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Sabine Thiesler. DORMI PER SEMPRE. Lui ha un'altra Perdonarlo è inconcepibile e insieme a lui non può più vivere. È una serena mattina d'estate sulle colline toscane Oggi lui deve morire! lei l'ha deciso -


Dormi amore mio Dormi per sempre. Una villa sulle colline toscane. Isolata, in mezzo al bosco, il luogo ideale per rilassarsi e godere della reciproca compagnia: sono anni che Magda e Johannes hanno realizzato il loro sogno e tutte le estati, puntualmente, lasciano Berlino per trasferirsi vicino a Montevarchi nella loro casa, accanto a conoscenti che sono ormai diventati amici. Ma questa estate è diversa da tutte le altre. Magda sta aspettando il marito che si è trattenuto qualche giorno ancora a Berlino. Lei sa perché è restato in Germania: perché ha un'amante. E Magda non può più sopportare questa situazione. Johannes le ha distrutto la vita ed è giunto il tempo della vendetta. Magda ha progettato tutto e, a mano a mano che con la mente ripercorre ogni minimo dettaglio del suo piano, ritrova la calma, la serenità, quasi la felicità. In una serena mattina d'estate ucciderà il marito, ne denuncerà la scomparsa e nasconderà il cadavere. In fondo solo così potrà preservare il suo amore, solo così sentirà Johannes nuovamente vicino a lei, così vicino da non distinguere più la realtà dall'immaginazione. Quando, però, inaspettato, arriva in Toscana Lukas, il fratello di Johannes, la situazione precipita. Da sempre segretamente innamorato di Magda, Lukas l'aiuta per amor suo nella ricerca del marito scomparso. Non sa quale incubo l'aspetta e troppo tardi capisce in quale trappola mortale si è infilato... Dormi per sempre, un thriller emozionante e crudele, come solo un crimine d'amore può essere. In copertina: foto © Benjamin Harte / Arcangel Images. Grafica Cahetel. Sabine Thiesler è nata a Berlino, dove ha studiato germanistica e discipline teatrali. Ha lavorato come sceneggiatrice per la televisione e per il teatro, ma ha raggiunto il successo con i suoi romanzi, fra cui Der Kindersammler e Hexenkind che sono rimasti per mesi nelle classifiche tedesche dei libri più venduti. € 18,60. www.corbaccio.it narratori corbaccio. Sabine Thiesler. DORMI PER SEMPRE. Romanzo.


Traduzione di Alessandra Petrelli. CORBACCIO. Titolo originale: Die Totengräberin. Traduzione dall'originale tedesco di Alessandra Petrelli. Nello scrivere questo romanzo sono stata ispirata da quella che considero la mia nuova casa, la Toscana, ma tengo a sottolineare che tutte le storie contenute in esso sono frutto d'invenzione e ogni somiglianza con persone realmente esistenti è casuale. Visita www.InfiniteStorie.it Il grande portale del romanzo. PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA. Copyright © 2009 by Sabine Thiesler. © 2009 by Wilhelm Heyne Verlag, a division of Verlagsgruppe Random House GmbH, München, Germany. © 2011 Casa Editrice Corbaccio s.r.l, Milano. Gruppo editoriale Mauri Spagnol. www.corbaccio.it ISBN 978-88-6380-075-3. Per Nani ed Egon. BACI.


*** Piena è la donna di paure, e vile contro la forza, e quando vede un ferro; ma quando, invece, offesa è nel suo talamo cuore non c'è del suo più sanguinario. Euripide, Medea (traduzione di Ettore Romagnoli). *** Prima parte. Capitolo 1. Aveva pianto tutta la notte. Alle tre e dieci guardò la sveglia per l'ultima volta, e subito dopo cadde in un sonno profondo. Verso le cinque e mezzo si risvegliò. Le rimbombava la testa e sentiva gli occhi gonfi. Si girò sulla schiena e cercò di rilassarsi. Ma le sue paure peggiorarono. Non aveva più il minimo appiglio a cui aggrapparsi. Johannes non aveva colto niente di tutto questo. Il suo respiro era regolare, dormiva profondamente. Lei provò a immaginare come sarebbe stato non averlo più accanto, non sentire più il suo respiro, e questo pensiero la fece piombare nel panico. Non poteva vivere senza di lui, ma non poteva più neppure vivere con lui. Alle sei e mezzo sorse il sole e gettò un raggio rossastro sull'antica madia di fronte al letto che Magda usava per la biancheria. Johannes sbuffò piano e si girò su un fianco. La sera precedente non si era accorta che aveva la barba lunga, probabilmente non si radeva da qualche giorno, almeno tre. Come lo detestava. Quando lo accarezzava sulla guancia, le piaceva sentire la pelle liscia. Senza


irregolarità, senza difetti. Magda si alzò in silenzio, infilò l'accappatoio e le ciabatte. Sebbene fosse luglio, dentro casa faceva ancora fresco per via dei muri spessi. Avevano comprato l'ex podere La Roccia dieci anni prima. Aveva forma a ferro di cavallo, ed era troppo grande e in uno stato miserevole: il tetto era sul punto di crollare, l'intonaco dei muri interni si sfarinava e il pavimento era pericolante; il terreno di pertinenza era coperto di rovi, rose canine, biancospini ed erica. Da mettersi le mani nei capelli, secondo Magda. Invece Johannes era rimasto incantato dal panorama che da lì si godeva. Verso nord lo sguardo spaziava da Montevarchi fino al Pratomagno, il massiccio montuoso che separa il Valdarno dal Casentino. A ovest si vedeva un paesino di montagna, a est una collina spoglia con una casa solitaria e a sud un fitto bosco e la strada per Solata. Johannes si era innamorato all'istante di questo luogo e vi era tornato ogni volta che aveva tempo, mobilitando amici e artigiani, buttandosi lui stesso nel lavoro con instancabile energia e trasformando nel corso degli anni il podere in un vero gioiello. Aveva ristrutturato cinque camere, due bagni e la cucina, ma aveva lasciato allo stato originario il muro semidiroccato sul lato ovest, sostituendo le parti crollate con delle vetrate. Una soluzione originale, che dava alla casa un carattere particolare e permetteva di inondare di luce lo studio di Johannes. La terrazza era stata lastricata con vecchi blocchi di pietra e ospitava un pesante tavolo di legno con appesa sopra una lampada di metallo. Magda aveva sistemato tutt'intorno numerosi vasi di terracotta di diverse grandezze dove crescevano rigogliose ortensie, gerani a cascata, rosmarino, basilico e salvia. Quell'ambiente era antico e insieme accogliente: le piaceva trascorrere là fuori le notti d'estate, riparata dal vento dai muri della casa che sprigionavano per ore il calore accumulato durante la giornata. Ciononostante aveva sempre la spiacevole sensazione di essere osservata. Infatti, dalla strada per Solata era possibile vedere bene alcuni punti della terrazza. Era questo che la disturbava della casa. Magda uscì piano dalla camera da letto ed entrò nel bagno subito di fronte. Gli occhi gonfi di pianto le davano un aspetto terribile, le ciglia erano quasi del tutto scomparse dietro le palpebre ingrossate. Decise di far finta di niente e si lavò i denti. Mentre era sotto la doccia e lasciava che l'acqua calda le scorresse lungo il corpo, la sua mente tornò a concentrarsi sull'unico pensiero che da settimane la tormentava: lui aveva rovinato tutto. Infilò un paio di calzoni estivi leggeri e una maglietta e andò in cucina. Tra un quarto d'ora la radiosveglia in camera da letto si sarebbe accesa. Johannes di solito si alzava subito. Non voleva perdere neppure un attimo della giornata. Si svegliava alla mattina con la testa piena di progetti su quel che poteva riparare o modificare in casa e in giardino, spesso si disperava perché le ferie non gli bastavano per fare tutto quello che si era prefissato.


C'era ancora tempo, perché sarebbe passata una mezz'ora buona prima che scendesse a fare colazione. Aprì la porta sulla terrazza e uscì. L'aria era limpida e asciutta, sarebbe stata una giornata calda. Magda si stiracchiò e respirò a fondo. La quiete era totale, la strada sterrata per Solata era deserta. Non c'erano auto, non si sentivano voci. Non si vedeva neppure un gatto muoversi nell'erba alta, o crogiolarsi sulle pietre già calde per il sole del primo mattino. Rimase immobile per qualche istante. Una lieve brezza soffiava sulla terrazza ora in ombra. Magda rabbrividì sotto la maglietta leggera, tuttavia si sentiva tranquilla e il cuore le batteva lento e regolare. Nemmeno una traccia di nervosismo. Allora era giusto così. Non c'erano dubbi, le riflessioni non erano più necessarie. Lei aveva deciso. Tornò in cucina e mise sul fornello l'acqua per il tè. Da quando Johannes soffriva di ipertensione, entrambi si erano abituati a non bere più caffè al mattino. Era stata una scelta molto faticosa eppure la caffettiera giaceva inutilizzata ormai da due anni dentro una piccola credenza sotto la finestra; anzi Magda dubitava che funzionasse ancora. Johannes aveva sempre preso il caffè con molto latte caldo, con schiuma o senza, era lo stesso. A Berlino beveva Milchkaffee, in Italia cappuccino e in Francia caféau lait. Da quando non poteva più farlo, quella ricarica di calcio gli mancava più del caffè. A volte di pomeriggio entrava in cucina, sudato e stremato dal lavoro in giardino, prendeva il cartoccio del latte dal frigorifero e se ne beveva in un sol colpo almeno mezzo litro. Inoltre si era abituato a mangiare per colazione muesli con frutta annegato nel latte. Magda guardò il proprio volto riflesso nel vetro della credenza e con la mano sinistra si scostò dalla fronte la frangia troppo lunga. Tutto quello che faceva costituiva la routine del mattino e avveniva in maniera automatica. Uscì a pulire con un panno umido il pesante tavolo di legno in terrazza. Poi prese le due tovagliette azzurre, posate, piatti e tazze e tirò fuori dal frigorifero il salame toscano, insieme a un pezzo di pecorino e a un cetriolo. Al contrario di Johannes, Magda cominciava la giornata con una colazione sostanziosa. Se avesse mangiato muesli oppure frutta e quark, dopo un'ora si sarebbe sentita male. L'acqua bolliva e lei la versò sul tè. In quel momento la sveglia in camera da letto iniziò a suonare. Solo restando perfettamente immobile e molto concentrata, riusciva a percepire la musica che attraversava debolmente i muri. Ancora cinque minuti. Al massimo. Poi Johannes si sarebbe alzato. Tagliò la frutta a dadini. Una mela, mezza banana, mezza arancia. Sopra vi cosparse tre cucchiai di muesli. Sentì sbattere la porta del bagno e poco dopo lo sciacquone. Più o meno dieci minuti ancora prima che arrivasse. Doveva aspettare a versare il latte, il muesli non doveva ammorbidirsi troppo. Accanto alla casa c'era un piccolo prato dove crescevano i fiori più diversi, che Magda non conosceva. Fiori di campo indefinibili, molto probabilmente erbacce. Johannes lo tosava soltanto quando era strettamente necessario e così ora le erbe cominciavano a piegarsi sugli steli. Gli piaceva il suo «caos ordinato in giardino» come lo definiva, e tirava fuori il tosaerba dal capanno solo quando riteneva


che avesse raggiunto un aspetto «impresentabile». Magda raccolse qualche fiore, tra cui dell'aneto giallo, e li mise sul tavolo in un vasetto panciuto acquistato per due euro da un rigattiere di Arezzo. Ora era il momento del latte. Johannes sarebbe arrivato di lì a poco. Il veleno lo teneva nella tasca dei calzoni. Sapeva che le gocce erano del tutto insapori. Lui non si sarebbe accorto di niente. Almeno non nei primi minuti. *** Capitolo 2. Quando la radiosveglia suonò, Johannes impiegò cinque secondi per ricordare che si trovava in Toscana. Il sole del mattino era più caldo che in Germania, e la camera più piccola. Le mazzette del soffitto e i travetti di legno scuro diffondevano una luce rossastra sul copriletto, nella nicchia della finestra c'era uno scorpione nero immobile sul muro. Era a casa. Era tornato e voleva lasciarsi alle spalle tutto quanto, voleva provare a ricominciare. Aveva davanti quattro settimane di ferie durante le quali si sarebbe occupato di Magda e l'avrebbe riconquistata. Due settimane di luna di miele. Ne era certo. Johannes gettò da parte il leggero copriletto, distese le gambe verso l'alto e le abbassò lentamente. A cinque centimetri dal materasso le tenne tese, sino a sentire tremare i muscoli dell'addome. Ripetè l'esercizio venti volte. Non gli costò nessuna fatica, le regolari lezioni di potenziamento in palestra erano servite, era ben allenato e sembrava più giovane della sua età. Carolina si era spesso divertita a tastare un muscolo qualsiasi del suo corpo che lui doveva tendere per farle vedere come guizzava o si contraeva in maniera controllata. Ne rimaneva affascinata tutte le volte. Carolina. Doveva smettere di pensare a lei. Era finita. Non l'avrebbe vista mai più. Basta. Johannes si alzò e andò alla finestra aperta. Nonostante il cielo limpido, il sole era ancora lattiginoso e sfumato. Sarebbe stata una bella giornata calda. Una Fiat bianca arrancava molto piano sulle curve della strada verso Solata. Forse era Gianni. Aveva settantasei anni e di tanto in tanto curava gli ulivi. Quando si sentiva bene e il cancro allo stomaco gli dava requie.


Dopo colazione toserò subito il prato, pensò Johannes. E sotterrerò la fossa biologica. L'aveva collegata l'autunno precedente, perché il comune aveva emanato nuove direttive circa le dimensioni richieste per le fosse biologiche. Johannes la considerava un espediente per dare lavoro a muratori e idraulici. In ogni modo, siccome La Roccia era un podere esteso che in teoria avrebbe potuto ospitare fino a dodici persone, gli era stato chiesto di munirsi di una fossa biologica più grande. Johannes si era arrabbiato e aveva ribadito che alla Roccia vivevano soltanto in due, ma il comune non aveva voluto sentire ragioni. Alla fine Johannes si era rassegnato e aveva predisposto una fossa biologica decisamente sovradimensionata. Johannes sapeva quanto Magda odiasse vedere trasformato in cantiere anche un solo angolo del podere, e la fossa biologica non ancora del tutto interrata era orribile. Per questo se ne sarebbe occupato quanto prima, in modo che Magda potesse piantarvi subito sopra qualcosa, o almeno abbellire i tre tombini delle rispettive camere con vasi di gerani o ibisco, i suoi fiori preferiti. Poi doveva fissare le rose rampicanti accanto alla cucina. Il grande arbusto era pieno di fiori e non riusciva più a sopportarne il peso. Un lavoro che Magda non faceva volentieri. Non le piaceva graffiarsi le braccia e aveva paura dei serpenti che spesso stavano acciambellati tra le rose. Johannes avrebbe fatto tutto il possibile per lei, l'avrebbe portata in palmo di mano, avrebbe realizzato in anticipo ogni suo desiderio. E Magda l'avrebbe perdonato. Ne era convinto. *** Capitolo 3. Magda si stava innervosendo; guardò per la quarta volta l'orologio. Quella mattina Johannes impiegava più tempo del solito per la toeletta mattutina. Probabilmente si stava radendo a fondo. Le venne da sorridere al pensiero di quando avrebbe baciato per l'ultima volta la sua guancia impeccabilmente liscia e morbida. Lasciando scorrere lo sguardo sul tavolo della colazione, per controllare di non aver dimenticato nulla, venne assalita da un brivido freddo. Aveva commesso un terribile errore. Come tutte le mattine quando non pioveva, aveva apparecchiato fuori in terrazza, ma per il suo proposito ciò era quanto mai inopportuno. Johannes sarebbe crollato lì e lei avrebbe dovuto trascinarlo in casa. Sette metri del tutto inutili.


Dalla strada si poteva scorgere una parte della terrazza. E vero che capitava di rado che in estate passasse di lì un contadino, oppure d'inverno un cacciatore, tuttavia quella sua sconsideratezza avrebbe potuto farle correre un rischio del tutto evitabile. Corse in cucina, rimase un istante in ascolto, non lo sentì ancora scendere dalle scale, prese un vassoio, tornò precipitosamente fuori, arraffò tovagliette e posate, radunò piatti, tazze, salame, formaggio, frutta, latte, burro, sale e tutto il resto che componeva la loro colazione, e trasportò in cucina il vassoio stracarico. Il tempo a sua disposizione era agli sgoccioli, perché doveva assolutamente versare il sonnifero nel latte prima che Johannes arrivasse in cucina. Apparecchiò di nuovo sul grande tavolo di legno di fronte alla porta sulla terrazza, impiegandovi solo pochi secondi. Poi aprì la porta che dava sul piccolo disimpegno da cui partiva la scala che conduceva alle camere da letto al piano di sopra. «Johannes», chiamò, «la colazione è pronta. Scendi?» «Subito», rispose lui. «Tra cinque minuti.» Cinque minuti, con Johannes, potevano anche significare dieci. Che cosa aveva da fare da impiegarci tanto? Lei voleva sbarazzarsi della tensione, voleva farla finita. Si appoggiò titubante alla porta e osservò l'angolo cottura come se lo vedesse per la prima volta. Le piaceva quella cucina, sebbene fosse tutt'altro che pratica. La preferiva a quella elegante, moderna e funzionale di Berlino in cui i cassetti si chiudevano scivolando silenziosi alla minima spinta, dove le provviste erano sistemate ad altezza occhio su scaffali a scomparsa e gli angoli sotto il piano di lavoro erano perfettamente utilizzabili grazie a un ingegnoso sistema di ripiani girevoli. La rubinetteria cromata era semplice e impeccabile e le lampade alogene fornivano un'illuminazione perfetta ma non troppo abbagliante. Qui invece il piano di lavoro era di pesante legno di castagno scuro, deformato dove lei appoggiava le pentole bagnate. I mattoni a vista sulla parete si scurivano di anno in anno. La cappa in muratura, rivestita di vecchie assi tarlate, dava all'ambiente un'atmosfera intima e accogliente e sopra il focolare erano appese pentole di ferro battuto. Sembrava davvero di essere in una vecchia cucina toscana e con la calda luce sul tavolo e qualche candela alla finestra ci si sentiva subito a casa. In quel momento Magda si rese conto di non essersi mai trovata così bene come in questa cucina. Accanto al focolare era posato il coltello con cui aveva appena tagliato il salame. Aprì la lavastoviglie per infilarlo nel cestello delle posate e si accorse che era ancora da svuotare. Cominciò a tirare fuori le stoviglie lavate, compiendo almeno una decina di volte il tragitto dall'elettrodomestico alla grande credenza dove teneva piatti, scodelle e tazze e le posate suddivise e ordinate in un cassetto.


Finito di sistemare, guardò l'ora. Erano trascorsi sei minuti. Johannes sarebbe giunto a momenti. Estrasse dalla tasca dei pantaloni la boccetta, la stappò e versò nel latte venti gocce. Ora non poteva più tornare indietro. *** Capitolo 4. Johannes era sicuro di aver nascosto l'astuccio con gli orecchini nella tasca laterale della valigia, e adesso sembrava sparito. In fatto di regali non aveva mai avuto grande fantasia, regalava a Magda fiori oppure gioielli, in base all'importanza dell'occasione. Sabato, mentre era a Fridenau, passando in un'anonima via laterale, si era fermato davanti a una gioielleria, chiedendosi stupefatto come fosse possibile vendere qualcosa in una stradina così appartata. La vetrina tuttavia era decorata con molto gusto e il suo sguardo cadde subito su un paio di orecchini. Cerchietti d'oro bianco con un minuscolo brillante. Emanavano una fredda e austera bellezza che lo incantò. Non gli sarebbe mai venuto in mente di regalare dei gioielli a Carolina, aveva gusti troppo particolari. Ma con Magda era diverso. Sapeva che le piaceva ciò che piaceva a lui. Era così facile influenzarla, e gioiva come una bambina quando lui trovava bello qualcosa. Con Magda non si sbagliava mai, era meravigliosamente priva di complicazioni. Aveva comperato gli orecchini d'impulso. Voleva davvero imboccare la via del nuovo inizio e della riconciliazione. Forse questo regalo avrebbe sottolineato ancora di più la sua buona volontà. Negli ultimi giorni in ufficio era successo di tutto. Sembrava che tutti coloro in procinto di traslocare si fossero messi d'accordo per farlo proprio quella settimana. Magda era già partita per l'Italia, Johannes aveva lavorato ancora una settimana, poi aveva dato le ultime consegne, lasciando il numero di cellulare, e venerdì era partito per la Toscana, viaggiando senza soste, se non per fare rifornimento di carburante. Magda non lo aspettava ed era già a letto. Si era svegliata per un attimo quando lui era entrato in camera da letto. «Ah, che bello che tu sia arrivato», aveva detto mezzo addormentata, «buonanotte, ci vediamo domattina.»


Poi si era voltata su un fianco e si era rimessa a dormire. Gli sarebbe piaciuto dirle subito che non avrebbe mai più rivisto Carolina, ma era chiaro che avrebbe dovuto aspettare a colazione. Uscito in terrazza si era versato un bicchiere di vino rosso e aveva guardato la luna nel cielo punteggiato di stelle. Ancora una notte, poi ci sarebbe stata luna piena. Era tutto finito. Lui aveva scelto Magda e si sentiva leggero e libero. Poi Johannes trovò gli orecchini nella tasca laterale del suo beauty-case. Non si ricordava di aver infilato il piccolo astuccio di velluto proprio lì. Se lo mise nella tasca dei calzoni, spalancò la finestra della camera da letto, riassettò velocemente il letto e scese in cucina. Andrà tutto bene, pensò. Andrà tutto bene. *** Capitolo 5. Magda accolse con un sorriso Johannes che le diede un bacio sulla guancia. «Dormito bene?» le domandò, sedendosi al tavolo. «Sì, abbastanza. Ho fatto qualche brutto sogno.» «Cioè?» «Non te lo posso raccontare, altrimenti gli incubi si realizzano. » Gli posò davanti la ciotola del muesli e gli versò del tè. «Buon appetito.» Johannes cominciò a mangiare il muesli. «A proposito, con Carolina ho chiuso. La cosa è finita, e non la rivedrò mai più.» «Ah», fece Magda imperturbabile, mentre lo guardava mangiare. «Mi dispiace davvero, Magda. Capisco solo ora quanto tu sia importante per me. Io ti amo, Magda.


Dimentichiamo tutto. Ricominciamo daccapo.» Si alzò e l'abbracciò. Lei rimase stranamente rigida. «Siediti, finisci il muesli», gli disse. «Parleremo dopo.» Lui tornò a sedersi e mangiò ancora qualche boccone. Magda si spalmò una fetta di pane bianco con burro e formaggio. Quando vide che Johannes posava di nuovo il cucchiaio, si innervosì. «Che cosa c'è?» chiese. «Forse il cucchiaio è sporco? Ne vuoi un altro?» «No», disse lui sorridendo. «Ti ho portato un pensierino. » Si alzò e prese dalla tasca l'astuccio di velluto. «Per te. Ti prego, Magda, perdonami.» Gliel'offrì, però Magda rimase impassibile. «Aprilo. Spero che ti piacciano.» Magda aprì l'astuccio. «Oh, che belli», bisbigliò, «sono meravigliosi! Degli orecchini di brillanti. Le mie pietre preferite.» Lo baciò per ringraziarlo. Lui la fece sedere sulle proprie ginocchia e l'abbracciò. «Sono stato proprio uno stupido, Magda. Mi ero dimenticato che siamo una cosa sola.» «Non importa.» Lei si alzò e tornò a sedersi di fronte a lui. «Vuoi ancora un po' di tè?» Lui annuì e lei gli riempì la tazza. «Come mai oggi non mangiamo in terrazza?» domandò Johannes. «Stamattina mi sembrava che facesse fresco e tirava un po' di vento. Ho pensato che dentro si stesse meglio.» «Hai ragione.» Johannes le sorrise. «Ci saranno ancora tante giornate calde, quindi una in più o in meno non fa differenza. »


Magda si alzò e uscì. «Torno subito», disse. «Devo andare un attimo in bagno.» Johannes accese la radio. «Senza una donna», cantava Zucchero. Mentre terminava lentamente di mangiare il muesli, la canzone gli penetrò a fondo nell'anima, riempiendolo di felicità. La vita è meravigliosa, pensò, e si prospettano delle fantastiche settimane di ferie. Per Magda e me. «Ieri sera sono passato da Massimo e Monica e ho comperato una damigiana d'olio da cinque litri e una cassetta di vino. Sono ancora in auto», disse, quando Magda tornò in cucina. Magda trasalì. «Benissimo», disse. Questo significava che ora Massimo e Monica erano al corrente della presenza di Johannes. E quello che sapevano loro lo veniva regolarmente a conoscere tutto il paese. Si sentì assalire dalla collera. Doveva comperare quel maledetto olio e il vino proprio la prima sera? In realtà lei aveva in mente di raccontare in paese che quell'anno avrebbe trascorso le vacanze da sola. «Ti salutano», proseguì Johannes interrompendo i pensieri della moglie, «e siamo rimasti d'accordo di vederci come al solito a cena qui da noi. Magari per il weekend. Oppure la settimana prossima. Come preferisci.» Magda non gli rispose, perché in quel momento lui si sentì male. Non era un dolore, ma una incontrollabile spossatezza. Fu assalito da un violento giramento di testa, mentre gli occhi gli si chiudevano. «Magda», ansimò, «aiutami, sto tanto male, non riesco più a stare dritto. Che cosa mi succede? Aiutami, oh, mio Dio...» Tutt'intorno a lui si fece buio, tentò di alzare un braccio, invano, l'arto gli scivolò verso il basso, accanto al tavolo nel vuoto, e la sua testa colpì con un tonfo sordo il piano di legno. *** Capitolo 6. Magda aveva atteso a lungo l'occasione giusta in farmacia. Henriette, la sua principale, era dal dentista e non sarebbe tornata prima delle cinque. A parte lei c'era solo Daniela, l'assistente, una biondina rotondetta e piuttosto tonta con occhiali spessi come fondi di bottiglia. Stava servendo una cliente che voleva sapere tutto sui farmaci pediatrici contro i raffreddori, cosa che Magda trovava davvero esagerato: oggi giorno non ci sono più sorprese né segreti nei rimedi contro le malattie da raffreddamento. Magda osservava infastidita come Daniela avvicinasse agli occhi il foglietto illustrativo nonostante gli spessi occhiali.


In quel momento arrivò il corriere farmaceutico che Magda fece accomodare direttamente nel magazzino sul retro dove lui posò la scatola di succinilcolina, un anestetico usato soprattutto in pneumologia per intubare i pazienti sotto narcosi. «Ha ancora molto da fare oggi?» gli domandò in tono cortese e disinteressato. «Lei è la mia penultima cliente», rispose il fattorino dondolandosi sulle gambe e sorridendo. Magda ricambiò il sorriso e firmò la bolla di consegna. Il fattorino si toccò il berretto in un cenno di saluto e scomparve velocemente e inosservato, così come era arrivato. In un lampo Magda cominciò a svuotare la cassa e infilò cinque ampolle nella tasca del camice. Allineò le altre nell'armadietto delle sostanze pericolose, di cui soltanto lei e Henriette avevano la chiave. «Frau Krämer vuole una scatola di Zocor», annunciò Daniela entrando all'improvviso. «Non ha la ricetta, ma dice di aver acquistato lo Zocor senza. Senza problemi.» «Finisci di sistemare le ampolle», le disse Magda. «Mi occupo io di Frau Krämer.» Frau Krämer era stata inviata dal cielo. In questo modo avrebbe potuto testimoniare che era stata Daniela a mettere a posto le ampolle e, nel caso Henriette si fosse accorta che ne mancava qualcuno, avrebbe licenziato la ragazza. Non le servivano assistenti incapaci. Magda fu molto gentile con Frau Krämer. La conosceva da anni e quindi le diede il farmaco contro l'ipercolesterolemia senza ricetta. Daniela intanto aveva finito di sistemare le ampolle. Magda la ringraziò e chiuse a chiave l'armadietto. Mancava ancora mezz'ora alla chiusura. Magda bevve un caffè con Daniela e poi, siccome non arrivavano più clienti, la mandò a casa. Daniela si sistemò gli spessi occhiali sul naso e partì - cieca come una talpa - a bordo della sua Polo. Magda ne approfittò per portar via altri barbiturici a effetto rapido. Alle sette chiuse con cura la farmacia e andò a casa. Henriette aveva detto che sarebbe passata prima di sera, ma forse l'intervento del dentista era stato più doloroso del previsto. Il giorno dopo Magda aveva la mattinata libera. Alle undici e un quarto le telefonò Henriette. «Ieri è stata consegnata della succinilcolina?» le domandò. «Sì, perché?» «Ne mancano cinque boccette. Ho controllato la bolla e l'armadietto.» «Non è possibile.» Magda era stupita che Henriette l'avesse notato. Non se lo sarebbe mai aspettato da lei.


«Come te lo spieghi?» «Non saprei. Hai contato bene?» «Certo», sbuffò Henriette spazientita. «Sei stata tu a mettere via le boccette?» «Ho cominciato io, ma poi ha finito Daniela, perché era entrata una cliente senza ricetta.» Henriette tacque. «Non può essersi trattato di una svista del corriere? Mi chiedo cosa potrebbe farsene Daniela della succinilcolina, Henriette! Nessuno saprebbe che farsene, e men che meno Daniela.» Henriette sapeva che Magda attribuiva a Daniela un quoziente intellettivo inferiore a quello di un peluche. Lei era sempre stata di parere diverso. «Io non so che cosa pensare, in ogni caso le ampolle mancano. Ed è grave, Magda.» «Lo so.» «Che cosa devo fare? Licenziare Daniela? Senza prove?» «Non hai altra scelta, mi pare. Del resto non puoi certo perquisirle l'appartamento.» Henriette sospirò nella cornetta. «Non mi ero mai trovata in una situazione tanto difficile, Magda.» «Me lo immagino.» Magda pronunciò quelle parole con tutta la partecipazione che riuscì a fingere. «D'accordo. Le parlerò. Vediamo come reagisce.» Henriette si scusò di averla disturbata, la salutò e chiuse la comunicazione. Magda fece un profondo respiro e si sentì sollevata. Era convinta che Henriette non l'avrebbe più interpellata per la succinilcolina né per i barbiturici mancanti. Ora sarebbe stato messo tutto sul conto di Daniela. Quando Magda tornò in farmacia quel pomeriggio, c'era già una nuova assistente: Ingrid. *** Capitolo 7.


«Povero leprotto», bisbigliò Magda, «tra poco sarà tutto finito. Il peggio è già passato.» Gli alzò le palpebre. Aveva perso i sensi e non si sarebbe più accorto di ciò che lei doveva ancora fargli. Era in coma. Le gocce rimanevano nelle urine per dodici ore, nel sangue soltanto per sei. Comunque non importava. Lei avrebbe fatto in modo che nessuno ritrovasse il cadavere. Ma non era ancora morto. La miscela di barbiturici da lei stessa preparata non lo avrebbe ucciso: serviva solo a far sì che non si rendesse conto di quando lei lo avrebbe ucciso. Non voleva farlo soffrire. E non voleva spaventarlo. Quando uno tradisce l'altro, la vita è finita. «Tesoro, lo sapevi. Del resto mi conosci. Non avresti dovuto farlo.» Prese la siringa dal cassetto della cucina, tirò lo stantuffo e poi gli iniettò la succinilcolina nella coscia. Il farmaco viene usato spesso come anestetico negli interventi chirurgici e provoca una paralisi muscolare in tutto il corpo. Anche la respirazione ben presto si sarebbe fermata e il cuore avrebbe smesso di battere. Iniettato per endovena avrebbe fatto effetto nel giro di pochi secondi, ma lei non si fidava. Aveva paura di non trovare la vena. L'iniezione intramuscolare era più sicura, anche se il processo sarebbe durato un po' più a lungo. Non aveva importanza. Non c'era più modo di tornare indietro. Magda prese la mano di Johannes e l'accarezzò. «Stammi bene», bisbigliò, «dovunque tu vada ora. Siamo stati felici insieme e non ti dimenticherò mai. Peccato per te, peccato per noi, Johannes. Peccato che tu abbia conosciuto Carolina, altrimenti avremmo trascorso certamente ancora tanti begli anni insieme. Amico mio, amore mio, dormi bene. Dormi per sempre.» Lo baciò sui capelli e gli tastò il polso. Il cuore batteva ancora. «Solo un momento, non ci vorrà molto, poi la tua anima volerà via, Hannes. Non prendertela a male per ciò che ho fatto: non c'erano alternative. Non mi sarei più potuta fidare di te. E non volevo neppure lasciarti a un'altra. Questa era l'unica strada. Perdonami.» La testa di Johannes si inclinò all'improvviso di lato, la vena del collo pulsò un'ultima volta con forza, poi il respiro si bloccò. Magda gli tastò il polso. Johannes era morto. *** Capitolo 8.


Magda chiuse a chiave la porta della terrazza e tirò la pesante tenda che non proteggeva soltanto dagli sguardi indiscreti, ma anche dal sole, e manteneva la cucina piacevolmente fresca d'estate. Subito dopo chiuse tutte le persiane, lasciando però aperte le finestre. Quindi fece scivolare con cautela Johannes dalla sedia e lo depose sul pavimento. Aveva molto tempo, perché dopo la somministrazione di succinilcolina non subentrava subito il rigor mortis. Però, maledizione, aveva anche tanto lavoro da fare. Si ricordò di non aver preso le proprie medicine. Allora aprì una bottiglia di acqua minerale e frugò in una vecchia scatola di tè dove teneva le pasticche che assumeva regolarmente; un po' di sodio per il cuore, calcio per le ossa, aspirina per il sangue e una punta di un lassativo leggero per l'intestino: la polvere andava sciolta in acqua e bevuta, per fortuna aveva un sapore accettabile con un vago aroma d'arancia. Aveva appena gettato la testa all'indietro per inghiottire le pasticche di calcio che erano grosse e asciutte e faticavano sempre a passare, quando il telefono squillò. Magda trattenne il respiro e contò sottovoce. Cinque, sei. Poi si alzò. Quel trillo le metteva il nervoso, facendola sudare. Smettila! gridò tra sé. Smettila, maledizione! Io non sono in casa. Vuoi capirlo? Santissimo iddio! Il telefono tacque dopo diciassette squilli. Magda si avvicinò alla porta della terrazza e guardò fuori. La strada e il bosco erano completamente deserti. I grilli frinivano, l'aria vibrava per la calura. Infilò nel lettore un cd di Adriano Celentano. Un commiato. Johannes aveva sempre amato le sue canzoni. Celentano per lui era l'epitome dell'italiano robusto e virile. Azzurro era l'unica canzone di cui conosceva tutto il testo a memoria e la cantava con entusiasmo in occasione di tutte le sagre di paese. Nel caso potesse sentirla dall'aldilà, gli avrebbe fatto piacere. «Sento fischiare sopra i tetti, un aeroplano che se ne va», cantava Celentano. Venne assalita da un insostenibile struggimento. Avrebbe tanto voluto poter salire su un aeroplano e volare via. Lasciarsi alle spalle tutto questo e non tornare mai più. Ricominciare daccapo da qualche altra parte. Senza Johannes, e senza colpa. All'improvviso percepì un vago odore aspro che diventava sempre più forte man mano che si avvicinava al frigorifero. Rovistò dappertutto e alla fine trovò, in una retina sotto le cipolle, un limone ammuffito. Lo gettò via e si rese conto di avere fame. In effetti non aveva avuto tempo di mangiare. I resti della colazione erano ancora sul tavolo. Per prima cosa prese la ciotola vuota del muesli e la lavò accuratamente per poi riporla nella credenza. Poi si tagliò una fetta di pane e lo mangiò insieme a del prosciutto di Parma, bevendoci dietro quasi


mezza bottiglia d'acqua. «E stato davvero divertente cucinare per te, Johannes», disse sorridendo, poi si appoggiò alla spalliera della sedia e guardò gli occhi sbarrati del marito che la fissavano freddi e carichi di rimprovero. «Anche i nostri pasti insieme mi mancheranno, tesoro.» In quel momento udì il ronzio lontano di un'automobile e trattenne il fiato. Il rumore si fece più forte. Socchiuse la tenda della porta sulla terrazza e guardò fuori. Una Suzuki verde stava risalendo per la strada. Magda trasalì e si avvicinò furtiva alla finestra sopra il lavello. Attraverso le lamelle delle imposte poteva vedere ciò che accadeva fuori senza essere vista. Aspettò immobile. L'auto si fermò proprio davanti a casa. Magda aveva il cuore in gola, la fronte madida di sudore. Due uomini scesero dalla macchina sulla quale c'era scritto assistenza-servizio-manutenzione e poi a grandi lettere liquigas. Abbiamo ancora abbastanza gas, pensò lei meccanicamente, e poi: io non li ho chiamati. Che cosa diavolo vorranno? Il più anziano dei due bussò energicamente alla porta sulla terrazza. Magda non si mosse. Trattenne addirittura il fiato, come se questo potesse farla diventare invisibile. «Accidenti, non c'è nessuno», brontolò il collega. Naturale, razza di idioti, pensò Magda, visto che non avete avvisato in anticipo, come sarebbe stato opportuno. Come fanno tutti. Il più anziano bussò di nuovo. Più a lungo, con più insistenza, più forte. Magda non si mosse, ma aveva la nausea per la paura. I due poi confabularono sottovoce. Magda non riusciva a capire che cosa si dessero dicendo, udì soltanto la parola «macchina» e allora nella sua mente si affacciò agghiacciante il pensiero che la sua auto era parcheggiata davanti alla casa. Potrei anche essere andata a fare una passeggiata, pensò Magda, oppure potrebbe anche essere che stia ancora dormendo.


Oppure potrei stare male. Non è il momento di innervosirsi. Del resto non possono mica entrare con la forza solo perché nessuno gli apre. Questi pensieri, tuttavia, non bastarono a calmarle il cuore. I due tecnici dell'azienda del gas bussarono di nuovo, chiamando a voce alta «Signor Tillmann» e, «Liquigas, buongiorno!» Ma, non ottenendo risposta, alla fine scrollarono le spalle e se ne andarono. Magda tirò un sospiro di sollievo. «C'è mancato poco», disse rivolta a Johannes. «Speriamo di non ricevere altre visite per oggi.» Sparecchiò la tavola e infilò tutto nella lavastoviglie. Accarezzò teneramente la guancia di Johannes, si legò i capelli sulla nuca e uscì per mettersi al lavoro. Negli ultimi giorni, mentre Johannes era ancora a Berlino, aveva già individuato il posto adatto. Non era stato facile, perché, come diceva il nome stesso, La Roccia era costruita sulla pietra. Si trattava appunto di un'enorme roccia coperta di terra. Quando si scavava, al massimo dopo quaranta centimetri si incontrava la roccia. L'unica possibilità, e forse la più nascosta, era l'orto. Johannes ci teneva molto e ci lavorava per ore quasi tutti i giorni. Quindi era forse ancora più giusto seppellirlo proprio lì. Un altro lato positivo era il fatto che Johannes aveva tolto tutti i sassi dal terreno e un paio d'anni prima aveva ordinato addirittura quattro carichi di terriccio. Il mercoledì precedente Magda aveva comperato un alberello d'ulivo e aveva già scavato una buca, per vedere fino a che profondità poteva arrivare. Dopo mezz'ora di lavoro la buca era profonda settanta centimetri. Abbastanza per sotterrare un uomo. Non aveva potuto preparare la fossa per intero, perché avrebbe dato troppo nell'occhio. Nel caso Johannes fosse arrivato in anticipo e avesse visto la buca, lei gli avrebbe detto che voleva piantarci l'ulivo. Johannes però era arrivato solo la sera precedente e lei si era potuta risparmiare quella bugia. Aveva tutta la giornata. Alle nove cominciò a scavare, dopo mezz'ora le facevano male tutte le ossa, aveva vesciche sulle mani e ben presto si sarebbe spellata fino alla carne tra pollice e indice. Bevve dell'acqua minerale e si mise a sedere un momento tra le erbacce che nelle ultime settimane erano cresciute nell'orto: Johannes avrebbe impiegato un paio di giorni per ridargli un aspetto ordinato. In genere poi piantava pomodori, insalata, cetrioli, meloni e patate, interrava tutte le varietà possibili di cipolle, insieme a piantine di prezzemolo e basilico, e seminava tutto ciò che si poteva seminare a giugno. Ed era felice, anche se di solito doveva lasciare i frutti del proprio lavoro a Massimo, il quale si occupava della casa in loro assenza, tosava l'erba durante l'anno, potava gli alberi, estirpava le erbacce, e in quelle occasioni raccoglieva i pomodori e le verdure rimaste. Questa volta lei doveva evitare che accadesse. Non voleva che Massimo mettesse il naso nell'orto. E che magari gli venisse in mente di zappare la terra per farle un piacere.


Nell'angolo più lontano dell'orto la vegetazione era più fitta e le piante in quel punto crescevano più rigogliose. Lì infatti era stato sepolto Bingo, un terrier bianco. Lo avevano trovato lungo la strada. Disidratato, impaurito, malconcio e legato a un cartello di precedenza. «Bingo», aveva esclamato Johannes fermando la macchina e scendendo insieme a lei. «Hai vinto, amico. Devi essere contento che ti abbiamo trovato noi, per te è una vincita al lotto.» Lo avevano caricato sul sedile posteriore; nelle settimane seguenti lo avevano imboccato cercando di fargli capire che un bravo cagnolino che avrebbe dovuto vivere a Berlino e saltuariamente in Toscana non doveva rosicchiare tappeti, mobili e scarpe. Né saltare sul letto o rubare gli avanzi dal tavolo. Bingo ascoltava diligente, la testa piegata di lato, faceva i bisognini sotto la scrivania, e capì solo dopo sei mesi ciò che i suoi salvatori volevano da lui. Appena in tempo, perché Magda, ormai snervata, aveva già preso contatti con il canile. Sette anni più tardi Bingo era morto in una calda giornata alla Roccia per ernia del disco e infarto. Probabilmente era anziano, ma questo lo si poteva solo supporre. Johannes aveva scavato una tomba ai margini dell'orto, aveva avvolto il cane nella sua copertina e lo aveva seppellito. Senza lapide, ma con le lacrime agli occhi. E il corpo in decomposizione di Bingo aveva fertilizzato la terra. Ora lei voleva fare la stessa cosa con Johannes. Continuò a scavare. Le radici sotterranee le rendevano difficile l'opera. Le recise faticosamente con un machete per poter proseguire con lo scavo, imprecando a voce alta per ogni palata di terra che dal ciglio della fossa scivolava di nuovo dentro. Madida di sudore e infangata, aveva voglia di piangere. Continuava a misurare la profondità della fossa. Quando l'allargava o l'allungava, la buca sembrava tornare più superficiale come per magia. Magda lottava e scavava. Piena di raccapriccio pensava al marito morto in cucina, e non aveva altra scelta che continuare. Alle due non ne potè più. Giurò a se stessa che non avrebbe mai più preso in mano una pala, una vanga, un piccone o un machete in vita sua, e andò sotto la doccia. Quando tornò in cucina, Johannes aveva un'aria del tutto serena. Era arrabbiata a morte con lui. Era tutta colpa sua. In genere si chiamava l'impresa di pompe funebri e non c'era più bisogno di occuparsi di niente. Persone gentili arrivavano in casa, deponevano il defunto in un feretro grigio e poi lo portavano via. Lo caricavano su un'auto, chiudevano le portiere con i vetri fumé, e quello spariva per sempre. Al funerale, l'idea che poi venisse calato nella fossa era soltanto un pensiero. Inghiottito dalla terra: una procedura semplice, nient'affatto faticosa. Adesso invece le toccava scavare la fossa da sola. Su quel micidiale terreno ostile e sassoso. Se Johannes non avesse fatto ciò che aveva fatto, sarebbe potuto morire di morte naturale e lei non avrebbe dovuto vivere quella terribile giornata.


