un mucchio di guai alla sua amministrazione. «Intende davvero informare la popolazione?» «Non fare quella faccia sbalordita. A volte, anche noi facciamo la cosa giusta. Tipo ringraziare chi ci ha aiutati quando ne avevamo bisogno.» Punta il dito verso di me, serissimo in volto. «Dico davvero, Beecher. Quello che stai costruendo con la tua vita e con il Culper Ring... te l’ho detto la settimana scorsa. Tot ti ha scelto per un motivo. Abbiamo tutti il paradiso e l’inferno dentro di noi. Però tu hai qualcosa di più.» Mi raddrizzo sulla sedia, confuso. «Ti sto dicendo la verità. Hai agito bene, Beecher. Come hai sempre fatto. E sempre farai.» È un discorso perfetto, pronunciato da un oratore perfetto. In questa città, c’è gente che sarebbe disposta a uccidere pur di ricevere un complimento del genere. Eppure, mentre sistemo gli ultimi tasselli al loro posto, ho ancora un dubbio che mi frulla in testa. «Posso farle una domanda?» dico alla fine. «Mi stupirei, se non me la facessi.» Guardo oltre le spalle del presidente, fuori dalle vetrate, dove il sole del mattino incendia il Rose Garden. «Perché mi ha mandato a fermare Ezra?» «Come, prego?» «Quando Ezra è venuto qui per la prima volta... quando si è intrufolato per la prima volta alla Casa Bianca... le ha fatto una proposta, come Lei stesso ha detto prima. Era pronto ad ammazzare Nico, e le avrebbe fatto un gran favore, trattandosi di un sociopatico criminale a piede libero che voleva ucciderla. In simili circostanze, perché non permettere a Ezra di portare a termine il lavoro?» Wallace inclina la testa come se parlassi arabo. «Perché è sbagliato», risponde. «Lo so che è sbagliato, ma...» «Ma... che cosa? Siccome sei a conoscenza di quello che ho fatto quando andavo al college, pensi che sia ancora un mostro?» Devo ammettere che, detto così, pare una stupidaggine anche a me.
«Nessuno di noi è davvero come quando dà il peggio di sé», aggiunge. «Lo sai anche tu.» Penso a mio padre. Lo so fin troppo bene. Come so che ognuno di noi ha rimpianti irrimediabili. «Senti», continua il presidente, e per la prima volta non sembra che mi stia dando un ordine. «Qualche mese fa, quando Nico è scappato dal St. Elizabeths, mia figlia si è rifiutata di uscire dal secondo piano della residenza per una settimana, per paura che venisse a ucciderci. Ogni santo giorno di quella settimana ho desiderato la morte di Nico. I Cavalieri avrebbero semplificato ogni cosa. Ma non è questo il nostro modo di risolvere i problemi. Non nascondiamo esperimenti militari di trent’anni fa. E non permettiamo ai cittadini di giustiziare altri cittadini, anche se lo meriterebbero.» Io rimango zitto a fissare il Rose Garden. Lui non si sposta dal suo angolo di scrivania. Ma questo non significa che non ci sia movimento. «Beecher, quando avevo vent’anni ho fatto una cosa orribile di cui mi pento ogni giorno della mia vita. Dico sul serio: ogni giorno. Questo però non fa di me il farabutto che tu pensi io sia. Tot, Marshall, persino tu... dimmi se qualcuno è perfetto.» Rivedo Clementine urlare e sacrificarsi in fondo a quella buca. Il presidente mi viene incontro. «Avevo ragione sulla tua caratteristica fondamentale: fai sempre la cosa giusta, o almeno ci provi. Voglio che tu e il Culper Ring continuiate a provarci.» «Allora adesso dovremmo fare squadra?» «Checché tu ne pensi, ho una grande considerazione per il Culper Ring e per ciò che rappresenta. Per quest’opera di George Washington. Lo dimostra quello che hai fatto con Ezra. Sto solo cercando di semplificarti la vita, Beecher. Lo sai che lavoro faccio. Al pari di George Washington, se c’è bisogno di qualcosa, io posso ottenerla. E con ciò intendo qualsiasi cosa.» È un’offerta sbalorditiva. Con il suo appoggio, il Ring potrà aiutare le persone in misura finora inimmaginabile. «Possiamo ottenere risultati straordinari, insieme», aggiunge. «Sotto la tua guida, il Ring...» «Sta per farmi un discorso d’incoraggiamento, vero? No, guardi, non mi serve proprio.» «Hai mai sentito un mio discorso d’incoraggiamento? Mi vengono veramente bene. Sono davvero molto bravo.» Scoppio a ridere. È una risata sincera. «Credo di potermela cavare lo stesso.» «E che ne dici invece di questo? Tira fuori la mano dalla tasca e... me la porge. «Non può essere una trovata spontanea, questa della mano...» gli dico. «È un vecchio trucco di JFK. Mica male come citazione, eh?» ribatte il presidente degli Stati Uniti con un sorriso cordiale. «A volte non ci rendiamo conto che stiamo vivendo i momenti più significativi della nostra esistenza. È ora di decidere, Beecher. Qual è il tuo obiettivo nella vita: combattere contro di me o aiutare gli altri?» Mi alzo dal divano, continuando a riflettere sulla proposta. Finora avevo sempre immaginato che se avessi saputo chi era mio padre, avrei saputo anche chi ero io. Adesso che ho ottenuto una risposta, so solo questo: può essere che abbiamo dentro sia il paradiso sia l’inferno, ma siamo noi a scegliere chi siamo. E contro chi combattiamo. «Non può affibbiarci nessuna missione», lo avverto. «Decidiamo noi di cosa occuparci, secondo le priorità del Ring. Senza interferenze.» «Senza interferenze. Sta a te decidere», concorda. «Se hai bisogno di aiuto, chiamami. Sennò, io faccio il tifo da qui. Allora, che cosa ne dici, Beecher?» Non dico nulla. Guardo la mano tesa del presidente. E la stringo.
100.
Waupun, Wisconsin «Telefono e chiavi negli armadietti. Anche il portafogli», ordinò l’addetto al controllo ai raggi X. «Non è permesso introdurre denaro.» «Mi hanno detto che potevo portare un film», disse Marshall, alzando un DVD nella sua custodia e posandolo sul nastro trasportatore. Mentre lui e il suo DVD passavano sotto il metal detector, lo guardarono tutti: l’addetto al controllo ai raggi X, l’altro guardiano seduto al banco della reception e il sergente posizionato dietro il vetro antiproiettile. Per una volta, però, non gli stavano fissando insistentemente la faccia. Le guardie carcerarie osservano bene tutti i visitatori. «Aspetta lì», gli urlarono da un interfono. Una porta di metallo sbatté alle sue spalle. Davanti a lui c’era un’altra porta chiusa, che lo bloccò in uno stretto corridoio. Se c’erano problemi, era lì che... La porta scorrevole si aprì con un cigolio. «Benvenuto al Dodge Correctional Institution», annunciò una guardia dal viso a forma di cuore. «È qui per il detenuto 619216?» Puntò una pila speciale sul dorso della mano di Marshall per accertarsi che al banco dell’accoglienza non gli avessero fatto un timbro luminescente. Marshall annuì, ben consapevole di non doverle dare altre informazioni. In una prigione, anche i muri hanno orecchie. «È già stato qui?» chiese la donna, aprendo un’altra porta e conducendolo fuori, nel gelido cortile. «È la prima volta», rispose lui, guardando il cancello galvanizzato con il filo spinato in cima. Persino con i magri fondi statali, avrebbero potuto fare di meglio. Giunta al grande edificio principale, la guardia prese un grosso anello pieno di chiavi e aprì un’altra porta di metallo. Sul suo polso sinistro, Marshall notò un rimasuglio verde sbiadito di tatuaggio di pianta rampicante rimosso con il laser. Magari fosse stato così facile cancellare tutti i rimpianti. «Si ricordi», disse lei, quando aprì la porta e una zaffata di piscio, ruggine e umori corporei li investì, «che è vietato parlare con gli sconosciuti.» Nel corridoio, alcuni detenuti in casacca verde scuro diedero un’occhiata a Marshall e si diressero a sinistra, seguendo i cartelli che indirizzavano verso la sala ricreativa e la palestra del carcere. «Da questa parte», aggiunse la guardia, conducendolo a destra, su per una piccola rampa, verso l’unico cartello che gli interessava: INFERMERIA Marshall sentì l’odore prima ancora che la porta si aprisse: Silverol, l’unguento per le ustioni. «Tutto bene?» domandò la guardia quando entrarono. «Se soffre di claustrofobia, le prigioni possono essere...» «Non soffro di claustrofobia», tagliò corto Marshall, contando le telecamere nascoste e sforzandosi di mantenere la concentrazione. A differenza dei corridoi del resto del carcere, che erano grigi, qui le stanze erano giallo chiaro, studiate per tirare un po’ su il morale.