Aprì una scatoletta di tonno, lo mangiò direttamente da lì, bevve mezzo litro di latte, il tutto cercando di non guardare Johannes: la faceva innervosire e le ricordava ciò che ancora doveva fare. Mentre scavava, si era resa conto che avrebbe dovuto strappare le erbacce da tutto l'orto. Un'idea spaventosa. Ma, in quella distesa di vegetazione selvatica, anche un cieco, oppure un poliziotto, si sarebbe reso conto che lì era stata scavata una fossa. Magda decise di fare un sonnellino per recuperare le forze. Tanto non avrebbe comunque trasportato il cadavere in giro alla luce del giorno. Si accomodò nella poltrona davanti al televisore e si assopì. Si svegliò alle cinque del pomeriggio. Stava arrivando la sera. Sentì il cuore accelerarle nel petto. La casa era silenziosa. Mancavano ancora quattro ore al tramonto. Non avrebbe mai immaginato che una giornata trascorsa con un morto in cucina potesse essere così maledettamente lunga. Riaccese il cd di Celentano e decise di cominciare subito a preparare il cadavere. Dall'ultimo cassetto della credenza prese due grandi sacchi verdi della spazzatura, di quelli da centodieci litri. In uno infilò i piedi e le gambe di Johannes, e poi lo fece risalire fino all'altezza della vita. Perfetto, pensò, poi prese la cintura dei pantaloni di lino chiari di Johannes ancora appoggiata alla spalliera della seggiola, e ci legò il sacco all'altezza dell'addome, stringendolo due buchi più del giusto. Lo baciò. Aveva le labbra fredde e secche. «Ciao, amore», bisbigliò. Poi infilò il secondo sacco sulla testa, le spalle e il petto, prese dalla dispensa dietro la cucina un rotolo di nastro adesivo alto e un paio di forbici e arrotolò Johannes come un pacco. Sembrava una mummia verde distesa sul pavimento in pietra. Magda si sedette. Era di nuovo sfinita, un rivolo di sudore le scendeva lungo la schiena e le imperlava la fronte. Scavò per altre due ore, sino a essere abbastanza soddisfatta della profondità della buca. Settanta centimetri. Non avrebbe potuto fare di più, perché il fondo della buca ormai toccava contro la roccia. Ora doveva affrontare il lavoro peggiore. Forse aveva osato troppo. Si era sopravvalutata e aveva sottovalutato il lavoro di scavo. Adesso però doveva andare avanti, sebbene i muscoli ormai le tremassero per la stanchezza. Quando il sole scese dietro le montagne, decise di essere pronta per cominciare. Dalla porta sul cortile interno fino all'ingresso principale con la scala in pietra e il piccolo loggiato c'erano circa sette metri. Lì accanto c'era il passaggio verso la terrazza orientale dove, nella penombra di una quercia frondosa, crescevano tre cespugli di ortensie in vasi di terracotta. Lì erano stati sistemati un tavolino e due sedie in ferro battuto, che tuttavia Magda e Johannes usavano di rado. Magda era terrorizzata dagli insetti che dall'albero potevano caderle nei capelli o nel bicchiere. L'orto si trovava proprio accanto alla terrazza orientale.


Per arrivarci bisognava percorrere ancora una dozzina di metri: il tratto più lungo e più pericoloso, dal momento che lo spiazzo prospiciente la casa era visibile fin dalla collina di fronte. Magda aveva tenuto d'occhio per giorni il casale che si trovava da quella parte, ma sembrava disabitato. Molto probabilmente i vicini erano dalla figlia che abitava a Grosseto. Per ora le circostanze erano a suo favore. Una volta tramontato il sole, il buio sarebbe arrivato presto. Ormai non c'era più in giro nessuno. A quell'ora di solito la gente era a cena, gli amici si incontravano per un aperitivo a casa oppure al bar. Ci si sedeva in piazza, si andava al cinema, a teatro, o in discoteca. C'erano mille possibilità diverse per trascorrere la serata. Ma tra queste non era compresa una passeggiata nel verde. Soltanto i bracconieri si spingevano nel bosco di notte. Magda prese una coperta dalla camera degli ospiti e ci avvolse il cadavere di Johannes. Quindi cominciò a trascinarlo per la cucina. Il breve tragitto sul pavimento di pietre lisce fu facile, ma una volta in cortile cominciarono le difficoltà. Magda avanzava solo pochi passi alla volta e con una lentezza esasperante. Fatti tre metri dovette fermarsi a riprendere fiato. Lasciò il corpo dov'era, si mise a sedere per cinque minuti, poi riprese a trascinare il pesante fagotto in direzione dell'arco. La nuca di Johannes sbatteva con forza contro le pietre, tanto da metterla in ansia, e lei dovette ripetersi più volte che ormai niente poteva più procurargli male. Una volta raggiunto il passaggio, fece una lunga pausa. Mancavano ancora dodici metri. Nel frattempo era diventato buio pesto. Una lampada appesa al muro illuminava a malapena il tragitto fino alla cisterna. Ma era sufficiente. Una lieve brezza serale soffiava intorno alla casa. A quest'ora come al solito ci saremmo seduti in cortile a cenare, pensò. Un po' di mozzarella con pomodori, basilico e olio d'oliva all'aglio, un po' di prosciutto, qualche oliva. Il tutto accompagnato da un fragrante filone di pane. Johannes avrebbe stappato una bottiglia di vino e magari dopo avrebbero discusso di quanto sarebbe stato bello costruire una piscina. Anche se l'estate era breve e loro potevano sfruttarla soltanto per poche settimane. Tutto questo le passò per la mente mentre trascinava il corpo senza vita del marito verso la buca appena scavata nell'orto. Lì non sarebbero più cresciute patate, perché l'orto aveva una nuova funzione: fagocitare il cadavere di Johannes per non restituirlo mai più.


*** Capitolo 9. Era l'una e mezzo quando finì di sistemare il cadavere nella fossa. Piantò il piccolo ulivo sul petto di Johannes, lo fermò con la terra, riempì la buca e appiattì la terra con la vanga. A quel punto era sfinita. Se non altro il peggio era passato. Finora nessuno aveva mai mostrato interesse per l'orto, né l'avrebbe fatto in futuro. E prima che arrivasse il momento di denunciare la scomparsa di Johannes l'erbaccia sarebbe stata estirpata e tutto sarebbe tornato come prima. Poteva rilassarsi. Magda si sedette al grande tavolo di legno nel cortile e bevve un bicchiere di vino. Invece di accendere la lampada sopra il tavolo, aveva optato per una lanterna antivento. Il bosco si stendeva davanti a lei come una parete nera, nel buio non si vedeva neppure la strada. L'aria fresca della notte portava con sé il dolce profumo di un gelsomino piantato vicino alla porta della cucina che cominciava a fiorire proprio allora. Si rese conto che d'ora in poi sarebbe stata sola. Sola a quel tavolo quando mangiava o beveva qualcosa, sola a letto. Non c'era più nessuno che riparasse gli ingorghi nella tubatura della cisterna quando in casa non c'era acqua, nessuno che sistemasse una serratura difettosa oppure un cassetto che non chiudeva bene. Avrebbe dovuto chiamare un meccanico per cambiare la ruota dell'auto in caso di foratura, avrebbe dovuto pensare da sola alla spesa e spegnere per ultima le luci in casa la sera. Avrebbe partecipato da sola alle feste di paese e sarebbe tornata a casa da sola dopo una cena da amici. Sarebbe stato triste. Nessuno che le sorridesse dallo specchio quando si lavava i denti, oppure che la prendesse sottobraccio quando giù al torrente i cani da caccia si mettevano ad abbaiare. La casa sarebbe diventata silenziosa. Probabilmente avrebbe dimenticato anche il suono della voce di Johannes. Era lucidamente consapevole di tutto questo, ma si sentì invadere lo stesso da una profonda serenità. Aveva portato a termine ciò che si era prefissa. Lo aveva fatto per davvero. E perdipiù aveva ottenuto un risultato a dir poco incredibile. Trascinare il cadavere fino al giardino, infatti, le era costato fino all'ultimo briciolo di energie. Inizialmente, seduta accanto al sacco da novanta chili, era scoppiata a piangere per la disperazione. Dopo dieci minuti aveva ripreso il controllo. Si era alzata faticosamente, aveva trascinato il cadavere fino alla fossa, aveva ringraziato silenziosamente il cielo e ce lo aveva calato dentro.


Ora nella terra scura c'era in un sacco dell'immondizia quello che una volta era stato suo marito. Che lei aveva baciato e amato, abbracciato e consolato. Che aveva conosciuto meglio di se stessa e che per lei aveva significato tutto. Che era stato la sua vita. Rimase ancora a lungo sulla terrazza, gustando quel momento di quiete. A un certo punto cominciò a canticchiare piano tra sé: «When the night has come, and the land is dark,and the moon is the only light we'll see, no I won't be afraid, oh, I won't be afraid, just as long as you stand, stand by me. oh darlin', darlin', standby me, oh, standby me. Oh, stand, stand by me. Stand by me.» A poco a poco aumentò il volume e la sua voce limpida e chiara risuonò nella notte come un requiem solitario. Quando sentì il canto della civetta, soffiò sul lume, entrò in casa, chiuse con cura la porta e si coricò, in pace con se stessa. Si addormentò all'istante. *** Capitolo 10. Il mattino seguente Magda si svegliò alle otto e un quarto, fresca e piena di energie. Si alzò subito, si fece una doccia e si lavò i capelli, cosa che di solito le costava parecchia fatica. Non aveva fame, anche se il giorno prima non aveva quasi toccato cibo, ma le andava un caffè. Anzi, un cappuccino con molto latte caldo schiumoso. Cercò allora di rimettere in funzione la moka. Pulì il filtro, vi fece scorrere dell'acqua e aceto per eliminare il calcare, e alla fine cercò di preparare un espresso. Il primo risultò allungato e insipido, e non le piacque affatto. Per il secondo usò più caffè, schiacciò meglio la polvere nel filtro, e lavorò il terzo con il frullino cromato sino a ottenere una superficie cremosa. Magda si congratulò con se stessa, scaldò il latte sul fornello, lo montò con una frusta elettrica e lo versò sul caffè. Non ricordava più l'ultima volta che aveva preparato un cappuccino per colazione, e se lo gustò sorso a


sorso. Era una vera prelibatezza e lei si sentì quasi euforica. Basta tè annacquato tutte le mattine, da adesso in poi avrebbe sentito il gorgoglio della moka mentre si vestiva e annusato l'aroma di caffè per tutta la casa. E per la prima volta le attraversò la mente l'idea di non fare più ritorno in Germania. Dopo aver bevuto il cappuccino, si recò a Montevarchi. Trovò subito un parcheggio davanti alla stazione, cosa niente affatto insolita la domenica mattina. Alla biglietteria della minuscola stazione non c'era nessuno, e l'impiegata delle ferrovie si presentò solo quando vide Magda in attesa davanti allo sportello. Magda salutò cortese e comprò un biglietto per Roma. Quando l'impiegata glielo porse infilandolo sotto il divisorio di vetro, Magda chiese informazioni sul primo treno in partenza. «È alle 11,15», rispose l'impiegata. «Come?» esclamò Magda sbigottita. La sua finta agitazione sembrava sincera. «Pensavo che ci fosse un treno per Roma ogni ora! Alle 8,15, alle 9,15, alle 10,15...» «Alle 10,15 no. Il prossimo è alle 11,15.» «Ma che sistema sarebbe?» L'impiegata si limitò a dare una scrollata di spalle. Lavorando per le ferrovie, non avrebbe mai ammesso errori nell'orario dei treni. «Mi stia a sentire», proseguì Magda, «il biglietto non è per me, ma per mio marito. E fuori che sta parcheggiando l'auto. E fondamentale che arrivi a Roma puntuale, perché ha degli appuntamenti. Proprio per questo non ci è andato in macchina.» «Io non posso farci niente», replicò la donna dietro lo sportello, con un sospiro evidente, per segnalare che la cliente cominciava a darle sui nervi. «Non esiste nessun'altra possibilità?» Magda si dondolava da un piede all'altro tormentandosi le mani, in modo che l'impiegata lo interpretasse come un gesto di agitazione. «Magari c'è un altro treno che arriva prima a Roma, prendendo una coincidenza. Dovrà pur esserci un'alternativa!» «Mi scusi, signora, ma non ci sono alternative. 11,15. Prima non passa niente. Forse le conviene provare in macchina.» Detto questo si voltò: chiaramente riteneva conclusa la conversazione. «In Italia non funziona niente. Proprio niente», brontolò Magda uscendo, sicura che l'impiegata si sarebbe ricordata di lei, per il suo comportamento agitato e per il forte accento tedesco con cui aveva parlato.


Molto soddisfatta della sceneggiata, risalì in macchina e tornò a casa. *** Capitolo 11. Come tutti i martedì, al mercato di Ambra c'erano tante bancarelle diverse: frutta e verdura, pesce, pollo arrosto, porchetta e salsicce, dolciumi, scarpe, abbigliamento femminile, tovaglie e lenzuola, pantaloni, gilet, calzini, pullover e biancheria intima, camicie da notte, grembiuli. Magda voleva assolutamente comperare qualcosa. Alla bancarella di frutta e verdura acquistò un cespo di insalata, due teste d'aglio, un chilo di carote e un ananas. A quella delle scarpe un paio di sandali leggeri per quindici euro, di cui si capiva chiaramente che le delicate fascette si sarebbero strappate quasi subito. Infine al banco della biancheria intima chiese un pigiama leggero per il marito. «Che taglia porta?» domandò l'ambulante. «Non saprei. Grossomodo è venti centimetri più alto di me e magro.» La venditrice già non l'ascoltava più e, dopo aver frugato in uno scatolone, estrasse un pigiama chiuso in una busta di cellophane e glielo mise sotto il naso. «Dieci euro», disse. «Se non va bene, può cambiarlo la settimana prossima.» Il pigiama era a dir poco orribile. A quadri verdi e gialli con righe azzurre. Una combinazione impossibile. Magda esitò. «A suo marito piace la spugna?» chiese la venditrice. «In spugna ho una scelta più vasta. E costano otto euro.» Magda acquistò due pigiami di spugna: uno blu con un inserto rosso scuro sulla scollatura e sulle spalle, e uno verde oliva con le tasche marrone. Più tardi si mise a sedere al bar e ordinò un cappuccino e un'acqua minerale gassata. Prese la ciotolina delle noccioline sul bancone e la portò al tavolo sotto l'ombrellone bianco sulla piazza. Mentre sorseggiava di gusto il cappuccino, salutò l'edicolante, il barbiere e il vecchio insegnante in pensione che tutti chiamavano semplicemente «maestro». «Buongiorno, Maddalena», disse all'improvviso una voce alle sue spalle. Magda si voltò e si trovò davanti Katharina Tassi, una sua buona conoscente con la quale scambiava sempre volentieri due


chiacchiere. «Buongiorno, Katharina! Accomodati!» Katharina prese una sedia. «Monica mi ha detto che eravate tornati. Allora ho pensato di fare un salto al mercato per vedere se t'incontravo. Come stai?» «Bene. Benissimo. E tu?» «Anch'io, grazie.» Dunque le cose stavano proprio come aveva immaginato. Tutta Ambra sapeva che i Tillmann erano tornati alla Roccia. Ok, pensò Magda, allora stiamo al gioco. Non c'è alternativa. E Katharina mi aiuterà. «Come sta Johannes?» «Molto bene. Sabato è partito per Roma con un amico. Ma tornerà per il fine settimana.» «Quando siete arrivati?» «Tre giorni fa. Le vacanze per noi sono appena cominciate.» «Che bello. Allora possiamo vederci un giorno.» «Ma certo», rispose Magda premurosa. Katharina aveva sessantacinque anni e dalla morte del marito vent'anni prima viveva da sola in un'enorme casa in compagnia di un alano altrettanto enorme ma buono come il pane. Tutti i pomeriggi faceva una passeggiata di due ore con Attila, che facesse un caldo da far schiattare le mosche, o così freddo da ghiacciare i sassi. Katharina viveva secondo i propri orari, non si lasciava sviare da nessuno nei propri rituali, faceva soltanto ciò che voleva ed era felice. La pensione del marito le bastava per mantenere se stessa e il suo cane, per il resto dipingeva acquarelli che di tanto in tanto vendeva agli ospiti che affittavano il piccolo appartamento per le vacanze sistemato al pianterreno della sua casa. Era facile chiacchierare con Katharina, parlava bene sia tedesco sia italiano. Katharina andò al bar e ordinò un espresso. Quando tornò, Magda le chiese: «Te la sei poi comperata l'auto?» Katharina scrollò la testa. «No. La Fiat che mi aveva offerto Luigi costava troppo. E non credo che me la


comprerò più. Ce la faccio benissimo anche senza.» «Venerdì pomeriggio devo andare a Montevarchi a prendere Johannes alla stazione. Vuoi venire con me? Così potremo fare un salto all'Ipercoop.» Katharina non ci stette tanto a pensare. Quando voleva fare una spesa più ricca, doveva contare su qualcuno con una macchina. «Certo! Volentieri! Sei davvero molto gentile. » Si alzò. «A che ora verrai a prendermi venerdì?» «Dunque, fammi pensare... Johannes arriva alle sei e venticinque a Montevarchi. Se passo a prenderti alle quattro, abbiamo tempo sufficiente per fare la spesa e berci anche un caffè con tutta calma.» «Va bene. D'accordo. Grazie, Magda. Allora ci vediamo venerdì.» Mentre saliva a bordo della sua Vespa e s'infilava il casco, Katharina si disse che Magda era davvero una persona premurosa. Finora non se n'era mai accorta. Le era sempre apparsa piuttosto fredda e riservata e in passato non si era mai offerta di portarla da qualche parte con la macchina. Ci si può sempre sbagliare, pensò Katharina, rivolgendo un ultimo cenno di saluto all'amica e partendo tutta allegra. Magda bevve tre cappuccini, finché sentì che il battito del cuore le accelerava. Allora partì per Pietraviva per raggiungere Casa Domenica dove abitavano Monica e Massimo. Erano sposati da ventisette anni e si comportavano ancora come se si conoscessero da poche settimane. Massimo rendeva onore al proprio nome con la sua statura gigantesca, Monica era una donnina fragile e dava l'impressione che il marito potesse distruggerla con una manata. Massimo aveva un debole per il cibo, e questo si addiceva perfettamente alla passione di Monica: cucinare. Il marito era in grado di trangugiare sette ricche portate senza batter ciglio e senza sentirsi sazio. Al momento del dolce annunciava regolarmente che il matrimonio lo faceva ingrassare e che ogni anno metteva su un chilo di ciccia. Purtroppo non era stata ancora inventata una cura contro questa legge di natura. Monica accoglieva queste sue parole con un sorriso, interpretando la banalità del marito come un grande complimento. Massimo era uno spirito semplice e aveva un gran cuore. A cinquantotto anni era un ex falegname che arrotondava la pensione con lavoretti occasionali. Si occupava di giardini, costruiva steccati e ricoveri ed era sempre a disposizione tutte le volte che qualcuno aveva bisogno d'aiuto. Possedeva inoltre una piccola vigna e alcuni ulivi e vendeva ad amici e conoscenti la produzione che non consumava. Magda era molto affezionata a entrambi. Ormai era quasi un rituale che Magda e Johannes invitassero Massimo e Monica per cena alla Roccia all'inizio delle vacanze estive. In quell'occasione venivano


aggiornati sui principali pettegolezzi del paese, ma anche su cose importanti come nuovi decreti e ordinanze comunali o provinciali. Erano serate sempre piacevoli e interessanti e, quando Massimo parlava, Magda capiva tutto ciò che diceva e a volte dimenticava che usavano l'italiano. «Buongiorno, Maddalena!» tuonò Massimo quando Magda gli andò incontro. Era in piedi davanti a casa intento a tagliare la legna. Un tipico lavoro estivo, perché da quelle parti c'era l'abitudine di preparare la scorta di legna per l'inverno, asciutta e ordinatamente accatastata nella legnaia, entro ferragosto. Monica uscì di casa asciugandosi le mani con uno strofinaccio. Magda abbracciò entrambi. «Che bello che tu sia passata», disse Monica. «Siediti un momento con noi.» «Grazie.» Si misero a sedere attorno al tavolo sistemato proprio davanti alla cucina e coperto da una sgargiante tovaglia di plastica. «Sono passata perché volevo invitarvi a cena. So che ne avete già parlato con Johannes. Vi andrebbe bene domenica prossima?» «Magnifico !» esclamò Massimo con entusiasmo. «Siamo liberi e ne abbiamo proprio voglia, vero, Monica?» Monica annuì con un sorriso. «Allora? Tutto a posto alla Roccia?» chiese Massimo. «Tutto a meraviglia», rispose Magda sorridendo. «So che Johannes voleva abbattere il cedro malato all'entrata. Ha bisogno d'aiuto?» «Sarà meglio che ne parli con lui. Al momento non c'è, è partito sabato per andare a trovare un amico a Roma. Ma ritorna venerdì sera.» «Come mai non sei andata con lui?» «Troppo faticoso. Le ultime settimane a Berlino sono state molto pesanti, ho bisogno di riposarmi un po'. Tornare subito in una grande città, no, non ne avevo proprio voglia.» «Bene», osservò Monica, «sono d'accordo con te.» «Tu sei già stata a Roma?» «Sì. Due anni fa ci siamo stati per dieci giorni.» Massimo confermò con un cenno del capo. Chi era già stato a Roma era scusato. Secondo lui ogni persona che vivesse in Italia doveva visitare la città eterna e fermarsi in piazza San Pietro almeno una


volta nella vita. «Per quanto tempo vi tratterrete stavolta?» «Quattro o sei settimane. Magari un po' di più. Devo vedere se in farmacia possono fare a meno di me così a lungo.» «Molto bene. Allora sarete qui quando inizierà la sagra.» «Certo. Non vediamo l'ora.» «Possiamo offrirti qualcosa da bere? Un caffè, un bicchiere d'acqua, un po' di vino?» «No, grazie, Monica, sei molto gentile, ma non ho tanto tempo e devo ripartire.» Magda si alzò, abbracciò Massimo e Monica e prese la borsa. «Ci vediamo domenica, allora.» «A domenica. Ciao, Maddalena.» Mentre attraversava il giardino diretta verso la macchina, Magda pensò a che cosa avrebbe preparato per cena a Massimo e Monica. Magari poteva cucinare un'anatra. Non era una pietanza così insolita d'estate in Italia. E in ogni caso era il piatto preferito di Johannes. *** Capitolo 12. Lukas Tillmann fu svegliato dal suono del fax. Guardò l'ora. L'una meno un quarto. Maledizione. Metà giornata era già andata, ancora una volta non sarebbe riuscito a fare tutto quello che si era prefissato. In realtà avrebbe potuto benissimo rimettersi a dormire, perché ormai una mezz'ora in più o in meno non faceva differenza, ma si alzò lo stesso. Voleva assolutamente sapere chi gli aveva appena spedito un fax. Nell'epoca delle comunicazioni via e-mail, gli pareva antiquato almeno quanto un telegramma o un messaggero a cavallo. Attraversò con cautela il caos che ingombrava il pavimento. Bottiglie, libri e giornali erano sparsi per terra, un bicchiere si era rovesciato lasciando un'orribile


macchia di vino sul tappeto. Non aveva idea di quando fosse accaduto. Mentre barcollava fino al salotto, si rese conto con sollievo di non avere l'emicrania. Se non altro quello. Forse allora sarebbe riuscito a concludere qualcosa. Per esempio poteva fare il bucato. La montagna di panni sporchi lì accanto alla porta del balcone, era cresciuta a dismisura e si andava spargendo come la pasta di pane che lievitando deborda oltre la ciotola. La libreria a destra della porta era in condizioni disperate: la biancheria era arrivata fin sugli scaffali. L'idea di rimettere a posto tutto lo sgomentava, anche perché in salotto, in cucina e in bagno la situazione non era migliore. Doveva stare attento a non calpestare i cd e i dvd sparpagliati ovunque. Giunto sulla porta lanciò un'occhiata al fax sistemato sul davanzale della finestra. Provò una stretta allo stomaco riconoscendo sul foglio il logo del teatro. Si allarmò. Con un balzo oltrepassò gli indumenti che si era tolto la sera prima davanti al televisore e recuperò il foglio dal fax. Mentre lo leggeva si lasciò cadere sul divano. La direzione lo informava, gentile ma categorica, che purtroppo era stato necessario modificare la programmazione. La rappresentazione di Qualcuno volò sul nido del cuculo era stata cancellata a causa di difficoltà interne. La direzione si rammaricava di non poter godere della sua collaborazione e, nel caso si fosse presentato un ruolo adatto alle sue caratteristiche in qualche altro spettacolo, lo avrebbe senz'altro contattato. Cordiali saluti. Lukas fu preso da un attacco di collera così violento da sentire il cuore vibrargli nella cassa toracica. Che bastardi! Certo, il ruolo del custode Warren nella pièce non era proprio il massimo, e di certo non avrebbe segnato il suo trionfo sulla scena berlinese, ma se non altro era un modo per accedere alla porta di quel teatro. Forse poi sarebbe stato chiamato per lo spettacolo successivo e così, pian piano, sarebbe entrato a far parte di quell'ambiente. Per questo aveva considerato tanto importante quel ruolo. E adesso era sfumato. Nelle trattative per il cachet la direzione del teatro si era mostrata vergognosamente disponibile. Nonostante le continue lamentele sui tempi poco favorevoli per la cultura, sulle economie necessarie e sulla minaccia di bancarotta, alla fine gli erano stati offerti duecento euro a rappresentazione, ma niente per le prove. Lukas avrebbe detto di sì anche per centocinquanta euro, ma aveva cercato di non darlo troppo a vedere. Alla fine il direttore aveva finto grande soddisfazione per essere riuscito a convincere Lukas ad accettare la parte. E Lukas si era sentito lusingato. Il direttore aveva promesso di fargli avere il contratto nel giro di pochi giorni, e lui gli aveva creduto. Aveva continuato a farlo anche quando, trascorsa una settimana, del contratto continuava a non esserci traccia. Dopo dieci giorni aveva telefonato al teatro. Gli aveva risposto la segretaria, Frau Bremer, una brunetta con i capelli a caschetto e l'aria di essere ancora vergine a quarantacinque anni e maledettamente fiera di ciò. «È davvero strano che non abbia ancora ricevuto il contratto», gli aveva detto con voce flautata. «L'ho


spedito proprio venerdì. Probabilmente è colpa delle poste. Negli ultimi tempi abbiamo avuto diversi problemi con le consegne. Gliene mando una nuova copia oggi stesso.» «E davvero molto gentile da parte sua.» «Oppure potrebbe sottoscrivere il contratto direttamente qui in ufficio quando inizieranno le prove. Così siamo più sicuri; tanto mancano solo un paio di giorni.» La voce di quella megera sembrava inaspettatamente simpatica. Lukas era d'accordo. Le prove sarebbero cominciate il lunedì successivo. Per quel ruolo aveva comunque rinunciato ad altre proposte: una parte importante alla Synchron e tre giorni di riprese in Inghilterra per una riduzione cinematografica di un romanzo di Rosamunde Pilcher. I tempi non coincidevano, e il teatro per lui era molto importante. Adesso era a spasso. Niente lavoro, niente soldi, un'estate rovinata. Sapeva che avrebbe potuto intentare una causa legale contro il teatro e insistere sul rispetto del contratto stipulato a voce, magari avrebbe ottenuto anche un risarcimento, ma chi denuncerebbe un potenziale futuro datore di lavoro? Avrebbe chiesto un appuntamento con il direttore. Soltanto questo. Che schifezza. Il caos che lo circondava gli risultava ancora più insopportabile di prima, sebbene d'un tratto avesse tutto il tempo che voleva per rimettere in ordine. Fino al giorno prima aveva lavorato ancora per una serie americana allo studio di doppiaggio Synchron, aveva pronunciato le ultime battute alle otto e mezzo e poi era andato a festeggiare la fine della serie con i colleghi. Non riusciva a ricordare a che ora fosse rincasato. Aveva lavorato al doppiaggio per tre settimane di seguito senza avere modo di occuparsi dell'appartamento. Né tantomeno di andare a fare la spesa. Il suo frigorifero era malinconicamente vuoto, visto che per tutto quel tempo aveva sempre mangiato alla mensa dello studio. Andò a farsi una doccia, per liberarsi della delusione, poi si rese conto di non avere in casa neppure il caffè e fece un salto al Penny, per comperare almeno lo stretto necessario per la colazione. Dopo i primi due caffè cominciò a sentirsi meglio e si mise a pensare come uscire da quella situazione. Era l'inizio di giugno e non aveva senso inviare il proprio curriculum ai teatri. La chiusura estiva era alle porte, le prime rappresentazioni della nuova programmazione erano già state stabilite. Tutto quanto arrivava sul tavolo della direzione prima della pausa estiva finiva regolarmente nel cestino della carta straccia, oppure veniva dimenticato nel giro di qualche settimana. Telefonò alla sua agente Anneliese. Era una settantanovenne secca che chiamava tutti «tesorino» e


sosteneva di avere sessantatré anni. Viveva insieme alla sua bassotta Paulinchen al quarto piano di un vecchio condominio berlinese. Paulinchen doveva avere diciassette anni, che in termini umani corrispondeva all'incredibile età di centodiciannove anni, e di conseguenza era incontinente. Anneliese non se la sentiva di scendere i quattro piani di scale più volte al giorno per portare Paulinchen a fare i suoi bisogni. Per questo aveva sparso in tutte le stanze tovagliette di plastica adibite a gabinetto per cani. Paulinchen poteva fare pipì a suo piacimento, e l'odore acre di pipì impregnava tutte le stanze, anche se Anneliese cambiava spesso le tovagliette e arieggiava i locali. La donna non sembrava disturbata da quel puzzo rivoltante e pretendeva la stessa tolleranza anche dai suoi ospiti. A chiunque osasse spingersi nel suo appartamento raccontava volentieri e con dovizia di particolari aneddoti del tempo che fu, quando era stata assunta giovanissima nella compagnia di Gustaf Gründgen al teatro stabile di Düsseldorf. Nella foga del racconto dimenticava completamente che, stando all'età da lei dichiarata, sarebbe dovuta essere una bambina prodigio perché fosse vero. «Oddio, tesorino, è terribile», commentò stancamente quando Lukas le lesse il fax. «Ma che cosa vuoi farci? Devi aspettare tempi migliori. Proverò a parlare con Wedel, ha in programma una serie in sette puntate su un gruppo di criminali che dopo quindici anni di galera vengono inseriti in diverse famiglie per la riabilitazione e naturalmente commettono atrocità. Può saltare fuori una parte anche per te.» «A me serve qualcosa subito, Anneliese. Non posso aspettare che Wedel cominci a girare, e magari poi assegni la mia parte a Heiner Lauterbach. Le cose mi vanno male adesso, ed è adesso che devo rimediare.» «Ho capito, tesorino, ho capito. Ce l'ho il tuo numero?» «Sto con la sua agenzia da sei anni, e non ho mai cambiato numero di telefono.» «Benissimo. Odio gli attori che traslocano o cambiano il cellulare ogni settimana perché non hanno niente di meglio da fare.» «D'estate ci sono un sacco di produzioni in corso, quindi non dovrebbe essere impossibile trovare qualcosa anche per me.» «Figurati!» Anneliese soffiò forte tra i denti, facendo trasalire Lukas al di là della cornetta. «Sono tempi duri. Puoi credermi, tesorino. Non c'è più nessuno che giri qualcosa di sensato. Le uniche produzioni sono solo quegli assurdi reality. Solo mogli scambiate, appartamenti ristrutturati, oppure che so io. Una tragedia. Nessuno ha più qualche idea nuova.» «Forse però lei riesce a trovarmi lo stesso qualcosa. Io sono pronto a girare qualunque cosa. Anche a leggere l'elenco del telefono.»


«Non voglio sentir dire certe cose, tesorino. O ti trovo qualcosa di ragionevole oppure niente.» «D'accordo. Mi può raggiungere in ogni momento sul cellulare.» «Ce l'ho il numero?» «Ok, mi farò sentire io di tanto in tanto. Grazie. Arrivederci, Anneliese.» «Stammi bene, tesorino.» Anneliese riattaccò e Lukas si chiese se non fosse il caso di cominciare a cercarsi un'altra agenzia. Quel pomeriggio fece due lavatrici, passò l'aspirapolvere in salotto e pulì la cucina. Poi non ebbe più voglia di fare niente e andò a mangiare una pizza nel suo ristorante italiano preferito. Giovanni lo salutò come se non lo vedesse da un mese, mentre Lukas andava regolarmente a mangiare lì due o tre volte alla settimana. Gli offrì un prosecco come aperitivo, gli servì pesce, pasta e zuppa inglese, raccontandogli a ogni portata della nostalgia che aveva per l'Elba, dove lo aspettava la famiglia, i limoni fiorivano e i girasoli si giravano verso il mare. Dai piccoli altoparlanti nascosti e antiquati risuonavano le note di Volare, l'inno personale di Giovanni: bastava trattenersi per un poco per sentire quella canzone ripetersi più volte in una sera. Lukas era sempre più depresso. Una cosa aveva ben chiara in mente: non poteva restarsene a Berlino con le mani in mano sperando in un lavoro. Era impensabile, non avrebbe resistito. Dopo la terza grappa di commiato e un caloroso abbraccio da parte di Giovanni, Lukas comprese che cosa avrebbe dovuto fare per salvare l'estate e ritrovare la pace. Erano le dieci e mezzo quando compose il numero italiano. Magda gli rispose al terzo squillo. *** Capitolo 13. Lukas aveva conosciuto Magda diciassette anni prima, in occasione del sessantesimo compleanno di sua madre. I festeggiamenti erano avvenuti in un hotel berlinese di media categoria che si sforzava in tutti i modi di apparire più esclusivo di quanto fosse - ma falliva irrimediabilmente nell'intento già solo per i mobili e il personale. Lukas era sceso dal taxi e aveva attraversato a passo lento la hall insolitamente piccola. In quel momento gli si era avvicinato il fratello Johannes, in compagnia di una donna slanciata con i capelli scuri raccolti


in una crocchia, acconciatura che le donava incredibilmente. I suoi occhi scuri lo guardarono e Lukas ebbe la sensazione che lo scrutassero fino in fondo all'anima. «Ti presento Magda», disse Johannes. «Questo è mio fratello Lukas. Credo che non vi conosciate.» Lei gli porse la mano senza parlare. Lukas rimase immobile davanti a lei come folgorato, senza sapere che cosa fare. Non poteva guardarla, ma non riusciva neppure a distogliere lo sguardo. Nella sua testa si accavallavano disordinatamente parole e frasi; avrebbe voluto dire qualcosa, ma non sapeva che cosa. Niente gli pareva adatto, brillante o abbastanza spiritoso. Non c'era niente da fare. Quella donna lo aveva fulminato. Letteralmente. Si limitò pertanto a fare un cenno col capo, temendo che lei potesse interpretarlo come una mancanza di rispetto. O forse lo considerava un cretino, come in effetti lui si sentiva in quel momento. «Ero molto curiosa di conoscerti», disse invece lei con un sorriso. «Johannes mi ha raccontato qualche aneddoto della vostra infanzia.» «Quali precisamente?» la incalzò Lukas sentendosi un vero idiota. «Non ora, Lukas.» Johannes cinse le spalle di Magda con il braccio sinistro e la strinse a sé. «Dobbiamo andare un attimo in macchina a prendere qualcosa. Tu sali pure, intanto. Sala numero cinque. La mamma ti sta aspettando.» Magda gli rivolse un ultimo sorriso, poi uscirono insieme per la porta girevole. Durante quella festa di compleanno Lukas ballò con Magda tre volte. Un veloce fox, un cha cha cha e un valzer lento. Dopo il fox si mise a sedere al tavolo insieme a lei e al fratello. «Sai ballare bene», commentò lei ammirata. «E abbastanza raro negli uomini.» «E il mio lavoro», rispose lui con tutta la modestia che seppe trovare, «almeno in parte.» «Lo so. Johannes mi ha raccontato che sei un attore. Ma un attore non deve necessariamente essere un maestro di fox-trot, giusto?» «Effettivamente no. Ma di sicuro non guasta.» Ogni minuto che passava lei gli appariva più bella. Quando sentì le prime note del pezzo successivo, la prese per mano. «Vieni, un cha cha cha.» Ballavano in maniera così armoniosa come se negli ultimi anni non avessero fatto altro. Lukas sapeva che Johannes li osservava dal tavolo pronto a cogliere il minimo gesto, un vago movimento che potesse farlo insospettire.


Ma Lukas aveva il perfetto controllo di sé e non lasciava trasparire che gli sarebbe piaciuto abbracciarla, baciarla e sedurla proprio lì davanti a tutti gli ospiti. Dopo il ballo rimase seduto al tavolo. Bevve due birre e le raccontò del suo lavoro, delle sue speranze, dei suoi progetti e del suo imminente debutto a Braunschweig. Il burattinaio di Hubertus Digerius. Un'occasione incredibile per un giovane attore. Quasi un assolo. Sarebbe stato di scena per tutto lo spettacolo e avrebbe dimostrato finalmente tutte le sfaccettature dei suo talento. Forse con quel ruolo gli sarebbe riuscito di suscitare l'interesse per avvicinarsi almeno un pochino al suo obiettivo: Berlino. «Verremo sicuramente a vederti a Braunschweig», disse Magda. «Non c'è problema. Johannes è spesso in viaggio da quelle parti e certo non vorrà perdersi il debutto di suo fratello.» «Me lo prometti?» chiese Lukas. «Sì, te lo prometto. E se Johannes non avesse tempo verrò da sola.» Magda mantenne la promessa. Andò alla première a Braunschweig e ci andò da sola. Lukas, che si era divertito molto durante le prove, ora di fronte a lei fu assalito dall'incertezza. Sapeva che era in sala, ma non sapeva dove. Dietro le quinte, aspettando di entrare in scena, venne assalito da una sensazione di gelo. Cominciò a tremare e si sentì seccare la bocca. La gola gli si strinse: capì che la voce l'avrebbe tradito. Cercò di deglutire, ma non gli riuscì. Intanto la paura cresceva. Il palcoscenico gli appariva come una gogna, un patibolo, un luogo di umiliazione. Aveva perso completamente il controllo. Del proprio corpo e dei propri pensieri. La sua mente era una lavagna nera; aveva dimenticato ciò che nel giro di pochi secondi avrebbe dovuto fare e dire su quel palcoscenico; era un fallito, non era all'altezza della tensione. Venne pronunciata la battuta d'ingresso. Lukas la udì come ovattata, come se giungesse da molto lontano, e non riuscì a crederci. Tuttavia uscì sul palcoscenico convinto di averlo fatto al momento sbagliato. I riflettori lo abbagliarono. Non si ricordava che le luci di scena fossero così forti. Faceva caldo, si sentiva quasi soffocare. Il calore corporeo di ottocento spettatori aveva riscaldato l'aria. Lui non sentiva più freddo, sudava e cercava di orientarsi, cercava di ritrovare il cammino - tanto a lungo provato - sotto gli occhi attenti del pubblico, sotto lo sguardo di Magda. L'aria era densa e pastosa. Sapeva di muffa, umidità e respiro stantio. Lukas avvertì la tensione che il pubblico gli trasmetteva. E all'improvviso si sentì felice. Era potente e libero, tutti gli occhi erano puntati su di lui: che sensazione indescrivibile! La paura scomparve, di fronte a lui c'era solo la sua partner che lo guardava trepidante. E lui si lasciò andare. Dimenticò di trovarsi su un palcoscenico, dimenticò il pubblico, dimenticò Magda. Quello che pronunciava era ciò che pensava e sentiva in quel momento. Era l'uomo innamorato descritto dall'opera teatrale e non si era mai sentito così autentico.


«Sei venuta», disse, «sei tornata per davvero.» Si inginocchiò davanti alla sua partner. «Ero come un pezzo di legno sospinto dalle onde nella vastità dell'oceano, ora sento il sangue che torna a scorrermi nelle vene. Sono rinato, vivo e respiro, amo. Senza di te ero un foglio di carta bianco, una nuvola nel vento, una lacrima che cade a terra.» Lukas pianse. Le lacrime gli rigarono il volto e, quasi incredulo, ne tastò il sapore salato sulle labbra. Al termine della rappresentazione si sentiva completamente svuotato. Non era più in grado di reggersi in piedi e l'applauso gli giunse come un fragore ovattato, era un rombo minaccioso, simile a quello che un sommozzatore percepisce sott'acqua all'avvicinarsi di un motoscafo. Venti minuti più tardi lei era con lui in camerino e lo abbracciava. Lui era sempre sudato, struccato solo a metà, a torso nudo. Ma lei non parve badarci, perché il loro abbraccio durò pochi secondi. «Sei stato fantastico», gli bisbigliò. «Per tutto il tempo ho avuto la pelle d'oca.» Stappò una bottiglia di spumante che la direzione aveva posato insieme a un programma sul tavolo del camerino. «Dobbiamo brindare.» Lukas prese due bicchieri dal davanzale della finestra e versò il vino. «Purtroppo è un po' caldo.» «Non ha importanza.» Stavano facendo il brindisi, quando la porta si spalancò e Reinhard, il regista, entrò come una furia e abbracciò Lukas. «Meraviglioso!» disse, pieno d'orgoglio. «Sarà un successo formidabile. Te l'assicuro! Hai recitato in maniera favo-lo-sa; la scena d'amore iniziale, quando lei torna da te, non era mai stata così intensa come stasera! Nelle prove non c'eri mai riuscito, e ora all'improvviso! Proprio la sera della prima!» Lanciò un'occhiata ammiccante a Magda. «Sei un fenomeno, Lukas!» Lukas si limitò ad assentire. Aveva le guance rosse. «Bene, ci vediamo alla festa al ristorante», annunciò poi Reinhard con voce flautata, e scomparve con la stessa rapidità con cui era arrivato. Noi non ci saremo, pensò Lukas. Ho in mente qualcos'altro. Si girò verso Magda e le sorrise. «Ti va di venire a mangiare con me?»


«Volentieri», rispose lei andando alla porta. «Ti aspetto all'uscita del teatro.» Seduti in un piccolo giardino d'inverno a Rosenhof, quella sera mangiarono scampi e insalata di rucola. «Johannes era molto dispiaciuto di non poter venire, ma aveva un impegno a Stoccarda e non poteva liberarsi», disse lei infilzando una foglia di insalata per volta con la forchetta. «Non mi dispiace affatto.» Lukas ridacchiò. «Mi fa piacere poter passare una serata da solo con te.» Magda finse di non aver sentito e aggiunse semplicemente: «Comunque ti ha pensato. E mi ha detto di salutarti molto». «Grazie.» «Anche da bambini eravate così poco uniti?» «Ma... boh... non saprei... non ci prendevamo a botte, ma senza mio fratello la vita mi sarebbe piaciuta di più.» «In che senso?» «Johannes era sempre quello più buono, più ubbidiente, quello che andava meglio a scuola e portava a casa i voti migliori. Veniva lodato di continuo, e io avrei dovuto prendere esempio da lui. Io ero quello pigro, la pecora nera, il fallito.» «Poverino!» «Già. Tutte le volte che portavo a casa un'insufficienza, dovevo prendere ripetizioni da mio fratello. Era una tortura, ti assicuro, e non funzionava per niente, perché mi trattava come l'ultimo degli imbecilli. E siccome lui doveva essere compensato per il suo lavoro e io punito per la mia insufficienza ero costretto a pagargli le ore di ripetizioni con i miei soldi !» A Magda scappò un gridolino. «Ma è pazzesco! Non si fanno certe cose! Ma che cosa speravano i tuoi genitori?» «Niente. Semplicemente toglievano di mezzo il problema. Ho odiato mio fratello, anche se lui non c'entrava niente. Comunque sia, se ne andava con i miei soldi alla gelateria di Mario mentre io dovevo restare a casa. Già, le cose funzionavano così a casa nostra. Quindi come puoi ben immaginare non ho mai nutrito un amore sviscerato per mio fratello.» Magda annuì. «Posso capirlo.» Per un po' rimasero in silenzio. Intanto erano arrivati al dolce e Lukas aveva ordinato la seconda bottiglia


di vino, sebbene avesse l'impressione di bere soltanto lui, perché Magda sorseggiava raramente dal suo bicchiere. La guardò a lungo, combattuto. Poi pronunciò la frase più difficile e più ardita della sua vita: «Mi sono innamorato di te, Magda». «Lo avevo intuito», replicò lei sottovoce ricambiando il suo sguardo. «Sei un amico fantastico, Lukas. Sono contenta di averti conosciuto, ma non sono innamorata di te.» «Aspetta qualche tempo. Dacci una piccola chance.» «No.» «Perché no?» domandò lui in tono quasi implorante. «Perché sposerò Johannes.» Quella frase lo colpì come un pugno. Si curvò sulla sedia e la guardò sgomento. Non aveva dato eccessiva importanza al fatto che Magda fosse la nuova fidanzata di Johannes, perché le relazioni di suo fratello erano sempre superficiali. Era pronto ad aspettare. Anche a lungo, se necessario. Mesi. Persino anni. Ma ora la situazione era del tutto diversa. Ora lei gli sfuggiva. Come una persona appesa nel vuoto la cui mano scivola via a poco a poco. *** Capitolo 14. «Che bello sentire la tua voce, Lukas», disse Magda. «Come stai? Hai molto da fare?» «Sto bene, grazie. No, che dico, sto da cani, Magda.» «Come mai?» La sua voce tradiva una sincera preoccupazione. «Mi è saltato un contratto per una parte a Berlino.» «Accidenti.» Lei tacque sgomenta, perché immaginava bene che Lukas si trovasse in difficoltà finanziarie. «E allora che cosa hai intenzione di fare?»