Il cartello diceva INFERMERIA. Ma, anche se c’erano sorveglianti seduti a una piccola scrivania e la guardiola degli infermieri era protetta da un vetro antiproiettile, in realtà, assomigliava più a un ospedale. Sparsi per tutto il corridoio c’erano carrelli carichi di materiale medico, oppure di biancheria o cibo. Quando un detenuto del sistema carcerario del Wisconsin si ammalava, veniva portato qui. «Numero di letto?» domandò, da un interfono dietro il vetro antiproiettile, un’infermiera nera con un camice coperto di puffette infermiere. «Letto due», rispose Marshall. L’infermiera abbassò il mento, lanciandogli un’occhiata da funerale. «Samara, il paziente è in...» «Lo so dov’è», replicò la guardiana, avviandosi con Marshall al seguito. Si girò verso di lui e gli disse: «L’anno scorso è mancato mio zio. Cancro al colon». Marshall la ignorò, non era d’umore compassionevole. Superarono una stanza dopo l’altra lungo il corridoio; i pazienti erano tutti chiusi dietro porte di metallo munite di minuscole finestrelle quadrate. Le ultime due, invece, erano spalancate: lì erano ricoverati i malati terminali. Marshall non aveva più ghiandole sudoripare, ma il suo calore interno cominciò a divampare. A Beecher aveva raccontato praticamente tutto. Tranne questo. «La sta aspettando», annunciò la guardia, indicando la porta aperta. Marshall varcò la soglia, poi guardò di nuovo la donna, in attesa che se ne andasse. «Sono costretta ad aspettare in corridoio», si scusò lei. «Lo so, non è che potrebbe andare chissà dove...» Lanciando un’ultima occhiata alla telecamera di sicurezza all’angolo, Marshall entrò, investito da una zaffata di Silverol. Sul letto dormiva un anziano – aveva poco più di cinquant’anni, ma ne dimostrava almeno settanta – con il torace ampio e robusto e le braccia massicce. Da giovane era stato senza dubbio un uomo forte. Osservando la forma della coperta rimboccata, si capiva che gli mancava la parte inferiore delle gambe, dal ginocchio in giù. Doppia amputazione. I punti del collo dove un tempo erano infilati i tubi per la ventilazione e l’alimentazione erano coperti da cerotto bianco. Glieli avevano staccati pochi giorni prima. Secondo le infermiere, non sarebbe arrivato alla fine del mese. Marshall si avvicinò per osservare il volto dell’uomo: la consistenza flaccida e l’aspetto bitorzoluto della pelle, come cera di candela sciolta che scendeva verso il mento. Era coperto di ustioni. Tale padre, tale figlio. «Papà, mi senti?» disse Marshall, sapendo che non avrebbe ricevuto risposta. Secondo Beecher, il padre di Marshall era morto molto tempo prima. Non era così lontano dalla verità. «Papà, sono io.» Ancora nulla. A differenza di Marshall, l’uomo aveva perso quasi tutto il naso, ormai ridotto a una sporgenza molle e indefinita che assomigliava a un ditale bucherellato con un foro in cima. Senza il tubo, respirava a fatica dal naso, e ogni rantolo faceva oscillare avanti e indietro la pelle penzolante dall’orifizio, come una minuscola bandiera. Le orecchie erano conciate ancora peggio, due buchi frastagliati ai lati del cranio. Alla mano destra mancavano due dita. Gli avambracci erano lucidi e nodosi come il volto e completamente privi di peluria. Le ustioni, come quelle del figlio, non erano rosse, bensì chiare e vecchie, risalenti a un po’ di anni prima. Come la guardia con il tatuaggio cancellato aveva intuito istintivamente appena li aveva visti vicini, i due si erano procurati le ustioni insieme. E al vecchio era andata peggio. Molto peggio. «Ti piace la nuova sistemazione?» domandò Marshall, notando le pareti giallo brillante e le tende abbinate che avevano lo scopo di non far sembrare il reparto per i malati terminali quello che era in
realtà. C’era persino una TV, con alcuni film datati. Sì, certo, le finestre avevano le sbarre e il lavandino e il gabinetto erano un blocco unico di metallo, ma la stanza era comunque cento volte meglio di quella topaia nell’Ohio dove l’avevano lasciato marcire. Il presidente aveva mantenuto la promessa di farlo trasferire qui senza problemi. Marshall gliene sarebbe stato grato per tutta la vita. «Ti ho portato un DVD. Il tuo preferito», aggiunse, sollevando la custodia con l’immagine di Tim Robbins sotto la pioggia. Le ali della libertà. Sul letto, il padre aveva la testa girata di lato, la bocca spalancata, come in un grido perpetuo. «Ah, a proposito, ho conosciuto una ragazza. Una brava ragazza, stavolta», aggiunse Marshall, cercando di assumere un tono allegro, mentre accendeva la TV. Infilò il disco nel lettore e si lasciò andare sulla sedia a rotelle accanto al letto. Estrasse una fotografia dalla tasca: risaliva a vent’anni prima, quando era ancora ragazzino. Era una vecchia foto di classe, scattata ai tempi in cui lui, Beecher e Clementine frequentavano la scuola media. Ne aveva solo un pezzo, ritagliato dopo la morte di Clementine. Era l’unica immagine di lei che possedeva – una giovane Clemmi con i denti più sporgenti di quello che rammentava, insieme a lui, cicciotto e spaventato esattamente come nei suoi ricordi. Eppure erano proprio loro, in posa per la foto di classe: sorridenti e orgogliosamente fianco a fianco. Dovette fare uno sforzo immane per non rivedere i denti marci che le cadevano dalla bocca. «È decisamente speciale», disse Marshall a suo padre, il cui respiro pesante faceva oscillare avanti e indietro il lembo di pelle sul naso. «Ti piacerà sicuramente», concluse, mentre il DVD girava nel lettore e il film partiva. Per istinto, fece per spegnere le intense luci al neon. Poi ricordò: non c’erano interruttori. Le luci delle prigioni erano sempre accese, persino nel reparto dei malati terminali. «È una forza della natura, papà, proprio come te.» Ancora una volta, Marshall offrì al padre la possibilità di rispondere. Ancora una volta, non ottenne altro che il suo respiro pesante, con il lembo di pelle che vibrava sul naso. Marshall girò la sedia a rotelle verso la TV, dove la splendida voce baritonale di Morgan Freeman gli diede il benvenuto a Shawshank. Da anni, ormai, sapeva che sarebbe andata a finire così e che non sarebbe mai riuscito a rimediare a ciò che era successo a suo padre. Eppure ci aveva provato. E, grazie a Beecher, ora sapeva tutto quello che c’era da sapere sui Plankholders, sulla città dove erano cresciuti e sull’isola dove i loro padri erano stati sottoposti a esperimenti. Settimane dopo che la notizia era stata resa pubblica, aveva addirittura ricevuto dei soldi dal governo, anche se non era mai stata una questione di denaro. Per il resto, Marshall aveva tutto quello che voleva. Beecher gli aveva persino proposto di entrare nel Culper Ring e di collaborare alla sua ricostruzione. Non gli aveva ancora risposto, ma sapeva già cosa gli avrebbe detto. Aveva finito di combattere. Almeno per il momento. Per un’ora e mezzo rimase seduto sulla sedia a rotelle di suo padre, lanciando di tanto in tanto delle occhiate alla vecchia foto di Clementine e assaporando tutta l’ironia di guardare un film sulla fuga da una prigione, proprio nell’unica cella del carcere dove la porta era spalancata. «Ricorda, Red, la speranza è una cosa buona, forse la migliore delle cose... e le cose buone non muoiono mai», disse la voce di Andy Dufresne dallo schermo. Marshall amava quella battuta, benché sapesse quanto fosse menzognera. Le cose buone morivano in continuazione. Mentre la macchina da presa si sollevava sopra Andy e Red con la colonna sonora in crescendo, Marshall si alzò dalla sedia a rotelle e si chinò sul letto. «Papà, ci vediamo presto», mentì.