«Non ne ho idea. E un momento davvero difficile per andare a bussare alle porte sperando in un ingaggio. I parrucconi dei teatri sono tutti a Maiorca, e i fricchettoni del cinema stanno già girando.» «So come ti senti.» Era seduta in terrazza e teneva il cellulare all'orecchio. I grilli frinivano nel buio, e nugoli di zanzare e falene danzavano intorno al lume acceso sul tavolo. Di tanto in tanto un insetto finiva bruciato, con uno sfrigolio che riempiva Magda di profonda soddisfazione. «Se esiste una depressione così grave da non aver più nemmeno voglia di sbronzarsi la sera, allora io ci sono dentroin pieno.» Magda rise. «Devi stare proprio male.» «Raccontami di te», la pregò Lukas. «Come state? Che cosa fate tutto il giorno? Per quanto tempo resterete in Italia?... Sei l'unica che possa rincuorarmi un po' in questo momento.» «Qui non succede niente di particolare. Johannes è partito per Roma per vedere un vecchio amico, ma tornerà venerdì. Io cerco di tenere in ordine l'orto, zappo la terra da mattina a sera e devo essere dimagrita di almeno tre chili. Ma penso che resteremo qui ancora per quattro o cinque settimane. Giorno più giorno meno.» Lukas sospirò. «Magda, te lo chiedo senza tanti giri di parole. Vi darebbe fastidio se venissi da voi per qualche giorno? Sono pronto a tosare i prati, andare a fare la spesa, o fare qualunque altra cosa, ma qui a Berlino non ce la faccio a stare. Devo riflettere in pace sul futuro.» «Ma sicuro, vieni pure! Non ci dai per niente fastidio», mentì lei. In realtà avrebbe voluto soltanto essere lasciata in pace e stare da sola. Non le serviva qualcuno che si chiedesse dove fosse finito Johannes, e facesse inutili domande. Viceversa non esisteva una ragione plausibile per negare a Lukas di andarli a trovare: La Roccia aveva una camera per gli ospiti e Johannes apprezzava la presenza del fratello che lo aiutava nei lavori sulla proprietà. «Stammi a sentire», proseguì lei, «Johannes tornerà venerdì, domenica abbiamo degli ospiti, ma poi... puoi venire tranquillamente lunedì o martedì. Nessun problema.» «Sei un tesoro, Magda.» Lukas era felicissimo. «Lo so.» «Vedrò di trovare un biglietto aereo economico, altrimenti verrò col treno. Quando avrò prenotato, ti chiamo per farti sapere. Ok?» «Perfetto.»


«Magda, non sai quanto sono contento. Grazie.» «Ma figurati.» «Allora ci sentiamo. E salutami Johannes quando ritorna.»«Certo. Non abbatterti. In un modo o nell'altro te la caverai. Ciao, Lukas.» «Ciao, Magda.» Lukas chiuse la comunicazione e agitò un pugno in aria in segno di trionfo. Si era alzato un vento fresco. Magda rabbrividì e valutò se mettersi un golf, oppure rientrare in casa. In lontananza si sentiva un abbaiare di cani. Incredibile che i rumori di Solata arrivassero fin lì, perché tra il paese e La Roccia c'era una collina boscosa. Spense la luce sulla terrazza e l'illuminazione esterna della casa. Poi andò a letto. Rannicchiata sotto la morbida coperta, pensò a Johannes. «Dormi bene, tesoro», mormorò, «dormi bene, dovunque tu sia. E non dimenticarmi.» Quella notte sognò dei lupi. In branco circondavano la buca nell'orto. Scavavano come forsennati, la terra volava in aria compiendo un ampio cerchio e in un tempo brevissimo scoprirono il cadavere, molto più in fretta di quanto avrebbe potuto fare una persona con vanga e pala. Una volta terminata l'opera, i lupi rivolsero i musi affilati verso il cielo e ulularono alla luna piena. Poi lei li vide lacerare i sacchi verdi e avventarsi famelici sulla preda. I lupi strappavano dal corpo enormi brandelli di carne, si accucciavano nell'erba e li divoravano sbattendo le fauci. Avevano i musi grigi impiastricciati di sangue. Uno di loro scomparve nel bosco con un pezzo di gamba. Con orrore capì che il capobranco stava addentando la testa. Per una frazione di secondo Magda ebbe l'impressione che l'occhio sinistro di Johannes le ammiccasse. Il cuore smise di batterle. Non sapeva se avventarsi a sua volta sull'animale e strappargli la testa da sotto i denti, ma non lo fece, perché temeva di finire sbranata lei stessa. Allora si mise a strillare, con voce alta e stridula, come un maiale quando viene ammazzato. I lupi si bloccarono, sorpresi, poi scapparono via tenendo tra le fauci gran parte della preda. *** Capitolo 15. Quando Magda, il mattino dopo, si svegliò madida di sudore, ricordava soltanto di aver avuto un incubo.


Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a richiamare alla mente le immagini che l'avevano tanto spaventata. Alle otto e mezzo bevve un cappuccino e, mentre si chiedeva dove avesse messo le chiavi dell'auto, notò le ragnatele appese fuori dalla finestra della cucina che ondeggiavano lievi nella corrente d'aria. Balzò in piedi, riempì un secchio d'acqua, prese lo spray per pulire i vetri, una pelle di daino, uno strofinaccio pulito e cominciò a lavare la finestra. A quel punto la differenza con le altre finestre della cucina era così netta che le pulì tutte. Quando finì erano le dieci e mezzo. Alla fine trovò le chiavi dell'auto nel cestino della frutta dove era rimasta soltanto una mela, e alle dieci e quarantacinque partì. La commessa della merceria somigliava molto a Daniela, l'assistente della farmacia. Aveva gli stessi occhiali spessi, come se si fosse rovinata la vista a furia di cucire, ricamare, fare la maglia e l'uncinetto e a fissare maglie, occhielli e fili minuscoli. Rimase sorpresa che una cliente, a giugno, le chiedesse della lana grossa. D'estate si lavorava principalmente il cotone, mentre la lana pesante si vendeva soprattutto a novembre. Magda scelse della lana grigia con sottili fili azzurri. Aveva portato con sé un maglione di Johannes e chiese alla merciaia quanta lana di quel tipo ci sarebbe voluta per farne uno come quello. La negoziante misurò e calcolò, spingendosi ripetutamente i pesanti occhiali fino alla radice del naso. «Voglio fare un regalo di Natale a mio marito», spiegò Magda, «e ora che sono in vacanza ho tempo di lavorare ai ferri. Quando la sera ci sediamo in terrazza, mi piace avere qualcosa da fare.» «Brava», disse la merciaia annotando file di numeri su un foglio di carta. «In questo momento mio marito è a Roma», disse Magda, «ma tornerà dopodomani. Il maglione non sarà una sorpresa, ma almeno potrà provarselo man mano.» «Brava», ripetè la merciaia con un sospiro. «Purtroppo non ho la quantità di lana sufficiente. Devo ordinarne circa la metà.» «Non importa. Quando le arriverà?» «Molto probabilmente venerdì della prossima settimana.» «Benissimo. Allora la ordini pure.» La merciaia mezzo cieca rovistò alla ricerca di un bloc-notes per gli ordini, si annotò il nome di Magda, l'indirizzo e il numero di telefono. «La chiamo quando arriva la lana.» «Molto gentile.» Magda rivolse alla merciaia un sorriso smagliante e uscì dal negozio con una grande


borsa di plastica contenente una parte della lana. Quel pomeriggio lavorò ancora un po' nell'orto. Estirpare le erbacce era un'operazione lunga e faticosa, perché l'erba nel frattempo era cresciuta fino all'altezza di quasi quaranta centimetri. L'opera procedeva con estrema lentezza. Di tanto in tanto Magda si fermava, si appoggiava al rastrello e lasciava vagare lo sguardo su quel pezzo di terra che ora le apparteneva. La fossa biologica ancora da interrare era uno scandalo e la faceva innervosire tutte le volte. Appena fosse arrivato Lukas, lo avrebbe pregato di ricoprire di terra le pareti laterali della buca. Dopo due ore non ne poteva più e lasciò perdere. Si infilò sotto la doccia, si cambiò e mangiò bruschetta e pecorino con un bicchiere di vino bianco fresco. Poi intrecciò le maglie per fare il davanti del maglione. Rimase tutta la sera in terrazza a lavorare a maglia. Aveva sistemato il piccolo televisore sul davanzale girandolo in modo da poterlo vedere anche da lì. Alle undici e mezzo aveva fatto già quindici centimetri di maglia ed era molto soddisfatta. Mise via il lavoro, rientrò in casa, accese un cd di Paolo Conte e alzò il volume al massimo. Alla canzone Via con me scoppiò a piangere. *** Capitolo 16. Magda e Katharina erano al binario tre. Dagli altoparlanti riecheggiò un annuncio, ma Magda non capì una parola, perché proprio lì di fronte, sul binario uno, un addetto alle pulizie stava spazzando e strigliando - o meglio spargendo la sporcizia uniformemente - il marciapiede e la sala d'aspetto con una macchina infernale. «E il nostro treno», disse Katharina, che evidentemente aveva sentito meglio. «Il treno da Roma arriva tra due minuti, così potrai rivedere la tua dolce metà.» Magda prese sottobraccio Katharina. «A volte mi sento come un'idiota, oppure come un'adolescente. Johannes è stato via solo qualche giorno, e io sono agitata come se avessi vent'anni e non ci vedessimo da mesi.» «Ma è fantastico !» Katharina sorrise. «Conosco poche coppie sposate da tanto tempo come voi e così felici. E una grande fortuna, Magda. Custodiscila con cura.» «Lo so. Me ne rendo conto ogni giorno.»


La voce metallica ripetè l'annuncio mentre l'uomo con la macchina infernale proseguiva indisturbato i suoi giri. «Io sono stata insieme a mio marito solo cinque anni, poi è morto», disse Katharina sottovoce. «Non è giusto. Viene da maledire il mondo intero. Dappertutto vedi persone che festeggiano le nozze d'argento, le nozze d'oro o che so io, e tu pensi di continuo: perché io no? Perché a noi sono toccati in sorte solo cinque anni? Non si fa neppure in tempo a conoscersi. A colazione si continuano a raccontare vecchi aneddoti, che l'altro ancora non sa. E all'improvviso tutto appartiene al passato e tu devi ricominciare daccapo.» «Posso immaginare quanto sia difficile, Katharina», disse Magda partecipe, «e anche se può sembrare strano, puoi credermi: io ringrazio il Signore per ogni giorno che mi concede insieme a Johannes. Mi rendo perfettamente conto che all'improvviso potrebbe succedere qualcosa... Peng! E tutto finisce.» Il treno si fermò con uno stridio di freni impedendo qualsiasi ulteriore dialogo. Magda e Katharina aspettavano vicino all'unico sottopassaggio che portava agli altri binari e all'uscita. Chiunque fosse sceso doveva passare davanti a loro. In questo modo non avrebbero potuto non vedere Johannes. Katharina teneva d'occhio il marciapiede a sinistra e Magda a destra. A poco a poco la stazione si svuotò, e nel giro di pochi minuti era deserta. Johannes non era arrivato. Magda si sfilò gli occhiali da sole, irritata. «Ci capisci qualcosa?» mormorò. «Quando Johannes dice che arriva, lo fa. Non ricordo una sola volta in cui non sia stato puntuale.» «Prova a telefonargli!» suggerì Katharina. «Vedrai che ci sarà una spiegazione banalissima.» Magda prese il cellulare dalla tasca e compose un numero. Poi aspettò pochi secondi e spense l'apparecchio. «Niente. C'è la segreteria.» «Lascia un messaggio», la incalzò Katharina. Magda ripetè il numero e disse, quando scattò la segreteria: «Per favore, Hannes, richiama! Dove sei finito? Sono alla stazione di Montevarchi e ti aspetto». Infilò il cellulare nella tasca della giacca. «Mi sembra tutto molto strano.» Katharina sorrise. «Andiamo a bere un caffè, Magda. Sono sicura che ha preso il prossimo treno da Roma.» «Lo spero. Forse è arrivato tardi e adesso sul treno il suo cellulare non ha campo. Vieni, offro io.»


Magda voleva portarla via, ma Katharina diede un'ultima occhiata al piccolo monitor, appeso alla tettoia della stazione, con i treni in arrivo. «Il prossimo treno arriva tra un'ora esatta.» Sul binario tirava un vento freddo e Magda rabbrividì. Avrebbe dovuto prendere la giacca. Insieme a Katharina si trovava nello stesso punto di un'ora prima, Katharina guardava a sinistra e Magda a destra, scrutando la folla attentamente alla ricerca del volto di Johannes. Anche stavolta il marciapiede si svuotò nel giro di pochi minuti. E di Johannes neppure l'ombra. Magda incrociò le braccia. «Sai che ti dico? Comincio a perdere la pazienza. Davvero. Non viviamo sulla luna! Se qualcosa va storto, o se c'è un imprevisto, ci sono mille modi per farlo sapere.» «Sono d'accordo. Che cosa conti di fare adesso?» «Non ne ho idea.» Magda scrollò le spalle. «Torno a casa e aspetto che arrivi. O almeno che telefoni.» «Sei preoccupata?» Magda esitò un istante. «Un pochino. Perché non è sua abitudine comportarsi così. In genere chiama per avvisarmi anche se ha solo mezz'ora di ritardo.» Le due donne lasciarono l'edificio della stazione. «Dove alloggia a Roma? Dal suo amico?» «No, non credo.» Magda si fermò e frugò nella borsa alla ricerca dell'agendina. «Aveva cercato una pensione su Internet. Accidenti, non riesco a ricordarmi il nome.» Sfogliò l'agenda. «E non me lo sono neppure scritto. Non era importante, del resto telefonava ogni giorno. Era un nome femminile. "Emilia" oppure "Rosalia", o qualcosa del genere.» «Si è portato il computer?» «No.» «Allora è facile. Prova a cercare su Google "Emilia" oppure "Rosalia". Se il nome è quello giusto, trovi il sito visitato da Johannes. Così avrai l'indirizzo e il numero di telefono e potrai chiamare.» «E davvero un'ottima idea. Lo farò subito.» Magda sorrise riconoscente. «Vieni, torniamo a casa.» «Che ne dici di andare a mangiare qualcosa, prima?»


propose Katharina. «Puoi dormire da me, se ti senti troppo sola alla Roccia.» «Diavolo, no! Abbiamo tutta la spesa in macchina. Me n'ero dimenticata. Devo mettere l'anatra in frigorifero il prima possibile.» Salirono in macchina, Magda partì sgommando e per un attimo Katharina ebbe la sensazione che si preoccupasse più della spesa che del marito. *** Capitolo 17. Magda accese il computer di Johannes. Conosceva la password. Johannes l'aveva inserita anni prima e mai cambiata. Perché doveva cercare l'indirizzo di un albergo che non esisteva? Al momento voleva soltanto giocare. Aveva assoluto bisogno di distrarsi. Si concentrò quindi a riordinare colonne di carte, provando una grande soddisfazione quando riusciva a sistemare colori e semi in ordine decrescente. Giocò per due ore, senza vincere neppure una partita del solitario a livello massimo di difficoltà e, a ogni partita persa, la voglia di riuscirci aumentava. Voleva sentire il lieve e veloce fruscio di quando un'intera fila di picche oppure cuori veniva raccolta sullo schermo, voleva vedere la fine di una partita con i fuochi d'artificio colorati che partivano automaticamente quando tutte le carte erano state ordinate correttamente. Le carte danzavano davanti ai suoi occhi. Non aveva mangiato né bevuto niente e di tanto in tanto si sentiva mancare. A volte doveva letteralmente aggrapparsi al computer e far vagare lo sguardo per la camera respirando profondamente, per non svenire. Johannes non sopportava quando lei giocava. Per lui era sempre motivo di arrabbiatura, ma Johannes ora non c'era. Fuori scese la sera. A parte il frinire sempre più flebile dei grilli, il silenzio era assoluto. Magda muoveva veloce il mouse sullo schermo, senza farsi distrarre neppure dalla musica. Alle dieci e un quarto squillò il telefono. Magda sussultò. Alzandosi provò un violento capogiro e fu costretta ad appoggiarsi alla parete per non cadere. «Pronto?» bisbigliò al telefono, con la voce di chi si è appena svegliato.


«Ciao, Magda!» la salutò Hildegard, sua suocera, decisamente allegra. «Come va? Vi siete ambientati in Italia?» «Sì, certo, ma non abbiamo avuto ancora molto tempo.» «Naturale. In casa e in giardino tutto a posto?» «Tutto bene.» «Ah, grazie al cielo. Ho sempre paura che qualcuno entri in casa vostra quando non ci siete. Io non potrei mai lasciare per così tanto tempo una casa vuota...» Magda sbuffò, perché Hildegard gliel'aveva ripetuto già tantissime volte. Praticamente ogni volta che loro andavano in Italia. Preferì invece rispondere stancamente: «Finora abbiamo avuto fortuna, evidentemente». «Dimmi una cosa, Magda», riprese Hildegard cambiando argomento, «abbiamo grossi problemi con la nostra autofficina. Richard vorrebbe cambiarla. Sai mica dove Johannes ha portato la macchina a fare la revisione l'ultima volta? Si era trovato così bene...» «Non ne ho idea. Da qualche parte a Moabit.» «Passamelo, per favore.» «Mi spiace, ma non c'è.» «Ah, no?» si meravigliò Hildegard. Dove poteva essere Johannes a quell'ora? Mancavano pochi minuti alle dieci e mezzo. «E andato a Roma per qualche giorno.» «Quando torna?» «Domani o dopodomani. Dipende da come gli gira.» «Allora provo a chiamarlo sul cellulare.» «Come vuoi.» Per un istante rimasero entrambe in silenzio. Alla fine Hildegard chiese sottovoce: «Non hai paura a restare a casa da sola?» «No. Perché dovrei? Qui i ladri entrano quando non c'è nessuno, quando le case sono vuote. Ma con l'auto davanti alla porta e la luce accesa non succederà niente. E poi non è la prima volta che sono qui da sola, Hildegard...»


«Sì, sì, lo so. Allora buonanotte, ci sentiamo.» «Certo. Buonanotte anche a te e salutami Richard.» Magda riattaccò. S'immaginò la suocera che entrava nel suo minuscolo bagno anni Sessanta - in realtà una sauna -, si lavava i denti, s'infilava la camicia da notte, si metteva a letto e magari prima scambiava ancora qualche parola con il marito. Di solito Richard restava alzato molto più a lungo della moglie. A volte stava seduto fino alle tre di notte a leggere nella poltrona accanto alla lampada a stelo, oppure a guardare un film. Hildegard amava molto il figlio, era proprio fiera di lui e, pensandolo, si consolava del fatto che il secondogenito Lukas non avesse concluso niente di buono. Magda spense il computer e accese il televisore. Guardò l'ultima edizione del notiziario. Ma ogni notizia le rimbalzava addosso. Niente aveva a che fare con lei. Viveva in un universo separato tutto suo. E la solitudine che in quel momento avvertì con grande forza era lei che l'aveva creata. *** Capitolo 18. Era quasi come ai vecchi tempi. Quasi perfetto. L'anatra era cotta a puntino, la salsa con l'arancia e il rosmarino era riuscita, gnocchi e spinaci erano in caldo, l'insalata pronta e la tavola in terrazza apparecchiata. Dieci minuti dopo le otto arrivarono Massimo e Monica, salutarono affettuosamente Magda e si complimentarono dei fiori e delle piante rigogliose nei vasi di terracotta. «Dov'è Johannes?» chiese Monica, vedendo la tavola apparecchiata per tre. Sorridendo Magda stappò una bottiglia di prosecco come aperitivo e lo versò in tre bicchieri. «Già, mi spiace davvero tantissimo, ma ha telefonato che resterà a Roma ancora un paio di giorni. La città eterna evidentemente ha esercitato il suo fascino... Pensavo che comunque sarebbe stato ugualmente bello cenare insieme. Anche perché avevo comperato e preparato già tutto.» «Ma certo, hai ragione», squittì Monica accarezzandole la mano. Magda levò il bicchiere. «Salute», disse, «brindiamo a questa splendida estate e a questa bella serata. Benvenuti alla Roccia, e buon appetito!» Dopo aver chiacchierato del più e del meno e aver bevuto un bicchiere di prosecco a testa, Massimo e Monica fecero un giro della proprietà, mentre Magda condiva il carpaccio in cucina e lo suddivideva nei


piatti. Massimo e Monica si fermarono sul limitare dell'orto. «E una vergogna», disse Massimo scrollando il capo alla vista del terreno solo in parte liberato dalle erbacce e per il resto ancora coperto di sterpaglia, «so che a Johannes piace occuparsi personalmente dell'orto, ma quando non c'è che cosa succede? Guarda, Monica, Magda deve aver già cominciato a strappare le erbacce laggiù, ma da sola non ce la può fare. E troppo faticoso.» «Hai ragione», commentò Monica pensierosa, «c'è ancora tanto di quel lavoro !» Massimo cinse le spalle della moglie con un braccio. «Va' là, me ne occuperò io. In un batter d'occhio preparerò il terreno e lo seminerò.» Monica lo guardò raggiante. «Fallo, Massimo! So cosa vuol dire quando l'orto non è pronto per tempo. Tutti gli altri raccolgono già le prime foglie d'insalata e tu sei ancora lì a seminare ravanelli.» Lo baciò fugacemente su una guancia. Magda li chiamò dalla casa. «Venite? La cena è in tavola!» «Nemmeno una parola sull'orto con Magda», bisbigliò Massimo. «Dovrà essere una sorpresa. E non voglio neppure niente in cambio. E un lavoro che faccio come regalo.» «Da me di sicuro non verrà a sapere niente», lo rassicurò Monica con aria offesa. «Sai bene, tesoro, che sono muta come una tomba.» «È stata una serata davvero magnifica», commentò Monica tornando a casa in auto con Massimo. «Peccato per l'assenza di Johannes.» Massimo non rispose, lo sguardo concentrato sulla strada. Aveva bevuto qualche bicchiere di vino, ma per fortuna a quell'ora non c'era traffico in giro. «Che cosa c'è?» lo incalzò Monica. «Non ti è piaciuta? Il cibo era ottimo.» «Sì, sì... certo... è solo che ho una strana sensazione.» «A che proposito?» «Porca miseria», esclamò Massimo dando di colpo una manata al volante, «non esiste che una persona se ne vada a Roma quando in realtà vuole trascorrere le ferie con la moglie in Toscana! C'è qualcosa che non va, Monica!» «In che senso?» Massimo le lanciò un'occhiata seria. «Lui l'ha lasciata, amore. Ha preso il largo, se ne sta con un'altra a Roma a divertirsi.


E Magda fa buon viso a cattivo gioco.» «Johannes non farebbe mai una cosa del genere. Mai! Non è da lui.» «Se sapessi di che cosa sono capaci gli uomini, cara!» Monica preferì non approfondire l'argomento, e si limitò a chiedere: «Dunque secondo te Johannes non tornerà nei prossimi giorni?» «Mi sa proprio di no.» Massimo lampeggiò a un'auto che gli veniva incontro con gli abbaglianti accesi. Mentre percorrevano la strada da Ambra a Pietraviva, nessuno dei due parlò più. Solo una volta giunti davanti a casa, Monica disse: «In questo caso è ancora più importante che le sistemi l'orto. Se non altro avrà qualcosa con cui tenersi occupata». *** Capitolo 19. Ancora una volta l'annuncio dell'altoparlante al binario ventoso della stazione di Montevarchi. Il treno in arrivo proveniva dalla stazione di Santa Maria Novella a Firenze e proseguiva per Roma passando da Arezzo. Lui scese dal treno, le andò incontro a braccia aperte, quasi correndo, e l'abbracciò di slancio. «Magda, che bello vederti!» La baciò sulle guance. «Benvenuto», rispose lei stanca mentre lui continuava a tenerla stretta guardandola raggiante. «E una vergogna, ma diventi più bella ogni anno che passa», le disse. Magda sorrise e diede un'occhiata alla sua piccola borsa da viaggio. «Hai solo questo bagaglio?» «Già», rispose Lukas con un sorriso sornione. «Lo so che questa roba è troppo poca per una settimana, ma anche per tre settimane, in questo modo posso restare tutto il tempo che voglio.» «Quanto tempo conti di fermarti?» Lukas scrollò le spalle. «Vedremo. Finché non vi darò sui nervi. A proposito, Johannes non è venuto con te?» «No.»


«Che meraviglia», commentò Lukas con spietata sincerità, «almeno così potremo chiacchierare in santa pace da soli per un po'.» «Per questo avremo un sacco di tempo.» Magda lo guardò con aria triste e lo prese per mano. «Vieni, ti racconterò tutta la storia in auto. Johannes non c'è. E a Roma e sono diversi giorni che non lo sento.» «Magda, mio fratello era una persona molto meticolosa, un vero maniaco della precisione ! E tutto quello che prometteva lo manteneva sempre. Tu lo conosci meglio di me, e sai bene che ha sempre avuto il pallino degli orari. Non posso nemmeno pensare che non abbia rispettato un appuntamento.» «Smettila di parlare di lui al passato!» «Hai ragione, scusa. Allora, mio fratello è un orologio svizzero. E inconcepibile che non telefoni se ha cambiato i suoi piani e se ha avuto un contrattempo. Certo, le sorprese sono sempre possibili, ma così è davvero troppo.» «Forse gli si è rotto il cellulare.» «Che stupidaggine, Magda. Se si vuole telefonare, lo si può fare dappertutto. Al bar, alla posta, nei negozi, nei ristoranti... figurati, qualsiasi vecchietta sarebbe pronta a prestargli il cellulare se lui glielo chiedesse un momento. E un negozio su due vende cellulari... no, Magda, non farti illusioni. Deve esserci un'altra ragione.» «Oppure ha perso il cellulare e non sa il mio numero, perché l'aveva registrato in rubrica: l'ho appena cambiato e lui non l'ha mai imparato a memoria. Santo cielo, possono esserci migliaia di possibilità.» «Naturalmente. In ogni caso io ce l'avrei a morte con lui», osservò Lukas. «Infatti è così.» Lukas e Magda erano seduti in cucina. Fuori tirava un forte vento. Niente di straordinario neppure d'estate. Molto probabilmente l'indomani sarebbe piovuto. Magda si rigirava il bicchiere tra le mani. In realtà non voleva più sentir dire niente. «Devi andare alla polizia.» Magda fece una breve risata asciutta. «Ti prego! Un tedesco fa un breve viaggio a Roma e non torna il giorno prestabilito. E allora? Johannes non è un bambino smarrito, ma un uomo adulto. La polizia non farà niente, se non ridermi in faccia.»


«Se non sarai tu a sporgere denuncia per la scomparsa, lo farò io.» «Sei davvero così ansioso di veder tornare tuo fratello? Credevo che volessi restare da solo con me.» Magda pronunciò quelle parole con una inconfondibile nota sarcastica. «Niente sparisce su questo pianeta», filosofeggiò Lukas. «Quindi esistono solo due possibilità: o gli è successo qualcosa, oppure non voleva tornare a casa. Ti ha lasciata, Magda. Se l'è svignata con una bionda ventenne.» Magda lo fissò piena di odio. «Come puoi dire una cosa del genere!» sibilò, poi balzò in piedi, salì di corsa le scale e si chiuse in camera da letto. Quel mascalzone, pensò Lukas, e poi: ho rovinato tutto. Lei non vuole sapere niente. Valutò se fosse il caso di seguirla e di scusarsi, poi lasciò perdere e si prese una birra nel frigorifero. Una cosa di sicuro gli era chiara: sarebbe rimasto con Magda e l'avrebbe aiutata finché Johannes non fosse ricomparso. Vivo o morto. *** Capitolo 20. Il maresciallo Donato Neri era molto dimagrito. Se n'era accorto persino il suo ex assistente Tommaso Grotti. «Porca miseria!» aveva esclamato. «Maresciallo, è davvero dimagrito tanto!» In circostanze normali Neri si sarebbe rallegrato di una simile osservazione, ma siccome non aveva seguito alcuna dieta cominciava a preoccuparsi. Sua moglie Gabriella cucinava come al solito, forse con un po' meno entusiasmo e un po' meno cura, e quando la vedeva giocherellare con il cibo nel piatto anche Neri perdeva l'appetito. Gabriella era frustrata, annoiata e delusa, e ogni sera, quando tornava a casa, lui temeva di trovare un biglietto sul tavolo della cucina con sopra scritto: Me ne sono tornata a Roma. Non mi cercare. Addio. Gabriella.


Fino a qualche anno prima Neri era un maresciallo di successo e sua moglie Gabriella, romana di nascita e orgogliosa di esserlo, viveva felice con lui nella sua amata città. Poi il maresciallo aveva commesso un irrimediabile errore. In un caso di omicidio di una bambina, aveva cercato nell'archivio computerizzato dei carabinieri inserendo soltanto le categorie: «infanticidi», «maniaci sessuali», «stupratori e pedofili» ma non sotto «rapitori» ed «esibizionisti». Se l'avesse fatto, avrebbe scoperto che nella via della piccola vittima abitava un pregiudicato per atti osceni in luogo pubblico. Invece, dopo la scomparsa della bambina, l'appartamento dell'uomo era stato perquisito solo in seguito alla testimonianza di una vicina di casa. Nel contenitore sotto il letto era stato rinvenuto il cadavere della piccola. Neri era stato trasferito in una cittadina del tutto anonima: Montevarchi. Gabriella non gliel'aveva mai perdonato. Si annoiava a morte lì in provincia e si aggrappava all'unica speranza che il marito ottenesse un nuovo trasferimento nella capitale grazie a un risultato straordinario. Ma aveva sbagliato anche in questo. In quella zona rurale si verificavano soltanto piccoli reati: furti in appartamento, d'auto e nei negozi oppure risse, qualche suicidio, dispute di carattere ereditario, o ancora incidenti di caccia. Nel 2005, tuttavia, a Neri era stato affidato un caso importate: una donna era stata sgozzata nella sua casa isolata nel bosco. Era la sua occasione: se avesse trovato il colpevole, sarebbe stato un uomo nuovo. Ma Neri non era riuscito a risolvere il caso. Non solo: aveva individuato un colpevole sbagliato ed erano stati commessi altri omicidi. A questo punto Neri si era reso del tutto ridicolo e addirittura aveva perso il posto a Montevarchi. Era stato trasferito nella più sperduta stazione dei carabinieri immaginabile, Ambra. I sogni di Gabriella di poter tornare a Roma crollarono definitivamente. Neri non riusciva a sopportare questa disfatta e il perenne cattivo umore della moglie. Le serate in sua compagnia erano un tormento, perché lei gli faceva sentire tutta la sua insoddisfazione e non perdeva occasione per rinfacciargli di essere un fallito. La faccia, un tempo rubiconda, di Neri si era afflosciata. Ora aveva le guance incavate e gli occhi cerchiati. Il suo assistente Tommaso Grotti, con quell'insopportabile singhiozzo che lo assaliva tutte le volte che era agitato, era rimasto a Montevarchi. A volte ne sentiva sinceramente la mancanza. Anche se gli aveva fatto spesso perdere la pazienza con le sue massime di saggezza popolare, non di rado esse contenevano un fondo di verità e di tanto in tanto, con quella sua logica semplice e quasi ingenua, Grotti riusciva a cogliere collegamenti che a Neri sfuggivano del tutto.


Qui ad Ambra, però, non aveva bisogno di assistenti. Non c'erano casi di cui occuparsi. Stava seduto con la sua impeccabile uniforme nell'ufficio spoglio, temperava la matita, beveva caffè, e sbrigava assurde e noiose pratiche burocratiche. In quel momento si stava occupando della richiesta di un certo Bataloni, proprietario di diciassette ettari di terreno dove viveva con la moglie, che non era cacciatore ma voleva prendere il porto d'armi. Per difesa personale, affermava. Era già capitato diverse volte che degli sconosciuti a bordo di motocross fossero andati a casa sua a rubare. Lui era riuscito a scacciarli tutte le volte con l'aiuto dei suoi cani, ma non si sentiva più sicuro. Soprattutto la moglie aveva paura quando era da sola. Bene, e allora? pensò Neri. Che cosa vuole adesso? Vuole sparare a ogni motociclista che passa davanti a casa sua di notte? Di sicuro quei ragazzi non erano andati lì per bere un bicchiere di vino insieme a Bataloni, questo era certo, ma non c'è bisogno di sparare subito! Se Bataloni avesse ottenuto il porto d'armi, sarebbe successo di sicuro qualcosa. Neri ne era certo. E lui non voleva avere responsabilità in questo senso. Non più. Perciò archiviò la richiesta di Bataloni nella pila di pratiche a sinistra: erano i casi che dovevano essere inoltrati ai suoi ex colleghi di Montevarchi. Ai suoi diretti superiori, per così dire, con preghiera di esame. Neri comprese che lì ad Ambra lui non aveva più alcun potere decisionale. Né si fidava a prenderselo. Era una persona destinata a incontrare sempre nuovi ostacoli. Stava pensando se non fosse il caso di chiudere l'ufficio per qualche minuto per andare a bere un caffè in piazza, quando bussarono alla porta. Neri sussultò per la sorpresa. Il suo collega Alfonso Garzi nell'ufficio accanto era alle prese con un tedesco che non masticava l'italiano e capiva solo due parole per frase. Garzi gli stava spiegando come fare una denuncia per furto. Neri sentiva le due voci, quella esitante del tedesco e quella sempre più spazientita e forte di Alfonso. Decise di alzarsi per andare ad aprire la porta. Quando se la vide davanti, ricordò di averla già vista qualche volta ad Ambra, ma non aveva mai parlato con lei né era in grado di collegarla a un nome. «Buongiorno maresciallo», disse lei educata e a bassa voce. «Vorrei denunciare la scomparsa di mio marito.» Parlava in maniera chiara, comprensibile e grammaticalmente corretta, ma il suo accento tedesco era inconfondibile. «Prego, signora, si accomodi.» La osservò bene mentre si sedeva. Gli sembrava che avesse l'aria stanca, l'incarnato era quasi trasparente e aveva i capelli raccolti distrattamente sulla nuca, con un effetto affascinante. Non si era messa tutta in ordine apposta per andare dai carabinieri di Ambra. Questo lo colpì in maniera positiva.


Per prima cosa prese le sue generalità, annotando i dati presenti sulla carta d'identità. Nome, cognome, indirizzo, età. Quella donna aveva quarantun anni. La stessa età di Gabriella. Ma la sua dolcezza le dava un'aria giovanile e la faceva apparire quasi una ragazza. «Che cosa è successo?» domandò quindi, invaso all'improvviso dalla sensazione di essere tornato importante dopo tormentose settimane di inattività. «Mio marito è scomparso», ripetè lei agitata. «E partito domenica scorsa, il 17, con il treno, per andare a trovare un amico a Roma. Voleva fermarsi in città qualche giorno e tornare venerdì. Ma non è mai arrivato.» Neri aggrottò la fronte. «Immagino che suo marito abbia un cellulare?» «Certo. Ho provato a chiamarlo migliaia di volte, ma è spento. Oppure è rotto.» Fece un sorriso mesto e Neri la trovò di una bellezza sconvolgente. «Per prima cosa mi dia le generalità di suo marito.» Magda scrisse su un foglio i dati richiesti. «La carta d'identità e il passaporto tedesco li ha con sé.» Neri annuì. Lei aveva una calligrafia morbida, fluida e leggibile. Del resto non si era aspettato niente di diverso. «Qual è il nome dell'amico che suo marito è andato a trovare a Roma?» «Roberto. Purtroppo ho dimenticato il cognome. Fratelli, Frenelli, Fantini o qualcosa del genere. E ingegnere civile e ci ha dato ottimi consigli quando abbiamo ristrutturato La Roccia. Due anni fa poi si è trasferito a Roma e mio marito è rimasto in contatto con lui. Altro non so.» «Suo marito alloggiava da questo suo amico?» «Presumo di sì.» «E possibile che invece abbia prenotato una camera in un albergo?» «Potrebbe essere. Però non so in quale.» «Ci sono degli alberghi a Roma dove lui è già stato in precedenza e che gli sono piaciuti?» «Che io ricordi no. Non si reca spesso a Roma.» «D'accordo», disse Neri, «me ne occuperò personalmente. Ho buoni contatti a Roma e parlerò con i miei colleghi. Forse riuscirò a scoprire qualcosa. La prego di descrivermi come era vestito suo marito.»


Magda ci pensò su. «Jeans neri, camicia a righe e giubbotto scamosciato marrone chiaro.» Erano tutti capi di vestiario che Johannes non possedeva e che in questo modo lei non sarebbe stata costretta a bruciare o far sparire. «Potrebbe fornirmi un elenco di ciò che aveva messo in valigia?» «Sì, certo. Nessun problema.» «Avevate litigato prima della partenza di suo marito per Roma?» «No.» La risposta giunse sicura, nitida e senza esitazioni. «Non ricordo di aver mai avuto un litigio serio con lui.» «Significa che andate d'accordo?» «Certo. La nostra relazione è perfetta. Una specie di simbiosi. L'uno non può stare senza l'altra.» L'italiano di Magda si fece più incerto, con più errori, tuttavia Neri comprese ciò che voleva esprimere. «Quindi è da escludere l'ipotesi che suo marito l'abbia lasciata?» domandò Neri, pronto a una risposta aggressiva da parte di lei. Ma la donna rimase calma. «Sì», rispose. «Totalmente. E del tutto inconcepibile. Ho già detto che siamo felicemente sposati da molti anni. Perché dovrebbe mandare tutto all'aria?» Guardò Neri con occhi imploranti. «La prego, mi aiuti. Ho bisogno di lui.» Neri sentì una stretta allo stomaco, come se non mangiasse da tre giorni. «Certo che l'aiuterò. Farò tutto il possibile. Suo marito aveva altri amici o conoscenti a Roma dai quali potrebbe essersi recato?» «No. Non che io sappia.» «Quale professione svolge suo marito?» «Ha una ditta di traslochi. Possiede diverse filiali in varie città tedesche.» Neri mordicchiò la matita. «E possibile che avesse degli appuntamenti di lavoro a Roma?» Magda scrollò il capo. «Me ne avrebbe parlato. Inoltre ha lasciato a casa l'agenda, il computer e i documenti relativi ai prossimi contratti. Non lo farebbe mai, se avesse un appuntamento di lavoro.» «Naturale.» Neri si sforzò di trovare altre domande sensate, ma non gli venne in mente niente. Voleva andare a casa per parlare con Gabriella. Forse lei avrebbe avuto un'idea.


Le donne hanno una fantasia molto più spiccata degli uomini per certe faccende. «Cara signora, penserò alla cosa», disse. «Nel caso avessi altre domande da farle, le telefonerò, oppure passerò da lei.» «La ringrazio, davvero molto gentile.» Magda si alzò. Gli porse la mano. «Arrivederci, maresciallo. Molte grazie.» Poi uscì dall'ufficio e Neri ebbe l'impressione di riuscire a leggere la sua infelicità anche nella postura della schiena. Per prima cosa consultò la grande cartina appesa al muro di fronte alla sua scrivania, per vedere dove si trovasse La Roccia. Era ad Ambra da tre mesi e continuava a non conoscere bene la zona circostante. In particolare i poderi isolati e più lontani gli erano ancora del tutto sconosciuti. Tutte le volte che veniva chiamato per un'effrazione o per appianare una lite, doveva affidarsi al senso d'orientamento del suo collega Garzi. Neri impiegò un certo tempo a localizzare il podere su un'altura di cinquecentotrentun metri tra Solata, San Leolino e Nusenna. Ora aveva una vaga idea di dove si trovasse la casa, ed era sicuro di non esserci mai stato. Un motivo ulteriore per andare a trovare la signora. Voleva farsi un quadro generale di come viveva la coppia in quella casa isolata. «Mostrami dove abiti, e ti dirò chi sei», era una frase che amava ripetere Gabriella. Forse sarebbe bastato l'intuito per sapere se tutto era rose e fiori come appariva dal racconto della signora. Garzi si era liberato. Il tedesco se n'era andato frustrato e in preda alla disperazione, con la sensazione che non sarebbe mai riuscito a recuperare i documenti che aveva nel portafogli che gli era stato rubato. Garzi era seduto sulla rigida sedia dell'ufficio e sfogliava una rivista di caccia. Era un cacciatore appassionato e chiudeva regolarmente non solo uno, ma tutti e due gli occhi quando i suoi compagni di caccia uscivano senza autorizzazione, abbattevano animali domestici più o meno per una svista, oppure sparavano nelle immediate vicinanze delle case - tanto che gli occupanti telefonavano impauriti ai carabinieri. In questo modo tutti gli anni in autunno riceveva in dono diversi litri d'olio e una discreta fornitura di vino e grappa. A parte questa «debolezza», Garzi era un collega piacevole, con cui Neri spesso andava a bere un goccetto, e si sentiva libero di raccontare barzellette sporche. Non se la prendeva mai, era sempre tranquillo e di buon umore, amava la moglie e i figli sopra ogni altra cosa e cercava di comportarsi correttamente in tutto ciò che faceva. Certo, secondo le sue regole di correttezza. Garzi aveva cinque anni meno di Neri e non poteva immaginare niente di più bello che fare il carabiniere ad Ambra. Non sognava di andare né a Roma né in alcun'altra città. Era felice in quell'ambiente provinciale, dove tutti lo salutavano, dove conosceva ogni singolo albero, cespuglio o persona. Garzi era parecchio più basso di Neri e completamente calvo sulla sommità del capo. Gli era rimasta solo una striscia di capelli scuri. Sembrava un clown, pensava spesso Neri, soprattutto se la sera prima


aveva ecceduto con la grappa e al mattino aveva ancora il naso rosso. «Johannes Tillmann, il proprietario della Roccia, è sparito. Sua moglie ne ha denunciato la scomparsa», annunciò Neri avvicinandosi alla scrivania di Garzi. «Tu lo conosci?» «Di vista. L'ho incrociato un paio di volte al mercato. E credo che sia stato anche qui. Per via di qualche documento. Prima o poi passano tutti di qui.» Con un sorriso sornione riprese a sfogliare il giornale. «Non si è più visto da domenica 17.» «Sì, e allora?» Garzi era del tutto indifferente. «Prima o poi tornerà. Oppure scriverà una commovente lettera dal Brasile dicendo di voler cambiare vita. Forse ha conosciuto una bella ragazza mora a una scuola di ballo. Te lo dico io.» «Non è andato in Brasile, bensì a Roma.» «Oh-oh!» Garzi era molto divertito. «A Roma ci sono molte voragini pronte ad aprirsi e nelle quali si cade senza più riuscire a uscirne, non è vero, Neri? E il tuo ambiente. Sei tu il nostro esperto di Roma.» Le parole del collega bruciarono nell'animo di Neri che tuttavia cercò di restare calmo e di non mostrare quanto fosse offeso. «La moglie non crede che se ne sia andato e che l'abbia lasciata», riprese sottovoce. «Nessuna moglie è disposta a crederlo.» Garzi stava ancora ridendo. «Vorrei passare da lei oggi pomeriggio, oppure domattina. Che ne dici?» «E un'idiozia, Donato.» Garzi smise di ridere e posò i piedi sulla scrivania. «Che cosa vorresti fare? Sentirti dire ancora una volta che era il marito più affettuoso e più fedele del mondo? Vorresti guardare vecchi album di fotografie? Questo è mio marito da bambino, qui aveva diciassette anni, questa è una foto del nostro matrimonio... ti prego. Qualsiasi persona adulta ha il diritto di tacere a parenti e conoscenti dove si trovi. E se non esistono ipotesi di reato, e non possiamo presumere a priori che ne sia stato commesso alcuno, non dobbiamo lasciarci coinvolgere nella faccenda.» Neri sospirò. «E poi tu conosci la strada per arrivare alla Roccia? Non è una strada, è come il letto di un torrente asciutto, una vera tragedia. Solo dei matti come i tedeschi possono abitare dove si arriva solo con una strada simile. Non mi sembra il caso di rischiare la nostra jeep.»


«Chiederò in giro negli ospedali di Roma.» «Fallo pure, amico mio, fallo pure», rispose Garzi con un plateale sbadiglio. Il caso lo interessava quanto un furto di galline. Neri si mise a riflettere. Avrebbe presentato una domanda ufficiale per un viaggio di lavoro a Roma. Così avrebbe potuto riferire direttamente da lì. E naturalmente Gabriella lo avrebbe accompagnato. Finalmente sarebbe stata di nuovo fiera di suo marito e se la sarebbe goduta. Lui l'avrebbe strappata alla sua depressione e l'avrebbe resa felice. «Al posto tuo telefonerei ai tuoi ex colleghi di Roma», lo schernì Garzi. «Forse potrebbero fare qualcosa loro.» Sorrise di nuovo e Neri provò l'impulso irrefrenabile di afferrargli e stringergli quel collo tozzo e corto. *** Capitolo 21. Gabriella aveva preparato la pasta e servì a Neri un gran piatto di penne con broccoli e sarde rosolate con l'aglio spolverandole con abbondante parmigiano. «E tu?» chiese Neri stupito, vedendo che la moglie prendeva per sé solo un piattino di insalata dal frigorifero. «Sono a dieta», rispose lei. «In questo schifo di posto ho messo su così tanti chili per il nervoso che adesso voglio dimagrire. E poi voglio comprarmi un nuovo guardaroba. Ma prima devo perdere almeno due taglie.» Neri annuì in silenzio. Non si era affatto accorto che la moglie fosse ingrassata. «Devo perdere almeno sei chili, se non etto.» Neri continuò a tacere, per paura di dire qualcosa di sbagliato, e cominciò a mangiare. «Prova a guardarti in giro, Donato! Guarda come si veste la gente da queste parti! Roba che non accetterebbe neanche la Caritas. Potresti andare al mercato con la camicia da notte o con un sacco di iuta e nessuno se ne accorgerebbe. Allora?» domandò dopo una pausa incrociando le mani sul tavolo e guardando il marito con espressione sarcastica. «Qualche novità ad Ambra? Nella fortezza del crimine?


» Neri cominciò a descrivere nella maniera più particolareggiata possibile la sparizione del proprietario della Roccia. Gabriella lo ascoltò attentamente e per l'eccitazione dimenticò di mangiare l'insalata. Quando lui ebbe finito, lei lo fissò serissima. «Ma Donato», disse, «non ti rendi conto di quello che è successo?» «Che cosa vuoi dire?» Neri era perplesso. Da un lato si aspettava un brillante consiglio da parte della moglie, dall'altro non voleva fare di nuovo la figura dell'idiota. «Proviamo a esaminare tutte le possibilità.» Gabriella spostò le penne di lato, incrociò le mani sul tavolo, e si sporse verso il marito come per incalzarlo. «Ammettiamo che le cose stiano come racconta lei. Hanno un rapporto meraviglioso e felice, e all'improvviso l'uomo sparisce. Non si fa più sentire, quando di solito si telefonano ogni giorno. Lei esclude che abbia un'altra donna. Se presumiamo che sia vero, allora è successo qualcosa, caro mio. Al giorno d'oggi non è possibile che una persona non riesca a dare notizie di sé.» «Fin qui ci eravamo arrivati anche noi.» «Bene. Quindi esiste una ragione soltanto per cui non si fa più sentire: è morto. Se si fosse trattato di un incidente o di un malore improvviso, lei l'avrebbe già saputo da tempo. Significa che è stato assassinato. Molto probabilmente da quel presunto amico che nessuno conosce.» Neri annuì convinto. «E l'altra possibilità?» «Potrebbe darsi che lei abbia mentito e che il rapporto fosse tutt'altro che idilliaco. Il matrimonio è a un passo dalla separazione, e l'uomo sparisce. Ma lei avrebbe sporto denuncia in quel caso? No. Quantomeno non così prontamente. Perché avrebbe immaginato che lui l'ha lasciata e si trova nel letto di una sgualdrina qualsiasi. A Roma, o da un'altra parte. Potrebbe essersi trasferito ovunque per far perdere le proprie tracce. Una denuncia di scomparsa per lei sarebbe come ammettere una responsabilità e dichiarare al mondo intero di essere stata abbandonata dal marito. Quindi, credo che possiamo escludere questa possibilità, perché lei è corsa subito da te.» «Sì, questo è plausibile.» «Va bene. Ora passiamo alla terza possibilità: lei lo odiava e l'ha ucciso. Interpreta la parte della moglie amorevole e preoccupata e presenta una denuncia per sviare l'attenzione dall'omicidio.» «Potrebbe essere.» «No, non credo, tesoro. La coppia è appena arrivata alla Roccia, come mi hai detto tu. Forse non lo sa


ancora nessuno, magari non hanno ancora visto nessuno, non sono stati al mercato né qui in giro. Sarebbe un azzardo eliminare il marito appena arrivati e correre subito alla polizia. Se io volessi fare una cosa del genere, aspetterei l'ultimo giorno. In questo modo tutti potrebbero aver visto che la coppia ha trascorso una vacanza allegra e spensierata insieme, passeggiando mano nella mano per la piazza del mercato. E poi, se fossi al posto di... com'è che si chiama la moglie?» «Magda.» «Ecco, se fossi al posto di Magda, io partirei. In Germania racconterei che mio marito è voluto restare ancora un paio di settimane in Italia. Poi, trascorse quattro settimane, denuncerei la sua scomparsa. Prima che le autorità tedesche contattino quelle italiane, passano altre settimane. Alla fine si verrebbe a creare una tremenda confusione; tra Germania e Italia ci sarebbe un rimpallo di responsabilità, mentre in paese nessuno ricorda più particolari né date; il caos è assoluto e, se il cadavere è ben nascosto, l'omicidio non verrà mai scoperto.» Si fregò le mani. «Io farei così. Ammazzare il marito proprio all'inizio delle vacanze è piuttosto stupido, e per questo di sicuro lei non l'ha fatto.» «Sei una donna proprio intelligente, Gabriella», disse Neri accarezzandole la mano. Gabriella, lusingata, concluse: «Pertanto, dev'essere stato ucciso a Roma. E fantastico, Donato. Semplicemente meraviglioso. Anche in questo mortorio, ti è capitato un altro caso eccezionale! Una terza possibilità. E incredibile che cosa si inventa il destino per riportarti a Roma, nonostante i due fiaschi passati. Tesoro, sono entusiasta. La cosa migliore è che tu vada il prima possibile alla stazione e ti assicuri che quell'uomo sia partito veramente per Roma con il treno. Forse qualcuno se lo ricorda ancora. Poi andremo insieme a Roma a cercare questo fantomatico amico. Ah, Donato, sarà meraviglioso !» Si alzò e gli gettò le braccia al collo. La depressione delle ultime settimane sembrava improvvisamente sparita. A Neri sembrava di avere le ali. Se la fortuna lo assisteva, forse non si trattava solo di una stupida crisi matrimoniale, ma di un omicidio vero e proprio. *** Capitolo 22. Magda era contenta di non dover trascorrere la serata da sola in terrazza.


«Raccontami tutto quello che ti viene in mente», le chiese Lukas. «Dammi qualche indizio, Magda. Quali erano le sue passioni, i suoi sogni? Che cosa avrebbe voluto fare già da anni, senza mai riuscirci? Ti prego, dimmi qualunque cosa. Anche se la ritieni del tutto secondaria. Io allora lo cercherò. Ti giuro che sposterò mari e monti, mi basta solo un appiglio.» Magda aveva reclinato la testa all'indietro e guardava il cielo stellato. «Domani sarà un'altra bella giornata», disse sottovoce e sorrise. «Limpida e senza vento. A lui piacevano molto le giornate così, perché poteva stare fuori a lavorare. In realtà non faceva altro. E la sera poi rischiava di addormentarsi sul piatto per la stanchezza. Non si fermava mai un attimo, mai una pausa per guardare le stelle. Di tutte le costellazioni presenti in questo incredibile mare di stelle, conosco soltanto l'Orsa Maggiore e l'Orsa Minore. Nessun'altra. E tu?» «Io non ne conosco neanche una.» «E pensare che molte stelle che noi vediamo brillare in questo momento in realtà si sono spente da tantissimo tempo. Lo trovo davvero incredibile.» Lukas non voleva parlare di stelle. Aveva la sensazione che lei cercasse di sviare le sue domande. «Dov'è Johannes, Magda?» le domandò. «In tutta sincerità. Tu che cosa pensi?» «È come con le stelle. Però al contrario. Noi non lo vediamo, ma lui è da qualche parte.» «Ma avrai pure un'idea. Un timore. Parlamene, Magda. Solo così possiamo fare un passo avanti.» «Non saprei proprio. Non ho la più pallida idea.» «Ti dispiace se do un'occhiata alla scrivania di Johannes? Forse potrei trovare qualcosa, che so, un appunto, un documento che possa aiutarci.» «Accomodati. Guarda pure dappertutto. A me non disturba. La sua scrivania, la sua agenda, anche il suo computer. Io non ho trovato assolutamente niente.» Rimasero entrambi in silenzio per diversi minuti. Poi lei disse all'improvviso: «Mi fa piacere che tu sia qui. Puoi restare tutto il tempo che vuoi». Lukas stava per dire qualcosa, ma lei si alzò di scatto.


«Ho un terribile mal di testa», disse. «Sarà meglio che vada a letto. Buonanotte.» Entrò in casa senza aggiungere altro. Lukas non era stanco e trascorse metà della notte nello studio di Johannes. Gli ci vollero due ore solo per esaminare il computer. Trovò cinque hotel a Roma i cui siti probabilmente erano stati visitati da Johannes. Ma non riuscì a capire se il fratello avesse prenotato in qualcuno di essi, anche perché non conosceva la password per leggere la posta. Si annotò i nomi degli hotel e cominciò a esaminare la scrivania. Nell'agenda notò la lettera «C» ripetuta spesso. A volte con indicata a fianco un'ora, altre senza. Sull'agenda telefonica sotto la C c'era un paio di nomi tedeschi, ma per il resto si trattava di cognomi italiani: «Castagnole», che a Lukas non diceva niente, «Computer Service via di Castello» e «Cesare». Poi c'erano anche: «Clinica veterinaria», «Christian», «Carabinieri Bucine», «Caldaie servizio», «Careggi ospedale Firenze» e infine una «Carolina» con un numero telefonico di Berlino. Annotò il numero su un post-it. Forse era lei la «C». Il mattino seguente Lukas si alzò alle otto. La casa era ancora immersa nel silenzio, Magda evidentemente dormiva. Fece una doccia veloce, bevve un bicchiere d'acqua fresca e tornò nello studio di Johannes per telefonare. Erano le otto e mezzo quando compose il numero di «Carolina». Immaginava che nessuno gli avrebbe risposto e trasalì quando una voce assonnata disse: «Pronto?» «Buongiorno», cominciò cordiale, «mi spiace molto disturbarla a quest'ora... sono Lukas Tillmann, il fratello di Johannes.» «Ah, sì. E che cosa desidera?» Il tono della voce all'altro capo del telefono era leggermente irritato. «Johannes è sparito da alcuni giorni. Volevo chiederle se lei ha per caso un'idea di dove possa trovarsi.» «Credo che sia da sua moglie in Italia.» «No, non c'è. Io la chiamo proprio dalla sua casa in Toscana. E partito per un paio di giorni e non è più tornato.» «Mi spiace, ma non posso proprio aiutarla. Da quando è scomparso?» «Da venerdì scorso.» Lei fece una breve risata conclusa da qualche colpo di tosse. «Santo cielo, e siete già in ansia? Dopo pochi giorni soltanto? Probabilmente ha conosciuto qualche bella donna e si è infilato nel suo letto. Non ci starei troppo a pensare. E


se non le dispiace ora vorrei tornare a dormire.» «Ma certo. Mi scusi, se l'ho svegliata.» Carolina riattaccò senza dire altro. Lukas rimase seduto al tavolo pensoso, scarabocchiando su un bloc-notes. «Santo cielo, Lukas», disse Magda scendendo a fare colazione e trovandolo che beveva un caffè, «sembra che tu abbia passato la notte a sbronzarti. Che cosa hai fatto, dopo che sono andata a letto?» «Ho controllato tra le cose di Johannes.» «E hai trovato qualcosa?» «Magda, chi è Carolina?» Lukas si stropicciò gli occhi che gli bruciavano. Questo gli impedì di vedere Magda trasalire per un istante. «Non ne ho idea. Forse una cliente?» si sforzò di sembrare rilassata e indifferente. «Le ho telefonato stamattina.» Magda trattenne il respiro e si girò molto lentamente verso di lui. «Perché l'hai fatto? Voglio dire, perché ti è venuto in mente di telefonare a una perfetta sconosciuta?» «Non saprei. Perché il suo nome mi è balzato agli occhi nell'agenda di Johannes. Ho pensato che potesse essere d'aiuto. Forse sapeva dove si trova.» «E...?» «Non mi è sembrata troppo contenta di parlare di lui.» «Sai, ci sono clienti che non sono disposti a parlare troppo bene di un'impresa di traslochi quando si accorgono che questa non è in grado di fare magie.» «Parlando sul serio, Magda... questa Carolina per caso aveva una relazione con Johannes?» Magda scoppiò a ridere. «Per favore, Lukas. Evidentemente non conosci tuo fratello! È un uomo affascinante, disponibile e comunicativo, con il quale tutti hanno piacere di parlare e che risulta subito simpatico. Del resto è un uomo di mondo. Ma non mi tradisce.» Tornò seria. «Finora non mi ha mai tradito.» Poi aggiunse piano: «Quando uno tradisce l'altro, la vita è finita». ***


Capitolo 23. Il mattino successivo la volpe era tornata. Quando Magda uscì in terrazza alle otto e mezzo, la vide accovacciata vicino alle rose che la guardava. Teneva tra i denti un guanto da lavoro di pelle che lei aveva lasciato fuori la sera prima. «Piccola volpe», mormorò Magda, «sei tornata! Aspetta un momento, che ti prendo qualcosa da mangiare.» Andò in cucina e la volpe attraversò il prato diagonalmente andandosi a mettere accanto a un vaso di terracotta. Sembrava non avere la benché minima paura. Quando Magda tornò pochi minuti più tardi con una manciata di crocchette per cani, rimaste nella dispensa dal loro ultimo soggiorno, la volpe era sempre al suo posto. Lei lasciò il cibo in mezzo al prato e si allontanò lentamente camminando all'indietro. Osservò la volpe dal tavolo. Era stata un'ospite quasi regolare fin dal loro ultimo soggiorno in Italia durante le vacanze di Natale. Evidentemente aveva bisogno di qualche giorno per rendersi conto che la casa era abitata. Adesso ti basterà conoscere Lukas, e la famiglia sarà al completo, pensò Magda. Lukas dormiva ancora. Dopo che la volpe ebbe mangiato e si fu allontanata di nuovo, Magda prese la carta da lettera. Tesoro mio, pensa un po', la volpe è tornata! A quanto pare non si è dimenticata che a Natale ci siamo presi cura di lei. Ne sono proprio felice, perché sta diventando quasi un animale domestico. Forse quest'estate riuscirò ad accarezzarla. Ti ricordi di come ti aveva rosicchiato le scarpe da ginnastica che poi abbiamo ritrovato una settimana dopo in un boschetto di castagni? Credo che dovrò di nuovo stare attenta a non lasciare niente sulla terrazza di notte, altrimenti il mattino dopo non ci sarà più. Papà ha passato quasi tutta la settimana a lavorare in giardino ed è già tutto abbronzato. Ogni giorno mi dice che gli manchi tanto e che non vede l'ora di abbattere insieme a te l'albero secco davanti alla finestra del bagno. Da solo non ce la fa. Tu come stai? Ti sei ambientato bene nella tua nuova camera e con il tuo nuovo compagno di stanza? Come va con il latino? Hai trovato qualcuno che ti dia ripetizioni e ti possa aiutare? Ti penso molto. Cerca di mangiare un po' di più, sei così magro che mi fai quasi preoccupare.


Verrai davvero all'inizio delle vacanze estive? Sarebbe bello, cosĂŹ avremo ancora due settimane da trascorrere qui in Italia e potremo tornare insieme a Berlino. Non sai quanto sia felice all'idea di rivederti! Ti aspetto con ansia! Un abbraccio, amore mio.


La tua mamma Ripiegò la lettera proprio mentre Lukas usciva sulla terrazza. «Buongiorno», la salutò sorridendo e dandole un bacio sulla guancia. «Mi faccio un caffè. Lo vuoi anche tu?» «Sì, grazie.» Lukas scomparve in cucina. Magda infilò la lettera in una busta, l'affrancò e vi scrisse l'indirizzo: «Thorben Tillmann, Collegio St. Blasien, Fiirstabt-Gerbert-Str. 14, 79837St. Blasien». Poi la rimise nella scatola da cui aveva preso il foglio e la busta. Lukas tornò con il caffè e si sedette accanto a lei. «Che ne diresti di andare a mangiare fuori nel fine settimana? Mi piacerebbe tanto provare quel nuovo ristorantino di Ambra.» Una magnifica idea, pensò Magda. Forse in questo modo sarebbe riuscita finalmente a distrarsi. *** Capitolo 24. Stefano Trepo era un po' in ritardo e irritato dal fatto che il taxi prenotato si fosse fatto aspettare un quarto d'ora. Non sopportava di arrivare tardi, e soprattutto detestava non essere lui il responsabile del proprio ritardo. Il tassista che alla fine si fermò davanti a casa sua era un uomo calvo dall'aria truce che dava l'impressione di essere propenso ad affrontare le divergenze di opinioni più con i pugni che con le parole. Per questo Trepo rinunciò a chiedergli il motivo del ritardo; era più importante arrivare il prima possibile al Teatro della Pergola. Aprì la portiera posteriore destra del taxi e stava per mettersi a sedere, quando notò sul sedile una macchia di cioccolato secco grossa quanto una prugna. Trepo si ritirò disgustato. Arrivare in ritardo era già una pessima cosa, ma una macchia sul suo vestito antracite fatto su misura sarebbe stata una vera catastrofe.


Chiese al tassista di aspettare, girò intorno all'auto e salì dall'altro lato. «Al Teatro della Pergola», sibilò. «E si sbrighi, per favore, sono di fretta.» Il tassista sogghignò e schiacciò il pedale dell'acceleratore. Stefano Trepo era un uomo attraente intorno ai quarantacinque anni con un solo scopo nella vita: la carriera. Fin da bambino aveva capito di desiderare una cosa soltanto: di non vivere come i genitori. Non ne poteva più di quella piccola Ambra, dove era cresciuto in una minuscola casa della città vecchia proprio di fronte alla chiesa. Aveva intuito che la scuola era l'unico modo per affrancarsi da lì e per non seguire le orme paterne, prendendo il suo posto nella piccola officina alla periferia del paese. Così era diventato un secchione, non giocava a calcio, non suonava nell'orchestra giovanile e non recitava nel gruppo di teatro, ma studiava da mattina a sera. Dopo una brillante maturità si era iscritto alla facoltà di Lettere a Roma. In seguito si era trasferito a Firenze in un minuscolo appartamento molto costoso al quarto piano, con un piccolo balconcino e una vista spettacolare sulla città. Quando il sole al tramonto inondava la cupola del Duomo, Trepo aveva la sensazione di aver fatto tutte le scelte giuste. Da due anni scriveva recensioni teatrali per la radio e il quotidiano regionale La voce della Toscana. Gli piaceva vedere i propri testi stampati e sentire la propria voce alla radio. E ancora di più apprezzava il fatto di essere rispettato e riverito ai ricevimenti, alle rappresentazioni di gala e alle première dagli artisti cittadini. Stefano Trepo era un cittadino importante, tutto proteso nello sforzo di diventare, un giorno, un'«istituzione» fiorentina. Del resto aveva già il potere di sostenere o distruggere carriere, e le sue critiche impietose erano molto temute. Ora era seduto a bordo di un taxi in procinto di assistere alla rappresentazione di La raganella di Vittorio Belacci. Una prima assoluta e una vera manna per Trepo, perché alle prime le recensioni erano tenute in particolare considerazione e citate dappertutto. Entrò in teatro tre minuti prima che si alzasse il sipario. Ritirò il biglietto omaggio e il programma alla cassa e occupò il suo abituale posto in platea, quarta fila. Peccato che non ci fosse tempo di pavoneggiarsi nel foyer, ma ci sarebbe stato comunque l'intervallo e quindi una festa che gli avrebbe dato modo di farsi vedere e di salutare questa o quella personalità. La quarta fila era occupata già quasi del tutto. A Trepo piaceva quando doveva far alzare gli altri per raggiungere il suo posto; salutò casualmente a destra e a manca, rivolse cenni da tutte le parti, si mise a sedere ed ebbe giusto il tempo di tirare fuori dall'astuccio gli occhiali da lettura e di sfogliare il programma. Aveva una vista perfetta, ma quegli occhiali erano ormai un oggetto imprescindibile del suo quotidiano. Gli appartenevano come il taglio di capelli a mezza lunghezza e la sottile barbetta a cui dedicava tutte le mattine lunghe cure. Nell'insieme gli davano l'aspetto di un uomo elegante e sportivo con un certo tocco intellettuale.


Stava giusto per annotare qualcosa di illeggibile sul programma accanto all'elenco degli interpreti, per far sapere chiaramente a chi gli stava intorno di non trovarsi lì a teatro per divertimento, bensì per giudicare la pièce, quando sentì la vibrazione del cellulare. Guardò il display e, riconoscendo il numero della madre, interruppe la chiamata. Santo cielo, non era proprio il momento di telefonare. L'avrebbe richiamata l'indomani. Magari nel pomeriggio, dopo una bella dormita. Trepo spense il cellulare. Lentamente le luci in sala si abbassarono. Sul programma aveva fatto in tempo a leggere il nome di una giovane attrice che ancora non conosceva. Viviana Rossi. Mentre si metteva comodo sulla poltrona, si tolse gli occhiali con gesti lenti e precisi, li infilò nell'astuccio e quindi nella tasca della giacca. Aspettava con ansia gli sviluppi della serata e della notte. Tutto era possibile, il mondo era ai suoi piedi. Albina Trepo abitava da settantadue anni nel centro di Ambra in una casetta sopra la chiesa. Qui era nata, qui aveva vissuto con suo marito Adolfo, e aveva dato alla luce il figlio Stefano. Ora le restava un ultimo desiderio: morire in quella casa. Quando, tre anni prima, aveva avvertito una crescente e inarrestabile debolezza e aveva scoperto che un tumore si andava diffondendo dentro di lei, aveva perso la voglia di vivere. Non sapeva proprio per che cosa sarebbe valsa la pena di lottare. Di sicuro non per il figlio, che viveva a Firenze, si riteneva superiore e spesso non si faceva vedere per mesi. In realtà andava da lei solo quando non poteva farne a meno. Per Natale, oppure per il suo compleanno. Lei capiva chiaramente che lo faceva controvoglia. Per senso del dovere portava sua madre dalla poltrona al bagno, le rifaceva il letto, le preparava il tè e per colazione le andava a prendere un cornetto dal panettiere. Accendeva la televisione e riordinava l'appartamento. Ma quasi non apriva bocca. Non raccontava niente di Firenze, e Albina non sapeva niente di lui. Spesso si chiedeva se avesse la ragazza e, quando lo apostrofava a tale proposito, lui si limitava a scrollare le spalle dicendo: «Qualche storia, mamma. Ma niente di serio. Niente di cui valga la pena parlare». Le sembrava un estraneo. A pensarci bene, conosceva meglio la sua vicina Rosita, la dottoressa e il parroco che le facevano visita regolarmente. Albina sapeva che di tanto in tanto Stefano le sottraeva qualcosa dal portafoglio, quando andava a trovarla, usciva a fare la spesa, oppure ritirava i suoi pochi euro di pensione alla posta. Lei gli avrebbe dato anche la sua ultima camicia, se lui gliel'avesse chiesto. Ma non lo faceva, né pronunciava mai una parola di rammarico per la situazione disperata in cui lei versava. Al principio della malattia prendeva ancora i farmaci che le erano stati prescritti, si era sottoposta a due cicli di chemio e aveva sopportato le radiazioni che le avevano tolto le forze.


Poi aveva smesso e non aveva più messo piede né in ospedale né in un ambulatorio. Aveva chiuso con quella vita. Tutte le sere Rosita, che abitava nella casa di fronte, andava a trovarla per mezz'ora, la lavava e la metteva a letto. Di tanto in tanto le leggeva qualcosa dal giornale, quando c'erano notizie degne di nota. Rosita aveva dieci anni più di Albina ed era sana come un pesce. Aveva tre figli che vivevano a Milano, Roma e Firenze e trascorrevano regolarmente le feste a casa. Evidentemente devo aver fatto qualcosa di sbagliato nella mia vita, pensava spesso Albina; il Signore mi punisce per un peccato di cui non mi rendo conto. Quell'estate Albina aveva capito che non sarebbe riuscita ad arrivare neppure fuori dall'uscio, dove era solita trascorrere un po' di tempo al sole sulla strada, ascoltando il canto del canarino di Rosita: si dondolava al vento nella sua gabbia dorata sul davanzale della finestra della cucina quando il clima era abbastanza mite. Ad Albina piacevano gli uccelli. Dieci anni addietro, due prima della morte, il suo Adolfo, in un'assolata giornata di primavera, le aveva portato un merlo indiano, preso nel negozio di animali di San Giovanni: aspettava da un anno e mezzo che qualcuno lo comperasse, e Adolfo non sopportava il suo triste canto tutte le volte che imitava il suono del campanello della porta, forse intuendo che la salvezza poteva arrivare soltanto da lì. Nel negozio di animali lo avevano sempre chiamato soltanto «Merlo», e così conservò quel nome, e anche a casa Trepo rimase «Merlo». Lei se ne innamorò fin dal primo momento, lo viziava e gli parlava ogni giorno come a un bambino o a un'amica. Nel giro di breve tempo Merlo imparò a dire: «Buongiorno» quando qualcuno entrava nella stanza, e: «Grazie» quando qualcuno gli infilava nella gabbia un pezzetto di mela o di pesca. Sapeva fischiare le prime note dell'inno di Mameli e borbottava e sibilava come una caffettiera. Da parte sua, Adolfo si divertiva a insegnargli le parolacce e così non ci volle molto perché Merlo imparasse a dire: «Stronzo» e salutasse i visitatori con un: «Buongiorno, stronzo». La maggior parte della gente lo trovava divertente e ne rideva. Una persona soltanto faceva eccezione: Stefano. Si sentiva aggredito e offeso e aveva sempre la sensazione che l'uccello lo odiasse. Le cose peggiorarono ulteriormente quando Merlo imparò a imitare la risata di Albina. Merlo fischiava, cantava e cinguettava nella sua gabbia, oppure dormiva sulla spalla di Albina, ma


spesso Trepo aveva voglia di tirargli il collo. Quella sera Albina era tormentata da lancinanti dolori che la facevano quasi uscire di senno. Provò a telefonare a Stefano, ma non riuscì a raggiungerlo. Provò varie volte, ma lui aveva spento il cellulare. Alla fine Albina pregò soltanto di ricevere la grazia di essere liberata dalla sofferenza di questo mondo. Finché era stata in grado di camminare, aveva dormito in camera sua al piano di sopra, dalla cui finestrella riusciva a vedere fin sulla piazza. Ma anche questo ormai era un ricordo. Stefano aveva smontato il letto in cui lei aveva dormito insieme a Adolfo per trentadue anni e lo aveva trasportato di sotto in salotto, in modo che lei potesse raggiungere il bagno senza dover fare le scale. Erano già sei mesi che non vedeva più la piazza, riusciva a sentire soltanto la musica quando si ballava fino a mezzanotte per tre serate di seguito in occasione della sagra della lumaca. E non poteva vedere neppure gli sfavillanti fuochi d'artificio che concludevano la festa. Era finito tutto. In sostanza era già morta. La nostalgia per il figlio lontano le straziava il cuore. Voleva almeno congedarsi da lui, dirgli che lo amava. Che lo aveva sempre amato. Ogni secondo della sua vita. Non le restava più molto tempo, e Stefano non rispondeva. Oddio, pensò Albina, perché mi hai abbandonato? La commedia La raganella aveva un ritmo vivace, battute spiritose e un sacco di situazioni comiche. Stefano Trepo faticò più volte a trattenere una risata, perché non voleva scoprirsi e doveva mantenere a tutti i costi la sua facciata imperscrutabile. Viviana Rossi aveva un ruolo secondario, ma gli piaceva molto. Se si fosse dimostrata abbastanza disponibile alla festa successiva, era possibile che si lasciasse convincere a scrivere qualche frase positiva, cosa normalmente a lui del tutto estranea. All'applauso finale partecipò imbarazzato, nascondendo le mani dietro il sedile della fila davanti a lui e battendole con il minimo rumore. Nessuno doveva capire dalla sua mimica che cosa pensasse davvero dello spettacolo. La mezz'ora che iniziò in quel momento fu per lui la peggiore e la più faticosa di tutta la serata. Doveva aspettare. Era qualcosa che non aveva mai imparato a fare. Tirare in lungo in maniera il più possibile elegante in attesa che gli attori si togliessero il trucco e si presentassero per la festa nel foyer. Non essere precipitoso, trattenersi, fare il proprio ingresso disinvolto solo dopo che gli attori avevano già bevuto il primo bicchiere, come se tutti fossero stati lì ad aspettare lui e non viceversa. Trepo uscì dal teatro e andò a bere un caffè corretto in un barettino dirimpetto. La notte sarebbe stata lunga, doveva restare sveglio. Sfogliò un giornale, mangiò tre palline di marzapane e tornò nel foyer del teatro esattamente tre quarti


d'ora più tardi. Solo in quel momento gli venne in mente di riaccendere il cellulare. Il display gli mostrò cinque chiamate perse. Tutte di sua madre. Ora no, mamma, pensò. Non stasera. Ho da fare. Non erano molti i critici che si facevano vedere a una festa per una prima teatrale. La maggior parte evitava di esporsi in conversazioni private con gli attori, per non rischiare accuse di favoritismo, e preferiva andare direttamente a casa, per scrivere subito il pezzo e spedirlo quella sera stessa per e-mail. Erano semidei invisibili, i quali venivano avvistati in platea, ma poi svanivano nell'aria non appena si abbassava il sipario. Stefano Trepo non era tra questi. Gli piaceva gustare il momento in cui, al suo ingresso, molti occhi si posavano su di lui ed egli veniva salutato per primo dal direttore con un bicchiere di champagne. Distribuiva sorrisi e antiquati baciamano e si congratulava con gli attori usando sempre le stesse parole. Il fatto che la protagonista Maria Santini, che aveva recitato splendidamente, non lo degnasse di uno sguardo fu come una goccia di acido cadutagli sull'anima. Un aspetto importante per la sua recensione. Più importante di tutto quel che Maria Santini era riuscita a fare quella sera. Ma non aveva alcuna voglia di farsi rovinare il buonumore da un'attrice boriosa che probabilmente non aveva idea di chi lui fosse, e preferì concentrarsi sulla non eccessivamente talentuosa ma fresca e giovane Viviana Rossi. Il mattino dopo Trepo si svegliò alle dieci meno un quarto, perché Viviana sospirò nel sonno e gli gettò un braccio intorno al collo, rischiando di soffocarlo. Le spostò delicatamente il braccio e si alzò in silenzio. In bagno bevve l'acqua direttamente dal rubinetto, si infilò l'accappatoio, si spazzolò i capelli e si mise al computer in salotto. La rabbia nei confronti di quella capra presuntuosa di Maria Santini gli bruciava ancora. Un'occhiata nella cesta degli stracci, intitolò la recensione, e sotto: Bizzarro spettacolo estivo al Teatro della Pergola con la commedia brillante La raganella. Sorrise. Non avrebbe attaccato solo l'opera di un autore del tutto sconosciuto, ma soprattutto la reputazione di Maria Santini, questo era evidente, e già immaginava con gioia il modo in cui lei lo avrebbe salutato amichevole e ossequiosa alla prossima occasione. Sentì suonare il cellulare. «Numero sconosciuto», apparve sullo schermo. Trepo sospirò spazientito e prese la chiamata. Era Rosita. «Tua madre è morta, Stefano», gli disse senza preamboli. «Sarà meglio se vieni subito qui. Non ho detto ancora niente a nessuno e lascio tutto così com'è fino al tuo arrivo.» «Parto subito», rispose lui, «ma non riuscirò a essere lì prima di oggi pomeriggio.» «Fa' come ti pare», replicò Rosita brusca. «Per me puoi venire anche domani. Io ho voluto solo informarti.» «Grazie, Rosita.»


Spense il cellulare e gli venne voglia di lanciarlo contro il muro. Che seccatura. Alle dodici doveva essere alla radio per registrare la sua recensione, non era possibile rimandare l'impegno. Maledizione. Già aveva poco tempo, e ora ci si metteva pure la madre morta. Cercò di non pensare a lei e riprese a scrivere: Una cosa bisogna riconoscere al teatro: gli effetti speciali sono stati davvero esosi. Sul palcoscenico balenano lampi, rombano tuoni, la pioggia batte sui vetri dell' appartamento, e verrebbe quasi voglia che il cielo si squarciasse e mandasse un diluvio che inghiotta tutto quanto: questo spettacolo insulso, la misera messinscena, il fiacco protagonista Renzo Mauro e la penosa protagonista Maria Santini... Alle tre Trepo sentì la propria recensione alla radio mentre era in macchina diretto ad Ambra. Stava giusto uscendo dall'autostrada al casello di Valdarno e come sempre si complimentò per la propria voce piacevole, la dizione limpida e l'intonazione melodica davvero originale. Nessun'altra voce suonava così rudemente maschile e nel contempo morbida e sensibile come la sua, ogni stroncatura era musica. Dopo la telefonata di Rosita aveva svegliato bruscamente Viviana, costringendola a lasciare l'appartamento. Lei era rimasta un po' confusa da quella partenza frettolosa, ma a lui non importava, tanto non aveva comunque intenzione di rivederla. Il suo ringraziamento per la notte appena trascorsa era qualche parola insignificante ma positiva nella recensione che stava sentendo proprio in quel momento. Gli venne da sorridere. Ciao, Viviana, chissà, magari ci incontreremo ancora; in ogni caso la settimana prossima avrò già dimenticato il tuo nome e il ricordo della notte trascorsa con te. La lettura della recensione terminò e la sua mente tornò subito al presente e al compito che lo aspettava. Ne era terrorizzato, l'idea di vedere la madre lo spaventava a morte. Mezz'ora più tardi aveva raggiunto la casa dei genitori, ad Ambra. «Buongiorno, stronzo», cinguettò Merlo quando lui entrò nella stanza. Trepo cercò di non badare al volatile. Albina Trepo era sdraiata sul suo letto, supina, le mani intrecciate sul petto e lo sguardo fisso al soffitto. Era una posizione artificiale e per un attimo Trepo si chiese se fosse stata Rosita a sistemarla così, oppure se davvero sua madre si fosse preparata alla morte da sola in quel modo. Il corpo sprigionava uno strano odore acidulo che gli impedì di restare accanto alla madre. Aprì la finestra, telefonò alla dottoressa e la pregò di venire subito. Poi si sedette all'altro capo della stanza, guardando da lontano la figura serena, e cominciò a compatirsi. Non ho più una madre, pensò addolorato, il grembo che mi ha portato non c'è più. Non ho più una madre, ora sono davvero solo. Non c'è più nessuno che possa abbracciarmi e consolarmi e, sebbene da anni non ascoltavo più i suoi consigli, il fatto che adesso non potrò più farlo mi dà una strana sensazione. Mi manchi, mamma, mi manca l'idea di trovarti sempre in questa casa. La tua assenza mi toglie il terreno sotto i piedi, mi priva di tutta la mia sicurezza. Trepo si immedesimò a tal punto in questi patetici pensieri che alla fine gli salirono le lacrime agli occhi,


cosa che trovò meravigliosa. Che emozione grandiosa, pensò, che momento esistenziale! Il commiato da mia madre. Per un uomo non poteva esistere esperienza più decisiva. Ricorda questo dolore, questa angoscia, questo vuoto in te, si ammonì, ti arricchisce; forse un giorno ne potrai scrivere. Dieci minuti più tardi arrivò la dottoressa, seguita da Rosita, che abbracciò Stefano in silenzio. Lui emise un breve singhiozzo. In questi casi meno è meglio, pensò, poi ringraziò Rosita per l'aiuto prestato negli ultimi mesi. La dottoressa constatò il decesso. Albina era morta a causa del tumore, su questo non c'erano dubbi. Non aveva obiezioni da avanzare se Trepo voleva chiamare l'impresario di pompe funebri Ivo. Ivo arrivò con il suo collaboratore alle sette e mezzo. Come sempre era pallido e balbettava, ma dimostrava uno zelo incontenibile, derivante dalla soddisfazione di avere qualcuno da seppellire. Ogni giorno pregava affinché la morte toccasse Ambra e, quando il Signore esaudiva la sua richiesta, si sentiva colmare di profonda riconoscenza. Trepo discusse con lui le formalità del funerale che sarebbe stato celebrato l'indomani, poi Ivo e il suo collega portarono fuori il feretro grigio di plastica. In silenzio i vicini osservarono la salma che veniva caricata sull'auto mentre Trepo si faceva un segno della croce, sebbene l'ultima volta che aveva pregato fosse stato prima di compiere dieci anni. Sentiva un vuoto allo stomaco e decise di andare a mangiare un boccone prima di esaminare le proprietà della madre, per decidere se gettarle via oppure regalarle. *** Capitolo 25. Era una nottata calda. Nel cortile interno del ristorante Alla corte di Bacco si stava divinamente sotto gli enormi ombrelloni chiari. Magda e Lukas avevano ordinato una fiorentina al sangue accompagnata da fagioli bianchi e insalata, il tutto innaffiato da un Rosso di Montepulciano. Magda notò subito al tavolo vicino l'uomo curato e attraente che esaminava con cura il menu. In una località come Ambra era una visione insolita. Non sembrava un turista, e Magda si chiese che cosa ci facesse un tipo così in quel posto. Trepo si accorse di essere osservato e, alzando gli occhi dal menu e incontrando lo sguardo di lei, curvò le labbra in un vago sorriso.


Anche lui trovava interessante quella signora, sulla quale, era evidente, aveva fatto colpo. Una situazione molto eccitante, soprattutto visto che non era venuta da sola, bensì in compagnia del marito. Lukas aveva trovato al banco del bar un volantino con i vari appuntamenti previsti nella zona per quell'estate. Cinema, teatri, opere, concerti, tutti rigorosamente «sotto le stelle», sulle piazze, oppure nei parchi di alcune tenute vinicole. Stavano discutendo su dove valesse la pena andare e Lukas non si accorse affatto dell'uomo, al quale voltava le spalle. Magda invece continuò a fissare lo sconosciuto. Alla fine Trepo pagò il conto, dopo aver mangiato solo un primo, si alzò e si avvicinò al tavolo di Magda e Lukas con un lieve inchino. «Chiedo scusa se disturbo», disse con un sorriso accattivante, «mi chiamo Stefano Trepo, per caso ci siamo già incontrati da qualche parte?» Magda trovò quell'approccio non proprio originale, ma rimase affascinata dal suo modo di parlare, lento e chiaro. Inoltre la sua voce aveva un suono caldo e piacevole. «Può darsi», rispose, sforzandosi di non commettere errori grammaticali. «Noi abitiamo alla Roccia e passiamo qui diverse settimane all'anno. Forse ci siamo incontrati al bar, in piazza, oppure al mercato.» «Sì, è possibile. Voi abitate alla Roccia? Interessante. Mi sono sempre chiesto che fine avesse fatto quel podere. Da bambino ci andavo spesso. All'epoca la casa apparteneva al fratello di mio nonno.» Mentre raccontava queste cose, Magda provò una istintiva fiducia in lui. «Ora però non voglio infastidirvi oltre.» Tirò fuori un biglietto da visita dal taschino della giacca. «Se le va, perché non mi telefona una volta? Mi farebbe piacere.» «Sì, magari... E se ha un momento libero venga a trovarmi! Così potrà vedere com'è cambiato il podere di suo nonno.» «Del fratello di mio nonno...» la corresse Trepo. «Sì, certo. Mi scusi. Non sono così brava in italiano.» «Lo parla benissimo.» «Grazie.» Magda si sentiva molto lusingata e aggiunse:


«Davvero, passi a trovarmi. Dico sul serio, ne sarei davvero felice». Trepo le porse la mano. «Stia attenta a quello che dice, signora: la prendo in parola. Vi auguro una buona serata.» Lukas e Stefano si strinsero la mano in silenzio, poi Trepo uscì dal ristorante. Con passo baldanzoso e a testa alta.


*** Capitolo 26. Trepo non pensava che sua madre avesse così tanti amici e conoscenti e che in tanti avrebbero partecipato al suo funerale. Ma quella fu l'unica cosa che notò consapevolmente. Le sue emozioni, che la sera precedente lo avevano assalito del tutto inaspettate e travolgenti alla vista del cadavere di sua madre, erano sparite del tutto. Affrontò la cerimonia funebre, le strette di mano e le ineludibili parole di cordoglio come un fastidioso impegno. Fu quindi assai felice quando, verso mezzogiorno, potè ritirarsi in solitudine a casa dei genitori. Qui cominciò a esaminare e svuotare ogni armadio. Enormi sacchi neri dell'immondizia inghiottirono non solo lenzuola lise, asciugamani induriti e sfilacciati e tovaglie vecchie di vent'anni, ma anche le gonne, le camicette e le giacche di sua madre insieme alla biancheria intima, le scarpe, le calze e le borse. La sua opera di svuotamento procedeva con grande rapidità, come se avesse intenzione di far scomparire nel giro di poche ore qualsiasi ricordo. Non doveva più essere possibile riconoscere chi aveva vissuto in quella casa per decenni. Prese un po' più di tempo soltanto per esaminare le lettere personali e gli album fotografici. Mio Dio. Erano anni che non guardava più quelle foto e che non pensava più a suo padre, ai nonni, agli zii e alle zie. Suo padre e i genitori di sua madre erano morti, la madre di suo padre non voleva più avere a che fare con il resto della famiglia e viveva di una piccola pensione in un bilocale a Bologna. Suo zio, il fratello della madre, abitava con la terza moglie a Perugia, la sorella di suo padre con il marito a Napoli. Non aveva avvisato nessuno di loro della morte della madre. Se ne rese conto soltanto adesso. Provò un leggero rimorso, ma poi scacciò subito quel pensiero. Erano tutti quanti degli idioti. Persone ottuse, limitate, con un vocabolario giusto sufficiente per salutare e per parlare del tempo. Erano chiassosi, volgari e irascibili, e a tutte le riunioni di famiglia scoppiava regolarmente qualche lite. Era inevitabile. Al massimo resistevano due ore. No, aveva fatto proprio bene a non invitare nessuno al funerale, anzi, si meravigliava persino di essere riuscito a staccarsi grosso modo indenne da quella famiglia, e di aver allargato i propri orizzonti oltre i campi e i trattori. Lui non si occupava soltanto di olio spremuto a freddo e di vino novello, bensì anche di Dante, Petrarca e Boccaccio. Non voglio avere più niente a che fare con questo posto, pensò. Venderò la casa e non metterò mai più piede ad Ambra.