Ora aveva il respiro più pesante. Teneva gli occhi chiusi: dormiva profondamente. Piegandosi sull’orecchio mancante del padre, Marshall gli bisbigliò le due cose che aveva bisogno di sentire. Una era vera. L’altra era: «Sei stato un buon padre». Poi, mentre i titoli di coda del film cominciavano a scorrere, Marshall infilò la foto di Clementine nel pugno serrato del vecchio e uscì dalla porta aperta.
101.
St. Elizabeths Hospital Washington, D.C. Ci volle quasi una settimana perché Nico fosse rispedito al St. Elizabeths. Prima era stato in una cella del carcere di Miami, poi l’avevano trasferito all’ospedale, dove lo aspettavano tutte quelle troupe televisive e dove quell’inserviente ispanica gli aveva scattato delle foto con il cellulare, pensando che lui non se ne accorgesse. Nico aveva visto tutto. Ma non aveva detto nulla. A nessuno. Neanche sull’aereo, dove lo stavano aspettando i dottori, sempre lì a fissarlo con il loro portablocco in mano, mentre lo riconducevano al Saint Elizabeths e poi gli facevano fare la doccia con trattamento antipidocchi, a lui e a quel gatto bianco striminzito che si era portato dall’isola. Avevano cercato di portarglielo via, ma vedendo la sua reazione... alla fine il micio era rimasto. Pet therapy, l’aveva chiamata uno dei medici. Persino durante i due giorni nella «stanza silenziosa» con le pareti di vetro, dove lui e il gatto potevano essere tenuti sotto stretta osservazione, si limitò a pronunciare le poche sillabe necessarie ad attirare l’attenzione dell’uomo che spingeva il carrello con i succhi di frutta. Lo stesso valeva per la defunta first lady. Nessuno dei due era in vena di chiacchiere. “Almeno ti hanno ridato la tua vecchia stanza”, commentò lei, guardandosi intorno in quella camera spoglia nel reparto dei «non colpevoli per insanità mentale». Seduto a gambe incrociate sul letto a osservare il gatto che girava su se stesso in un angolo, Nico non rispose. “Ti hanno persino lasciato tenere la Bibbia. E il rosario. Per non parlare dei tuoi preferiti”, aggiunse guardando il calendario dei Washington Redskins sulla scrivania. Nico si rifiutò di guardarlo. “Suvvia, Nico, di’ qualcosa, cominci ad annoiarmi.” Ancora silenzio. La defunta first lady guardò l’orologio. Ah... erano quasi le quattro del pomeriggio. L’ora prevista. “Mi spiace che non ti abbiano permesso di andare al funerale”, disse la first lady. Nico alzò lo sguardo e lo riabbassò di nuovo. “Lo so che Clement...” «Ti prego di non parlare di lei. Ti prego», la implorò lui, con voce rotta. La defunta first lady era al suo fianco da un bel po’ di tempo ormai. Sapeva che non era il caso di insistere su questo argomento. Gli si sedette accanto sul letto. “Nico, la settimana scorsa, quando siamo tornati sull’isola... ho visto quei fascicoli. Ne ho anche letti alcuni. Dal punto di vista scientifico, erano veramente interessanti”, riprese, nella speranza che lui abboccasse. Non abboccò, ma la stava ascoltando. “Una delle ricerche si concentrava su un gruppo di pompieri”, spiegò. “Questo esperto di scienze
sociali stava studiando i cosiddetti eroi. Osservò le persone che si lanciano negli edifici in fiamme o che, in presenza di uno tsunami, si gettano in mare per salvare altre persone. Secondo questo studio, simili eroi possono essere individui impulsivi e polemici: non amano l’autorità e non esitano a infrangere le regole, soprattutto se pensano di essere nel giusto. Se li incontri nella vita reale, è facile che non risultino simpatici, anche se potenzialmente hanno enormi probabilità di compiere buone azioni.” «Perché mi stai raccontando queste cose?» domandò Nico. “Ascolta e basta. Nello stesso studio, quando analizzarono il corredo genetico e il cervello di questi coraggiosi eroi, scoprirono un’altra cosa: sai chi ha una mappa genetica quasi identica?” Fece una pausa, per vedere la reazione di Nico. “I sociopatici.” Lui drizzò la schiena e si girò. “Esatto”, continuò la first lady con un sorriso. “Impulsivo, polemico, odia l’autorità ed è disposto a rischiare la vita, se pensa di essere nel giusto. L’unica cosa che differenzia i due gruppi è il livello di empatia. Per il resto, tu e l’impavido eroe... siete praticamente gemelli.” Per un attimo, Nico rimase immobile, nel tentativo di metabolizzare l’informazione. «Ancora non capisco. Perché mi stai dicendo questa cosa?» “Perché è giusto che tu la sappia. Come hai detto a Beecher: la nostra anima ha una missione. Che continuiamo a perseguire finché non l’abbiamo portata a termine. È giunto il momento, Nico. Il momento di capire chi sei veramente. E che io mi congedi.” Nico controllò l’orologio sul comodino. Erano le quattro in punto. Sempre quattro. Stava per cominciare il funerale. Se lo stava perdendo. «In che senso, ti congedi?» Si guardò intorno nella stanza. Per la prima volta da anni, la first lady era scomparsa. «Signora...?» urlò Nico. Niente. «Signora, sei qui?» Confuso, balzò giù dal letto, facendo scappare il gatto sotto la scrivania. Controllò sotto la branda. Niente, c’era solo della garza. Gli si seccò la bocca; gli sembrava di avere il cuore piegato in due. Si girò verso la scrivania e poi verso la finestra infrangibile. No. “Non può essere.” Aprì freneticamente l’armadio. Vuoto. «Signora!» urlò. «Dove sei andata?» Ora il silenzio era un fischietto a ultrasuoni per cani che gli perforava il cervello. “No, non può essere vero... è impossibile.” Si diresse alla porta e fece per aprirla, quando d’un tratto... Udì un rumore sordo alle proprie spalle. Quel leggero spostamento d’aria che si avverte in presenza di un’altra persona. Si voltò e, appena la vide, rimase di sasso. Inspirò forte dalla bocca ed espirò sonoramente. “Dio mio.” Non riusciva a smettere di sbattere le palpebre, non poteva credere ai proprio occhi. La first lady era scomparsa e ora, al suo posto, c’era... “Ciao, papà”, disse Clementine, con un sorriso smagliante, perfetto. Le lacrime gli offuscarono la vista. Non riusciva a fermarle. «Come hai... Come è possibile?» “Te lo sei meritato”, rispose Clementine, di nuovo con i suoi capelli corti, neri. Praticamente risplendeva, tanto era bella. Prrrrr, fece il gatto, sbucando con la testa da sotto il letto. «Grazie, Dio, graz...» La porta si spalancò. «Nico, tutto bene?» chiese l’infermiera con l’alito allo yogurt. «Ti ho sentito
urlare.» «No, stiamo... Va tutto bene. Meravigliosamente», assicurò lui, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. A volte è la tristezza a farci piangere. Altre, la verità. “Non può vedermi, vero?” domandò Clementine, in piedi al centro della stanza, dove un attimo prima c’era stata la first lady. Nico scosse il capo, guardando di nuovo l’orologio. Erano le quattro. Sempre quattro. Proprio come Dio aveva promesso. «Stavo pensando al funerale di mia figlia», disse all’infermiera. «Vede... il funerale comincia proprio adesso.» L’infermiera con l’alito allo yogurt lo fissò. Non aveva niente da dire. «Voci interiori, vero? Mi dispiace per tua figlia. Ho letto l’articolo online... C’era scritto che ha dato la sua vita per fermare quell’uomo. Era una guerriera con le palle, da quello che ho capito.» La porta sbatté, e l’infermiera la chiuse a chiave da fuori. Nico aveva perso i suoi privilegi. Mail, telefono e visite private. Non importava. Continuò a scrutare attentamente la figlia. Nei suoi occhi c’era una luce che lui era convinto di non rivedere mai più. “Ha ragione, sai...” disse Clementine. “Sono una guerriera con le palle.” «Non c’è dubbio», rispose Nico, sorridendo fino a farsi seccare le gengive. «Sei mia figlia.»
102.
La Casa Bianca «Non mi interessa chi ci va o non ci va.» «Papà, è solo un pigiama party», lo sfidò la ragazzina con i boccoli castani che rimbalzavano con furia preadolescenziale. «Non è un pigiama party», ribatté il presidente, «visto che sono stati invitati anche dei maschi.» «Be’, e allora? Se fossimo solo femmine, andrebbe bene?» Wallace si strinse il ponte del naso fra indice e pollice. Era venuto qui – nel solarium all’ultimo piano della Casa Bianca – per lo stesso motivo per cui ci veniva anche George W. Bush: sfuggire allo staff, sedersi sul divano, guardare programmi sportivi e rilassarsi. Non aveva intenzione di lavorare. «Nessie, un giorno diventerai un ottimo avvocato. Quel giorno non è ancora arrivato.» La figlia incrociò le braccia sul petto come faceva sua madre. Stava scattando la DEFCON 1: condizione di prontezza difensiva di primo grado. «Lo so perché sei preoccupato. Credi che non sappia niente di sesso.» «Non ripetere più quelle parole. Non in questa discussione.» «La mamma di Jacob...» «E se parli della mamma di Jacob, o di Jacob, o persino di un suo animaletto domestico, faccio espellere tutta la famiglia dal paese. Posso farlo. Trecento milioni di americani mi hanno conferito questo potere.» «Ti piacerebbe, ma ormai non vota più nessuno.» Il presidente si mise a ridere e a urlare allo stesso tempo, preparandosi a dire una cosa che l’avrebbe fatto apparire ridicolo come suo padre, per quanto si sforzasse di evitarlo. Qualcuno venne a salvarlo bussando alla porta. «Signore, mi scusi se la disturbo a quest’ora...» Un agente dei servizi segreti dai folti capelli neri si affacciò alla porta. Christian Deutsch. Era nuovo, ma sapeva molto bene che cosa rischiava, per aver disturbato il presidente mentre era in compagnia dei suoi figli. «È qui? Lo faccia entrare», disse Wallace, felice della distrazione. Christian spalancò la porta, accompagnando A.J. nella stanza. «Nessie, ho bisogno di alcuni minuti per parlare. In privato.» La ragazzina non si mosse. «Se me ne vado, ci pensi ancora un po’ su per il pigiama party?» «Ti prometto solennemente che farò finta di farlo», rispose il presidente degli Stati Uniti. «Va bene», disse Nessie correndo verso la porta. «Ciao, A.J.», aggiunse, sapendo che a suo padre dava molto fastidio che lei conoscesse i nomi degli agenti. Mentre la figlia usciva dalla stanza, il presidente fece un cenno a A.J., che chiuse la porta a chiave, lasciando fuori Christian. Persino nella residenza, c’era sempre gente che origliava. «Signore, so che è tardi, ma...» «Non ti scusare, ti ho invitato io», tagliò corto Wallace, indicando la poltrona di vimini vicino al divano. Era in questa stanza, la più informale della Casa Bianca, che i Clinton, i Bush e gli Obama guardavano
la televisione. L’attuale inquilino della Casa Bianca non era diverso. «Il Michigan continua a vincere?» domandò A.J., riferendosi alla partita di basket in corso fra Michigan e Iowa, senza però staccare gli occhi dal presidente. «Prima sì, prima che mia figlia venisse a chiedermi se poteva infangare il nome della famiglia a casa di Jacob. Secondo te, sono pazzo? A questa età è giusto che facciano pigiama party con maschi e femmine insieme?» «Immagino che i genitori di Jacob non abbiano figlie femmine...» «Esatto. Esatto!» concordò il presidente, scoppiando a ridere. A.J. si sforzò di sorridere. Era la prima volta che vedeva Wallace, dalla sera in cui Francy l’aveva messo alla prova nella cripta. La risata era un buon segno. «Allora... ha detto che voleva vedermi, signore?» «Volevo solo sapere come stai. E dirti che fra due settimane, quando Riestra avrà avuto quel che gli spetta, tornerai nella mia scorta. Ti rivogliamo in posizione uno.» A.J. si sporse in avanti, sul punto di esplodere per l’eccitazione. «È davvero fantastico! Grazie... grazie infinite, signore! Non la deluderò.» «Non la deluderò di nuovo.» «Non la deluderò di nuovo», ripeté A.J. «Glielo giuro.» Il presidente continuò a guardare la partita del Michigan senza dire nulla. «Signore, so che ho fatto una cazzata. Solo che il direttore Riestra...» «Il direttore Riestra è un rompicoglioni. Ma sulla base di quello che sappiamo adesso, stava solo facendo il suo lavoro. Io sto facendo il mio», sottolineò il presidente. «Sai quanto sia fondamentale essere circondati da persone fidate.» A.J. annuì, quelle parole furono per lui come un pugno nello stomaco. «Insomma, immagino che da ora in poi filerà tutto liscio, vero?» domandò il presidente, anche se non era affatto una domanda. «Signore, so di non aver fatto una buona impressione, ma quando ho lasciato andare Beecher...» «Credi che mi freghi qualcosa di Beecher? Il problema è il casino in cui ci hai messo. Hai agito da solo! Hai ignorato tutto quello che ti avevamo detto!» «Mi aveva detto di essere intraprendente.» «Sì, intraprendente. Come...» Il presidente si interruppe, consapevole della pericolosità della propria rabbia. Fissava attentamente la TV, premendo le labbra una contro l’altra. «A.J., vedi queste squadre di basket? Da tutti i giocatori di questo livello ci si aspetta intraprendenza. È così che si vince. Ma anche quando sono convinti di giocare un’ottima mano, non li vedrai mai tirare da metà campo. Secondo te, perché?» A.J. era abbastanza furbo da tacere. «Perché esiste un libro degli schemi di gioco», spiegò Wallace. «E quel volumetto contiene una regola non scritta: ogni tiro deve essere intelligente.» «Signore, glielo giuro, stavo cercando di agire in modo intelligente. Quando Ezra si introdusse qui dentro per la prima volta, lei disse che non si fidava più dei servizi e che, se qualcuno l’aveva lasciato entrare, avremmo dovuto informare Beecher e il Ring. Del resto, questa è la sua funzione da secoli, intervenire in soccorso della presidenza. Ma persino lei concordava sul fatto che Beecher non ci avrebbe mai aiutato...» «...a meno che non avesse un motivo personale per farlo. Sì, ricordo. Ma non per questo prendi due braccia mozzate e le seppellisci nel dannato Rose Garden e a Camp David! A parte il fatto che a momenti facevi venire un infarto a mia moglie: come puoi pensare che la soluzione migliore sia far sì che le
massime cariche dei servizi segreti comincino a passare al microscopio tutto quello che facciamo?» «L’altra volta ha detto che i Cavalieri si erano infiltrati nei servizi. Non era forse quella la priorità: cercare di capire fin dove Ezra fosse arrivato?» Wallace non poté obiettare. Quando Ezra era entrato alla Casa Bianca con la carta d’identità falsa intestata a Lee Harvey Oswald... non sapevano se avesse aggirato da solo i controlli della security o se qualcuno all’interno dei servizi gli avesse tenuto la porta aperta. «Per quanto riguarda le braccia sepolte... avevo pensato che ci avrebbero fatto capire da che parte stessero Riestra e tutti gli altri», spiegò A.J. «Dopo di che... come voleva lei... avremmo indotto Beecher e il Ring a giocare nella nostra squadra, anziché contro. E così è successo, no?» Sullo schermo, uno dei giocatori dell’Iowa mandò a segno un facile tiro in sottomano. «A.J., sei un bravo investigatore», riconobbe alla fine il presidente. «Hai individuato Ezra sin dalla prima volta che è entrato qui dentro. Hai esaminato la sua vita nei minimi dettagli; hai trovato il suo coinquilino morto; sei persino riuscito a scoprire dove l’aveva nascosto. Ma per quanto riguarda Beecher, se ha deciso di unirsi a noi è solo perché gli ho raccontato una bugia, dicendo che nel pugno del tuo braccio così drammaticamente sepolto era nascosto un vecchio penny.» Alla TV uno dei giocatori del Michigan fece uno splendido canestro da tre punti. «Capisci che cosa ti sto dicendo?» aggiunse il presidente. «Lo scopo