*** Capitolo 27. Le giornate successive trascorsero tranquille. Donato Neri telefonò una volta soltanto, per informarsi se Magda avesse ricevuto notizie dal marito. «L'avrei avvertita subito, se fosse successo», rispose lei, e Neri si disse che quella chiamata era stata una mezza sciocchezza. Lukas legò le rose e le chiese se doveva seminare l'orto. Era un vero peccato lasciare incolto un pezzetto di terreno così fertile. Magda tuttavia declinò l'offerta. «Lascia perdere, lo farò da sola», si affrettò a dire. «Mi piace lavorare nell'orto. Mi rilassa.» Magda aveva bevuto due bicchieri di vino a pranzo ed era stanca. Si mise in poltrona e si addormentò. Lukas si aggirò per la casa, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa di utile da fare. Si era alzato il vento e l'ulivo piantato da Magda ondeggiava pericolosamente. A volte si inclinava così tanto di lato che Lukas temeva si spezzasse. Evidentemente Magda non lo aveva interrato abbastanza e lo aveva innaffiato troppo poco, perché le radici spuntavano dal terreno circostante e l'albero non aveva stabilità. Lukas valutò se fosse il caso di tirarlo fuori e piantarlo meglio, ma non ne aveva molta voglia. Per prima cosa avrebbe provato a puntellarlo con un palo di legno. Lukas cercò in tutto il capanno un bastone adatto, ma non ne trovò nessuno abbastanza robusto da sostenere l'albero a lungo. Allora decise di prendere la macchina e di andare a comprarne uno al consorzio di Ambra. Lì c'erano pali e bastoni di tutte le lunghezze immaginabili. Lukas ne comperò cinque. Lunghi due metri e mezzo e con un diametro di cinque centimetri. Tornato alla Roccia, prese dal capanno un pesante mazzuolo e si mise al lavoro. Era difficile con una mano reggere il palo e con l'altra sferrare colpi, e per un istante pensò quasi di andare a svegliare Magda per farsi aiutare da lei, ma poi desistette. Stava dormendo e non voleva svegliarla. Dovette dare cinque colpi prima che il palo si conficcasse sottoterra quel tanto da permettergli di lasciarlo e di usare entrambe le mani per manovrare il mazzuolo. Dopo averlo piantato nel terreno per una trentina di centimetri, avvertì una forte resistenza. Siccome la profondità non era ancora sufficiente per dare stabilità, sollevò la mazza e colpì con tutte le forze che aveva. Tre volte, e all'improvviso, quando già pensava di rinunciare e di provare in un altro punto, la resistenza fu superata e il paletto scivolò in profondità. Praticamente senza sforzo.


Lukas, soddisfatto, vi legò l'alberello. Solo verso sera Lukas si decise a bussare alla porta di Magda. «Magda?» la chiamò sottovoce. «Tutto a posto?» «Sì, perché?» «Perché sono quasi le otto.» Lei drizzò il busto e sbadigliò voluttuosamente. «Arrivo subito. Dammi solo un momento.» Si infilò jeans e camicetta e si gettò una giacca sulle spalle. Faceva ancora caldo, ma fuori in terrazza l'aria era fresca. Soprattutto dopo il tramonto. Quando Magda uscì di casa, Lukas stava stappando una bottiglia di vino. Magda si mise a sedere e prese in mano il biglietto da visita di Trepo che era rimasto sul tavolo. «Abita a Firenze», disse. «Probabilmente è venuto qui in visita. Ma sono contenta che venga a trovarci.» Lukas versò il vino. «Vuole qualcosa da te. Ti trova attraente e si vede. A me sembra molto sfacciato.» «Non ci credo.» «Invece è così. Non ha provato neppure a nasconderlo, io non sono cieco.» «Lukas, non dirmi che sei geloso!» Magda scoppiò a ridere. «Non ce n'è motivo. Non ho intenzione di farmi sedurre da lui, ma ho voglia di chiacchierare un po'.» «Perché?» «Perché mi piace avere la possibilità di parlare italiano. E non solo del vento e del cibo. Lui mi sembra una persona istruita e forse con una conversazione colta è possibile allargare i propri orizzonti, e non solo linguistici.» Lukas non replicò, non aveva niente da dire, ma era contrariato. Per lui Trepo era un bellimbusto presuntuoso. Non sapeva da dove gli venisse questa sensazione, e Magda comunque non gli avrebbe dato retta, quindi preferì tacere per non farla arrabbiare. Brindarono, ma Magda si limitò a bagnarsi le labbra con il vino. «Andiamo...» Lukas le prese la mano. «Non pensare più a quel tipo. Godiamoci la serata.»


Pochi minuti più tardi il cellulare di Lukas squillò. Parlando, si mise a camminare avanti e indietro davanti a casa. «No, mamma, Johannes non è ancora tornato da Roma.» A Berlino Hildegard provò una stretta al cuore. Per tutto quel tempo aveva sperato che Johannes fosse tornato. Le parole del figlio, tuttavia, mandarono in frantumi le sue speranze e la riprese la paura. «Mio Dio, Lukas! Sto cercando in continuazione di raggiungerlo per telefono, ma mi risponde sempre la segreteria. Deve essere successo qualcosa!» «Non starci tanto a pensare, mamma. Abbiamo avvertito i carabinieri, molto probabilmente hanno informato anche i colleghi di Roma e useranno i loro mezzi per cercarlo. Noi non abbiamo ancora ricevuto notizie, anche se Magda telefona tutti giorni al commissariato.» Hildegard Tillmann tacque. Il silenzio del telefono sottolineava la sua angoscia. Poi si mise a piangere piano. «Mamma, per favore.» Tutte le volte che sua madre piangeva Lukas si sentiva impotente. «E una situazione inspiegabile, è vero, ma non c'è ancora nulla di grave. Nessuna nuova, buona nuova. Me lo dici sempre anche tu.» «Sono contenta che tu sia lì», bisbigliò Hildegard. «Ti prego, cercalo! Impegnati al massimo, non lasciare tutto nelle mani dei carabinieri, capito?» «Certo. Che cosa credi che stiamo facendo qui? Ogni nostro pensiero ruota intorno a Johannes, Magda non è più in grado di condurre una vita normale.» «Me lo immagino. Per favore, chiamami non appena avrai notizie. Te ne prego, Lukas.» «Certo che lo farò. È chiaro.» Sua madre chiuse la comunicazione, e Lukas mise via il cellulare per tornare da Magda. «Mia madre è molto in ansia.» Magda annuì. Lukas tacque. Cominciava a innervosirsi del fatto che l'interrogativo di dove fosse finito Johannes aleggiasse su tutto quanto. A volte aveva la sensazione che il fratello fosse più presente di quando, seduto al tavolo a cena insieme a loro, parlava di mettere una recinzione intorno al podere per non rischiare di trovarsi di fronte un cacciatore con il fucile puntato sul loro tetto dove si era posato un uccello. Ma Johannes non era lì, e il fatto che da giorni condizionasse i loro pensieri faceva infuriare Lukas. Magda si alzò, fece qualche passo e uscì dal cono luminoso della lampada. Rimase immobile a fissare la notte, il bosco oscuro, come se si aspettasse da un momento all'altro che una luce spuntasse dalla tenebra


e si avvicinasse. Lukas rimase ad aspettare senza parlare. Un'eternità, almeno così gli parve. Poi, quando non riuscì più a resistere, la raggiunse e le cinse le spalle con un braccio. Lei lo lasciò fare e non si mosse. Lui la tenne così, la strinse un po' di più per comunicarle che era dalla sua parte, che era con lei qualunque cosa fosse accaduta. Poi ci provò. L'attirò dolcemente verso di sé per baciarla. Ma lei girò la testa. «No», disse. «Per favore, no. Non lo tradirò, Lukas. Mai.» Detto questo lo lasciò da solo e rientrò in casa. Lukas si vergognava di se stesso, ma in quel momento desiderò più di ogni altra cosa che suo fratello non tornasse mai più. *** Capitolo 28. Magda si svegliò alle sette e dieci in preda a un feroce mal di testa. Quando cercò di girarsi supina per sgranchirsi, si accorse di avere tutta la zona del collo e delle spalle contratta; probabilmente era quella la causa della cefalea. Si alzò, fece una doccia, ma la situazione non migliorò. Si asciugò con una certa difficoltà e riuscì a malapena ad alzare le braccia per infilarsi una maglietta. Bevuto un caffè, le sembrò di avere la testa più lucida, ma il collo continuava a farle male. «Vado alle terme di Rapolano», informò Lukas. «Nuoterò nell'acqua calda e mi farò fare un massaggio. Vieni anche tu?» Lukas declinò con un gesto. «No, no, ti ringrazio. I bagni, la sauna... non fa per me.» «Neppure i massaggi?» «No. Posso fare benissimo a meno di tutta questa moda del wellness e del fitness. Approfitterò dell'occasione per tosare il prato.» «Fa' pure», rispose Magda, «ma sai cos'è che trovo molto più urgente? Non offenderti se lo dico, è il


magazzino che avrebbe bisogno di una riordinata. Non si riesce nemmeno a entrare. Potresti pensarci tu?» «Ok», disse Lukas, «non c'è problema. Lo faccio volentieri. E magari ti costruisco anche un piccolo scaffale nell'angolo tra il lavandino e il banco da lavoro. Quella parete vuota ti dà fastidio, vero?» «Sei un tesoro. Grazie.» «Fino a quando starai via?» «Fino a stasera. Penso di tornare intorno alle sette.» Lukas la salutò con un breve abbraccio, poi Magda salì in macchina e partì. Una giornata tutto solo alla Roccia. Nove ore senza Magda. Gli sembrava un'eternità, e soffriva per la sua assenza. Senza di lei niente aveva importanza. La casa, il panorama, il terreno: gli era tutto indifferente, come se soltanto lei fosse in grado di animare quell'angolo di terra. Si aggirò indeciso per il podere. L'aria gli sembrava opaca e lattiginosa, le piante senza colore né forza, la casa dura e fredda. Era Magda a rendere speciale tutto: la certezza che al mattino sarebbe scesa a fare colazione e la sera si sarebbe seduta in terrazza. Con la sua calma e quel sorriso speciale. Entrò nel magazzino fresco e buio e il caos che lo circondava gli risultò quasi piacevole. Tuttavia era un caos procurato da Johannes e lui sapeva che rimettere a posto gli sarebbe costato fatica. Per questo preferì come prima cosa prendere le misure per il piccolo scaffale e poi salire sull'auto del fratello per andare alla falegnameria ad Arezzo. Lì avrebbe potuto comperare le tavole di legno, le viti e le cerniere e tutto ciò che gli serviva per fare un piacere a Magda. Erano quattro giorni che Massimo lavorava nell'uliveto insieme a suo cugino per tagliare l'erba tra gli alberi e cospargere le olive di solfato di rame, un pesticida ecologico contro i parassiti che tingeva le piante d'azzurro. La sera prima il cugino gli aveva telefonato per avvisarlo che era caduto dalla scala, si era slogato una caviglia e aveva bisogno di qualche giorno di riposo. «Allora oggi pomeriggio vado alla Roccia e mi occupo dell'orto», annunciò Massimo a Monica uscendo. «Una promessa è debito, e il momento è perfetto. Non posso rimandare troppo, se i nostri amici vogliono ricavare qualcosa dall'orto.» «Veramente, a quanto ne so, Johannes non è ancora tornato. » «Non importa», obiettò Massimo. «Rientrerò al più tardi stasera.» Mentre il marito metteva in moto la macchina e si allontanava da casa, Monica pensò, come le capitava


spesso, di potersi ritenere fortunata ad avere un uomo così meraviglioso al proprio fianco. Non uno che spariva nel nulla come Johannes. La macchina di Massimo sembrava un magazzino ambulante. Sega a catena, motofalciatrice, cassetta degli attrezzi, vanga, rastrello, zappa, accetta, mazza... aveva con sé tutto. Superata l'altura oltre Solata, si accorse che davanti alla casa non c'erano automobili. In un primo momento si chiese dubbioso se fosse il caso di mettersi lo stesso al lavoro, perché l'assenza di macchine poteva indicare che Johannes era tornato. Magda infatti non poteva essere andata via con due auto contemporaneamente - ma poi decise di procedere come programmato. Le ferie di Johannes erano così corte che di sicuro gli sarebbe stato riconoscente se avesse potuto evitare di sprecare tempo a estirpare erbacce e dissodare il terreno. Massimo parcheggiò proprio davanti alla terrazza, poi fece il giro della casa chiamando Magda. Nessuno gli rispose. La Roccia era completamente deserta. Allora Massimo prese vanga e rastrello e si diresse verso l'orto per mettersi al lavoro. Magda si rilassò nell'acqua calda. I muscoli delle spalle le si sciolsero e lei avvertì letteralmente il ritorno del proprio equilibrio interiore e nel contempo si chiese come mai non si fosse recata più spesso a Rapolano anche prima. Lo stress svanì e lei cominciò a gustare ogni movimento. Forse era meglio che Lukas non fosse venuto. Così poteva concentrarsi di più sui propri bisogni e non doveva continuamente chiedere: vogliamo andare a bere qualcosa, vuoi andare alla sauna, preferisci un piccolo percorso benessere oppure un massaggio? Poteva decidere da sola ciò che preferiva ed era una sensazione fantastica. Quando avvertì che l'acqua calda non era più piacevole ma cominciava ad avere un effetto di intorpidimento, uscì dalla vasca. Fece una breve doccia, si asciugò e si sdraiò su una poltrona nella sala relax. Oltre la grande vetrata panoramica lo sguardo spaziava sulle colline, i poderi isolati, i cipressi solitari e le greggi di pecore. L'acqua calda le aveva messo sonno e si addormentò. L'inattività rendeva nervoso Donato Neri. Non aveva dimenticato il dialogo con Gabriella a proposito della sparizione del signor Tillmann, e le parole della moglie gli rodevano dentro. Due giorni prima si era recato alla stazione di Montevarchi e l'impiegata allo sportello ricordava ancora che una signora tedesca aveva comprato un biglietto per Roma per il marito e in più aveva fatto una scenata perché alle dieci e un quarto non partiva nessun treno e il marito avrebbe dovuto aspettare un'ora. Non c'era altro da fare, Neri non sapeva quale altra strada imboccare, ma se l'ipotesi di Gabriella era vera non poteva di certo lasciarsi scappare l'occasione. «C'è qualche caso urgente, oppure posso assentarmi per un'ora?» domandò a Garzi verso le undici, «devo


sbrigare una faccenda.» Dalle dodici all'una c'era la pausa per il pranzo, aveva quindi a disposizione due ore. Tempo sufficiente per andare a fare una visita alla Roccia. Garzi lo guardò stupito. «C'è mai stato qualcosa di urgente da fare qui? Va' pure, e torna per l'una. Stasera io uscirò un'ora prima.» Neri sorrise, prese il berretto e uscì dalla stazione. Massimo aveva cominciato a dissodare il giardino partendo dal lato sinistro, quello più lontano dalla casa. Nel punto in cui era sepolto Bingo il giardino restava in ombra fino a mezzogiorno. Il lavoro tuttavia procedeva più a rilento di quanto avesse immaginato. Il terreno duro e secco gli dava parecchio da fare. Sapeva che avrebbe impiegato molto tempo, ma cominciò lo stesso a raccogliere le pietre e ad ammucchiarle in un angolo dell'orto. Non si accorse che qualcuno si stava avvicinando e fece un balzo quando Neri gli rivolse la parola. «Buongiorno, Massimo», lo salutò il maresciallo con un sorriso. «Ti ho spaventato?» «Naturale! Quando mi arrivi alle spalle, mi spaventi sempre. » Ora sorrise anche Massimo. I due uomini si strinsero la mano. «Salve», mormorò Massimo. «Che cosa ti porta in questa landa desolata?» «In realtà ero venuto per parlare con la signora.» «Non c'è. Non c'è nessuno, sembra tutto morto. Quale infrazione ha commesso la signora?» «Niente. Mi occupo della faccenda del marito. Perché è sparito.» «Oh, Dio, che affermazione drammatica! Detto tra noi, Donato, credo che sia scappato con un'altra donna. Tutto qui. Un gesto non molto elegante, ma che cosa vuoi farci?» «Tu hai qualche informazione più precisa?» Massimo scrollò il capo. «No, purtroppo no.» «La signora ha sporto denuncia per scomparsa. Per questo voglio approfondire la cosa.» Massimo annuì. «Mi sembra giusto, Donato. Di sicuro non guasta.» Neri intrecciò le mani dietro la schiena, spinse in fuori il petto e si guardò intorno. «Davvero un bel podere», disse.


«Un po' trascurato e selvatico, ma molto bello.» «E proprio per questo che do una mano. Finché non tornerà suo marito, lei da sola non può farcela.» «Che bell'ulivo ha piantato lì», osservò Neri, «molto grazioso.» «Li vendono in offerta all'Ipercoop. Venti euro l'uno. Anch'io sto pensando di comprarne un paio.» «Certo che però lo ha piantato male», commentò Neri con tono esperto, «malissimo! Non si fa così. Quel povero albero sembra quasi in cima a una montagna. Dovresti sistemarlo, Massimo. Con intorno una buca per annaffiarlo, come si deve!» Magda aveva dormito una mezzoretta sulla poltrona, poi era andata a farsi fare un massaggio e si sentiva fresca e sciolta come non le capitava da tempo. Riusciva a muovere le spalle senza provare dolore e aveva una piacevole sensazione di calore, come se portasse un cuscino riscaldato sulla schiena. Proprio per questo non aveva voglia di tornare nel bagno termale e decise invece di mettersi in viaggio verso casa. Era molto più bello trascorrere il tempo alla Roccia invece che a Rapolano. Andò nello spogliatoio, si rivestì e lasciò lo stabilimento termale. Magda impiegò quindici minuti per raggiungere l'uscita «Colonna del Grillo», altri dieci fino ad Ambra e da lì imboccò la strada tutta curve verso Cennina. Guidava lentamente, godendosi la giornata, il panorama e la sensazione di assoluta libertà. La vita era meravigliosa e in quel momento ne era profondamente consapevole. A Solata, proprio prima del bivio per La Roccia, la strada era sbarrata dall'autocisterna del gas che stava rifornendo una casa all'angolo, dove abitavano quattro cani che abbaiavano di continuo. Era impossibile passare oltre, perché ai lati dell'automezzo c'erano giusto trenta centimetri di spazio. Magda scese dall'auto. Il camionista seduto al volante stava telefonando. «Buongiorno», lo salutò Magda, ma l'uomo non reagì. «Quanto tempo le occorre ancora?» domandò lei. L'uomo le rivolse un cenno e continuò a parlare al cellulare. Ok, pensò Magda, aspettiamo. Tanto non ho fretta. Siccome il rumore della pompa dell'autocisterna le dava sui nervi, infilò nel lettore un cd di Tracy Chapman, alzò il volume e chiuse gli occhi.


Passò una decina di minuti, poi la cisterna si allontanò e Magda potè ripartire. Proprio oltre la vecchia quercia, dove la strada raggiungeva il punto più alto, Magda si fermò a guardare incredula verso casa sua. Due automobili erano ferme davanti alla porta. Quella di Massimo e una dei carabinieri. Accanto alla casa vide Neri, che si dirigeva verso l'orto con una zappa in spalla. Magda provò un sapore amaro sulla lingua, mentre schiacciava l'acceleratore e scendeva a precipizio la strada sterrata. Si fermò davanti a casa e si diresse verso l'orto. Con calma, ma piena di rabbia trattenuta. Massimo stava zappando. Sudava e aveva la faccia paonazza. Metà della superficie incolta era stata ripulita. Neri stava in piedi con la zappa accanto al piccolo ulivo. «Buongiorno, signora», disse. A questo punto si voltò anche Massimo. «Ciao, Magda!» Con la mano si asciugò il sudore dalla fronte e sorrise. «Che cosa sta succedendo qui?» bisbigliò lei. «Avrebbe dovuto essere una sorpresa, e in realtà volevo finire prima del tuo ritorno, ma non ci sono riuscito.» «In ogni caso non abbiamo trovato nessun cadavere», scherzò Neri. «Volevamo giusto ripiantare l'ulivo in maniera un po' più professionale. Così tutta l'acqua scivola via dalle radici.» Magda riuscì a sorridere. «E davvero gentile da parte vostra. Ti ringrazio, Massimo, sei un vero amico. Ma adesso andiamo a bere qualcosa insieme. Che cosa posso offrirle, maresciallo?» Massimo e Donato Neri accettarono volentieri l'invito. Si misero a sedere sulla terrazza, mentre Magda apriva casa e prendeva una brocca d'acqua fredda dal frigorifero. Poi affettò due limoni. Non avevano trovato nessun cadavere. Certo che no. Johannes era a Roma con Carolina. Ma prima o poi sarebbe tornato. Prima o poi. ***


Capitolo 29. Il mattino seguente Magda non riusciva a muoversi. Le facevano ancora male le spalle, si sentiva sfinita e debole e quando si alzò per andare in bagno provò dolori dappertutto. Maledizione, forse mi sta venendo un'influenza estiva, si disse, proprio l'ultima cosa di cui ho bisogno. Sotto l'acqua calda della doccia i muscoli si rilassarono, ma la stanchezza rimase. Magda si augurò che un caffè forte potesse darle lo slancio necessario, ma a colazione si sentiva addirittura più debole di prima. «Non mi sento tanto bene stamattina», disse a Lukas, «sono a terra e tornerò per un po' a letto. Magari mi farò anche un bagno caldo. Ho sempre dei brividi di freddo lungo la schiena.» «Misurati la febbre», disse Lukas preoccupato. «Speriamo che non ti sia presa qualche virus a Rapolano. Alle terme si fa in fretta. Oppure è semplicemente la tensione degli ultimi giorni.» Magda annuì soltanto e tornò in camera da letto, trascinandosi su per le scale. Lukas andò all'Ipercoop di Montevarchi a fare la spesa per la settimana. Era da secoli che non tirava fuori il termometro. L'ultima volta era stato tre anni prima, quando era rimasta a letto due giorni per colpa di un raffreddore. Rovistò nel comodino, ma non trovò niente. Allora scese di nuovo le scale e cercò nell'armadietto dei medicinali in bagno. Anche lì niente da fare. Ogni passo le costava immensa fatica. Si trascinò di nuovo in camera e si lasciò cadere sul letto. Dopo pochi secondi - si era appena tirata la coperta sotto il mento - le venne in mente che non aveva guardato nel comodino di Johannes. Si spinse faticosamente verso l'altro lato del letto e aprì il cassetto. Ciò che trovò tra pastiglie per il mal di stomaco, fazzoletti di carta, gemelli, un vecchio cinturino dell'orologio, spray nasale e profilattici non fu il termometro per la febbre, bensì il cellulare di Johannes. Le tornò in mente tutto quanto. Si era completamente dimenticata del telefono, anche se ne aveva parlato di continuo. Ma a poco a poco nella sua mente si era formata l'immagine di un cellulare che cadeva in una fontana romana e restava lì nell'acqua bassa in mezzo a monetine e bottiglie di plastica. Provò una sensazione strana a tenerlo adesso tra le mani, e per questo lo accese. Sulla segreteria soltanto un messaggio registrato due giorni prima: «Ti prego, chiamami! » diceva una voce femminile. «E molto importante. Per favore!» Carolina. Naturalmente. Aveva una voce quasi implorante.


Evidentemente Lukas le aveva messo paura con la sua telefonata e lei lo aveva richiamato all'istante. Questo significava che gli stava sempre dietro. Magda posò il cellulare sul comodino, si girò di lato e nel giro di pochi secondi si addormentò profondamente. Circa un'ora e mezzo dopo fu svegliata da una suoneria. In un primo tempo non riuscì a capire da dove provenisse il suono, poi ricordò il cellulare posato sul comodino, si mise a sedere ancora mezzo addormentata e rispose alla chiamata. «Pronto?» bisbigliò sottovoce. «Buongiorno», disse la stessa voce che era registrata sulla segreteria. «La prego di scusare il disturbo, ma vorrei parlare con Herr Tillmann.» «Mi spiace, ma non è possibile», rispose Magda con il massimo autocontrollo. «Non c'è.» Carolina ebbe una brevissima esitazione, solo una frazione di secondo, ma Magda la colse ugualmente. «Ho saputo che è scomparso. Non è ancora ritornato?» «No.» «Lei sa se gli sia successo qualcosa?» «No.» «Mi spiace molto. È già stata alla polizia?» «Sì.» Quel dialogo non piaceva per niente a Magda, che cercò il modo migliore per mettervi fine. «Mi ascolti», disse con freddezza e senza la minima emozione, dando un'impressione di estrema antipatia, «nel caso dovesse ricomparire, potrà telefonarle. Lo avviserò. Come si chiama?» «Carolina Hammacher. È molto gentile da parte sua. Grazie.» Carolina riagganciò. Magda fissò per un attimo il cellulare, come se si aspettasse che le fornisse altre informazioni, poi si alzò, si infilò l'accappatoio, mise il telefono in tasca e andò in bagno. Immersa nell'acqua calda profumata di miele e vaniglia si sentì a poco a poco rinvenire e le tornò la voglia di vivere. Probabilmente si è trattato solo di un momento di debolezza, pensò. Non mi sono ancora abituata alla mia nuova vita.


La telefonata di Carolina era stata come un pugno nello stomaco. Si mise a sedere nella vasca, tirò fuori il cellulare dalla tasca dell'accappatoio e lo immerse nell'acqua calda e schiumosa. *** Capitolo 30. Carolina Hammacher era in piedi sul terrazzino della sua casa di Berlino, nel quartiere di BerlinHermsdorf e guardava il giardino al centro del quale cresceva un enorme melo. La chioma frondosa del maestoso albero ricopriva quasi tutto il prato e sotto la sua volta verde la luce filtrava tremolante. Le quattro famiglie che abitavano nella palazzina avevano sistemato lì sotto un tavolo e delle seggiole, dove nelle tiepide serate estive si ritrovavano a bere un bicchiere di vino, oppure a fare una grigliata insieme. L'albero era troppo grande per poter cogliere le mele in autunno. Così i condomini si limitavano a raccogliere quelle cadute sul prato e Frau Tiek al primo piano preparava, instancabile, succo di mela, composta e marmellata per tutti. Carolina ripensò a quando lei e Johannes stavano seduti a chiacchierare sotto il melo, prima di tornare a casa, chiudere porte e finestre e ritirarsi in camera da letto. Evidentemente c'era una traccia d'amore. O piuttosto di nostalgia. Per la prima volta rimpiangeva ciò che aveva perduto. Dopo la brusca separazione da Johannes, infatti, la rabbia e il risentimento in lei si erano del tutto affievoliti negli ultimi giorni. Forse la moglie le aveva detto che Johannes non era raggiungibile soltanto per impedirle di telefonare ancora. Ma poi le tornò in mente la telefonata ricevuta dal fratello di Johannes. Le era sembrato sincero e molto preoccupato. Non poteva credere che fosse stata la moglie a spingerlo a farle quella telefonata. Nessun uomo può recitare così bene. Si sforzò per ricordare se Johannes le avesse mai raccontato o accennato a qualche indizio che potesse servirle per capire dove si trovasse. Un particolare a cui non aveva dato importanza, che aveva trascurato di registrare.


Tutto era cominciato in una soleggiata giornata di marzo più di tre mesi prima. Carolina si svegliò perché Frau Tiek stava rumorosamente alzando le tapparelle al piano di sopra. Con un sospiro scese dal letto, attraversò a piedi scalzi la camera e il salotto che comprendeva un angolo cottura, e aprì la porta del terrazzino. Rimase per due minuti in camicia da notte davanti alla finestra aperta, respirando a fondo. Poi si rese conto all'improvviso che Andi non era più con lei. «Merda», imprecò sottovoce. L'aria fredda del mattino le penetrò nelle ossa. Cercò di non badare ai piedi gelati sul pavimento e andò a prendere la borsa che teneva sempre appesa alla spalliera della sedia del tavolo da pranzo. Tirò fuori il portafoglio e lo aprì. Era vuoto. Ancora una volta. Lui l'aveva letteralmente derubata, perché lei era sicura che fino alla sera prima nel portafoglio c'erano centoventi euro. Lui si era preso i soldi e se l'era svignata. La stessa cosa era già successa due volte, e in entrambe le occasioni lui le aveva dato un sacco di spiegazioni, e si era scusato ripetutamente, giurando che non sarebbe più accaduto. Carolina chiuse la finestra del balcone, accese la macchina del caffè e afferrò il telefono. «Dove sei?» chiese. Andi non le rispose, ma lei sentiva il suo respiro. «Tieniti pure i centoventi euro, ma non farti più vedere. Sono stufa.» Schiacciò il tasto per interrompere la comunicazione e in quel momento rimpianse di non avere un vecchio telefono per poter sbattere la cornetta sulla forcella. Più tardi, sotto la doccia, si chiese che cosa avrebbe dovuto fare. Era sabato e non aveva un centesimo in casa. Una sensazione spiacevole. Doveva andare a prelevare e anche a fare un po' di spesa. Il latte era quasi finito e l'insalata in frigorifero cominciava a essere vecchia. Il cattivo umore si posò su di lei come una coperta, lasciandola pigra e svogliata. Tutta colpa di Andi. Fece una lunga doccia. Aspettò un senso di sollievo che non arrivò. La fine con Andi era stata troppo sbrigativa, troppo poco spettacolare, e lei sospettava che al più tardi quella sera se lo sarebbe ritrovato davanti alla porta. Ma questa volta non avrebbe ceduto. Quando, mezz'ora dopo, uscì per arrivare fino al bancomat e al supermercato, decise che quel pomeriggio sarebbe andata dalla sua cavalla Penthesilea. Via dalla città, nella campagna dell'Uckermark, in direzione di Templin. In sella alla sua motocicletta avrebbe sentito il vento in faccia e poi avrebbe cavalcato un


paio d'ore, per ritrovare la lucidità e liberarsi una volta per tutte da quell'incubo di nome Andi. Quel sabato insolitamente caldo di marzo, Johannes era in viaggio verso un cliente di Prenzlau che abitava con la famiglia in una sontuosa villa. Questo cliente era un chirurgo estetico, aveva soldi a palate e stava progettando un trasferimento in Baviera, dove si era comprato una villa ancora più sontuosa sulle rive del lago di Starnberg e dove sperava di acquisire una clientela più ricca e disponibile che nel Brandeburgo. Johannes lavorava da più di vent'anni nella ditta di traslochi del padre. Da otto anni ne aveva assunto la direzione e da allora aveva aperto tre filiali a Hannover, Stoccarda e Brema. Complessivamente gestiva otto filiali ed era riuscito a farsi un nome, a livello nazionale, come traslocatore. Capitava spesso che andasse a trovare clienti anche nel fine settimana. Molti di loro erano troppo occupati e stressati negli altri giorni per occuparsi con la dovuta tranquillità della complessa pianificazione e organizzazione di un trasloco. Era anche il caso del dottor Schönfeld, con il quale aveva appuntamento per le quattro. Johannes viaggiava controsole. Nonostante la luce accecante, sfrecciava sulla provinciale, imboccando le curve a tutta velocità. C'era poco traffico, per lunghi tratti si sentiva completamente solo al mondo, e canticchiava piano tra sé un motivo di Glenn Miller, che gli girava per la testa già da diversi giorni. A un certo punto fu superato da una Harley. Che spericolato, pensò Johannes, deve essere impazzito... non riuscì a terminare quel pensiero, che vide accadere l'incidente davanti ai propri occhi. Un veicolo agricolo scuro sbucò ad alta velocità da un campo sulla destra. Fermati, gridò la ragione di Johannes, fermati! Ma, invece di fermarsi, il trattore girò sulla strada. Carolina diede gas. Aveva il perfetto controllo della pesante motocicletta, il rombo era un balsamo per la sua anima. Più andava veloce più aveva la sensazione che il tempo si fermasse. Era come l'assenza di gravità di un razzo lanciato nello spazio. Nessun pensiero per Andi, soltanto la voglia di un nuovo inizio. La vita era speciale e piena di occasioni. Il cuore le batteva di gioia. Accelerò. Il trattore spuntò come una montagna nera che oscurò il cielo. Le veniva incontro da destra e si parò come un improvviso muro tra Carolina e la vita. In quel momento lei comprese di aver perso. Credette di cadere, ma si sbagliava. Volò. Johannes vide il motociclista tentare una frenata d'emergenza e perdere il controllo del mezzo. La pesante Harley si ribaltò diverse volte, rigirandosi nell'aria come una ruota impazzita. Johannes vide la sagoma del motociclista volare nell'aria, staccato dal sellino, ma sempre vicino alla moto, quasi legato a essa da un filo invisibile.


In seguito non avrebbe saputo dire come anche lui si fosse fermato. A un certo punto tutto fu spettralmente immobile. Il trattore, che il motociclista era riuscito a schivare all'ultimo momento, era scomparso. Molto lontano nel campo Johannes vide la motocicletta, o quanto ne restava, mentre il motociclista era sul prato, riverso supino, braccia e gambe allargate, come una coccinella spiaccicata. Il casco era costoso, bene imbottito, se ne accorse al primo sguardo. Alzò la visiera e fissò allibito due occhi castani terrorizzati, un naso sottile e una bocca carnosa ma piccola con le labbra che tremavano. Maledizione, pensò, è una donna. E subito dopo: grazie al cielo è ancora viva. «Stia tranquilla», disse piano, «non si muova. Andrà tutto bene. Presto arriveranno i soccorsi.» Con dita tremanti compose il numero d'emergenza sul cellulare, diede indicazioni sulla località e chiese un'ambulanza. Quantomeno. Se non addirittura un elicottero. Intanto pregava che lei ce la facesse. La donna gemette. Lui le si sedette accanto e le accarezzò la guancia con la punta delle dita. Da qualche parte aveva letto che non bisognava togliere il casco, nel caso fossero presenti lesioni alla spina dorsale, per evitare ulteriori danni, così non toccò niente. Rimase ad ascoltare il suo respiro, giudicando ogni gemito come un lampo di speranza, e accarezzandola. «Riesce a parlare?» chiese. «Come si chiama?» Ma non ottenne risposta. «Non importa. Non abbia paura. Ci sono io con lei. E ci resterò. Presto arriverà il dottore e l'aiuteranno. Stia tranquilla.» Gli sembrò di restare seduto accanto a lei per ore, prima che arrivassero la polizia e l'ambulanza, mentre in realtà erano trascorsi solo dieci minuti. Johannes raccontò alla polizia in maniera concisa e con precisione quanto era avvenuto, diede le proprie generalità e seguì in macchina l'autoambulanza. In seguito non si era saputo spiegare perché l'avesse fatto. Era stato un gesto del tutto spontaneo, compiuto senza riflettere. Non conosceva quella donna, non sapeva niente di lei, non era neppure sicuro che potesse sopravvivere. Aveva un importante appuntamento con il dottor Schönfeld. Ma l'aveva accompagnata lo stesso. Le tenne la mano mentre la spingevano su una barella, aspettò in corridoio mentre la visitavano. Alle sette gli esami erano conclusi e le fu assegnata la stanza numero quattordici al primo piano. L'infermiera gli chiese se volesse mangiare qualcosa, ma Johannes declinò e andò al bar. Bevve un caffè, mangiò due panini imbottiti e si chiese per la prima volta se fosse completamente impazzito. Perché non aveva rispettato il suo appuntamento, ma se ne stava seduto come l'ombra di una donna ferita portata all'ospedale, sfogliava riviste di mesi prima e si immaginava i miliardi di batteri che lo accerchiavano subdoli e invisibili.


Lei non aveva pronunciato neppure una parola. Ma quando l'avevano portata a fare le lastre gli aveva sorriso. Forse era per questo che era rimasto. «Ha avuto una fortuna incredibile», aveva dichiarato il primario, «è rimbalzata in aria come una pallina di gomma ed è atterrata come un gatto. Ha una piccola commozione cerebrale, ma nessuna frattura cranica e nessuna lesione interna. Però deve essere operata per una frattura al braccio e alla spalla.» Lei dormiva serena. Aveva gli occhi chiusi e il respiro regolare. Il braccio sinistro era bloccato in un'ingessatura provvisoria, il collo in un collare. I tubi al neon sul soffitto diffondevano nella camera una luce fredda che la faceva sembrare ancora più pallida di quanto non fosse. Lui rimase immobile a guardarla per diversi minuti. Non riusciva a saziarsi dei suoi capelli. Erano di un biondo rossiccio e mossi, quasi crespi, e le incorniciavano il volto sottile come una criniera. Si accorse che alla spalliera del letto era appeso un cartello con il suo nome e si chinò per leggerlo meglio. Carolina Hammacher. Anni trentaquattro. Cercando di non fare rumore, si frugò nella tasca della giacca alla ricerca di un foglio di carta e una penna. Aveva lasciato la valigetta in auto. Trovò soltanto una confezione di gomme da masticare. Si mise in bocca le ultime due, aprì la scatoletta e ci scrisse sopra: «Cara Carolina, guarisca presto. Spero che trovino quello che le ha tagliato la strada. Auguri. Johannes». E sotto il suo numero di cellulare. La guardò un'ultima volta, le strinse la mano e uscì in silenzio dalla camera. Rivolse solo un cenno di saluto alla caposala quando passò davanti alla sua postazione a vetri. Lasciò l'ospedale quando mancavano pochi minuti alle otto. Compose il numero di cellulare del dottor Schönfeld e si scusò di aver mancato l'appuntamento. C'era stato un grave incidente nel quale era rimasta coinvolta una sua amica. Il dottor Schönfeld era molto riservato e non fece domande. Johannes fu sollevato quando gli fissò un appuntamento per il giorno dopo. Poi tornò a Berlino. A Magda disse che l'incontro con il dottor Schönfeld era stato meno proficuo del previsto, perché la moglie era assente e c'erano diversi punti che il marito non voleva decidere senza di lei. Per questo l'indomani si sarebbe dovuto recare ancora a Prenzlau.


Non le raccontò niente della motociclista che aveva accompagnato in ospedale. Era la prima volta che mentiva alla moglie. Non sapeva perché l'avesse fatto. Quattro settimane più tardi Carolina gli telefonò. «Johannes?» «Sì?» «Vorrei ringraziarla», disse lei. Lui la riconobbe subito e si sentì invadere da uno strano calore. «Si figuri. Come sta?» «Bene. Meglio. Ma ci vorranno ancora un paio di settimane prima che possa rimettermi a guidare. Una Harley, intendo. » Johannes sospirò. «Dovrebbe smetterla. E troppo pericoloso. » Lei rise. «E piuttosto difficile per me. E la mia professione. Io vendo Harley.» Rimasero entrambi in silenzio per un momento. Poi lei chiese piano: «E rimasto a lungo in ospedale. Io non me ne sono resa conto, ma le infermiere me l'hanno raccontato. Perché?» «Non saprei. Avevo la sensazione che lei avesse bisogno di me.» «Grazie», ripetè lei. «Mi piacerebbe avere il suo numero di telefono.» «Glielo darò quando usciremo a pranzo insieme. Vorrei invitarla.» Si accordarono su una piccola pizzeria in Pestalozzistrasse. Per il mercoledì successivo alle otto. Johannes ebbe bisogno di sedersi. Poi cercò di tranquillizzarsi. Era stata una telefonata di cortesia. Non c'erano dubbi. Così come un bambino deve ringraziare la nonna quando gli viene regalato un noioso libro illustrato. Non poteva aspettarsi niente di più. Lei non lo conosceva. Di sicuro non aveva registrato la sua presenza, non ricordava neppure il suo viso. Soltanto


poche parole scritte su un pacchetto di gomme da masticare e i racconti delle infermiere. Che forse lo avevano descritto. Da basso e grasso ad alto e magro. Tra i venti e i sessanta. Lei però lo aveva invitato fuori a pranzo e lo voleva rivedere. Quella sera osservò Magda che trafficava in cucina, lavava l'insalata e apparecchiava la tavola. Notò le piccole rughe agli angoli degli occhi che trovava di una bellezza travolgente. Questa è mia moglie, pensò, è meravigliosa, mi piace ancora dopo tutti questi anni, ma la mia mente è con un'altra. Magda era di buonumore. Gli raccontò la sua giornata alla farmacia; ridendo, gli si sedette sulle ginocchia, lo abbracciò e lo baciò sui capelli. E nel frattempo Johannes continuava a pensare a quale scusa avrebbe trovato per il mercoledì successivo. Magda aveva preparato quaglie arrosto che servì insieme a olive e formaggio e un'insalata mista oltraggiosamente annaffiata di costoso aceto balsamico. Nei primi tempi Johannes si era detto che per quella cifra avrebbe preferito comprarsi una buona bottiglia di vino, ma a poco a poco si era reso conto che quell'aceto rendeva ogni insalata una vera prelibatezza. Magda affettò del pane bianco fresco e accese delle candele. «Buon appetito», disse. Johannes apprezzava il fatto che lei tutte le sere gli preparasse pietanze fantastiche, soprattutto perché di giorno in ufficio beveva solo tè e al massimo mangiava un po' di frutta. Lei era davvero una cuoca sopraffina e le piaceva viziarlo. In realtà lui non ricordava di essere mai stato infelice insieme a Magda. Le quaglie erano squisite, ma Johannes non se le gustò, perché la sua mente era troppo distratta da Carolina. Dopo cena Magda sparecchiò e lavò i piatti. Era inconcepibile che andasse a letto senza aver prima rimesso la cucina in ordine perfetto. Finito di rassettare, si fermò sulla soglia, si tolse il grembiule e gli sorrise. Lui la raggiunse e l'abbracciò. «Beviamo qualcosa?» chiese lei. «No. Vieni, andiamo a letto.» La prese per mano e la portò in camera. Magda era tenera e docile. Lui conosceva ogni centimetro, ogni curva del suo corpo, respirò il suo aroma familiare e si sentì unito a lei. Amava sua moglie e intanto pensava a Carolina. Si rese conto che in questo modo la tradiva per la prima volta. Mancavano ancora cinque giorni a mercoledì. Un tempo interminabile. Si rendeva conto di comportarsi come un ragazzino, e sapeva anche che si sarebbe reso ridicolo, ma voleva rivederla.