era impedire a Ezra di ricostituire i Cavalieri. Lo scopo era scoprire con chi altro lavorasse. E, sì, anche quello di fare in modo che Beecher la smettesse di mordermi il culo, anziché lasciarsi condurre al guinzaglio. Alla fine, però, quel penny da due grammi e mezzo rivestito di rame ha fatto molto di più per la mia causa che le tue temerarie iniziative personali: sotterrare stupidamente un corpo smembrato e mettere in stato di massima allerta i responsabili della sicurezza della Casa Bianca.» «Era necessario che fossero in stato di massima all’erta. E se Ezra e i suoi Cavalieri avessero deciso di aggredire Lei? Non sapevamo con chi collaborasse. Se vuole chiamare Beecher, va bene. In fondo, il Culper Ring esiste per questo. Ma continuo a non capire perché pensasse che il Ring potesse proteggerla più di quanto fossi in grado di fare io. Senza offesa, signore, ma mi ha chiesto di risolvere un problema ostico. Ho pensato che necessitasse di una soluzione altrettanto ostica.» Il presidente continuò a fissare la TV e tacque. Per un attimo, A.J. rimase lì seduto a guardarsi intorno nel solarium. «Signore, non vorrei cambiare discorso, ma ricorda l’ultima volta che c’è stata un’emergenza in questa stanza?» Di nuovo, Wallace non rispose. «Fu quando a George W. Bush andò di traverso un pretzel. Lo rammenta? Era qui nel solarium a guardare una partita di baseball, trangugiando pretzel e crocchette di pollo come se fossero noccioline. All’improvviso, un pretzel gli va giù troppo in fretta e lui cade a terra, paonazzo e privo di conoscenza. Immagini la situazione: ci sono decine di gruppi terroristici che vogliono tagliargli la gola e il leader del mondo libero sta per essere fatto fuori nella sua residenza privata da un pretzel Rold Gold. » «Vai al punto, figliolo. In fretta.» «Il punto è, signore, che nelle settimane seguenti, i servizi segreti avviarono un’indagine di ampissimo respiro che durò mesi, per cercare di prevenire incidenti di questo tipo. E sa quale fu la loro soluzione? Quella», disse A.J. indicando un piccolo pulsante sulla parete che assomigliava a un campanello d’ingresso. «Installarono un sistema d’allarme. Se un presidente si sente male, preme il bottone. Sa però qual è il problema?» «Il problema è che il sistema non impedisce di soffocare con un pretzel.» «Esatto», rispose A.J. «È proprio questo che sto cercando di dire, signore. Per certi problemi – soprattutto di natura umana – non esistono soluzioni facili. Chiedo umilmente scusa per aver turbato la
signora Wallace.» «Voleva ucciderti. Davvero. Continua a dormire male.» «Ed è colpa mia. È stato un errore imperdonabile. Questo però non significa che non mi faccia in quattro per garantire la sicurezza sua e della sua famiglia.» Alla TV l’allenatore dell’Iowa stava urlando contro un arbitro, mentre il Michigan cominciava a prendere il largo. «A.J., perché ti riservo un trattamento particolare?» domandò il presidente. «Come, prego?» «Ho migliaia di agenti. Perché a te riservo un trattamento particolare?» «Perché si fida di me, signore.» «Perché mi fido di te. Perciò se esci di nuovo dallo schema di gioco...» «Non lo farò.» «Ma se invece lo fai...» «Le prometto, signore, che non lo farò.» Il presidente annuì, continuando a guardare la partita. «Sono felice che ci capiamo. Bentornato a casa.» Mentre si alzava dalla poltrona di vimini, A.J. ringraziò il presidente e uscì in fretta dalla stanza. Wallace rimase lì in silenzio per alcuni minuti, finché il match non si fermò per l’intervallo tra il secondo e il terzo quarto. Estrasse il cellulare dalla tasca e si avvicinò alle ampie vetrate del solarium. Ignorando la magnifica vista sul Washington Memorial, concentrò lo sguardo sul South Lawn, ora in ombra. A differenza della Casa Bianca stessa, il prato non era illuminato di notte, fatta eccezione per la fontana. Mentre però digitava uno dei pochi numeri che conosceva a memoria, non poté fare a meno di lanciare un’occhiata verso il Rose Garden. Da quella angolazione non lo poteva vedere, ma lo sentiva. Sua moglie era inginocchiata lì sotto, di nuovo al lavoro nel giardino. Erano tornati alla normalità. Su tutti i fronti. «Come è andata?» disse subito Francy, senza lasciar finire il primo squillo. «Ha detto tutto quello che andava detto. Ha fatto del suo meglio. Vorrei che non avesse seppellito quelle braccia.» «Teme che vada a raccontare tutto in giro?» «È un’eventualità che non può essere ignorata», rispose il presidente degli Stati Uniti, volgendo lo sguardo in basso, verso sua moglie. Che parole aveva usato A.J.? Un errore imperdonabile. «Se parla, siamo finiti.» Francy non aggiunse altro. Si limitò a terminare la chiamata.
103.
Due ore dopo Old Town, Alexandria, Virginia «Ti hanno dato una promozione?» «Non è una promozione», rispose A.J., appoggiando il telefono sul volante e parlando al microfono mentre sfrecciava accanto ai bar di Old Town. «Una conferma, più che altro. È andata bene. Vale la pena di festeggiare.» «Ah, allora è per questo che chiami?» domandò Angela. «Per far festa e vedere se mi lascio portare a casa tua?» «Non essere così dura. Sono un uomo moderno. Se vuoi, puoi portarmi tu a casa tua.» All’altro capo della linea, Angela rimase in silenzio. «Angie, stavo scherzando...» disse lui, rendendosi conto di non aver telefonato a questa splendida e superpaziente decoratrice per due settimane di fila. Non poteva darle torto. Con tutto quello che era successo, A.J. aveva fatto l’errore in cui incorrono tutti i dipendenti della Casa Bianca: aveva lasciato che la vita del presidente diventasse la sua stessa vita. Quella sera, però, era determinato a cambiare le cose. «Non voglio accampare scuse. Ti dico solo questo: stasera al Basin Street Lounge fanno jazz dal vivo e potremo ridere di tutti quelli che portano maglioni con il collo alto. E poi ho appena comprato mezzo chilo di gelato ai lamponi con scaglie di cioccolato. Mi rimetto alla tua decisione.» Mentre entrava nel garage del palazzo in fondo a Fayette Street in cui abitava, A.J. non aveva nessun gelato. Non aveva neppure idea se al Basin fosse in programma jazz dal vivo. Ma se aveva imparato una cosa nell’anno trascorso con Wallace, era che il modo migliore di ottenere ciò che si vuole è aiutare gli altri a ottenere quello che vogliono. «Mi mangerò il tuo gelato», rispose Angie. «In senso letterale, non figurato.» «So che hai un debole per il gelato e sono d’accordo con te», disse A.J. infilandosi in un posto auto libero. «Sono appena arrivato a casa. Dammi il tempo di cambiarmi. Ci vediamo al Basin?» aggiunse, chiudendo gli occhi e sperando che lei non avesse subodorato il bluff. «Non sono dell’umore giusto per contare colli alti. Porta il tuo gelato. Io ci metto la crema al cioccolato calda. Di nuovo, in senso letterale. Ce l’ho a casa. Possiamo metterla nel microonde.» «Affare fatto. A fra poco», concluse A.J., concedendosi di stringere il pugno in segno di vittoria. Mentre spegneva il telefono e il motore, stava ancora pensando alla conversazione con il presidente. Era stata dura in certi momenti? Poco ma sicuro. Ma Wallace era rimasto lì seduto; e lo aveva ascoltato; alla fine, neppure lui poteva negare che i risultati c’erano stati. Ezra era stato fermato, Beecher neutralizzato e, almeno per un giorno, regnava la pace. Soprattutto, A.J. sarebbe tornato in posizione uno. «Bentornato a casa», aveva detto il presidente. Bentornato a casa. Mentre apriva la portiera con il gomito, continuando a sentire quelle parole in testa, A.J. prese un profondo respiro, talmente immerso nel familiare odore di benzina del garage da non accorgersi neppure del giovane dai folti capelli neri che lo stava aspettando con una siringa in mano.