Su Internet trovò diversi rivenditori di Harley a Berlino, si recò in quello più noto e più grande, in centro, ma decise di non farsi riconoscere e osservarla da lontano. Perché era sicuro che lei in clinica non lo avesse visto in faccia. La si notava appena in mezzo a tutte quelle possenti motociclette. Soltanto la sua chioma rossa risaltava nel grande concessionario. Era seduta in sella a una Road King Classic-Harley e stava spiegando a un cinquantenne le caratteristiche di quel modello. Poi scese e indicò la borsa di cuoio, i fari cromati e i pneumatici bianchi. Il cliente sembrava ipnotizzato, ogni tanto si asciugava il sudore dalla fronte. Gli si leggeva chiaro in faccia il desiderio spasmodico di possedere quella motocicletta. Carolina portava un paio di calzoni neri aderenti, un gilet di pelle nera e una camicia bianca. Solo quando la manica della camicia le si sollevò leggermente, Johannes si accorse che aveva il braccio ancora ingessato. Si avvicinò. Lei non ci badò. «Questo modello con la sua forma classica non passa mai di moda ed è ideale per lunghi viaggi.» Il cliente sospirò e accarezzò il sellino. «Quanto pesa?» «375 chili.» «Oh!» «Però ha una perfetta tenuta di strada. Non avrà alcun problema, e si godrà invece tutto il comfort. Ha un cambio a sei marce e si guida divinamente.» «Lei l'ha già provata?» «Naturale.» «Potremmo provarla insieme?» «Certamente.» Johannes provò un sussulto interiore. Quella motocicletta era decisamente più pesante di quella con cui Carolina aveva avuto l'incidente. Gli venne voglia di prenderla per mano, trascinarla fuori dal negozio e dirle: Vieni, scappiamo da qualche parte. Nel bosco, in un ristorante, oppure in un hotel. Fece esattamente quello che non voleva, le si avvicinò e interruppe il colloquio. «Salve, Carolina», disse piano. Lei spalancò gli occhi sorpresa. «Salve.» Era chiaro che non sapeva con chi stesse parlando. «Mi trovavo da queste parti ed ero curioso di vedere dove lavorava.» Le porse la mano. «Sono


Johannes.» Un lampo illuminò il viso di Carolina e Johannes non provò più la sensazione di aver commesso un errore o una sciocchezza presentandosi in quel modo. Carolina porse al cliente un dépliant. «Mi scusi, torno subito da lei. Per il momento può leggere altre informazioni su questo. Tutto ciò che desidera è possibile.» «Che bello vederla», disse poi, prendendo la mano di Johannes. Lui la seguì per il salone notando che zoppicava leggermente. Sorpreso, constatò di trovare la cosa eccitante. «Posso offrirle un caffè?» chiese Carolina. «No, grazie», si affrettò a dire lui, sebbene non desiderasse altro che bere un caffè con lei. «L'ho appena bevuto.» Perché dico l'esatto contrario di ciò che vorrei?, si chiese pieno di risentimento verso se stesso. «Bene», si scusò lei fermandosi e mettendosi le mani sui fianchi, «lo so, è un peccato, ma ho da lavorare ancora tre ore almeno. E poi devo fare un giro di prova. A volte va per le lunghe.» «Con quella pesante motocicletta?» «Io guido tutte le moto che vede esposte qui. E se non c'è qualche idiota che mi taglia la strada non ci sono problemi.» Sorrise raggiante. «L'appuntamento di mercoledì è sempre valido, oppure è subentrato qualche impedimento?» «No, no, tutto a posto. Ci vediamo mercoledì. Sono molto contento.» «Ok», tirò fuori dal taschino del gilet un biglietto da visita e lo porse a Johannes. «Tenga. Il mio indirizzo e il mio numero di telefono. Nel caso ci fossero problemi.» Poi si voltò e tornò dal cliente. Nel corso di una fantastica cena Johannes venne poi a sapere che Carolina amava Bach e i Rolling Stones, che poteva passare dodici ore al volante guidando a tutta velocità, ma anche ventiquattr'ore a letto con un buon vino bianco e una torta di panna e ciliegie, che trovava affascinanti i cavalli pieni di temperamento e gli uomini fumatori di pipa, che sarebbe voluta andare al mare, in montagna e in tutto il mondo, che sognava di vivere in una casa galleggiante e di partecipare alla Parigi-Dakar. Poteva ridere più forte di tutto il ristorante messo insieme e Johannes si accorse che i suoi grandi occhi scuri risaltavano su tutti gli altri particolari del suo viso. Teneva la forchetta con la mano destra anziché con la sinistra, con cui maneggiava il coltello, mescolava il caffè in senso antiorario e si lamentò della minestra


tiepida, e mentre lo faceva le si formò una ruga di rabbia sulla fronte che Johannes trovò molto affascinante. «Alla salute», disse dopo il primo brindisi, agitando pericolosamente il vino rosso dentro il bicchiere. «Io sono Carolina. Lo sai già. Trovo assurdo darci del lei.» Le sue parole gli andarono dritte al cuore e lui la baciò sulla guancia. Per tutta la serata raccontò molto poco di sé. Però la osservò mangiare e bere, passarsi la lingua sulle labbra, oppure strizzare l'occhio. «È un tic nervoso», gli spiegò lei, «non pensare male. Non posso farci niente, mi capita sempre quando sono stressata, innamorata oppure ubriaca.» Johannes si sentì arrossire. «Sei stressata?» domandò. «No.» «Non sei neppure ubriaca.» Lei rise e non fece commenti. Per tutta la serata avrebbe voluto chiederle se ci fosse un amico oppure un marito nella sua vita, ma non lo fece, per quanto si sentisse vibrare in tutto il corpo per l'ansia di sapere la risposta. Carolina insistette per pagare il conto e aggiunse anche una mancia generosa che Johannes trovò eccessiva. «Ti va di bere ancora un ultimo bicchiere di vino?» gli chiese quando furono usciti sulla strada. «Abito proprio a due passi da qui.» Solo mentre si incamminava verso il suo appartamento, Johannes si rese conto che per tutta la sera non aveva pensato neppure un minuto a Magda. E ora questa constatazione gli lasciò l'amaro in bocca. «Stai attento», gli disse mentre era nuda fra le sue braccia, «io mangio gli uomini. Sono insaziabile. Non mi accontento delle cose a metà. Non sono l'amante che si può andare a trovare una volta al mese e che poi scompare nell'ombra. Io non mi nascondo e non mento al telefono. Starmene seduta a casa, fissare il cellulare e sperare, piangere e implorare una telefonata non fanno per me. Sono avida, io, e voglio tutto oppure per niente.» Johannes sentì le sue parole, ma non volle ascoltarle. Non voleva rovinarsi il ricordo di quella serata. Non si erano scoperti e conosciuti dolcemente, ma fin dal primo istante era stata una lotta. Ciascuno voleva conquistare l'altro e per farlo diventava sempre più insistente ed esigente. Carolina non conosceva


tabù. Quella lotta era come un'estasi e alla fine vinsero entrambi. Lui desiderava riviverla di nuovo. All'infinito. Tuttavia le parole che lei pronunciò furono come una pugnalata al cuore. Sapeva che ci sarebbero stati dei problemi. Carolina non giocava. Non si sarebbe lasciata avvolgere in una trama di menzogne, era una tigre in caccia: indomita e tenera allo stesso tempo, e aggressiva se veniva chiusa in gabbia. Non sarebbe rimasto segreto niente, se avesse incontrato di nuovo Carolina, ma lui era pronto a correre questo rischio. Impiegò solo una frazione di secondo a decidere. La sua mente era lucida e desta. Si vide rasentare il ciglio dell'abisso, ma chiuse gli occhi e non provò neppure a frenare. «Credo che non ci sia niente di più bello che essere divorato da te», bisbigliò baciandola. *** Capitolo 31. Magda tolse il tappo della vasca, si asciugò e si spalmò un olio per il corpo profumato. Spesso un buon profumo le dava una sensazione di benessere e l'aiutava a dimenticare i problemi. Anche stavolta le fece bene. Decise di andare a leggere fuori in terrazza. Lukas non era ancora rientrato, ma la cosa non la sorprendeva. Vista la distanza da Montevarchi, fare la spesa era un'occupazione che durava almeno quattro ore, anche sbrigandosi. Sul fondo della vasca vuota c'era ancora il cellulare. Lo raccolse e si chiese se fosse il caso di gettarlo via. I cellulari sono oggetti di consumo, pensò, ormai chiunque ne possiede più d'uno. Lo aprì ed estrasse la SIM. Era la cosa più importante. Poi salì in camera da letto, infilò jeans e maglietta, chiuse il cellulare in un cassetto, quindi scese in cucina per buttare la minuscola tesserina nella spazzatura. Davvero sfacciato da parte di Carolina telefonarle proprio lì, si disse. Ma da tutto ciò che sapeva di Carolina era nel suo carattere. All'inizio di aprile Magda aveva avuto un attacco di starnuti mentre scrollava il pullover di Johannes


prima di metterlo in lavatrice. Lì per lì non ci aveva fatto caso. Poi però gli attacchi si ripeterono. Starnutiva quando appendeva la sua giacca nell'armadio, quando abbracciava Johannes, oppure quando usciva in corridoio. Sapendo con sicurezza di non soffrire di raffreddore da fieno, questa insistente e inspiegabile allergia la lasciò interdetta. Una settimana più tardi si accorse che Johannes aveva le scarpe sporche di fango. Le prese in mano per pulirle e venne assalita dalla crisi allergica più grave e duratura. Stavolta però ne individuò anche la causa: sotto la suola della scarpa era attaccato dello sterco di cavallo. «Che cos'è?» chiese a Johannes spingendogli la scarpa sotto il naso. «Non ne ho idea. Fango.» «No, Hannes, non è fango qualsiasi. È sterco di cavallo! Hai pestato dello sterco di cavallo?» «Non lo so!» protestò Johannes con veemenza. «Per la miseria, Magda», proseguì, «adesso devo pure giustificarmi dove ho sporcato le scarpe? Quale strada ho percorso, quali pozzanghere ho superato, oppure dove ho messo i piedi? Magda, per favore, non essere ridicola!» Magda ammutolì, ma non dimenticò l'accaduto. Da anni sapeva di soffrire di una forte allergia al pelo di cavallo ed evitava accuratamente di frequentare maneggi e fattorie. Le bastava avvicinarsi agli accessori di un cavaliere, come guanti, stivali, oppure giacca, per essere assalita da una crisi. Un cavallo, pensò. Johannes è in contatto con qualcuno che ha un cavallo, maledizione. Da quel giorno cominciò a tenerlo d'occhio. Gli frugava nelle tasche del cappotto appeso nel guardaroba, e in quelle dei pantaloni quando li lasciava sul letto e andava in bagno. Tutte le volte che poteva, esaminava anche il suo portafoglio alla ricerca di eventuali conti di ristoranti o altre fatture inspiegabili. Ma non trovò niente di inquietante. A metà aprile lui annunciò di dover partire per Hannover. Per controllare la nuova filiale e andare da un importante cliente che aveva intenzione di trasferire la propria attività in Polonia. Sarebbe rimasto via due giorni. Il clima era mutevole. Dopo una settimana di sole e di temperature elevate, quasi estive, un'ondata di maltempo con temporali e grandine aveva riportato il freddo. Ricominciò a nevicare sopra i cinquecento


metri. Johannes aveva già montato sulla macchina pneumatici estivi e Magda era preoccupata per lui. Inoltre sapeva che si era portato indumenti troppo leggeri. Non era assolutamente pronto per un brusco ritorno dell'inverno. Gli telefonò intorno alle quattro del pomeriggio. In un primo momento rimase sorpresa di sentire suonare il cellulare. Forte e molto vicino. Nel giro di pochi secondi si rese conto che lui se lo era dimenticato a casa. Infatti lo trovò sul comodino in camera da letto. Tenere in mano il suo cellulare le dava l'impressione di aver aperto un cassetto segreto chiuso a chiave da anni. Con dita tremanti selezionò il menu «Messaggi» e poi il tasto «Ricevuti». Non vedo l'ora di incontrarti. Con amore. C. Era l'ultimo messaggio arrivato. Magda si sentì mancare. Si mise a sedere sul letto e aspettò qualche secondo finché non si fu ripresa. Esaminò uno dopo l'altro tutti i messaggi salvati con lo stesso numero: Domani sera va bene. Ti abbraccio. C. Mi manchi. C. Possiamo stare insieme più a lungo prima o poi? Non sempre soltanto tre ore... C. Quando non ci sei, sto male. Mi manchi. C. Che idea fantastica! Due giorni e due notti! Sono tanto felice! C. Mi sono liberata. Ci godremo ogni secondo. C. Quando arrivi lunedì? Per colazione? C. Non vedo l'ora di vederti. Con amore. C. Magda si alzò, gettò il cellulare sul letto e uscì dalla camera. Aveva la mente bloccata. Tutto le sembrava stupido e senza via d'uscita. Erano le quattro e un quarto. Johannes era partito da sette ore, molto probabilmente si trovava con C. da sei ore e mezzo. Ammesso che lei abitasse a Berlino. Ma di questo era quasi sicura, se di solito s'incontravano per un paio d'ore. Non ci voleva granché per uscire un po' prima dall'ufficio e tornare a casa un po' più tardi del solito.


Johannes era il capo. Poteva andare e venire come voleva. Nessuno lo controllava. Forse si incontravano addirittura diverse volte alla settimana. Soltanto lei non si era accorta di niente. C. Una donna con un cavallo. Ecco perché Johannes aveva sterco di cavallo sotto le scarpe. Magda fu assalita dalla collera. La rabbia le ridiede la forza. Tornò in camera, sentendosi pronta a leggere anche i messaggi scritti da Johannes. Gli uomini sono così terribilmente prevedibili, pensò, quando si accorse che Johannes aveva risposto quasi sempre con le stesse identiche parole. Mi manchi anche tu, c'era scritto. Oppure: Ho voglia dite. Tanta! E poi: Dirò a mia moglie che devo andare a Hannover da lunedì a mercoledì. Così avremo molto tempo. Soltanto per noi. Johannes. Magda aveva letto abbastanza. Si annotò il numero di C. e spense il cellulare. Lentamente il dolore si impadronì del suo corpo come una lumaca che divora una foglia lasciandosi dietro solo il vuoto. Di colpo le venne un'idea. Corse nello studio di Johannes e rovistò freneticamente in ogni cassetto, in tutti gli schedari e nella scrivania. Per trovare un minimo indizio su C. Chi era C? Voleva andare da loro, coglierli in flagrante e dire: «E finita». Voltare le spalle e andarsene. Non rivolgere più la parola a Johannes. Cancellare il loro passato. Voleva stare come una vincitrice davanti a quei due corpi nudi e godersi il piccolo e breve momento di trionfo. Ma quei sogni erano inutili. Neppure nel computer trovò indizi sull'identità di questa C. Allora andò in salotto e si mise seduta sulla sua poltrona preferita, con i grandi braccioli dove si potevano appoggiare persino le gambe senza che si intorpidissero, e scoppiò a piangere. Più tardi non ricordava più cos'altro avesse fatto quella sera. Le sembrava di vivere sotto una campana di vetro: vedeva tutto, ma non sentiva niente. Vagò inebetita per l'appartamento, come se dovesse abbandonarlo. Passava da una stanza all'altra, si fermava davanti a ogni quadro, sfogliava questo o quel libro, prendeva


in mano piccoli oggetti che un tempo erano stati importanti. Ora le erano diventati indifferenti. Immaginò che un incendio distruggesse ogni cosa e non provò niente. Non c'era niente che avrebbe rimpianto, lei non era già più qui, non era più viva. Un'unica frase le rigirava incessantemente per la testa: Quando uno tradisce l'altro, la vita è finita. Rimase a lungo sul balcone a guardare di sotto. Salta!, pensò, deve essere meraviglioso sfracellarsi sul marciapiede e non sentire più niente. Chi è questa donna con cui va a letto regolarmente?, si chiese. Dove ho sbagliato? Vorrei conoscerla, forse allora capirei perché Johannes lo ha fatto. In quel momento si sentì assalire di nuovo da una rabbia fredda. La colpa era di Johannes. Lui le aveva mentito e l'aveva tradita, l'aveva illusa e raggirata. No. Non si sarebbe buttata di sotto. Tornò con calma in camera, si spogliò e fece un bagno caldo. Poi si preparò un tè verde, prese due pastiglie di sonnifero e andò a letto. Il mattino successivo aveva già fatto colazione e stava riordinando la cucina, quando lui le telefonò. Aveva un tono di voce allegro e soddisfatto. Come sempre. «Per fortuna riesco a parlarti», le disse. «Ho provato anche ieri sera, volevo darti la buonanotte, ma non eri a casa.» «Sì che c'ero. Ma sono andata a dormire presto.» «È tutto a posto?» «Tutto a posto.» «Il trasloco della fabbrica in Polonia è una faccenda molto complicata. Ci sono ancora un sacco di cose da sistemare, ma penso di potercela fare entro domani a mezzogiorno. Dovrei rincasare per cena. Ti va di mangiare fuori?» «No. Non inventare scuse, Hannes. Sei con la tua amichetta qui a Berlino. Non stai organizzando niente, non stai pianificando, non stai contrattando, scopi e basta. E non scervellarti per cercare scuse. Sarà più veloce per entrambi. E se ti servisse il cellulare fai pure un salto qui a prenderlo. E sul tuo comodino.» Johannes tacque.


Lei contò fino a dieci. Non ottenendo risposta da lui, riattaccò. Subito dopo fece una passeggiata per schiarirsi le idee. Ma in breve tempo si rese conto che c'era ben poco da chiarire. Lei non se ne sarebbe andata, non si sarebbe uccisa, in nessun caso avrebbe affrontato un'umiliante battaglia per il divorzio, uscendone alla fine perdente. Johannes era molto più furbo di lei. Era abilissimo e l'avrebbe annientata. Avrebbe perso anche la loro casa in Toscana, e questo non poteva tollerarlo. Il matrimonio con Johannes era la sua vita, adesso era distrutta. Senza amore niente aveva più senso. Lui sapeva ciò che faceva e per questo doveva pagare. Chiuse gli occhi e rivolse il viso verso il freddo sole di aprile. Peccato, pensò, peccato per noi, peccato per te, Johannes. Quel mercoledì, quando lui tornò all'appartamento verso mezzogiorno, aprì silenziosamente la porta ed entrò in salotto senza fare rumore, lei lo accolse con un sorriso gelido e un cognac in mano. Lui sapeva che lei non sopportava il cognac, non beveva mai superalcolici, ma solo un bicchiere di vino in via del tutto eccezionale, e adesso era sdraiata sul divano, lasciva come una concubina orientale, e sorseggiava un cognac. Lui sapeva che si trattava di una messinscena accuratamente orchestrata, e tuttavia non seppe reagire. Rimase sulla porta come un ragazzino che aspetta una ramanzina. Senza guardarlo, lei si limitò a dire: «Il pranzo è in frigorifero. Ma puoi anche buttarlo via e andare a mangiare fuori. Puoi fare tutto quello che ti pare, a me non interessa più». «Magda, ti prego, lascia che ti spieghi.» Lei bevve un altro sorso di cognac e fissò il bicchiere mentre parlava. «Fino a stamattina pensavo ancora di voler conoscere la donna con cui hai una relazione. Volevo paragonarmi a lei, volevo scoprire cos'ha che io non ho. Volevo sapere come si chiama, dove abita, quanti anni ha e che aspetto ha. Mi interessava il suo lavoro, oppure sapere se era spiritosa. Volevo immaginarmi come ti divertivi con lei e come lo facevate insieme. Volevo sottopormi all'intero programma, per quanto terribilmente doloroso.» Sorrise e lo guardò negli occhi. «Ora non più. Non voglio sapere niente di tutta la storia e non voglio sentire niente. Per quanto mi riguarda puoi prendere le tue cose e trasferirti da lei. Per me fa lo stesso.» Johannes si girò senza parlare e andò in cucina. In frigorifero trovò una bistecca, un'insalata mista e una salsa al limone, tutto accuratamente avvolto nella pellicola trasparente.


Senza toccare niente, prese soltanto una birra e andò nel suo studio. Si rese conto che tutto l'appartamento era meticolosamente pulito e ordinato. Sapeva che Magda si metteva sempre a pulire quando era infelice. Per natura era una persona molto ordinata e, quando si sentiva depressa o disperata, diventava veramente maniaca. Aveva voglia di telefonare a Carolina. Sollevò ripetutamente la cornetta e compose il suo numero, ma tutte le volte riagganciò prima che lei rispondesse. Rimase seduto alla scrivania per tutto il pomeriggio, senza sapere che cosa fare. Nell'appartamento regnava il silenzio, lui non aveva idea di che cosa stesse facendo Magda. Cercò di lavorare, nelle ultime settimane aveva trascurato molto gli affari, ma non concluse niente. Non riusciva a concentrarsi. Verso le sei si addormentò con la testa appoggiata alla scrivania. Alle otto fu svegliato dal televisore che Magda aveva acceso per guardare il notiziario. Andò in cucina a mangiare la bistecca. Fredda e in piedi. L'insalata e la salsa al limone non le toccò neppure. In salotto si mise a sedere accanto a lei. «Come lo hai scoperto?» le chiese. «Il tuo cellulare è come un libro aperto. Forse avresti dovuto cancellare tutti quegli SMS espliciti e imbarazzanti.» «Lascia che ti spieghi...» «No. Voglio restare da sola.» Johannes uscì dall'appartamento e andò al suo ristorante italiano preferito, a tre isolati di distanza. Ordinò un piatto di spaghetti e una bottiglia di vino. Quando tornò a casa era convinto che avrebbe trovato Magda a dormire nella camera degli ospiti. Invece non era così. Era sdraiata sul loro letto con il viso girato verso il muro e dormiva profondamente. Aveva il respiro lento e regolare. Niente lasciava intuire che si fosse accorta di Johannes che s'infilava con cautela sotto le coperte accanto a lei. Magda diventò sempre più taciturna. Con Johannes scambiava soltanto le informazioni strettamente necessarie. Gli preparava la colazione in silenzio, beveva una tazza di caffè nero e andava alla farmacia. La sera cucinava come al solito, solo che lei non mangiava, ma si chiudeva in camera a leggere, guardare la tv o a usare il computer, cosa che non aveva mai fatto prima. Lui però continuò a vedere Carolina. Almeno due volte alla settimana. Solo che adesso non lo faceva più


di nascosto. Una sera - Johannes era appena tornato a casa e aveva aperto il frigorifero per vedere che cosa poteva mangiare fece letteralmente un salto quando Magda gli spuntò all'improvviso alle spalle dicendo, con voce limpida e chiara: «Ho chiesto le ferie. La settimana prossima vado in Italia. Per sei settimane almeno». Johannes rimase così sorpreso da non sapere che cosa replicare. Magda prese dal frigorifero un pezzo di formaggio, tirò fuori dal sacchetto due fette di pane e stava per uscire dalla cucina quando Johannes le domandò cauto: «Hai qualcosa in contrario se vengo anch'io?» «Da solo?» «Certo, da solo. Pensi forse che porterei Carolina a casa nostra?» Per la prima volta aveva pronunciato il nome «Carolina» e si accorse chiaramente del sussulto di Magda. «Mi piacerebbe molto venire in Toscana con te.» Lei rispose soltanto: «Prego», in un tono così ambiguo che lui non riuscì a capire se lei lo stesse supplicando, oppure semplicemente sopportando. «Questo fine settimana non ci sarò», annunciò Carolina quasi distrattamente mentre lei e Johannes erano nella vasca insieme. «Vorrei partecipare a un corso di sopravvivenza nella Foresta Nera. Tre giorni e tre notti senza attrezzatura adatta nel bosco. Dormire all'addiaccio e cibarsi di quel che si trova. Voglio imparare ad accendere un fuoco nel bosco umido e a riconoscere i funghi e le bacche commestibili senza avvelenarmi.» «Che idea fantastica», borbottò Johannes, senza sapere bene come prenderla. Era geloso. Di chiunque stesse insieme a Carolina. Era una follia, ma il pensiero che lei passasse tre giorni nel bosco a mangiare funghi viscidi lo faceva impazzire. «Ah, è vietato portare i cellulari», aggiunse lei. «Quindi non sarò raggiungibile. Te lo dico così non ti preoccupi.» Lui non era preoccupato, soffriva come un cane. Soffrì per tutto il fine settimana. Lei si divertiva nel bosco e a lui mancava la forza di fare qualunque cosa. Il martedì dopo il corso di sopravvivenza Carolina abbracciò Johannes con impeto. «Ah, tesoro» esclamò trionfante, trascinando Johannes in salotto, «sono stati tre giorni fantastici!» Poi diventò seria.


«Non ha importanza, tanto prima o poi saresti venuto a saperlo e io odio i sotterfugi. Si chiama Frederick, è studente di biologia e semplicemente tenerissimo.» Johannes si sentì come se avesse ricevuto un colpo in testa con una mazza da baseball. «Non voglio fingere con te», disse Carolina, «ma vi amo entrambi. Come tu, molto probabilmente, ami sia me che tua moglie. E la stessa cosa. Quindi, dove sta il problema?» Il problema era che Johannes provava una fitta al cuore tutte le volte che ci pensava. Quel tizio doveva avere vent'anni meno di lui, magari addirittura venticinque. All'improvviso si sentì un vecchio catorcio e il fascino di Carolina cominciò a sbiadire. Lui non l'aveva più tutta per sé, lei non era più il primo premio, ma un premio di consolazione. Mancavano pochi giorni alle ferie. Quando Johannes tornò a casa, trovò Magda sulla scala che appendeva le tende fresche di bucato. Johannes aveva una giornata faticosa sulle spalle, si sentiva teso e stanco e valutò se fosse il caso di fare un salto da Carolina. Magda scese subito dalla scala non appena lui entrò in salotto. «Ti devo parlare», disse, addirittura con un timido sorriso. «Che ne dici di stappare una bottiglia di vino?» Erano secoli che non la sentiva più pronunciare una frase del genere. In pratica da quando aveva saputo di lui e Carolina. Quando tornò con la bottiglia e due bicchieri in salotto, Magda aveva già appoggiato la scala al muro. Si passò una mano tra i capelli con un gesto stanco. «Voglio finire tutto quanto prima della partenza», disse in tono di scusa, «perché detesto tornare a casa e avere una montagna di lavoro da fare.» «Salute, Magda», disse Johannes piano alzando il bicchiere. «E bello stare di nuovo seduti insieme a parlare.» Magda si rigirò il bicchiere tra le dita, poi cominciò. «C'è una cosa che devo dirti...» Era titubante. «Qualcosa che mi irrita molto e mi sconvolge profondamente.» Johannes la guardò con aria interrogativa. «Di che cosa si tratta?» Era tranquillo, aveva la sensazione che ormai niente potesse più scuoterlo. «Negli ultimi tempi non siamo più stati a letto insieme, ma prima che venissi a sapere di Carolina era diverso. Te ne ricordi?» «Certo.» Si sentiva quasi in imbarazzo.


«Sono incinta, Johannes.» Lo disse con la massima convinzione e non provava il minimo rimorso per questa bugia. Al contrario. Forse alla fine lui avrebbe capito di dover prendere una decisione. Lui la guardò esterrefatto. «Non pensavo che potesse ancora accadere.» «Non sono poi così vecchia.» Lei sorrise. «Il ciclo però non è più regolare come prima. Per questo mi ero sbagliata.» «E adesso?» Lui si sentiva girare la testa. Non era nella condizione di pensare lucidamente a questa nuova circostanza. «Adesso niente. Volevo solo dirtelo. Tutto qui.» Johannes pensò a Thorben, ma il pensiero gli fece male, così si affrettò a scacciarlo. In quel momento si vergognò di pensare a lui così di rado. Magda si alzò e si ritirò in camera. Il vino non lo aveva praticamente toccato. Johannes rimase a sedere e continuò a bere da solo. Magda doveva essere andata a letto, perché non tornò più per quella sera. Gli venne in mente Carolina. E stranamente non provò alcun fremito, pensando a lei, anzi, si sentiva indifferente. Carolina con la sua nuova conquista, quel Frederick, con il quale molto probabilmente era meraviglioso dormire all'addiaccio nel bosco, con i lupi che ululavano e le formiche che le risalivano nei pantaloni. Quel magnifico dongiovanni di sicuro riusciva ad accendere un fuoco su un prato fradicio con un paio di bastoncini, preferiva farlo per terra tra radici e ortiche e riusciva a resistere una giornata intera bevendo solo un sorso d'acqua del ruscello e rosicchiando qualche foglia di tarassaco. Con un superuomo del genere non c'era speranza per lui. Non poteva né voleva competere. All'improvviso provò un impeto di esaltazione all'idea di ricominciare tutto daccapo. Non con un'amante più giovane, bensì con Magda e un nuovo figlio. *** Capitolo 32.


Magda aveva passato tutto il sabato a fare i bagagli. In corridoio erano ammassate valigie e borse, scatole e casse. «Sembra quasi che tu abbia intenzione di trasferirti definitivamente in Italia», osservò Johannes in tono bonario guardando quella montagna di bagagli. Non si aspettava un commento, e non lo ebbe. Magda andava in silenzio da una stanza all'altra, portando sempre più roba in corridoio. «Sei sicura che ci stia tutto in macchina?» domandò lui cauto, ma anche stavolta non ottenne risposta. Quando fu pronta, una volta caricato tutto in macchina e controllato di avere nella borsa tutto il necessario come soldi, documenti, patente, carte di credito e chiavi, Magda gli fece un'impressione così sperduta, così infelice che lui d'impulso l'abbracciò. Lei si sottrasse con forza, come se lui avesse una malattia contagiosa. «Non è il momento», sibilò uscendo dalla camera. Il mattino dopo si alzò alle sei, fece una doccia, bevve un caffè in piedi e mezz'ora dopo era pronta per partire. Johannes si svegliò bruscamente quando la sentì prendere il mazzo di chiavi dal comò e aprire la porta di casa. Veloce come un lampo e ancora assonnato, saltò giù dal letto, afferrò l'accappatoio dall'attaccapanni, se lo gettò sulle spalle e corse in corridoio. Lei stava per uscire quando lui le fece togliere la mano dal pomello della porta. «Ciao, Magda», le disse piano sfiorandole la guancia con un bacio. «Guida piano e fai attenzione. Io arriverò il prima possibile. Magari per il fine settimana.» Lei si limitò ad annuire con lo sguardo chino a terra. «E non dimenticare che ti amo.» Lei alzò gli occhi e lui scorse la sua espressione sarcastica. Poi si voltò senza parlare e se ne andò. Johannes si affacciò al balcone e guardò la macchina allontanarsi, giurando a se stesso che avrebbe messo fine a quella tortura. Avrebbe lasciato Carolina e sarebbe tornato da Magda, anche se ci avrebbe sofferto. Quel giovedì sera Johannes andò da Carolina. Lei era stupenda quando venne ad aprirgli la porta. Si era lisciata la chioma leonina che ora le scendeva morbida sulle spalle, si era truccata con cura e portava un vestito di pelle aderentissimo. Lo abbracciò impetuosa come sempre, lo baciò come una leonessa che addenta la preda ed esclamò quasi


con giubilo: «Non ci vediamo da una settimana! Mi sono sentita quasi morire senza di te». Lo fece entrare nell'appartamento e stappò una bottiglia di spumante, prima ancora che Johannes fosse riuscito a spiccicare parola. Brindò alla sua salute. «A te, a me, a noi e al futuro!» La serata cominciava decisamente male. Lui aveva deciso di troncare la relazione, ma se Carolina continuava a comportarsi così non ci sarebbe mai riuscito. Lei vuotò il bicchiere in un colpo, si mise seduta accanto a lui, posandogli la testa sulla spalla. «Sai, non avrei mai pensato di avere tanto bisogno di te. Mi sentivo così sola senza di te. E stato terribile!» «E il tuo uomo dei boschi?» Lei fece un cenno con la mano. «Tra voi due non c'è paragone. Fredi non è importante, smetti di pensare a lui. Tu sei diverso. Molto diverso. Tu sei un uomo da sposare.» Johannes si irrigidì. «Non avevo mai pensato al matrimonio prima, ma da quando ti conosco ci sto riflettendo.» «Carolina, io sono sposato!» «Lo so. Ma se non lo fossi... mi sposeresti?» Lo abbracciò e lo guardò dritto negli occhi. Lui si sottrasse a quell'abbraccio e distolse gli occhi. «Non lo so. E una domanda del tutto ipotetica alla quale non sono in grado di rispondere.» «Naturale che è ipotetica! Però potresti provare a pensarci! » «Forse ti sposerei, oppure no. Dipenderebbe dalla situazione. » «La situazione è quella di adesso. Tu così come sei, quello che sei, io così come sono. Tutto identico. Solo senza tua moglie.» Invece di risponderle, lui la spogliò e la portò in camera da letto. Quella notte non riuscì a chiudere occhio tormentato dai dubbi. Sentiva la pelle calda e morbida di lei e il suo profumo lievemente speziato. Il suo respiro gli accarezzava la guancia. In quel momento era felice,


eppure avrebbe desiderato essere altrove. Anche con Carolina sarebbe stato possibile tutto. Poteva ricominciare come vent'anni prima. Ma non sarebbe stato giusto nei confronti di Magda. Magda, la donna che amava ancora e che aspettava un figlio da lui. In fondo al cuore le amava entrambe. Verso le cinque piombò in un sonno agitato e tre ore dopo si svegliò sentendo il rumore della caffettiera in cucina. Probabilmente Carolina si era dimenticata che lui al mattino beveva solo tè. Rinunciò agli esercizi per tonificare gli addominali e andò in bagno. Quando entrò in cucina, Carolina lo accolse con un bacio. «Che cosa ci fai qui? Torna a letto, arrivo subito con la colazione.» «Mi prepareresti un tè?» Lei si bloccò per un istante. «Accidenti, me l'ero dimenticato. Sì, certo. Cinque minuti e arrivo.» Lei appariva di umore così imprevedibilmente allegro lui se ne sarebbe dovuto andare la sera prima e non trascorrere la notte con lei. Carolina tornò con il vassoio della colazione, il tè e una bottiglia di champagne. «Sei impazzita?» esclamò Johannes. «Sono le nove del mattino!» «E allora? Dopo possiamo rimetterci a dormire.» Stappò la bottiglia e si mise a cavalcioni sopra di lui completamente nuda. «Forse avevo bisogno di questa settimana in cui non ci siamo visti per capire quanto sei importante per me.» Johannes chiuse gli occhi. E si abbandonò totalmente alla volontà di Carolina. Immaginandosi che fosse l'ultimo giorno. Quando si svegliarono di nuovo erano le due meno un quarto. Johannes si fece una doccia e si rivestì. Carolina si mise al computer a controllare la posta. Quando terminò e si girò sorridente verso Johannes che si era seduto sul divano di fronte a lei, lui disse: «Carolina, ho intenzione di lasciarti. Voglio troncare la nostra relazione e non voglio più rivederti».


Carolina rimase perfettamente immobile. «Ripetilo.» «Carolina, non funziona. Mi sono innamorato di te, è vero, ma non sopporto più questa doppia vita. Ho capito di dover prendere una decisione. Fra te e Magda. È un inferno dover scegliere così, credimi.» «Santo cielo, mi vengono le lacrime agli occhi.» La bocca di Carolina era una linea sottile. «Presumo che tu abbia scelto tua moglie.» Johannes annuì, sperando che lei non gli avrebbe detto altro. Carolina accavallò le gambe e si raccolse i capelli sulla nuca con un gesto brusco. La sua espressione diventò così ancora più severa. «Non sapevo che fossi un simile lurido pezzo di merda.» Niente giri di parole. Ma Johannes le fu quasi riconoscente. Tutta la faccenda diventava più facile. «E evidente che avevi preso già la tua decisione prima di venire qui. Sarebbe bastata una telefonata. Invece no, vieni qui, non dici una parola e fai l'amore con me. Più volte. E poi, poco prima di andare via, mi butti in faccia questa cosa. Riesci almeno a renderti conto di come mi sento?» «Mi spiace, Carolina, mi spiace davvero. Ma non posso fare altrimenti.» Lei si alzò. Era paonazza. «Vattene! Sparisci!» Johannes raccolse le proprie cose con la coda tra le gambe. Lei lo guardava in silenzio, paralizzata dalla collera. «Avrei preferito un addio diverso», disse lui piano affrontandola un'ultima volta. «Più conciliante.» «Ma sei davvero così ingenuo?» sibilò lei voltandogli le spalle. «Sparisci, e sii felice con la tua Magda.» «Lasciati almeno abbracciare un'ultima volta.» «Vai al diavolo.» «Addio, amore», mormorò Johannes uscendo dall'appartamento.


*** Capitolo 33. Stefano Trepo dormì fino alle dieci. Era nella sua vecchia camera di quando era ragazzo, sotto il tetto, e aveva passato l'intero fine settimana a radunare le cose della madre in scatoloni da dare in beneficienza e in sacchi della spazzatura che aveva gettato nei cassonetti del circondario. I mobili li lasciò dov'erano. Aveva già parlato con un agente immobiliare e voleva tentare di vendere la casa arredata. Non aveva nessuno che potesse aiutarlo in quel lavoro ingrato, e sapeva che ne avrebbe avuto ancora per giorni, se non settimane. Sua madre non aveva riordinato né fatto pulizie per anni. Ciò che aveva radunato in casa era un'accozzaglia infinita di roba inimmaginabile. Trepo era in collera per ogni ora in più che era costretto a trascorrere ad Ambra. Voleva tornare nel suo piccolo ed elegante appartamento di Firenze e odiava la madre che, persino da morta, era riuscita a trattenerlo a lungo in quel posto. Mentre scendeva la scala e apriva la finestra della cucina, non udì alcun inno nazionale, neppure la caffettiera che fischiava e nemmeno un: «Buongiorno, stronzo». Trepo uscì di casa e si avvicinò alla gabbia di Merlo sistemata sul davanzale con la porticina aperta. Era stato lui ad aprirla. Che Merlo se ne volasse via e si cercasse un'altra casa. Per un animale così docile non sarebbe stato un problema. Ad Ambra ce n'erano di amanti degli animali che si sarebbero occupati volentieri di un uccello! Invece Merlo non aveva lasciato la sua gabbia. Era disteso sulla schiena, le zampette irrigidite rivolte verso il cielo, gli occhi spalancati, opachi e senza vita, e Trepo lo trovò somigliante all'immagine della madre morta. Disgustato lo tirò fuori dalla gabbietta e lo gettò nel bidone della spazzatura in cucina. Felice di non doversi più sentire salutare con uno: «Stronzo». Dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua e un caffè, accese il portatile in camera sua. Per il giorno dopo doveva scrivere ancora due recensioni. I libri erano da due settimane sulla sua scrivania, senza che avesse dato loro neppure un'occhiata. Ora comunque non avrebbe più avuto senso, quindi avrebbe fatto ricorso al suo vecchio metodo di comprovata efficacia. Il primo libro s'intitolava Sabbia rovente ed era un romanzo d'avventura. Sulla copertina era raffigurato un affascinante paesaggio desertico al tramonto. Trepo diede una scorsa alla quarta di copertina. «Due coppie in vacanza nel Ciad si incontrano in un hotel di lusso dove fanno amicizia.


Decidono di compiere insieme un'escursione di più giorni nel deserto, ma ben presto scoprono di avere problemi e non solo tra loro. Rimasti soli, dopo che la loro guida è morta a causa del morso di un serpente, si ritrovano a vagare nel deserto, affrontando un'avventura di vita e di morte.» Trepo sospirò. Questi temi gli davano la nausea. Senza starci troppo a pensare, fece un riassunto della quarta di copertina e aggiunse: «Una trama troppo esile ha forse bisogno del Ciad per diventare più interessante. Ma in questo caso non ha funzionato. L'ingenuità dei protagonisti di avventurarsi nel deserto senza esperienza, senza cartina e senza GPS è superata soltanto dalla stupidità dell'autore che scrive certe assurdità. I personaggi sono tratteggiati in maniera semplicistica e dozzinale, i dialoghi sono fiacchi e banali. Non sarà difficile trovare una lettura migliore di questo malloppo indigesto». Trepo sogghignò compiaciuto. Non aveva impiegato più di cinque minuti a scrivere quelle frasi. Non riusciva a capacitarsi che esistessero colleghi che ancora leggevano i libri da recensire. Ovviamente lui non era in grado di giudicare personaggi e dialoghi, ma in fin dei conti la sua opinione rispecchiava un punto di vista. Nessuno poteva obiettare. Prese il secondo libro dal titolo 23 aprile, 11,43 di una certa Maria Cecci e lesse la quarta di copertina. «Una località idilliaca nelle Marche. Una tiepida mattina di aprile. Giovanni Santoni si appresta a compiere un bagno di sangue nella sua città natale. Un thriller avvincente.» Cielo, pensò Trepo. A chi verrebbe mai voglia di dedicarsi a una lettura tanto idiota? Scrisse sul computer: «Com'è possibile che un romanzo insulso come questo finisca ancora una volta tra i best seller? E proprio necessario che l'autrice ci propini la sua psicologia dozzinale?» In quel momento si accorse di aver ripetuto anche in questa seconda recensione l'aggettivo «dozzinale» e lo sostituì nel primo testo con «noioso» cosicché la frase diventò «i personaggi sono tratteggiati in maniera semplicistica e noiosa». Scrisse un breve riassunto che non gli creò problemi, perché attinse dal risvolto di copertina, molto dettagliato, aggiunse qualche frase generica sugli psicopatici, presa da Internet e che lasciava intendere come lui si fosse occupato approfonditamente del problema. Poi concluse la sua stroncatura con: «A prescindere dalla vicenda del tutto improbabile...» Improbabile è un aggettivo sempre efficace, pensò Trepo, infatti era uno dei suoi preferiti. «Non mi va di leggere come il cervello spappolato dal colpo di fucile schizzi sulla strada e si spiaccichi sui parabrezza, perché in questo momento sto mangiando. Forse l'utilizzo migliore per le pagine di questo romanzo sarebbe alla toilette». Trepo si appoggiò allo schienale e sogghignò. Ancora una volta era stato geniale. I suoi lettori lo amavano per il suo stile spregiudicato. Al suo occhio critico, infatti, non c'era niente di decente. E perché poi? Le recensioni positive erano entusiasmanti come i settimanali di economia in una sala d'attesa. Trepo non sapeva che nel libro da lui recensito alla fine non c'era proprio nessuna strage, perché veniva scongiurata per tempo, ma non gli interessava neppure saperlo. Scriveva ciò che voleva, e la cosa finiva lì.


Si fregò le mani sollevato. Sabato sera. Il lavoro settimanale era finito. Inviò i testi per e-mail alla redazione e si sentì ancora una volta molto compiaciuto di se stesso. Quindi si mise al lavoro e vuotò l'armadietto dei medicinali in bagno, buttando tutto quanto - boccette, creme, tubetti e scatoline - in un grande sacco nero della spazzatura. *** Capitolo 34. Il tempo era sempre splendido. Probabilmente sarebbe rimasto così fino a metà settembre, dicevano gli abitanti del luogo al bar, con una smorfia. Per gli ulivi, infatti, era meglio un acquazzone di tanto in tanto. Lukas era andato dal fornaio e alla posta, aveva portato via la spazzatura, mentre Magda, seduta in terrazza, scriveva a Thorben. Tesoro mio, ho giusto un po' di tempo per scriverti. Papà è andato a fare la spesa, io sono in terrazza. Fa troppo caldo per mettersi a lavorare in giardino oppure in casa. Tre giorni fa ho telefonato al rettore. Mi ha detto che ti sei ambientato molto bene. E meraviglioso, amore mio. Non vedo l'ora di ricevere la tua prossima lettera, per avere la conferma che sei davvero felice. Stamattina papà ha tolto le erbacce nell'orto. Una pazzia, con questo caldo. Ma sai com'è fatto. Non si risparmia e non riesce a stare seduto senza far niente nemmeno per cinque minuti. La volpe ora si fa vedere più spesso. Tutte le mattine, quando facciamo colazione, è accovacciata sotto il cespuglio e non scappa più quando papà le dà da mangiare. Inoltre abbiamo anche una piccola cincia che tutti i giorni si appollaia sulla finestra e batte sul vetro. Le ho già dato qualche briciola di pane, ma non le interessa. Quando esco di casa, vola via. E un uccellino timido, ma mi sono abituata così tanto a lei che ci rimarrei male se un giorno non comparisse. Mio amatissimo tesoro, abbi cura di te, fatti sentire se hai bisogno di qualcosa. Ti pensiamo, siamo contenti per te, e siamo sempre a tua disposizione. Con amore, mamma e papà Magda infilò la lettera nella scatola proprio mentre Lukas faceva ritorno.