Fu l’ultimo respiro della sua vita. L’agente dei servizi segreti Christian Deutsch, dopo avergli ficcato l’ago direttamente nel petto, premette lo stantuffo della siringa. A.J. perse la sensibilità al braccio destro e fu scosso da spasmi in tutto il corpo. Dopodiché, la luce scomparve dai suoi occhi. Tutto qui. La sostanza chimica era il fentanyl. Neppure un medico legale esperto sarebbe stato in grado di rilevarne la presenza, a meno che non l’avesse cercato specificamente. In compenso, avrebbe trovato altri segni compatibili con un infarto improvviso. «Troppo stress al lavoro», sarebbe stato il commento dei suoi amici più stretti. Mentre riadagiava il corpo di A.J. sul sedile dell’auto, Christian non era orgoglioso della decisione. D’altra parte, sapeva che se avessero avuto alternative non avrebbero mai fatto una simile richiesta, tanto meno a lui. Il padre di Christian aveva frequentato le superiori con Wallace, praticamente era come un parente per lui. Eppure, quando Christian aveva fatto domanda per entrare nei servizi, non aveva approfittato di quel collegamento. Voleva distinguersi da solo. Proprio come aveva fatto A.J. tanti anni prima. Christian riascoltò mentalmente le loro parole. Non avevano scelta, gli avevano spiegato, e lui aveva capito. Senza lealtà, non poteva esserci pace. Estrasse il cellulare e compose il numero che Francy gli aveva fatto imparare a memoria. Squillò tre volte prima che rispondesse qualcuno. All’altro capo della linea, nessuno disse “pronto”. Neppure Christian parlò. Il messaggio era chiaro. Almeno per il momento, i segreti erano salvi. E anche il presidente Wallace.
104.
Washington, D.C. «Come sta?» domando all’infermiera che predilige i bagel ai semi di papavero. «Sempre uguale», risponde lei, sapendo che è troppo tardi per la colazione. «E tu stai bene?» aggiunge, mentre mi dirigo al mio posto abituale nel reparto di terapia intensiva. «Hai un’aria stanca.» A volte me lo dimentico: le infermiere sanno riconoscere il dolore meglio di chiunque altro. «Sto bene. Solo che ho avuto una settimana pesante al lavoro.» «Non sei per niente bravo a raccontare bugie, Beecher. Ma, se ti fa sentire meglio, sono certa che lui apprezzi le tue visite.» La ringrazio con un cenno del capo e mi fermo davanti alla porta a vetri della stanza 355. All’interno, Tot ha gli occhi chiusi, la pelle grigia, i palmi rivolti in alto e la bocca spalancata come un urinale: tale e quale a come lo avevo lasciato. Faccio un profondo respiro, tocco la fibbia della cintura di Kenny Rogers e... «Okay, pronto ad ascoltare il momento più alto della storia della musica country? Eh, sì, intendo anche le Dixie Chicks che posano nude sulla copertina di “Rolling Stone”», annuncio ad alta voce, entrando deciso nella stanza e avvicinandomi al letto. L’unica risposta di Tot è il sibilo automatico del ventilatore. Un filo d’aria scuote il tubo respiratore a fisarmonica che ha nel collo. «Ah, no, okay, hai ragione; forse la decisione di Billy Ray di fare una “parte seconda” di Achy Breaky Heart non è da meno... Ma aspetta un attimo, senti qui», gli dico. «Per la gioia delle tue orecchie: Kenny Rogers e Kris Kristofferson – insieme – in concerto. È come È nata una stella con due uomini e senza la Streisand. È il paradiso della musica country.» Estraggo dalla tasca un vecchio iPod grigio metallizzato. Sto per scambiarlo con quello nero infilato nello stereo del carrello, ma poi, all’improvviso, mi blocco. Guardo Tot. La curva e violacea cicatrice su un lato della sua testa è più raccapricciante che mai. Mi infilo l’iPod di nuovo in tasca, estraggo il telefono e passo alla mia musica. The Gambler l’abbiamo sentito abbastanza. È ora di cambiare. «Su, smettila di lamentarti, vecchio rompiballe. Almeno prova ad ascoltarla», dico a Tot. Il ventilatore pompa la solita risposta. «E ora... ti presento i terribili quattro, i banditi di Detroit che amano il rock urlato, il trucco pesante e stanno per mandarti in estasi... Ecco i Kiss, live al Los Angeles Forum: il Dynasty Tour del 1979!» Insieme al boato del pubblico e all’ossessivo pulsare della batteria, Rock and Roll All Nite prorompe dall’altoparlante del cellulare. «Mi stai giudicando, vero?» domando a Tot. «Non farlo. Quando furono accolti nella Hall of Fame del Rock and Roll, qualcuno disse che i Kiss non erano mai stati una band dei critici, bensì del popolo. Infatti, a questo concerto, Ace Frehley sparò razzi dal manico della chitarra. Veri razzi pirotecnici, dalla chitarra! A un certo punto dello spettacolo, fecero volare in aria una chitarra e Ace l’abbatté con la sua lanciarazzi! Vediamo se The Gambler è capace di fare una cosa simile! Saranno anche chiassosi e infantili, ma a volte hai bisogno di essere chi sei senza dover chiedere scusa a nessuno.»
«You drive us wild, we’ll drive you craaaazy», cantano i Kiss dal mio telefono. «Lo senti? Non è solo nostalgia. È il cuore che batte, che urla che sei vivo. È una figata, vero?» domando, sedendomi sulla sedia di vinile accanto al suo letto e afferrandogli il palmo aperto. «Dai, Tot, che è la tua occasione. Devi stringermi la mano.» Tot non stringe. «Ce la puoi fare. Lo so», insisto, premendo un po’ più forte. La sua mano sembra senza vita nella mia. «Bene. Non mi dai alternative. Guarda questa...» Dalla tasca della giacca estraggo la foto di una donna con un golfino nero. «Verona. Del reparto risorse umane. Con un pullover più attillato che mai», spiego, infilando la foto nel pannello della sponda del letto d’ospedale.» L’ho scattata di nascosto con il telefonino, e ti assicuro che ci sono quattro impiegati degli Archivi che pagherebbero per avere questa fotografia. Se apri subito gli occhi, ti saluterà come un sole nascente dalle grandi tette.» La mano di Tot rimane inerte. Non è che mi aspettassi altro. Io, comunque, rimarrò qui per tutto il tempo che ci vorrà. «A proposito, oggi ho visto Wallace. Orribile, come al solito. Ha un ego terrificante. Non cambierà mai. Crede davvero di avermi preso in giro, come se non sapessi che è stato lui a mettere il penny nella mano morta. Ma se sto al gioco, almeno per ora, la smetterà di perseguitarci.» Mi chino su Tot e bisbiglio: «Vuoi sapere il mio grande segreto? Non smetterò mai di tormentarlo». Il misuratore automatico di pressione arteriosa si stringe intorno al braccio di Tot. Gli altri monitor cominciano il loro coro di bip e ping. «Ma la cosa più importante è che abbiamo fermato il più cattivo di tutti: Ezra, con i suoi cosiddetti Cavalieri», aggiungo, anche se mentre le parole mi escono di bocca vedo solo la bara di Clementine al funerale di oggi. Non c’è dubbio: il Culper Ring è potenzialmente in grado di fare tante cose buone. Mi spiace solo che Tot non mi abbia avvisato che può anche fare tanto male. «Lo so», continuo, «più parlo con te, più mi rendo conto di assomigliare a Nico con la sua amica immaginaria.» Nel bel mezzo della canzone dei Kiss, si sente un botto. «Eccoci... fuochi d’artificio!» urlo. La folla prorompe in grida sguaiate che mi trasformano nel ragazzino di dodici anni che ascoltava questa canzone insieme a Marshall nella casetta sull’albero. Quando avevano appena sparato a Tot, i medici mi avevano detto di fargli ascoltare la sua musica preferita, spiegandomi che la gente ama le vecchie canzoni perché sa che cosa aspettarsi. Quando comincia un pezzo di cui conosci tutte le parole, ti metti subito a cantare mentalmente. Secondo i neurologi, questo procura un senso di sicurezza impossibile nella vita reale, così piena di incognite. «Prova a immaginare», aveva detto il medico. «Scendere da uno scivolo di solito è divertente. Ma se ti bendassi gli occhi e tu non sapessi di essere in cima a uno scivolo e all’improvviso io ti dessi una spinta, di sicuro urleresti: “Ma che cavolo sta succedendo!?”. La scivolata è la stessa, le reazioni sono diverse», aveva spiegato il dottore. Eppure, più stringo la mano fredda di Tot, più mi rendo conto che è impossibile sottrarsi all’ignoto, con le canzoni o con qualsiasi altra cosa. Degli imprevisti ci saranno sempre. E anche le persone che ti amano. Estraggo una penna a sfera, gli giro la mano verso il basso e mi appresto a premere la punta sul suo letto ungueale per mettere alla prova i suoi riflessi. Sono mesi ormai che rovisto nel passato, che esploro la storia più folle e complessa che ci sia: quella di famiglia. Avevo immaginato che scoprire la verità su mio padre mi avrebbe procurato certezze, eliminando l’ignoto. Ma ora che l’ho scoperta non mi sento affatto meglio di prima. Anzi, finché ho
cercato il padre che non ho mai avuto, non sono sicuro di aver apprezzato pienamente quello che ho. Premo la punta della penna sotto l’unghia di Tot. Il dolore gli fa ritrarre la mano. È decisamente ancora lì dentro. «Pensi che abbia finito di cercare di corromperti, vecchio mio? Sta per arrivare il giorno del papà, e finché camperanno, i Kiss continueranno a fare tournée. Al Verizon Center. Questo agosto. Tu e io, in terza fila. Lanceremo le mutande sul palco: o magari qualche oscuro documento storico.» Il ventilatore concorda con un sibilo. La macchina fa ping. E i Kiss continuano a suonare rock and roll per tutta la notte. Mentre tengo la mano di Tot, le dita hanno uno spasmo leggero, come succede sempre dopo che ho schiacciato l’unghia con la punta della penna. È una reazione allo stimolo doloroso. Ma stringendo più forte, sento qualcosa. Le sue dita si muovono più di prima. Non di molto. Ma quanto basta. «È l’idea di lanciare documenti storici che ti ha mandato nel panico, vero?» gli chiedo. Tot non risponde. Non ancora. Ma alla fine lo farà. «Certo che tu li conosci, i posti più romantici», dice una voce femminile dal corridoio. Mi giro nell’istante in cui Mina entra nella stanza, torcendosi per togliere il soprabito. Indossa un bellissimo maglione antracite fatto a maglia e stivali neri che la fanno sembrare ancora più alta di quello che è. «Per la mamma di Abramo Lincoln! Hai messo i Kiss?» domanda. Prima che possa rispondere, il suo sorriso illumina la stanza. «Questa canzone mi piaceva moltissimo!» «Ti piaceva?» la sfido. Lancia un’occhiata a Tot. «Sembra messo meglio dell’altra volta.» «Sì, vero?» dico, ancora seduto sulla sedia di vinile, tenendo la sua mano. «Se vuoi, possiamo restare qui.» «No, non importa. Sa che tornerò domani. Inoltre, lui stesso mi ha detto di non rifiutare mai un appuntamento a cena con una donna bellissima.» «Cena? Avevo capito che avessi in mente qualcosa di speciale.» «Infatti. Quando abbiamo finito, ti faccio fare un giro degli Archivi completamente nuovo. Le luci della cripta dei tesori sono regolabili. Ti leggerò le bozze iniziali del Proclama di Emancipazione di Lincoln, così vedremo quali cambiamenti ha apportato dopo.» Lì in piedi, Mina mi guarda. «Beecher White, sei il secchione più sexy che abbia mai conosciuto in vita mia. Tu sì che sai come eccitare una ragazza!» Scoppio a ridere e mi alzo. Do a Tot un lieve bacio sulla fronte. «Te l’ho detto, no? Puoi rifarti le tette, ma non il cervello.» «A proposito», domanda Mina, mentre la seguo nel corridoio dell’ospedale, «perché c’è una mia foto con il golf nero sulla sponda del letto di Tot?» Sorrido. «Non so assolutamente di cosa tu stia parlando.» Su una cosa Nico non si sbagliava: la nostra anima ha una missione. Che perseguiremo finché non l’avremo portata a termine. Per tanto tempo avevo immaginato di sapere quale fosse la mia: scoprire la storia della mia famiglia. Ogni giorno dimostro alla gente il potere della storia. Ma questa possiede solo il potere che le attribuiamo noi. Mentre ci avviamo all’ascensore, mi giro per lanciare un’ultima occhiata a Tot; poi guardo di nuovo Mina. Forse non riuscirai mai a far pace con tuo padre. Ma puoi sempre far pace con te stesso.