Lei lo guardò. «Vorrei andare a Roma», annunciò seria. «Magari già domani.» «Perché? Che cosa ti aspetti?» «Vorrei controllare gli alberghi che abbiamo trovato segnalati sul suo computer. Forse scoprirò qualcosa. Un piccolo indizio. Non posso più starmene seduta qui a fare niente, rassegnandomi al fatto che Johannes non tornerà più, senza sapere che cosa gli sia successo. Non ce la faccio proprio, capisci?» «Sì, certo...» Lukas esitò. «Ma che cosa credi di ricavarne, Magda? Potresti venire a sapere che non è stato in nessuno di quegli alberghi, oppure, viceversa, che vi ha soggiornato ed è poi ripartito senza dire al portiere dove fosse diretto. Certo, saresti un pochino più avanti, ma in fin dei conti ancora più infelice di adesso.» Magda lo fissò. Poi le salirono le lacrime agli occhi e cominciò a singhiozzare senza ritegno. Non era un pianto. Era l'urlo di un animale ferito. «Che cos'hai?» balbettò lui incerto. «Che cosa ti ho fatto?» «Tu rovini tutto, distruggi tutto», gridò lei, «mi togli ogni speranza perché in realtà non lo vuoi trovare! Sei felice che se ne sia andato, vero? Sei così distruttivo, così negativo, non vuoi cercarlo e non aiuti neppure me! Al contrario, rendi tutto più difficile!» Questo sfogo sgorgò da lei come un fiume in piena, che travolge tutto ciò che incontra sul suo cammino. «Non lo sopporto più!» proseguì dandosi dei pugni sulle tempie. «Non capisci? La paura che gli sia accaduto qualcosa, questa continua incertezza ! Mi manca da morire e quello che facciamo qui, come passiamo le giornate, è tutto insensato, tutto assurdo! Mi sembra di impazzire, Lukas, non posso più starmene seduta qui ad aspettare!» «Lo so. E ti capisco», mormorò lui e lei esplose un'altra volta. «Tu non sai proprio niente, e non capisci proprio niente! Niente ! Non hai idea di come mi senta io e di che cosa abbia qui dentro.» Si colpì il petto con la mano. «Non ce la faccio più, Lukas. Basta!» Appoggiò la testa sulle braccia e pianse in silenzio. Lui le rimase accanto muto, senza muoversi. Non osava neppure accarezzarle i capelli. Dopo qualche minuto lei si alzò. «Credo che mi ucciderò» bisbigliò, salendo in camera da letto. Lukas la sentì chiamare ancora un paio di volte il nome di Johannes, poi scese il silenzio.


Stava seduto in cucina sui carboni ardenti, non sapeva come comportarsi. Riuscì a resistere tre ore, poi salì e socchiuse piano la porta. Lei era sul letto, ma non dormiva, aveva la testa piegata di lato e lo sguardo fisso fuori dalla finestra. Non reagì neppure quando Lukas si fermò sulla soglia. «Non prendertela con me, te ne prego», disse lui piano. «Perdonami, Magda.» Lei lo guardò con un'espressione quasi mite. Quasi intenerita. «Non è necessario che tu venga con me, Lukas. Posso andare da sola.» «Naturale che ti accompagno. Vengo volentieri a Roma con te. E farò tutto ciò che è in mio potere per aiutarti.» «Partiremo domattina alle otto», dichiarò lei con un sorriso. «Voglio prendere il treno delle nove e un quarto. Per te va bene?» *** Capitolo 35. «Provo una sensazione strana a fare esattamente quello che Johannes ha fatto qualche giorno fa», disse Magda pensierosa, mentre erano seduti in treno. «Guardo fuori dal finestrino, leggo, magari mi appisolo per qualche minuto; sono in viaggio verso Roma. Come ha fatto lui. Seguo le sue tracce e mi avvicino sempre di più a lui. Forse per tutto questo tempo lui ha aspettato soltanto che io partissi, e magari alla fine arrivo troppo tardi. Ma lo troverò, Lukas. Me ne rendo conto con sempre maggiore lucidità. Sarei dovuta partire molto prima.» «Hai fatto tutto il possibile e tutto quanto era giusto. Credo che tu non debba rimproverarti proprio niente.» Lukas si rese conto di quanto suonassero vuote le sue parole. Magda gli sorrise e chiuse gli occhi. Il treno partì dalla stazione di Arezzo. Dopo pochi minuti le voci intorno a lei si affievolirono, nella sua testa risuonava soltanto il clangore monotono delle ruote sui binari che a poco a poco si trasformò in una melodia che lei aveva sentito alla fiera quando aveva sette anni e che le era rimasta impressa nella mente.


Non era andata da sola con suo padre all'Oktober-fest, per questo lui non la teneva per mano. C'era «l'altra» con loro: alta, capelli scuri, slanciata e con espressivi occhi castani. Suo padre la definiva così, quando parlava di lei, sua madre evitava del tutto di parlare dell'«altra». Magda non sapeva con precisione che ruolo avesse questa «altra» nella loro famiglia, ma non aveva un bel presentimento. Suo padre teneva il braccio sulle spalle di quella donna e rideva molto. Molto più che a casa, quando quella donna non c'era. Magda aveva creduto che il padre l'avesse portata all'Oktober-fest per farla felice, ma si sbagliava. Ora se ne rendeva conto. Lui voleva stare insieme all'«altra», lei era il terzo incomodo e trotterellava svogliata dietro di loro. «L'altra» prese la mano destra del padre che lui le teneva sulla spalla, e le loro dita si intrecciarono. Magda si vergognò per loro. Al chiosco dei dolciumi il padre le comprò lo zucchero filato. Grande, bianco, appiccicoso e dolce. E mentre il volto infantile di Magda scompariva dietro l'enorme batuffolo lui baciò «l'altra» sulla bocca. Probabilmente pensava che Magda non potesse vedere niente dietro lo zucchero filato, ma lei vide lo stesso. Magda non sopportava «l'altra». Le ricordava un grosso pitone che si acciambella nella sua tana e lentamente inghiotte una preda dopo l'altra. Tutte le volte che la vedeva, Magda era assalita da una vaga paura. Inoltre era sicura che «l'altra» la considerasse soltanto una seccatura. Avrebbe decisamente preferito stare da sola con suo padre, e Magda temeva che il padre potesse prendersela con lei se «l'altra» diventava di cattivo umore. «Voglio andare nella casa stregata», dichiarò Magda a voce alta, tirando la giacca del padre. Lui e «l'altra» si scambiarono un'occhiata. Poi lui fece un cenno d'assenso. Il lato positivo era che sul vagoncino che entrava nella casa stregata c'era posto solo per due. L'altra non poteva accompagnarli. Magda si spaventò davvero. Si strinse al padre, rannicchiandosi nell'incavo del suo braccio e pregò in primo luogo che quel meraviglioso viaggio insieme a papà attraverso la galleria buia passando davanti a fantasmi ululanti e decapitati grondanti sangue non finisse mai, e secondo che «l'altra» sparisse. Sperava di tutto cuore che nel frattempo venisse colpita da un fulmine, oppure inghiottita dalla terra, ma non accadde niente. Suo padre le fece fare tre giri e tutte le volte «l'altra» li aspettava all'uscita sorridendo e ammiccando allegramente. In quel momento Magda provò una struggente nostalgia di sua madre. Se ci fosse stata lei là fuori, allora sarebbe stato tutto perfetto. L'Oktober-fest con mamma e papà: Magda non poteva immaginare niente di più bello.


Per un istante Magda valutò la possibilità di spingere «l'altra» sotto un vagone. Oppure di farla cadere proprio ai piedi di un drago a cinque teste che sputava fuoco, oppure tra le braccia di una ripugnante strega che sghignazzava, ma poi scartò subito l'idea. Ma non avrebbe mai osato farlo. E se continuava ad avere certi pensieri avrebbe dovuto confessarli il sabato in chiesa ed espiarli, e lei non lo voleva assolutamente. Al banco del tirassegno il padre colpì una scimmietta di peluche. «L'altra» si esaltava per ogni colpo andato a segno, ma la scimmietta era destinata a Magda. Poi erano andati a sedersi sotto un tendone. Due birre grandi e due porzioni di pollo per papà e «l'altra», salsiccia e Coca-Cola per Magda. Era seduta di fronte a loro, ma parlavano a voce così bassa che non riusciva a sentire nemmeno una parola. Il ritmo monotono di una canzone chiassosa rimbombava nella tenda. Magda aveva finito di mangiare e fece ballare la scimmietta a tempo con la musica. Le cadde per terra e, quando si chinò, vide sotto il tavolo che «l'altra» aveva la gonna arrotolata. Le vide le giarrettiere e la mano di suo padre che si infilava tra le cosce bianche. Quando si rialzò, Magda sapeva di avere le guance in fiamme. E non solo perché era rimasta per un po' a testa in giù. Si vergognava terribilmente, molto più che per le dita intrecciate di prima. L'Oktober-fest non la divertiva più e venne assalita da una tristezza infinita, come se la sua vita di ragazzina all'improvviso fosse diventata insensata e oscura. Magda aprì gli occhi. Mancavano ancora due ore all'arrivo. Sebbene il treno non fosse affollato, non era piacevole stare seduti nello scompartimento. I sedili erano scomodi, avevano una forma per nulla ergonomica, i finestrini erano sporchi, i piccoli cassetti dei rifiuti straripavano. Sebbene sui finestrini fosse scritto di tenerli chiusi per via dell'aria condizionata, erano tutti aperti. Le tendine turchesi svolazzavano al vento e c'era una corrente insopportabile. Magda non sembrava rendersene conto. Che idiota sono, pensò Lukas, invece di cercarmi un lavoro me ne sto seduto su un treno diretto a Roma per tentare un'impresa folle e disperata. Sono l'ombra di una donna che piange mio fratello e non si accorge di me. La sua vita del resto era sempre stata così. Lui era e restava il numero due, era il fratellino di Johannes e nei casi incerti sempre quello che aveva rotto il vetro della finestra e perso le chiavi di casa. Andava peggio a scuola e nello sport, era l'eterno perdente. Portava i vestiti del fratello e le ragazze si interessavano a lui soltanto quando suo fratello aveva dato loro il benservito. Johannes si era diplomato al liceo, lui aveva finito giusto ragioneria; Johannes era subentrato al padre a capo dell'azienda, lui aveva intrapreso una professione


«da fame», come ripeteva instancabile sua madre, ed era diventato attore. All'aeroporto era l'unico tra tutti i passeggeri che veniva regolarmente fermato alla dogana e perquisito e, quando faceva la fila alla biglietteria del cinema, i posti disponibili finivano subito prima che fosse il suo turno. Da ragazzo gli toccavano sempre i libri che Johannes aveva già letto, con le pagine sgualcite e le annotazioni scritte a penna sui bordi. A teatro non recitava a Berlino, bensì in provincia e in televisione era sempre il comprimario. I produttori lo prendevano in considerazione solo come spalla, mai come protagonista. Era sempre stato il fanalino di coda, il perdente di ogni duello e ormai ci si era quasi abituato. Soltanto una volta aveva maledetto il destino: quando Johannes aveva trovato Magda. E ora suo fratello sembrava sparito dalla faccia della terra e lui era seduto con la donna dei suoi sogni su un treno diretto a Roma e inseguiva una possibilità che lei tenacemente gli rifiutava. Dopo qualche minuto, però, lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Dormiva, il respiro regolare. E Lukas non avrebbe desiderato trovarsi altrove. Giunti a Roma Termini, Lukas si precipitò verso i taxi in attesa e recitò al tassista, un unno barbuto, l'indirizzo di uno dei cinque hotel. Hotel Rosalia in via Germanico. Con un cenno d'assenso annoiato, l'unno replicò: «Trenta euro». Lukas accettò e caricò la borsa nel bagagliaio, ma Magda lo bloccò. «Sei pazzo? Trenta euro sono una follia, non se ne parla. Più o meno so dove si trova l'albergo. Ci arriveremo in una ventina di minuti e senza pagare trenta euro.» L'unno si limitò a dare una scrollatina di spalle e posò il bagaglio di nuovo sul marciapiede. Magda si rivolse a un altro tassista. «Via Germanico?» chiese. «Venticinque euro», rispose questi spegnendo una sigaretta. «No», replicò Magda determinata. «E troppo.» «Ok. Venti.» «No. Quindici.» Il tassista lanciò un'occhiata assorta a Magda. Poi sorrise. «Va bene.»


Fece un cenno a Lukas che rimise le borse nel portabagagli e salì sul taxi dopo di lei. L'hotel Rosalia aveva una graziosa facciata, ma l'interno era minuscolo e sciatto. Dietro il bancone stava seduto un uomo calvo che non aveva alcuna voglia di sprecare tempo ed energie con nuovi clienti. «Buongiorno», disse Magda sfoderando il suo sorriso vincente, «vorremmo due camere singole. Per una notte, ma forse anche due o tre. Ancora non lo sappiamo con precisione. » L'uomo sbuffò e controllò sul computer. «Di singole non ne ho più, posso darvi una o due camere doppie. Come volete. » Lukas rivolse un'occhiata interrogativa a Magda. Voleva che fosse lei a decidere. «Due doppie, allora. Quanto costano?» «Vengono centottanta euro ciascuna.» «Prendiamone una sola, Magda», bisbigliò Lukas, «è assurdo. Con i soldi che risparmieremo potremo andare a mangiare fuori.» Magda reagì con un'occhiata che lo fece ammutolire. «Va bene, prendiamo due camere doppie.» «Vorrei rivolgerle ancora una domanda», chiese rivolta all'albergatore. «La settimana scorsa per caso ha soggiornato qui da voi un certo Johannes Tillmann? E un mio caro amico e attualmente si trova a Roma, solo che non so dove. Potrebbe controllare?» L'uomo dietro il bancone riprese in mano il mouse. «Quando ha detto che dovrebbe essere stato qui?» «Tra il 17 e oggi.» L'uomo esaminò l'elenco dei clienti sullo schermo. Dal suo posto anche Magda poteva leggerlo comodamente. «No. Niente. Non c'è stato nessun cliente di nome Tillmann. » «Magari si ricorda di questa faccia?»


Magda aveva tirato fuori una foto dalla borsa e la mostrò all'uomo. Il portiere scrollò il capo. «No, non lo conosco. Ma non sto qui ventiquattr'ore al giorno. Dovrebbe chiedere anche ai miei colleghi.» «Sì, certo, lo farò. Grazie.» Magda rimise a posto la foto. Su richiesta del portiere, Magda e Lukas pagarono in anticipo per una notte, presero le chiavi delle stanze, ingombranti e pesanti come ai tempi della nonna, e chiamarono l'ascensore. Terzo piano. La camera di Magda era piccola, ma arredata in maniera funzionale. Un letto, due comodini, armadio, caffettiera, televisore e un piccolo bagno. Aprì la finestra. Il frastuono del traffico salì fino a lei. «Per caso vedi la cupola di San Pietro?» chiese. «Io no. Su Internet c'era scritto 'con vista sulla cupola di San Pietro'. Era tutta una presa in giro.» Lukas azionò lo scarico della toilette per controllarne il funzionamento e aprì il rubinetto del lavandino. «Per il resto è tutto a posto», concluse. «Non ci trascorrerei mai le vacanze, ma per un paio di giorni può andare bene.» «D'accordo.» Magda guardò l'ora. «Sono le dodici e un quarto. Mi do una rinfrescata e poi ci ritroviamo all'una per mangiare qualcosa, ti va?» «Magnifico», disse Lukas. «Ottima idea.» La camera di Lukas era proprio di fronte a quella di Magda ed era un disastro. Sobbalzò alla vista di quel buco buio. Oddio, pensò, è l'inferno. Qui non riuscirò a chiudere occhio per tutta la notte. L'unica finestra dava su un piccolo cortile. Nella camera penetravano odori stantii di cibo. In fondo al cortile erano accatastate vecchie tavole, vari pezzi di ferro e numerosi bidoni della spazzatura. In alto il cortile era chiuso da una tettoia di vetro. Uno spesso strato di guano di piccione, probabilmente mai pulito, lo ricopriva impedendo alla luce di penetrare. Tutte le stanze che si affacciavano da quella parte erano collegate da un piccolo ballatoio. Non ce la farò a rimanere qui, pensò Lukas, mi mancherà l'aria, e vivrò nel terrore che qualcuno possa entrarmi in camera. Non era abituato a dormire con la finestra chiusa, e non avrebbe resistito in quel bugigattolo soffocante. Fuori c'erano trenta gradi e gli sembrava di essere sepolto in una buca puzzolente. La camera era molto più piccola di quella di Magda. Per raggiungere la finestra bisognava strisciare


contro il muro di fianco al letto. Proprio accanto al letto c'era il televisore, mentre l'anta dell'armadio si apriva solo a metà per mancanza di spazio. Anche il bagno era opprimente. Niente finestra, niente luce, niente aria fresca. L'umidità intrappolata lì dentro fioriva in uno strato di muffa e chiunque di media corporatura avrebbe fatto fatica a entrare nella minuscola cabina doccia. Roma, pensò. Sono nella città eterna e abito in un buco. Un sottomarino arrugginito sarebbe più lussuoso. Consultò il vocabolario per cercare le parole necessarie, raccolse il coraggio, sollevò il telefono e compose il numero della reception. «Pronto», rispose la voce annoiata del portiere calvo. «Vorrei un'altra camera», disse Lukas in inglese. «Questa è una schifezza.» «La camera è a posto, signore. Come tutte le altre», rispose l'impiegato dell'albergo in inglese. «Io ho bisogno d'aria!» esclamò Lukas. «Di luce! Mi sento soffocare! Qui c'è solo puzza, umidità, calore e putrefazione. » «Non abbiamo un'altra camera libera, signore. Siamo al completo», dichiarò il portiere con un tono vagamente arrogante come per dire: tutti gli altri sono soddisfatti della loro camera, soltanto lei no, insopportabile isterico. Si sistemi insieme alla sua accompagnatrice, vedrà che sarà comodo. Lukas batté con forza la cornetta sul telefono e valutò se fosse il caso di cambiare albergo. Però erano in alta stagione, non era facile trovare una camera libera. Inoltre, a giudicare dall'atteggiamento odioso dell'uomo alla reception, non sarebbe stato rimborsato di un centesimo. Aprì la sacca da viaggio, appese le camicie un po' sgualcite alle grucce nell'armadio, chiuse con cura le pesanti tende davanti alla finestra e andò in bagno. Sistemò gli articoli da toilette sul bordo del lavandino, si lavò le mani, si spazzolò i capelli e si spruzzò un po' di deodorante. In realtà avrebbe voluto fare una doccia, per rinfrescarsi, ma un'occhiata alla disgustosa cabina doccia lo indusse a lasciar perdere. Avrebbe dovuto sforzarsi già abbastanza l'indomani mattina per convincersi a usarla. Dieci minuti prima dell'orario concordato, bussò alla porta di Magda. Lei venne ad aprirgli subito. «Entra», gli disse, «sono quasi pronta.» A paragone della propria, la sua camera sembrava una reggia. «Allora? Com'è la tua stanza?» gli chiese dal bagno mentre si truccava gli occhi. «Tutto a posto?»


«Tutto bene», rispose lui sperando che lei non cogliesse la nota rassegnata nella sua voce. Perché sapeva che altrimenti avrebbe insistito per cambiare subito albergo, se avesse saputo in quale letamaio avrebbe dovuto sopravvivere quella notte. Trovarono una piccola trattoria lì vicino, in via Borgo Vittorio, dove sedettero in uno dei quattro tavolini sistemati sul marciapiede e ordinarono un primo. Sebbene Magda avesse parlato in un italiano quasi impeccabile, l'oste rispose in inglese, facendola arrabbiare. Lei giurò che non avrebbe mai più rimesso piede in quel ristorantino, anche se la pasta fatta in casa era squisita. «Che cosa hai in mente di fare precisamente?» domandò Lukas mentre beveva il caffè, «dove e quando dobbiamo cominciare le ricerche?» Magda tirò fuori dalla borsa diverse pagine stampate fitte. «Ho un elenco di alberghi presi da Internet; ho stampato l'indirizzo di quelli che avrebbe potuto scegliere Johannes. In sostanza si tratta di alberghi a quattro stelle. Quelli a cinque sono troppo costosi per lui e quelli a tre troppo scadenti. La maggior parte degli alberghi che ho nell'elenco si trova in centro a poca distanza l'uno dall'altro. Non sarà difficile controllarli tutti, mostrando la foto di Johannes. Di sicuro non avrebbe soggiornato in un albergo fuori mano, perché lui si sposta solo con la metropolitana e non gli sarebbe mai venuto in mente di prendere il taxi tutti i giorni per arrivare in centro.» Lukas pensò che lo aspettava un'estenuante, lunga e soprattutto inutile scarpinata, ma non disse niente. «Con i ristoranti è più difficile», proseguì Magda, «perché sono troppi. E Johannes potrebbe essersi fermato a mangiare un boccone dovunque. Ma di sicuro prima o poi si sarà concesso un pasto come si deve. E quella potrebbe essere la nostra occasione, perché non mangia volentieri carne, preferisce di gran lunga il pesce. Potremmo chiedere in qualche bel ristorante di pesce.» Lukas annuì. «Forse dovremmo rivolgerci alla polizia qui a Roma e informarci presso gli ospedali. Nel caso vi sia stato portato qualche ferito o sia morto qualcuno.» Pronunciò quelle parole con voce tremante. «E poi ovviamente gli aeroporti. A Roma ce ne sono due, Ciampino e Fiumicino. Non credo tuttavia che Johannes sia andato in aereo da qualche parte, anche se non si può mai sapere.» «Il maresciallo di Ambra non aveva detto che si sarebbe occupato lui degli ospedali? Forse ha anche chiesto presso gli aeroporti.» «Non credo, non mi dà l'idea di aver preso troppo a cuore il caso, ma possiamo sempre telefonargli.» Dunque per lei Johannes era già un «caso». Come se gli fosse accaduto qualcosa. «Quello che hai in mente di fare, Magda, è molto bello e buono e giusto, ma è una follia. Chi può ricordarsi di un turista qualsiasi? Johannes ha un aspetto anonimo. Avrebbe dovuto ballare nudo sul tavolo perché la sua faccia rimanesse impressa a un cameriere o a un albergatore. E questo non è nella


sua natura. Non si lamenta neppure se la minestra è troppo fredda o la salsa troppo salata. Tanto varrebbe fermare tutti i passanti e chiedere a loro.» Magda non rispose. Come se non avesse sentito quel che aveva detto Lukas, oppure non avesse voluto sentirlo. «Poi non dobbiamo dimenticare i monumenti. Non si sarebbe mai fermato a Roma senza visitare San Pietro, la fontana di Trevi, il Colosseo, Trinità dei Monti o piazza Navona. Non ho voglia di restarmene alla Roccia con le mani in mano e poi di rimproverarmi per non aver colto questa piccola opportunità. Lo capisci?» «Sì, lo capisco.» «In ogni caso posso farlo anche da sola. Sul serio.» «No, ti darò una mano, naturale.» Magda annuì e tirò fuori il cellulare dalla borsa. Aveva memorizzato il numero di Donato Neri. «Sono a Roma», gli disse, dopo che il maresciallo le aveva risposto subito e con aria insolitamente sveglia. «Non ce la facevo più a restare alla Roccia. Voglio sapere dov'è mio marito. Ma non so bene da che parte cominciare. Lei ha potuto raccogliere qualche notizia?» Neri provò una stretta al cuore. Quella donna si trovava a Roma. Due giorni prima lui aveva ricevuto una telefonata dal suo superiore a Montevarchi. «Che cosa sarebbe questa richiesta assurda che mi ritrovo sulla scrivania?» lo aveva investito subito senza tanti preamboli. «Chiedi di poter fare una trasferta a Roma. Ma sei impazzito? Solo perché un tizio qualunque, un turista, ha dichiarato alla moglie di essere andato a Roma e ancora non vuole decidersi a tornare all'ovile? Perché trova questa città meravigliosa e preferisce starsene seduto a piazza Navona a bere un prosecco e a fare gli occhi dolci alle donne che passano? Vuoi fare una bella gita per questa gravissima trasgressione, Neri? Mi prendi per un cretino che non si accorge del trucco e firma la richiesta?» Neri era ammutolito. Forse Gabriella avrebbe saputo spiegare al suo superiore che poteva trattarsi di un delitto terribile, ma lui no. In quel momento non gli era venuto in mente un solo argomento per giustificare il suo viaggio a Roma. Si era sentito un idiota e si era maledetto per aver presentato quella richiesta. Prenderò qualche giorno di ferie, aveva pensato, e andrò a Roma di mia iniziativa. Insieme a Gabriella, naturalmente. E se gli fosse riuscito di risolvere il caso e ritrovare il signor Tillmann, vivo o morto, sarebbe stato Fabio Milani di Montevarchi «sul suo nobile destriero» ad ammutolire.


Tuttavia, dopo quella spiacevole telefonata, Neri perlomeno si era informato presso gli ospedali di Roma e aveva saputo che negli ultimi giorni non era stato ricoverato né era deceduto alcun paziente a nome Johannes Tillmann. Se non altro poteva comunicare questo alla signora Tillmann. Lei lo ringraziò profusamente dell'informazione, e Neri si inorgoglì. Almeno per pochi secondi. Non tutte le persone erano superbe e arroganti come Fabio Milani. «Bene», disse Magda. «Se non altro ora sappiamo che non gli è accaduto un incidente né è stato colto da un malore. Potrebbe informarsi anche presso gli aeroporti, per favore? La richiamerò domani.» «Certo, nessun problema. Buona fortuna, signora. E la prego di informarmi nel caso dovesse avere lei qualche notizia. Arrivederci.» Magda e Lukas lasciarono la trattoria e in via della Conciliazione comperarono un biglietto giornaliero per un autobus turistico che faceva il giro della città e dal quale potevano scendere e salire a piacimento per visitare i principali monumenti. *** Capitolo 36. Trepo non riusciva a ricordare di essere mai stato così di cattivo umore. Era a letto nella sua vecchia camera a casa della madre ed era ancora immerso nel sonno quando una telefonata lo svegliò alle sette e un quarto. A quell'ora lo squillo del telefono non preannunciava certo niente di buono. Era Ronaldo Perrini, il caporedattore del giornale per il quale Trepo scriveva le sue recensioni. «Stefano Trepo?» domandò sottovoce e Trepo provò un brivido freddo lungo la schiena. «Sono io», rispose, cercando di darsi un tono sveglio e baldanzoso, come se fosse seduto al suo computer già da ore. «Lei è licenziato», disse Perrini in tono ancora più basso e minaccioso. «Perché?» ansimò Trepo che fu costretto a sedersi.


«Lei conosce Maria Cecci?» Quel nome non gli suonava nuovo, ma in quel momento non sapeva proprio raccapezzarsi. «No», rispose titubante. «Invece dovrebbe. Maria Cecci è l'autrice del romanzo 23 aprile, 11,45 da lei recensito.» «Ah, sì, giusto.» Trepo si sentì sbiancare. «Questo 'romanzo insulso' come l'ha chiamato lei, parla di una persona profondamente insicura che è stata ferita e umiliata per tutta la vita e ora ha intenzione di penetrare nell'asilo di un paesino per eliminare tutti i bambini. È un viaggio molto delicato nella psiche di un uomo molto malato.» «Questo mi è chiaro», disse Trepo. «La prego di tenere la bocca chiusa», sibilò Perrini brusco alzando la voce. «La carneficina non accade, perché viene evitata all'ultimo istante. In che maniera, non glielo rivelerò, di sicuro leggerà il libro, ora che lo ha stroncato. In ogni caso non c'è materia cerebrale sparsa per strada e spiaccicata sui vetri delle macchine. Al contrario di lei, conosco molto bene il libro con la psicologia dozzinale, come la definisce gentilmente lei. Questo libro decisamente intelligente e molto interessante, che nonostante la sua critica è finito in classifica, è stato scritto infatti dalla moglie di quello che è il mio compagno di golf da molti anni.» Trepo si sentì raggelare. «Ah.» «Esatto. Non servono ulteriori spiegazioni. Buongiorno, signor Trepo.» Trepo mormorò un buongiorno, ma Perrini aveva già riattaccato. Diede un pugno sul tavolo, in preda alla collera. Era davvero una sfiga colossale. Come poteva immaginare che la ganza di un pazzoide giocatore di golf, per di più amico del caporedattore, scrivesse un libro delirante con uno pseudonimo! Al diavolo tutta quella maledetta redazione! Però ora le cose si mettevano male. Doveva assolutamente trovare una nuova fonte di reddito. E non sarebbe stato facile scovare in fretta un impiego altrettanto lucroso con poca fatica e poca perdita di tempo. Mentre era sotto la doccia, Trepo decise di bruciare nel camino quella sera stessa i due libri causa di quell'incresciosa sfortuna. Al bar bevve un espresso e due grappe doppie, per attutire il fragore che gli riempiva la testa in modo sempre più forte. Evitò di chiacchierare con il barista, perché aveva la sensazione di non essere più in grado di pensare lucidamente e ancor meno di parlare con chiarezza. Stava per uscire, quando Rosita entrò nel bar. Gli rivolse un sorriso amichevole, ordinò un espresso e si mise a sedere al bancone accanto a Trepo.


«Come stai?» gli chiese. «Abbastanza bene», rispose lui. Rosita annuì. «È la cosa più brutta. Esaminare e suddividere gli oggetti personali. In pratica è come imbattersi in tutta la propria vita, e poi vengono fuori cose che si erano dimenticate da tempo.» Trepo fece cenno di sì. «Proprio così.» Rosita gli rivolse un'occhiata partecipe. «Posso esserti d'aiuto in qualche modo?» «Credo di no. No. Ma sei stata gentile a chiederlo.» «Che cosa è successo a Merlo? La sua gabbia è vuota.» «E morto.» Trepo sospirò. «Credo di crepacuore, perché la mamma non c'è più. Certi animali sono più sensibili di quanto si pensi. L'ho trovato stecchito sul fondo della gabbia.» «Peccato, era un uccello bellissimo.» Rosita ordinò un'acqua minerale e una tavoletta di cioccolato. Trepo sapeva che voleva continuare a parlare, e lui non voleva assolutamente trattarla male. L'aveva aiutato davvero molto. Tuttavia non aveva neanche voglia di intrattenersi oltre a chiacchierare della mamma e di Merlo. Rosita era una persona incapace di restare seduta nello stesso posto più di cinque minuti, doveva avere sempre qualcosa da fare. Così, da quando i figli se n'erano andati di casa e lei non aveva più dovuto occuparsi di loro, cercava impegni di ogni genere. Cantava nel coro, partecipava al circolo del ricamo, accompagnava gli anziani dal medico o all'ospedale, si occupava di Albina e cucinava alle feste del paese. Era sempre disponibile e serena e sembrava godere di una carica di energia inesauribile. In paese conosceva tutti, era al corrente di tutte le malattie, i drammi, i rovesci del destino. Per curiosità, e siccome non gli veniva in mente niente di meglio, Trepo chiese a lei informazioni sulla signora della Roccia. Rosita spalancò gli occhi. «Ma come, non lo sai?» esclamò. «Che cosa dovrei sapere?» «Il marito della signora è scomparso. Lei è andata addirittura a sporgere denuncia dai carabinieri.» «E da quando?» «Dunque...» rifletté Rosita, «non saprei con precisione, ma già da qualche tempo. Due o tre settimane come minimo. Una cosa davvero spaventosa.» «Già, terribile.»


Trepo non sapeva più che cosa dire, ma i suoi pensieri erano in subbuglio. L'uomo che era con lei non era dunque il marito? E allora chi era? Un amico, l'amante? «Ma come mai ti interessa la signora?» volle sapere Rosita. «Oh così, niente, l'ho conosciuta per caso qualche giorno fa. Però non era da sola. L'ho vista due volte e c'era sempre un uomo con lei.» «Che suo marito sia tornato? Può darsi. E da un po' che non so più niente di questa storia. Adesso ti saluto. Ciao, Stefano, ci vediamo. Se vuoi passa a bere un bicchiere di vino prima di tornare a Firenze.» «Lo farò, Rosita. Grazie. E lascia stare per il caffè. Offro io.» Rosita sorrise, gli rivolse un cenno di saluto e uscì dal bar. Poco più tardi, Trepo si mise in macchina e partì diretto verso La Roccia. La voleva vedere, perché ora la donna lo interessava sul serio. Sapeva benissimo che non gli avrebbe mai telefonato, quindi doveva prendere l'iniziativa lui. Farle un saluto, bere un caffè insieme, chiacchierare del più e del meno, conoscersi meglio. Una piccola visita di cortesia, niente di più. Intanto forse sarebbe riuscito a scoprire se il marito era veramente tornato. La Roccia era immersa nel silenzio. C'era una macchina parcheggiata davanti alla casa. Probabilmente la coppia ne aveva due. Si rese conto subito che lì non c'era nessuno, ma entrò lo stesso nella proprietà. La casa appariva completamente abbandonata sotto il sole estivo. Trepo bussò alla porta della terrazza. Nessuna risposta. Provò altre due volte, poi fece il giro della casa guardando dentro attraverso tutte le finestre. Si ricordava ancora molto bene dell'aspetto desolato della Roccia quando ci veniva da bambino, e ciò che vide adesso gli tolse letteralmente il respiro. Fu costretto ad ammettere con invidia che la cucina era diventata meravigliosa. Emanava calore e serenità. Quei tedeschi non avevano badato a spese. Ogni particolare era di altissima qualità e di grande classe. La rubinetteria dell'acquaio doveva essere costata una fortuna. Non osava immaginare come fossero arredate le altre stanze. Trepo si guardò intorno, per vedere se ci fosse una scala, perché gli sarebbe piaciuto molto dare un'occhiata alle stanze al piano superiore, ma non la trovò. Controllò tutte le porte: anche quella del magazzino era chiusa a chiave. Siccome voleva che la signora venisse a sapere che si era dato il disturbo di raggiungere La Roccia solo per farle visita, le scrisse qualche parola di saluto sul proprio biglietto da visita e lo infilò sotto la porta. Decise di fare un giro anche in giardino. Magari c'era una scala rimasta appoggiata a un albero. L'auto parcheggiata davanti alla casa era una Golf nera.


Doveva avere cinque o sei anni, valutò Trepo, ma era in buone condizioni. Cercò di aprire il bagagliaio, ma era chiuso. Questi maledetti tedeschi, imprecò tra sé, e la loro ossessione di essere derubati. Gli italiani non chiudevano mai l'auto, almeno non lì in campagna. Trepo si aggirò per la proprietà. Si sentiva più ardito perché ormai aveva l'assoluta certezza che in casa non ci fosse nessuno. Guarda un po', pensò dopo aver fatto qualche passo, che cosa abbiamo qui? Uno spiazzo sufficiente per un orto, ma non ancora coltivato... Porca miseria, ormai siamo in estate, sarebbe ora! Il terreno aveva un aspetto fantastico. Grasso e fertile. Nell'orticello a casa di sua madre non crescevano neppure i cavoli neri per la ribollita. Si avvicinò. C'era un ulivo piantato di fresco. Strano, in un orto. Il morbido terriccio intorno era smosso, evidentemente i cinghiali quella notte si erano dati da fare a grufolare lì intorno. Trepo si avvicinò. Ciò che vide lo lasciò senza fiato. Una delle buche scavate dietro l'ulivo era più profonda di quanto pensasse e, quando ci si chinò sopra, vide un pezzetto di plastica verde strappata e due falangi di un anulare. Fece un balzo all'indietro. Rimase a fissare la buca, inorridito e insieme affascinato. Lentamente, centimetro dopo centimetro, tornò ad avvicinarsi alla buca e cominciò a spostare delicatamente di lato la terra con la punta della scarpa. Per un attimo la sua mente fu attraversata dal pensiero delle scarpe nere lucide lavorate a mano che aveva acquistato poco prima della morte di sua madre a Firenze per quattrocentocinquanta euro e che adesso si sarebbero irrimediabilmente rovinate a usarle per scavare. Si guardò intorno alla ricerca di un altro strumento di scavo e trovò un bastone abbastanza grosso e una pietra piatta, come una lastra di ardesia grande quanto un piattino. Si inginocchiò, consapevole che avrebbe rovinato anche i pantaloni griffati, e cominciò a scavare con cautela aiutandosi con il bastone e la pietra. La terra gli si infilava sotto le unghie e non c'era cosa che Trepo odiasse di più. Gli doleva la schiena per l'insolita posizione piegata e aveva la fronte madida di sudore. Di tanto in tanto si fermava, si guardava intorno e restava in ascolto per assicurarsi che non fosse in arrivo nessuna macchina, nessun escursionista e neppure i padroni del podere. Era completamente solo e, a parte il frinire delle cicale, il silenzio era assoluto. Alla fine dissotterrò un sacco di plastica, un comune sacco della spazzatura verde. Il raccapriccio era sempre più intenso e lui avrebbe avuto voglia di scappare, ma la curiosità era più forte. Raccolse tutto il coraggio, strappò con la punta delle dita la plastica, rammaricandosi di non avere con sé


un paio di guanti di gomma. Una zaffata mefitica lo investì e ciò che poi vide fu così spaventoso, così ripugnante e irreale da fargli lanciare un grido terribile mentre si allontanava di corsa per fermarsi a una certa distanza. Appoggiato a un albero vomitò anche l'anima. Per la prima volta si rendeva conto davvero di che cosa fossero la nausea e la ripugnanza. Ansimando, rimase per un po' chinato su se stesso. Aveva lo stomaco sottosopra. Poi tornò controvoglia alla fossa. Doveva farlo. Non conosceva l'uomo sotterrato accanto all'ulivo. I vermi gli strisciavano sopra gli occhi infossati e raggrinziti e gli coprivano i brandelli di pelle secca e diafana che un tempo erano state le labbra. Trepo fissò il cadavere cercando di imprimersi nella memoria quello che vedeva. Il cuore gli batteva come impazzito e aveva l'impressione di vivere con grande consapevolezza un momento in cui la sua vita stava per prendere una direzione completamente nuova. Qualcosa stava per cambiare e lui non sapeva se fosse nel bene o nel male, né che ruolo gli spettasse. Si sentiva solo in preda a una grande agitazione. Con gesti automatici, senza pensarci troppo, tirò fuori il cellulare dalla tasca e fotografò il morto. Una decina di volte, dall'alto e di lato, da vicino e da lontano, in tutte le varianti possibili. Aiutandosi con il bastone, cercò poi di coprire almeno in parte la testa con la plastica strappata e posò la pietra piatta sul viso dello sconosciuto. Il puzzo era insopportabile e, in preda a violenti conati di vomito, Trepo richiuse la buca. Una volta finito, appiattì con cura la terra tutt'intorno. Si alzò e si spazzolò il terriccio dai pantaloni. Non gli interessava più sapere come fossero arredate le stanze al piano superiore, voleva soltanto tornarsene a casa, fare una doccia e cambiarsi per liberarsi dalla puzza e dal disgusto e per riflettere con calma sulle prossime mosse. Il morto era il marito della signora. Di questo era sicuro. Ucciso dal suo amante. Questo per lui era un dato di fatto. E Trepo intuiva che il ritrovamento di quel cadavere avrebbe potuto rappresentare per lui una grande occasione, se avesse agito con astuzia e senza commettere errori. In ogni caso non sarebbe dovuto andare alla polizia. La cosa fantastica era che adesso aveva un segreto insieme alla signora. E voleva sfruttare la cosa. Non sapeva ancora come, però. Mentre tornava verso Ambra, ebbe un improvviso brivido lungo la schiena. Il biglietto da visita. Senza forzare la porta non gli sarebbe stato possibile recuperarlo. Dunque avrebbero saputo che lui era stato lì. Il battito del suo cuore accelerò. Dovette fermarsi perché si sentiva mancare. Se non fosse riuscito a passare al contrattacco, per lui non ci sarebbe più stato un minuto di pace. Assorto nei propri pensieri, si strofinò il naso. Le sue dita puzzavano di morte e putrefazione. Aprì il


finestrino e vomitò un'altra volta, anche se ormai aveva lo stomaco così vuoto che tirò su soltanto bile. Ripartì lentamente. Pensa con attenzione, Trepo, si disse. Il panico è l'ultima cosa che ti serve. Bene, era andato lì per farle una visita, non aveva trovato nessuno e aveva lasciato due righe di saluto. Era tutt'altro che insolito. Poi aveva trovato un cadavere, ma aveva richiuso la tomba e lasciato tutto come era prima. La coppia di assassini non poteva sapere ciò che aveva visto. Al pari di lui, poteva darsi che altre persone fossero state in quella casa e se ne fossero andate senza toccare niente. Non c'era alcun collegamento tra la visita di cortesia e il ritrovamento del cadavere, erano due questioni del tutto distinte. Poteva tranquillizzarsi. Non era successo niente e niente era perduto. Anzi. *** Capitolo 37. Nessuno lo aveva visto, nessuno si ricordava di lui, non aveva soggiornato in nessuno degli hotel. «Che cosa facciamo adesso?» domandò Magda, mentre erano in piazza della Rotonda davanti al Pantheon. «Non ne posso più. Avevi ragione tu: nessuno sa niente, chiedere è del tutto inutile.» «Se almeno riuscissi a ricordarti il nome del suo amico», osservò Lukas, «potremmo avere un piccolo appiglio.» «E così difficile... di solito non prendo nota di quello che non m'interessa. So che si chiama Roberto, ma il cognome non me lo ricordo proprio. Faccio una gran confusione con questi nomi italiani. Fondelli, Fontini, Fortini, Feltrini, Ferrucci, Frecconi... cominciava con la F. Non mi ricordo altro.» Sospirò rassegnata. «Forse è stato un errore venire qui. Abbiamo solo sprecato tempo.» «Non lo credo.» Lukas cinse le spalle di Magda. «Se non fossimo venuti, avresti continuato a rimproverarti di non aver tentato tutto il possibile.» Magda annuì. «Forse sì. Lukas, non ce la faccio proprio più a camminare. Prendiamo un taxi e torniamo in albergo.


Vorrei fare una doccia, riposare per una mezz'ora, e poi mangiare in un bel ristorante.» Lukas annuì, anche se il pensiero di dover rientrare in quella orrenda stanzetta lo riempiva di disgusto. Venti minuti più tardi, dopo essersi disteso sul letto e aver chiuso gli occhi, riuscì però a dimenticare dove si trovava. Nel giro di pochi secondi si addormentò profondamente. Alle sette si svegliò, entrò di malavoglia nella minuscola doccia ammuffita, si cambiò e mezz'ora dopo bussò alla porta di Magda. Indossava una giacca di lino sportiva che lei non gli aveva mai visto e che gli stava proprio bene. Per un attimo rimase a guardarlo in silenzio. Poi sorrise e disse: «Andiamo da La Rosetta, ho letto che è uno dei migliori locali di pesce della capitale». Magda ordinò una pasta con polpetti e bottarga, Lukas mangiò un'ottima zuppa di pesce, la specialità della casa. Lui stava cercando di togliersi una lisca che gli era rimasta tra i denti, quando il suo cellulare suonò. Magda rispose al posto suo. «Pronto? Hildegard, ciao. Come state?» «Bene, date le circostanze. Qualche novità?» «Sì, siamo Roma. Lo stiamo cercando. Stiamo passando in rassegna alberghi, ristoranti e monumenti. Tutto ciò che ci viene in mente.» «Fate bene, bambina mia.» Hildegard si interruppe. «Avete già scoperto qualcosa?» «No, non ancora. Ma ti giuro, e credo di avertelo già giurato un sacco di volte, quando sapremo qualcosa, ti telefoneremo. » «E così difficile da sopportare», disse Hildegard sottovoce. «Lo so.» Dopo una pausa, Magda aggiunse: «Saluta Richard da parte mia. Ciao, ci sentiamo presto». Poi riattaccò. Hildegard non aveva parlato con voce isterica, bensì flebile, incerta, disperata e affranta. Esattamente come la voce di sua madre, quando il padre aveva telefonato e le aveva cacciate entrambe di casa, perché aveva bisogno dell'appartamento per sé e per «l'altra». Due o tre volte alla settimana Magda e la madre dovevano andarsene di casa e pernottare a casa di zia Helga, per lasciare il posto all'amante del


padre. Un giovedì pomeriggio - Magda aveva intenzione di fare i compiti la sera e si stava cambiando per uscire a pattinare con la sua amica Rita - il padre telefonò. Sebbene la mamma tenesse la cornetta vicina all'orecchio, Magda sentì chiaramente le urla del padre e vide la madre diventare nervosa. Si rigirava il filo del telefono intorno all'indice destro poi lo lasciava e subito l'attorcigliava di nuovo, mentre camminava avanti e indietro in un metro quadrato, con gli occhi lucidi di lacrime. Alla fine della telefonata si limitò a dire: «Sì», poi riattaccò. «Forza, prendi le tue cose e vestiti! Papà ha telefonato, dobbiamo andare da zia Helga.» «Ma Rita mi aspetta! Volevamo andare a pattinare!» «Allora chiamala e cancella l'impegno.» Magda pestò rabbiosamente un piede per terra. «Non è giusto!» «Fa' come ti dico e sbrigati.» La voce della madre era esanime. Magda si rese conto che con la propria collera non faceva che accrescere la sua disperazione. Per prima cosa telefonò a Rita e cancellò l'appuntamento. «Non hai mai tempo! Fai schifo!» le rinfacciò Rita. «Se lo avessi saputo, mi sarei messa d'accordo con Nina. Perché non puoi venire, maledizione?» «Devo andare via con la mamma.» «Accidenti, che invidia!» la schernì Rita. «La piccola deve uscire con mammina. Dove andrete? A passeggiare tenendovi per mano?» «Sei una stronza.» «Allora dimmi dove devi andare!» «Da mia zia.» «A prendere un caffè con i pasticcini? Che emozione!» rincarò la dose Rita. «Non ti sopporto!» sibilò Magda, giurando a se stessa che non avrebbe più scambiato una parola con l'amica. «Figurati io.» Rita le sbatté la cornetta in faccia. «Hai fatto? Possiamo andare?» la incalzò la madre.