RINGRAZIAMENTI
Tutte le volte che scrivo un romanzo, mi convinco di raccontare una storia che parla di personaggi immaginari. Verso la fine, però, capisco immancabilmente che l’unica storia che sono in grado di raccontare con sincerità è la mia. Negli ultimi anni, io e la mia famiglia abbiamo passato momenti difficili. Entrambi i miei genitori sono mancati e poi, quando pensavo di aver finalmente superato il trauma, sono arrivate le scosse di assestamento, con l’inevitabile ricerca di identità che le accompagna. Ora lo so: non mi riprenderò mai dalla tristezza di aver perso i miei genitori. E neppure lo voglio. Meritano di essere ricordati. Me l’hanno insegnato questo libro e tutti i suoi personaggi. Ancora una volta ti ringrazio, caro lettore, per aver reso possibili questi romanzi. Sono immensamente debitore anche alle seguenti persone: la mia first lady, Cory, che ha lottato con me e per me, aiutandomi a superare le difficoltà. Cory, sei il mio grande amore. Per te combatto tutti i giorni e la tua influenza pervade ogni pagina di questo libro. Sono così felice che tu ci sia. Jonas, Lila e Theo saranno sempre per me la più grande benedizione. Penso di essere io a insegnare a loro tre, e invece nessuno più di loro, a questo mondo, mi ha illuminato su me stesso. Vi amo con tutte le mie forze. Jill Kneerim, mia amica e agente, questo libro lo dedico a te. Sei stata tu a puntare su di me, quella prima volta, quando avevo ventitré anni. Lungo il cammino della nostra amicizia mi hai dato grandi lezioni di scrittura e di civiltà. A ogni bozza che rileggi, mi metti alla prova. Questo libro è la massima espressione dei tuoi insegnamenti. Ringrazio anche Hope Denekamp, Lucy Cleland, Ike Williams e tutti i nostri amici della Kneerim, Williams & Bloom Agency. Inoltre, rivolgo un benvenuto ufficiale nella nostra famiglia all’inarrestabile Jennifer Rudolph Walsh e a tutti i collaboratori della WME. Ammiro molto il vostro lavoro e mi auguro che ci siano tante occasioni come questa. Questo libro parla del potere e dell’attrazione emotiva della famiglia, ma anche della sua definizione. Perciò devo ringraziare mia sorella Bari, l’unica persona che sappia ridere e piangere con me della meravigliosa follia dei nostri genitori, e anche Bobby, Ami, Adam, Gilda e Will, che ci sono sempre vicini. Ora vi dico chi è stato a darmi una nuova definizione di famiglia: Noah Kuttler. Non esiste persona più leale, fidata e disponibile di lui. Posso dire in tutta onestà che c’è sempre quando ho bisogno di lui: questa è la definizione di famiglia a cui tutti dovremmo aspirare. Per questo ti voglio bene, Noah. Ethan Kline mette la sua grande mente letteraria al servizio di tutti i miei libri, conferendo loro la forma migliore. Dopodiché Dale Flam, Matt Kluttler, Chris Weiss e Judd Winick leggono le prime bozze e, con tutta la sincerità necessaria, mi aiutano a trasformare le pagine in un libro vero e proprio. Non avrei mai potuto descrivere il mio presidente immaginario senza il cortese aiuto del presidente George H.W. Bush, che risponde sempre alle mie domande con estrema gentilezza. Un grazie speciale alle first lady Barbara e Laura Bush, e alla straordinaria Jean Becker, per avermi aiutato a modellare le consorti di fantasia. A questo punto, spero che il mio amore per gli Archivi Nazionali risulti chiaro a tutti. Il mio lavoro, però, non sarebbe stato possibile senza l’aiuto dell’archivista degli Stati Uniti David S. Ferriero, la cui amicizia è stata preziosissima. È un ospite senza uguali (e – lo ammetto – prepara pancake migliori dei miei). Sempre agli Archivi Nazionali (se non ci siete mai stati, andate a visitarli), Matt Fulgham, Chris Isleib, Miriam Kleiman, David Mengel, Trevor Plante e Morgan Zinsmeister mi hanno ancora una volta
aiutato a tirar fuori il mio Beecher interiore. Qualunque domanda ponessi, loro conoscevano la risposta. L’amicizia che mi hanno offerto è una delle cose più preziose al mondo per me. Sempre per quanto riguarda gli Archivi, ulteriori ringraziamenti vanno a Jay Bosanko, John Fitzpatrick, William Carpenter e William Cira, che hanno condiviso con me le ultimissime novità illustrate nei primi capitoli. Ringrazio inoltre John Laster, Jana Dambrogio, Jon Deiss e il compianto John E. Taylor. In ogni libro, c’è una persona che fa persino di più di ciò che è tenuta a fare; in questo caso, si tratta di Scott Deutsch. Quando avevo tredici anni e mi trasferii in Florida, non avevo amici. Scott fu uno dei primi a essere gentile con me. Quando traslocò perdemmo i contatti per anni, finché non scoprì che un soldato della sua unità, in Iraq, stava leggendo uno dei miei romanzi. Quel libro portò a un nostro nuovo incontro, e lui è diventato il vero consigliere militare di questa mia missione. Ti ringrazio per la gentilezza che mi dimostrasti tanti anni fa e per tutto quello che hai fatto in questa nuova occasione per la messa a punto degli aspetti militari. Questo libro è stato inoltre profondamente influenzato dalla mia amica ed eroina Rochelle Shoretz, che mi ha messo a parte dei dettagli più personali della sua malattia; dove si parla di Clementine, in realtà, la storia a cui mi ispiro è quella di Rochelle. Ti voglio bene per la fiducia hai avuto in me, Roch. Ringrazio, inoltre, Eljay Bowron, Jim Mackin, Max Milien, Mike Sampson ed Emily Karcher per avermi dato ulteriori motivi per ammirare il fantastico lavoro dei servizi segreti. Un ringraziamento straordinario va poi a Nancy Russell, Dan Kimball e Glenn Simpson, per i particolari su Fort Jefferson: hanno risposto con pazienza a ogni più insulsa domanda e, così facendo, mi hanno ispirato il finale; a Dan Ariely (andatevi a guardare i suoi TED Talk) per avermi parlato nei dettagli delle sue ustioni e della sua esperienza in ospedale: spero solo di avergli reso giustizia. A Mike Ressler per le informazioni sulla banda dei marines; a Ruth Martin, per il pollice verde; a Mike Workman, per la sua competenza in materia di esplosivi; ai miei amici fidati Art DeHoyos e Dean Alban, per la loro visione storica; ai dottori Lee Benjamin, Michael Lemont, David Sandberg, Michael Steckbauer e Ronald K. Wright, per avermi aiutato a massacrare e uccidere con autorevolezza. Ulteriori informazioni mi sono giunte da Cris Alvarez, Kurt Bromund, Alan Brown, Paul Castronovo, David Funder, Wayne Greene, Gary Greenspan, Michael Rogers, John Ryan, Jean Twenge e Dan Watson; e sono riconoscente al resto della mia cerchia più intima, che disturbo per ogni mio libro: Jo Ayn Glanzer, Jason Sherry, Marie Grunbeck, Chris Eliopoulos, Nick Marell, Brad Desnoyer, David Watkins, Mark Dimunation, Matthew Bogdanos e Bob Gourley. Rivolgo infine un sentitissimo ringraziamento alla United Service Organizations per avermi presentato un gran numero di ammirevoli membri delle nostre forze armate. I viaggi che ho fatto con voi hanno illuminato questo libro e hanno suscitato in me ancora più rispetto per il lavoro che svolgete. E grazie a Don, a Dan e a tutte le altre persone che, in forma anonima, hanno arricchito queste pagine. Voi sapete che alludo a voi. Molte importanti informazioni per questo lavoro sono tratte dai seguenti libri: Dr. Samuel A. Mudd at Fort Jefferson, di Robert K. Summers; Assassination Vacation, di Sarah Vowell, Diary of a Predator, di Amy Herdy; Blank Spots on the Map, di Trevor Paglen, e Women Who Love Men Who Kill, di Sheila Isenberg. Voglio ringraziare anche tutta la nostra famiglia delle serie TV Decoded e Lost History, a History e a H2, fra cui Nancy Dubuc, Dirk Hoogstra, Paul Cabana, Mike Stiller e Russ McCarroll, per la loro generosità, e Rob Weisbach, per essere stato il primo a prendere l’iniziativa, nonché ovviamente tutti i miei familiari e amici, i cui nomi popolano sempre queste pagine. Voglio infine ringraziare tutti quanti alla Grand Central Publishing; Michael Pietsch, Brian McLendon, Emi Battaglia, Matthew Ballast, Sonya Cheuse, Martha Otis, Rick Cobban, Karen Torres, Beth de Guzman, Lindsey Rose, Caitlin Mulrooney-Lyski, Andrew Duncan, i più gentili e determinati venditori di tutto il mondo dello spettacolo; Bob Castillo, Mari Okuda, Thomas Whatley e tutti i miei cari amici che
sono sempre stati pronti a cambiarmi la vita giorno per giorno. L’ho già detto e non smetterò mai di ripeterlo: sono loro la vera ragione per cui avete questo libro fra le mani. Una menzione super-speciale va al mio compagno di sogni Mitch Hoffman, che non ha mai smesso di insistere per migliorare questo libro. Apprezzo molto il lavoro che stiamo facendo, amico. Infine, voglio dire grazie a Jamie Raab. Siamo stati insieme tanto tempo, ma quel che più mi colpisce di lei è che ogni volta si fa portatrice di un nuovo sguardo, di nuove idee e di nuovo entusiasmo. La rispetto più di quanto lei potrà mai immaginare. Come lei non c’è nessuno. Grazie, Jamie, per la tua fiducia.
SOMMARIO
PROLOGO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37.
38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82.
83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. RINGRAZIAMENTI
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