«Aspetta! Non ho mica le ali!» gridò, e sua madre si mise a piangere. Magda aprì l'armadio e guardò dentro indecisa. Quel giorno a scuola si era messa solo la camicia e aveva avuto un gran freddo. Forse l'indomani sarebbe stato meglio portare un pullover? Ma non ce n'era nessuno che le piacesse. Il problema era che niente di ciò che aveva le piaceva quand'era di cattivo umore. E Rita e sua madre glielo avevano decisamente fatto venire. Alla fine infilò nella borsa sia una camicia sia un pullover, perché non aveva idea di come sarebbe stato il tempo il giorno seguente. Aggiunse biancheria pulita e una maglietta per l'ora di ginnastica. E dei calzini. Le sarebbe piaciuto mettere le scarpe marroni con il cinturino, ma le facevano male sui calcagni e da casa di zia Helga c'era parecchio da camminare per arrivare alla fermata dell'autobus. Quindi optò per le scarpe da ginnastica rosa. Doveva scegliere anche un libro. Bel problema. Stava leggendo un libro d'avventura, ma le mancava solo una quarantina di pagine per terminarlo. Non le sarebbe bastato per tutta la serata. Si fermò davanti alla libreria, titubante, mentre la mamma gridava sull'orlo di una crisi di nervi: «Sbrigati, una buona volta! Perché ci metti tanto?» «Un attimo !» brontolò Magda senza sapere quale libro scegliere. Doveva anche fare lo zaino di scuola. Che strazio. Dodici minuti più tardi - sua madre camminava avanti e indietro in salotto e aveva il viso chiazzato di rosso per l'agitazione - Magda stava chiudendo i diversi scomparti dello zaino di scuola, quando udirono una chiave girare nella toppa. «Santo cielo !» gemette la mamma trattenendo poi il fiato. Anche Magda si bloccò in mezzo alla stanza con lo zaino in mano. Evidentemente il padre di Magda e «l'altra» pensavano di essere già soli nell'appartamento. Quando lui chiamava la madre di Magda le diceva sempre: «Oggi porto a casa 'l'altra'. Quindi fate in modo di sparire al più presto». Gettò le chiavi sul cassettone in corridoio e mormorò qualcosa di incomprensibile nel salotto. Poi si udirono dei rumori che avevano qualcosa di animalesco, simili a un ringhio voluttuoso, e subito dopo si sentì uno strillo e una risata stridula di donna. Anita era pallida come un cencio e guardava la figlia disperata. Magda scrollò le spalle stringendo le labbra, come a dire: Non so nemmeno io che cosa fare adesso, mamma. Alla fine, con un filo di voce, spaventata a morte, la mamma chiamò: «Wolfgang?»


In corridoio tutto tacque. Niente borbottii esagitati, nessuna risata trattenuta, e dopo due secondi Wolfgang comparve sulla soglia, livido di rabbia. «Ma come? Non siete ancora andate via?» esclamò. «Non vi avevo detto di sparire entro le tre? Sono già le tre e un quarto!» «Scusaci», balbettò Anita. «Ce ne andiamo subito. Vieni, Magda.» Gli passò davanti come un cane bastonato e Magda la seguì con la borsa strapiena. In corridoio incrociarono «l'altra» languidamente appoggiata al cassettone; quando la madre di Magda la guardò, lei si abbassò gli occhiali da sole sugli occhi. Anita si fermò per un attimo, come se volesse liberarsi con un'occhiata di tutto l'odio che provava, poi proseguì e uscì dall'appartamento. Durante il tragitto fino a casa di zia Helga, sua madre non spiccicò parola. Ma pianse per tutto il tempo. *** Capitolo 38. Magda e Lukas passeggiavano per le vie di Roma. Era una nottata tiepida e si goderono la passeggiata dal ristorante fino all'albergo. C'era molta gente in giro, i tavolini dei bar all'aperto erano tutti occupati. «Vogliamo bere ancora qualcosa?» propose Lukas. «Non mi va di andare a dormire. Sono troppo agitato.» «D'accordo, proviamo a cercare qualcosa sul Tevere. Mi piacerebbe stare seduta un po' in riva al fiume.» Trovarono un tavolino libero in una piccola osteria nei pressi del ponte Umberto I. Le luci della città si riflettevano tremolanti sull'acqua del fiume e Magda si rilassò. «Che splendida serata. Ci ripaga di tutte le delusioni di questo pomeriggio.» Dall'interno del locale giungeva fino a loro la melodia della colonna sonora del Padrino e le note sembravano fluttuare sull'acqua. «A Johannes piaceva molto questo film», disse lei, «non so quante volte l'ha visto. La versione integrale, la director's cut, la conosceva quasi a memoria. Potevi partire da qualunque punto e lui sapeva


esattamente che cosa era appena successo, chi era amico di chi, chi combatteva contro chi, chi aveva tradito e chi sarebbe stata la prossima vittima. Non ho mai capito come facesse.» Guardò l'acqua e si abbandonò ai sogni e ai ricordi accompagnata dalla musica. Lukas le prese la mano senza dire niente. Quando il motivo si concluse, lui lo canticchiò ancora una volta sottovoce. Per lei soltanto. «Andiamo», disse Magda dopo aver vuotato il bicchiere, «comincia a far fresco. Torniamo in albergo.» Nel corridoio dell'albergo si salutarono con un bacio sulla guancia e un abbraccio e Magda ebbe l'impressione che Lukas fosse turbato quando si chiuse la porta della camera alle spalle. In camera sua, Lukas accese la televisione. C'erano tre canali in italiano tra cui scegliere. Uno trasmetteva un western americano di serie B, il secondo un programma musicale e il terzo un quiz. Lukas spense il televisore e aprì il mini bar, dove trovò soltanto succhi di frutta, acqua minerale e vino rosso scadente. Con un sospiro andò in bagno per lavarsi i denti, pur sapendo bene che non sarebbe riuscito a chiudere occhio. Probabilmente Magda nella stanza di fronte si sentiva come lui. Che sciocchezza, prendere due camere separate. Non solo dal punto di vista economico, era anche assurdo e squallido. Passato un quarto d'ora, accese di nuovo la tv. Non gli interessava il programma, gli bastava sentire delle voci che nascondessero la solitudine. Magda era vicinissima a lui. Tanto vicina come non gli era mai stata e, partendo dal presupposto che Johannes era morto, era libera. Lui lo aveva sognato per anni. Per due volte uscì in corridoio per bussare alla sua porta, ma poi lasciò perdere. Temeva di innervosirla. Continuò ad aggirarsi inquieto per quella camera insopportabile, fu sul punto di uscire di nuovo per andare in qualche bar dove bere sino a stordirsi, ma poi non lo fece. Si sdraiò sul letto maledicendo il caffè che aveva bevuto nel bar sul Tevere. A un certo punto si addormentò, col televisore acceso. Verso le due del mattino fu trasmesso un programma sugli animali e il ruggito dei leoni, le strida dei pappagalli e gli schiamazzi delle scimmie penetrarono nei suoi sogni, animandoli.


*** Capitolo 39. Fecero colazione alle nove. Magda aveva l'aria spossata, era pallida e taciturna. «Come hai dormito?» le chiese Lukas salutandola con un bacio. «Così così», rispose lei sbrigativa. La sala da pranzo dell'hotel Rosalia aveva mattonelle chiare, un'illuminazione abbagliante ed era arredata con lo stesso gusto di una mensa aziendale. In quell'ambiente freddo si rabbrividiva qualunque temperatura ci fosse all'esterno. L'impianto di condizionamento ronzava e soffiava aria gelida da lunghe grate sul soffitto. Il buffet tanto decantato nel dépliant era una barzelletta. Torte polverose, panini dolci e pane secco. E poi miele e marmellate confezionate, qualche pezzetto di formaggio. Magda, che amava fare una colazione abbondante, cercò invano una fetta di prosciutto o di salame, mentre Lukas, che la mattina preferiva mangiare frutta, non trovò neppure uno yogurt né tantomeno una mela, una pesca o una macedonia. Non c'erano nemmeno le uova. «Mi scusi se la disturbo», disse Magda al cameriere che stava lucidando le tazzine da caffè, con un'intonazione tagliente e sarcastica nella voce, «è possibile che abbia dimenticato di mettere in tavola la frutta e gli affettati?» «Impossibile», rispose il cameriere annoiato, «il buffet è completo, signora.» Le rivolse un sorriso affettato. «Non è affatto completo, è molto scarso. Una vera vergogna. » «Finora non si è mai lamentato nessuno.» «Vorrà dire che io sarò la prima.» Magda era sul punto di scoppiare di rabbia, ma il cameriere, che continuava a lucidare le tazzine imperturbabile, scrollò le spalle niente affatto impressionato. Magda e Lukas finirono di bere il caffè, poi Magda rovesciò il proprio bicchiere. Il succo d'arancia si versò sulla tovaglia.


Aveva agito con tanta abilità che sembrava si fosse trattato davvero di un incidente. Quel mattino il cielo di Roma era oscurato da un manto di nuvole che rafforzò l'umore cupo e tetro di Magda. Camminavano da cinque minuti quando scorsero la lunga coda. Centinaia di persone erano in fila alla biglietteria della Cappella Sistina. «Possiamo risparmiarcelo», disse Magda, «non ho alcuna voglia di stare qui in piedi tre ore ad aspettare.» Passarono direttamente a San Pietro. Non appena varcarono la soglia dell'imponente edificio, Magda venne assalita dalla travolgente sensazione di trovarsi davanti qualcosa di grandioso. Qui si sentiva piccola e insignificante, e i suoi problemi si riducevano nel contempo a un fardello minuscolo e sopportabile. «Scusami, Lukas», disse, mentre erano fermi sotto l'enorme cupola affrescata, «vorrei stare un po' da sola. Lasciami qui. Una o due ore, non so quanto tempo. La mia vita è stata sconvolta, forse riesco a riportarvi un po' di ordine. Qui ho l'impressione di ritrovare la serenità che mi sembrava di aver perduto.» «Certo», rispose Lukas, cercando di nascondere la delusione di essere mandato via. «Do ancora un'occhiata in giro, poi torno in albergo.» «Bene. Ci rivediamo più tardi. O magari stasera. Dipende.» Senza aspettare risposta, Magda si voltò e si allontanò. Lukas la seguì con lo sguardo. Aveva un'andatura leggera e sicura, da dietro sembrava quasi una ragazzina. In quel momento fu assalito dalla paura che anche lei potesse scomparire a Roma come era successo a Johannes. Forse era solo per quello che lo aveva mandato via. Decise impulsivamente di non tornare in albergo, ma di restare lì a osservarla di nascosto. Anche a costo di dover aspettare un sacco di tempo. Magda si incamminò verso una navata laterale. Lukas la perse di vista, per colpa di una colonna del diametro di diversi metri, che si ritrovò davanti. Le girò intorno... ed ecco un gruppo di turisti giapponesi che ammiravano uno dei numerosi altari e consultavano le loro guide turistiche. Come segno di riconoscimento la loro guida teneva in mano un ombrello rosso con infilato sulla punta un berretto da baseball e parlava a voce troppo alta con un tono insopportabilmente stridulo, che indusse Lukas quasi a tapparsi le orecchie. Superò il gruppo a passo veloce. Quando tornò a guardarsi intorno nella navata finalmente vuota, ebbe un'amara sorpresa. Magda non c'era più.


La cercò per oltre un'ora. Non provava più il minimo interesse per lo splendore degli altari, le maestose sculture, le proporzioni incredibili di quella enorme chiesa; camminava, si mise quasi a correre avanti e indietro, a destra e a sinistra, comprò un biglietto e salì sulla cupola, si affacciò all'interno del tamburo per guardare nelle profondità dell'edificio, cercando di riconoscerla tra le persone minuscole, salì e scese per le scale, prese l'ascensore, perlustrò ogni angolo all'aperto, la cercò in tutti gli spazi esterni della cupola, guardò nel vuoto, nel caso un capannello sull'asfalto indicasse che qualcuno si era buttato di sotto. Gli giungeva il suono continuo delle ambulanze e si domandò quante possibilità c'erano di nascondersi lassù nella cupola di San Pietro. In condizioni normali non ci avrebbe fatto caso, ma adesso si sentiva sull'orlo della pazzia. Al negozio di souvenir gestito dalle suore, che vendevano rosari di tutte le fogge e immagini del papa di tutte le dimensioni, chiese se avessero visto Magda. La descrisse approssimativamente con i pochi vocaboli italiani che conosceva. Ma, mentre lo faceva, si rendeva conto che era inutile. C'erano migliaia di donne somiglianti a quella sua vaga descrizione. Non aveva con sé una foto, e le suore si limitarono a sorridergli dispiaciute. Non c'erano possibilità. Mentre lui correva intorno alla cupola, lei forse era di sotto e, mentre lei saliva con l'ascensore, lui forse stava scendendo per le scale. Entrò addirittura nel museo e perlustrò frettolosamente tutte le sale. Non fece caso agli oggetti esposti, chiese notizie di lei senza troppa convinzione e invano. Aveva un buco allo stomaco, ma nessuna voglia di tornare nella sua orribile stanza. Andò a mangiare un minestrone e una pizza in un'osteria, poi comprò una piantina della città e decise di visitare Roma da solo. In cuor suo era in collera con Magda, perché lo aveva piantato in asso dentro San Pietro e se l'era svignata. In fin dei conti era solo colpa sua se quella era stata una giornata persa. *** Capitolo 40. Le voci stridule e assordanti dei giapponesi erano insopportabili per Magda. Non riusciva a soffermarsi ad ammirare in pace una delle tante sculture più grandi del naturale senza essere subito circondata da ombrelli, flash fotografici e videocamere ronzanti. Le giapponesi squittivano entusiaste e sembravano parlare tutte insieme.


All'improvviso Magda si trovò davanti a un confessionale di legno, antico, pesante e scuro con due porte che si potevano chiudere. Senza esitazioni e senza pensarci, Magda entrò e si richiuse la porticina alle spalle. L'interno era angusto e buio, e lei trascorse un'ora buona in quel minuscolo vano grande come una cassa. Ma più stava rannicchiata sul duro inginocchiatoio più si sentiva serena. Le voci dei visitatori le giungevano attutite attraverso la porta del confessionale e lei si sentiva una parte della massa mormorante e nello stesso tempo del tutto sola e invisibile al resto del mondo. Lasciò vagare i pensieri e acquistò sempre maggiore fiducia. Lo avrebbe rivisto. L'aria del confessionale era soffocante e secca, sapeva di incenso e polverosi paramenti liturgici. Era come se lì dentro si accumulassero da decenni segreti, pie bugie e peccati espiati. Dopo un po' Magda ebbe l'impressione di non essere più sola. Le parve di scorgere un volto dietro la grata di legno. Invisibile, muto, ma con l'alito tiepido che sapeva di vino liturgico dolce. «Me lo riporti», implorò lei sottovoce. «La prego, me lo riporti.» Continuò a ripetere la stessa frase senza ricevere risposta. E, quando uscì dal confessionale, era convinta che la sua supplica sarebbe stata esaudita. In preda a una specie di euforia, rimase in San Pietro una mezz'ora ancora. Da bambina aveva vissuto una fase in cui avrebbe voluto farsi suora. Soprattutto per avere la possibilità di trattenersi in qualche momento in cattedrali imponenti come quella. Le grandi chiese le avevano sempre dato una profonda felicità. Uscita da San Pietro, prese un taxi. Non aveva più voglia di usare l'autobus turistico, e ancor meno di andare a piedi. L'intenzione di Magda sarebbe stata quella di sedersi sui gradini della scalinata a mangiare un gelato oppure una crèpe osservando la gente, ma siccome le era venuta fame pensò che un gelato a stomaco vuoto le avrebbe causato solo nausea. Si mise a cercare una trattoria dove consumò un piatto di farfalle con funghi e tartufo. Mentre mangiava, fissava con tanta intensità i volti che passavano fuori sulla strada che dopo un quarto d'ora ebbe l'impressione di conoscere una persona su due, quantomeno di averla già vista in passato. Per questo preferì smettere. Si appoggiò alla spalliera della sedia, protese il viso verso il sole di luglio e ringraziò il cielo di trovarsi in quel momento in quella città e di non aver abbandonato la speranza di un futuro felice. Le giunse un suono di sirene sempre più vicine e sempre più stridule. Trasalì infastidita. Quel suono penetrante le metteva paura.


Papà, pensò, maledizione, papà. Due mesi dopo lo spiacevole incontro con «l'altra» in corridoio, Anita disse a Magda: «Per le prossime tre settimane non avremo più necessità di andare a dormire da zia Helga. Non c'è bisogno che prepari le tue cose domani. Sei felice?» «Sì, certo. Ma perché?» «Papà parte.» «Dove va?» «Non saprei. Da qualche parte al mare.» «Con 'l'altra'?» «Sì.» Magda aveva la sensazione che anche per sua madre la possibilità di trascorrere un po' di tempo a casa propria sarebbe stata una specie di vacanza. Il mattino successivo il padre di Magda si alzò molto presto. Si vestì che faceva ancora buio, bevve un caffè poi prese la valigia che Anita gli aveva preparato. «Okay, allora», disse, «statemi bene, voi due.» Sfiorò la guancia della moglie con un bacio e diede una pacca amichevole a Magda sulle spalle. «Fai attenzione, tesoro. E che non mi vengano riferite lamentele.» Sorrise e Magda lo ricambiò. «Lo stesso vale per te», ribatté. Il padre la baciò sulla testa e uscì. La madre richiuse la porta e tirò un sospiro di sollievo. Poi guardò Magda e sorrise. Tre ore più tardi ricevettero la telefonata della polizia stradale. Avevano fatto colazione e Magda stava per andare a scuola perché quel giorno entrava alla terza ora. Ma non lasciò l'appartamento, perché notò che sua madre era impietrita con la cornetta in mano e si premeva la mano sinistra sulla fronte. Magda aspettava che sua madre dicesse qualcosa, per indovinare chi fosse all'altro capo del telefono... ma sua madre taceva. Mormorò solo un flebile «sì» un paio di volte. Dopo aver riagganciato, strinse Magda tra le braccia senza parlare. Magda aveva il cuore in gola. Intuiva che doveva essere accaduta una disgrazia.


«Ora dobbiamo farci forza a vicenda», disse piano sua madre. «D'ora in poi saremo sole.» «Che cosa è successo?» chiese Magda, la paura a stringerle la gola. «Tuo padre è morto. Ha avuto un incidente in autostrada. E andato a sbattere senza frenare contro un camion fermo in coda. Non si riesce a capire perché non abbia toccato i freni. Può darsi che fosse distratto, oppure i freni erano rotti. Ma ormai non ha più importanza.» Magda non parlò. «L'altra è gravemente ferita. Non si sa se ce la farà.» Magda rimase in silenzio. Aspettava di provare qualcosa di grande: disperazione, raccapriccio, oppure un'abissale infelicità. Invece non sentiva niente, perché non riusciva a immaginare che suo padre non avrebbe mai più fatto ritorno. «Oggi non andrai a scuola», disse la madre. Poi si sdraiò sul divano, prese una coperta e ci si coprì il viso. Il funerale fu celebrato la settimana successiva. «L'altra» era sempre in coma farmacologico e Anita fu contenta di non doverla incontrare una seconda volta. Magda pianse senza ritegno. Sua madre le stava dietro e le teneva le mani sulle spalle. «Calmati, tesoro», le bisbigliava, «ti prego, calmati.» Da parte sua fissava con occhi asciutti la bara che veniva calata nella fossa. Dentro c'era suo marito, che anni prima le aveva giurato fedeltà eterna. Alla fine gettò tre palate di terra sulla bara e si voltò. «Vieni», disse a Magda, «andiamo via.» Si avviarono per il viale curato del cimitero tenendosi per mano. «Quando uno tradisce l'altro, la vita è finita», disse sua madre. La sua andatura era orgogliosa, lo sguardo limpido rivolto in avanti, la voce sicura. Magda rimase seduta quasi due ore sulla scalinata di Trinità dei Monti, mangiò un gelato e poi si diresse verso la fontana di Trevi che si trovava a poca distanza. Quando arrivò, si rese conto di aver perso la cognizione del tempo.


Ma non aveva importanza. Non doveva prendere un aereo né un treno, non aveva bambini da ritirare a scuola, non doveva andare a teatro e non aveva neppure un appuntamento dal dentista. Non c'era nessuno che le impedisse di trascorrere quella giornata nell'ozio. La bellezza mozzafiato della fontana la sorprendeva tutte le volte. L'aveva vista già in diverse occasioni, ma tutte le volte restava senza fiato. Scopriva che non le era rimasta in mente così affascinante e così originale come era dal vero. Forse dipendeva dal fatto che non aveva mai visto nemmeno una foto che si avvicinasse anche lontanamente alla maestosità di questa fontana, che si apriva tra i vicoli angusti. Il sole tramontò e quasi immediatamente si accesero i lampioni intorno alla fontana. Magda amava molto quella luce soffusa. In quell'atmosfera gli edifici non sembravano piatti come alla luce del giorno né ridotti a piani di luce e ombre come di notte. Si mise a sedere sul bordo della fontana e aprì il borsellino, per gettare qualche moneta nell'acqua. Voleva tornare lì tante volte. E all'improvviso lo vide. Sì, ne era sicura. Lanciando un grido balzò in piedi e si fece largo tra la folla che si accalcava intorno alla fontana. «Via, presto, devo passare», gridava sgomitando. «Scusi! Permesso!» In mezzo a quella calca si sentiva come una naufraga che con una scodella tentasse di svuotare la barca mentre ogni ondata rovescia all'interno una quantità d'acqua dieci volte superiore. Il timore peggiore era di perderlo di nuovo tra la folla. Ora che il cielo aveva ascoltato la sua supplica ed era finalmente riuscita a trovarlo. «Johannes!» gridò con quanto fiato aveva in gola. «Johannes !» Lui se ne stava lì, rivolto dall'altra parte e non la sentiva. Riuscì a superare l'ultimo metro abbastanza facilmente, perché la folla si era diradata. Si buttò su di lui, gli gettò le braccia al collo, gli coprì il volto di baci, ridendo e piangendo nello stesso tempo. «Eccoti! Finalmente, finalmente ti ho trovato! Johannes, amore mio, il mio tesoro !» Gettò la testa all'indietro, lanciò un grido di felicità, lo abbracciò di nuovo, pianse e lo baciò, poi rise, non riusciva più a smettere, non riusciva più a calmarsi, le sue emozioni erano incontenibili. Le persone intorno a loro li guardavano incuriositi, sorridendo. Lukas non sapeva che cosa stesse succedendo. Però la teneva stretta, le asciugava le lacrime, mentre un brivido lo attraversava.


*** Seconda parte. Capitolo 41. La Roccia appariva tranquilla e immutata quando ci tornarono il pomeriggio successivo con la macchina di Magda che avevano lasciato alla stazione. Per prima cosa Magda fece un giro intorno alla casa e nell'orto, ma era tutto a posto, come l'aveva lasciato. Poi aprì la porta d'ingresso. All'interno regnava una piacevole frescura. Si accorse subito del biglietto da visita. «Oh», disse, «ma guarda. Quello Stefano Trepo è venuto qui per davvero. Non me lo sarei mai aspettata. Chissà, magari potrei anche telefonargli.» Magda posò la borsa, andò al lavabo, si versò un bicchiere d'acqua e lo bevve lentamente. Ecco, pensò, ecco quello che mi piace davvero e di cui ho bisogno: ritornare qui alla Roccia. Verso sera andò a fare la spesa ad Arezzo e arrivò a casa con funghi, maggiorana fresca e un filetto di manzo. Niente di speciale, in realtà, ma Magda era euforica e felice del proprio bottino come un bambino di fronte a un inaspettato regalo di Natale. Dedicò particolare impegno alla preparazione della cena. Apparecchiò con cura la tavola in cortile, mettendo persino i tovaglioli di stoffa, e la decorò con candeline, rami di rosmarino e foglie di quercia. Quando Lukas uscì in terrazza dopo essersi fatto la doccia, la vide che stava sistemando una cassa dello stereo vicino alla finestra, cosicché la musica si sentisse bene anche da fuori. «Che cosa succede?» domandò, baciandola sui capelli. «Abbiamo visite, oppure è il tuo compleanno?» Lei sorrise. «No, niente del genere. Avevo voglia di godermi la vita, tutto qui. Stasera voglio festeggiare.


Perché siamo entrambi sani e vivi e in grado di gustarci una serata tutta per noi.» Mentre mangiavano, Magda fece partire Azzurro di Adriano Celentano. «Per te», disse. «E la tua canzone preferita. » Lukas si sforzò di sorridere. Il cibo era fantastico. Rucola e pomodori Ciliegini, tranci di tonno scottati con scaglie di mandorle come antipasto, poi filetto con funghi e salsa alla panna, patate al rosmarino e come dolce una crème brulé davvero superlativa. Liscia e croccante. Lukas non aveva ancora finito di mangiare che lei lo prese per mano e lo condusse in camera da letto. «Vieni», disse, «il tempo è troppo prezioso, non voglio perdere neppure un secondo con te.» Com'era accaduto già la sera prima a Roma, Magda era accesa da una passionalità che Lukas non avrebbe mai immaginato. In sostanza sarebbe stata la realizzazione dei suoi sogni, se fosse riuscito a non sentire la voce di lei che gli sussurrava all'orecchio: «Johannes, ti amo». «Il soggiorno a Roma ti ha cambiato», gli disse quella notte. «Sei molto diverso da prima, ma lo trovo eccitante.» Lukas allora decise di godersi l'inaspettata passione che Magda dimostrava per lui, senza preoccuparsi del fatto che nella sua mente lei lo confondeva con il fratello. Prima o poi se ne sarebbe accorta. Era il suo modo di accettare la perdita del marito. E poi in fondo non aveva importanza come lo chiamava. *** Capitolo 42. Trepo partiva dal presupposto che, come la maggior parte degli abitanti di Ambra, il martedì Magda sarebbe andata al mercato e dal panettiere. Magari anche alla posta e in farmacia. E sempre chi veniva dal mercato si fermava in piazza a bere un espresso al bar. Il bar aveva una sala principale con un lungo bancone dove venivano venduti panini, caramelle, dolciumi, sigarette e dove senza sosta venivano preparati caffè oppure versati alcolici.


C'erano anche dei tavolini, dove si poteva fare colazione con tranquillità leggendo i giornali del mattino, e un televisore appeso al muro che restava acceso tutto il giorno. Nella sala adiacente c'erano alcuni videogiochi, un tavolo da biliardo e un vecchio computer con il quale si poteva navigare in Internet al costo di tre euro all'ora. Inoltre c'era anche una toilette sempre chiusa. La chiave bisognava chiederla al barista. Accanto alla porta che dava sulla sala posteriore era appesa una grande bacheca di legno nera, dove venivano esposti gli annunci locali. Richieste di donne delle pulizie, artigiani e baby-sitter. C'erano anche volantini con le informazioni sugli orari del fornaio, la data della prossima partita di calcio oppure quella dell'ennesima cena di beneficenza. Trepo arrivò alle nove e mezzo e appese alla bacheca la busta formato A4 contenente la foto. Come indirizzo aveva scritto a grandi lettere «Per i proprietari della Roccia». Si mise a sedere nell'angolo sotto il televisore. In questo modo poteva tenere d'occhio la bacheca per assicurarsi che la busta non finisse nelle mani sbagliate. Era curioso di sapere che cosa sarebbe successo quando Magda e il suo accompagnatore avrebbero aperto la busta e visto la foto. Il cuore gli batteva forte come quello di un biologo che, immobile davanti al terrario, osserva il serpente che inghiotte il topo. Ordinò due brioche, un cappuccino e un bicchiere di acqua minerale, prese il giornale e si mise ad aspettare. Magda e Lukas arrivarono alle dieci e venti. Siccome si diressero subito al bancone, non si accorsero di Trepo seduto nell'angolo. «Non ce la faccio più», bisbigliò Magda. «Mi scappa da morire.» Si fermarono sul lato sinistro del bancone, per chiedere la chiave della toilette e ordinare due cappuccini. In questo modo si ritrovarono proprio accanto alla bacheca e, mentre Magda prendeva la chiave dalle mani della barista, Lukas notò la busta. «E questa che cos'è?» domandò incredulo. «C'è una lettera per noi!» «Non ne ho idea. Aprila. Torno subito.» Detto questo Magda corse verso la toilette. Trepo esultò. Il piano aveva funzionato alla perfezione. Lukas prese la busta e si mise a sedere a un tavolo libero, proprio accanto alla porta. La strappò e ne tirò fuori la foto. Lo shock gli tolse il respiro. Sentì il cuore che smetteva di battergli. La vista gli si annebbiò e la testa gli si riempì di un fragore che annullò il brusio del bar. Gli sembrava di avere il cervello circondato da insetti ronzanti. Girò di scatto la foto. In quel momento la barista portò due cappuccini. Per fortuna non si era accorta di niente, e si limitò a dire: «Prego » e tornare dietro il bancone. Con gesti fulminei Lukas rimise la foto nella busta, la piegò in due, si alzò, se la infilò dentro la cintura


dei pantaloni sulla schiena, riabbassò la maglietta e tornò a sedersi. Aveva il cuore in gola e si sentiva il viso in fiamme. Era evidente che l'uomo era rimasto scioccato. Fantastico! Trepo si congratulò con se stesso. Aveva escogitato un modo geniale per consegnare una lettera scottante e assistere direttamente alla sua apertura e alla reazione che suscitava. Magda tornò dal bagno sorridente. «Adesso va meglio.» Si appoggiò alla spalliera e sorseggiò di gusto il cappuccino. «Che splendida giornata», osservò. «Che ne dici di fare qualcosa? Di andare da qualche parte? Non ho voglia di restarmene seduta in giardino tutto il giorno.» Lukas udì le parole di Magda, ma non era in grado di reagire. La foto del fratello morto era sempre vivida e agghiacciante davanti ai suoi occhi e gli impediva di pensare ad altro. Trovare una meta per quella giornata era troppo per lui. Per questo rimase seduto in silenzio a fissare i panini in vetrina. Senza batter ciglio e completamente paralizzato. Trepo sorrise. L'uomo non aveva mostrato la foto alla «signora». Probabilmente non l'avrebbe fatto neppure quando fossero tornati a casa. Da come si comportava, si capiva che era sconvolto. Era lui l'assassino. Era evidente. E l'unico colpevole. Lei di certo non era sua complice e non aveva idea che il marito fosse morto. Se fossero stati entrambi innocenti, avrebbero guardato insieme la foto e poi avrebbero discusso di quella mostruosità. Avrebbero deciso lì per lì se consegnarla alla polizia. Invece l'uomo si comportava come un colpevole che si rende conto di essere stato smascherato.


«Che cos'hai?» bisbigliò Magda, accarezzandogli la mano. «Non ti senti bene?» «No, no», balbettò lui, «sto bene, sono solo un po' stanco. Potresti andarmi a prendere un bicchiere d'acqua?» Magda si alzò e tornò dopo pochi secondi con l'acqua. Lukas la trangugiò in un sorso. «Che cosa c'era dentro quella busta?» chiese Magda. «Niente di speciale.» L'acqua gli aveva fatto bene, non aveva più la bocca così secca e sentiva che a poco a poco il panico lo abbandonava. «Un invito per una cena a San Pancrazio», rispose. «Costo cinquanta euro. Il ricavato andrà alla casa di riposo di Bucine. Mi spiace, ma l'ho buttata via.» Magda rise. «Non importa. Tanto non avevo voglia di andarci. Probabilmente invitano personalmente tutte le persone che secondo loro amano stare a tavola. Alcune si sentono lusingate, altre obbligate, e così partecipano. È così che funziona. Allora, che cosa facciamo?» «Non te la prendere, Magda, ma oggi proprio non me la sento. Sono a pezzi. Non mi divertirei affatto.» Voleva soltanto trovare il tempo di stare da solo per riflettere con calma sull'orrore che teneva sempre sotto la maglietta. Voleva pensare al da farsi. Voleva liberarsi di quella inspiegabile paura che gli stringeva la gola come una mano di ghiaccio e capire che cosa stava succedendo. Trepo era molto compiaciuto. Quasi entusiasta. Con la sua piccola astuzia era venuto a sapere più di quanto la polizia avrebbe ricavato da un lungo interrogatorio. Si sentì invadere da una piacevole felicità. Era stato semplicemente geniale. Si alzò e si avvicinò al tavolo di Magda e Lukas. «Buongiorno», disse, «è un piacere incontrarci di nuovo. Un paio di giorni fa sono venuto a casa vostra, ma non c'eravate.» «Sì, lo so, ho trovato il suo biglietto da visita e sono stata davvero contenta che abbia mantenuto la promessa e sia venuto a trovarmi. Siamo stati un paio di giorni a Roma.» «Che bello! Non faceva troppo caldo per un giro turistico? »


«Per niente. Mi piace il caldo.» Lukas si alzò. «Possiamo offrirle un caffè?» «No, grazie.» Trepo sfoderò il suo sorriso più affascinante. «La ringrazio molto, ma devo andare, ho un appuntamento. » «Che ne direbbe di farci visita un'altra volta uno di questi giorni? Magari per bere un bicchiere di vino insieme? Ora siamo a casa.» «Volentieri, signora, molto volentieri!» Fece un lieve inchino. «Mi farebbe molto piacere. Allora ci vediamo presto. » Uscì dal bar con il passo felpato e fiero, come un vincitore. *** Capitolo 43. Lukas decise di fare una lunga passeggiata, mentre Magda rimase a leggere in terrazza. Arrivò sino a Moncioni e si mise seduto sotto un enorme e vecchio cedro. Da lì poteva ammirare tutta la vallata che si apriva ai suoi piedi. Fece un profondo respiro ed esaminò la foto in silenzio per qualche minuto. Suo fratello era morto. Questo era evidente. Non era un fotomontaggio, si capiva chiaramente che era la foto di un cadavere. La cosa più raccapricciante erano i vermi che gli strisciavano fuori dalle orbite e dal naso, le labbra putrefatte, come un foglio di carta accartocciato dalle fiamme, e le cavità vuote che un tempo erano stati i suoi occhi e di cui ricordava ancora il fremito delle palpebre quando era di buonumore. Lukas si sentì salire le lacrime agli occhi. Che cosa era successo?


C'erano solo due possibilità: qualcuno aveva scoperto il cadavere casualmente e lo aveva fotografato. Però, invece di andare alla polizia, aveva spedito la foto a lui. Forse perché sapeva che era suo fratello. O forse perché lo riteneva l'assassino. La seconda possibilità era che fosse stato l'assassino stesso a inviargli quella foto. Questo avrebbe spiegato il suo interesse a escludere la polizia. Ma perché si era fatto vivo? No, non aveva senso. Un omicidio senza cadavere era mille volte meglio di uno con. La sua vita con Magda era solo all'inizio, e già qualcuno cercava di rovinargliela. Sulla busta non c'erano francobolli. Era stata appesa alla bacheca del bar. Una faccenda pericolosa. La busta sarebbe potuta finire nelle mani sbagliate. La consapevolezza che suo fratello non sarebbe mai tornato riempiva Lukas di una certa sicurezza, il problema era soltanto che non poteva comunicare questa notizia a Magda, perché lei lo avrebbe preso per l'assassino. Se non voleva perderla, doveva tenere tutto questo per sé. Osservò più attentamente la foto, per cercare di capire dove fosse stata scattata, dove si trovasse il cadavere. Ma non gli riuscì di trovare neppure il minimo indizio. *** Capitolo 44. Buongiorno, passerotto mio, Lo sai? Io e papà siamo stati tre giorni a Roma! È stato incantevole! Abbiamo dormito in un hotel fantastico. Molto costoso, è vero, ma abbiamo pensato che potevamo permettercelo per tre giorni. Siamo stati a San Pietro, a Castel Sant'Angelo, al Colosseo, alla Fontana di Trevi, ai Fori, al Pantheon... e naturalmente ci siamo seduti sulla scalinata di Trinità dei Monti. Ma dovunque fossimo, a spasso per la città, oppure seduti al ristorante, non abbiamo mai smesso di pensare a te e di parlare di te. Sarebbe stato perfetto se ci fossi stato anche tu! Dobbiamo assolutamente fare un viaggio a Roma tutti insieme. Sono sicura che la città eterna ti piacerà. Ti era piaciuta tanto anche Atene, ma credo che Roma sia ancora più bella. Quando verrai, se ne avrai voglia, possiamo andarci da qui. Oppure possiamo organizzare un viaggio per l'anno prossimo. Come preferisci.


Dimmi, tesoro, ti serve qualcosa? Sai che basta che tu chieda e ti spedisco tutto quello che vuoi. Ieri papĂ ha cominciato a sistemare l'orto. Quando arriverai, potremo cogliere la prima insalatina. Non vedo l'ora di averti qui! Buono studio. Con tutto il mio amore,


Mamma Saluti anche da papà *** Capitolo 45. Magda lanciò un grido. Provò una fitta lancinante alla mano e poi un bruciore che si diffuse velocemente, e nel giro di pochi secondi la sua mano era un ammasso pulsante che si gonfiava sempre di più. Per aprire la finestra della camera l'aveva messa su un calabrone posato sullo stipite. Magda non sapeva se fosse stata punta sul palmo oppure a un dito, ma le sembrava che la sua mano fosse finita dentro una pentola di acqua bollente. Corse in bagno e fece scorrere dell'acqua fredda sulle dita che intanto si erano gonfiate assumendo un colorito rosso scuro. Il dolore si affievolì, senza smettere. Vide le dita gonfiarsi sempre di più. Anche allargandole, lo spazio tra l'una e l'altra era quasi scomparso. Sembravano grosse salsicce unite insieme. In quel momento si accorse di avere ancora la fede infilata all'anulare sinistro, ormai affondata nella carne. Scese di corsa le scale. In cucina accanto alla credenza c'era un orologio. Erano le nove e mezzo. La dottoressa riceveva dalle nove. «Johannes!» chiamò, senza ottenere risposta. Poi vide il biglietto sul tavolo della cucina. «Tesoro, non riuscivo a dormire e sono uscito molto presto a fare una lunga passeggiata. Berrò un caffè da qualche parte. Tornerò al massimo per mezzogiorno. Un abbraccio.» Magda scrollò le spalle, bevve un bicchiere di latte, prese la borsa e uscì di casa. Non pensò di chiudere a chiave, intenta com'era a valutare se sarebbe riuscita a guidare con una mano sola. Forse fino ad Ambra ci sarebbe riuscita. La strada passava quasi tutta nel bosco. Non riusciva più a muovere la mano sinistra, ogni contatto era una tortura. Devo essere allergica alle punture di calabrone, pensò, forse alle punture di insetti in generale, e non lo sapevo. Teneva il braccio sinistro appoggiato al ginocchio, intanto il gonfiore si era diffuso dalla mano fino al polso e all'avambraccio che aveva assunto l'aspetto di un palloncino allungato.


Teneva il volante con la mano destra e, quando doveva cambiare marcia, lo lasciava. Riuscì comunque a percorrere quasi tutta la strada in seconda e constatò con sollievo che davanti alla casa della dottoressa c'era un posto libero dove poteva infilarsi senza problemi con il muso. La sala d'aspetto, come al solito, era gremita. Otto pazienti prima di lei. «Chi è l'ultimo, per favore?» domandò rassegnata, sicura che le sarebbe scoppiato il braccio prima di essere visitata. «Io», rispose una donna con i capelli scuri e ondulati fino alle spalle, che doveva avere più o meno la sua età. Le sembrava di averla già vista qualche volta in paese, ma non sapeva chi fosse. Con il suo abbigliamento elegante e il trucco accurato, spiccava sul resto delle persone in sala d'attesa. Aveva un portamento eretto e uno sguardo fiero che tuttavia Magda non trovò ostile. Era proprio una bella donna, che a sua volta esaminava Magda con interesse, evidentemente cercando di darle una collocazione. Entrambe incerte, si scambiarono un sorriso. Di colpo il volto dell'altra donna si illuminò come se avesse avuto un'intuizione sull'identità di Magda. «Mi scusi», le chiese, «ma mi pare di conoscerla. Per caso lei abita alla Roccia?» «Sì, esatto.» «Allora ho sentito parlare di lei.» La donna sorrise con più convinzione, piena di simpatia, e offrì la mano a Magda. «Sono davvero contenta di conoscerla. Piacere, mi chiamo Gabriella.» «Io sono Magda.» Gabriella guardò il braccio gonfio di Magda e la mano che lei si teneva protettivamente con l'altra. «E venuta dalla dottoressa per la mano?» Magda annuì. «Che cosa le è accaduto?» «Un calabrone. Ci ho messo la mano sopra.» «Santo cielo, deve essere allergica. E se non le tolgono subito l'anello può avere seri fastidi.» «Sì, lo so. Per questo sono qui.» «Ma non è il posto giusto. La dottoressa non può aiutarla per una cosa del genere, inoltre non è ancora arrivata e non si sa quando comincerà a ricevere. E dovuta andare a Bucine per un'emergenza. No, Maddalena, deve andare al più presto al pronto soccorso di Montevarchi. Lì potranno tagliarle l'anello.» Magda concordava in tutto e per tutto con il suggerimento di Gabriella, ma era inattuabile. «Non posso


guidare fino a Montevarchi con questa mano.» «Venga», disse Gabriella alzandosi, «l'accompagno io.» Magda stava per protestare, ma Gabriella la sospinse verso la porta. Lukas si spaventò a morte quando, tornato dalla sua lunga passeggiata, trovò la casa aperta e vuota. Nessun messaggio, nessun biglietto, niente. Mentre passeggiava, si era reso conto del pericolo in cui si trovava. Se la misteriosa persona che aveva rinvenuto il cadavere avesse informato la polizia, sarebbe stata aperta un'indagine per omicidio e lui si sarebbe trovato in serie difficoltà. Aveva una relazione con la moglie della vittima. La sua disastrosa situazione economica costituiva un ulteriore movente, perché l'azienda del fratello era sanissima, Magda era una donna ricca e lavorava solo per impegnare il tempo, certo non perché avesse bisogno di soldi. Si era trovato per così dire il nido già bell'e fatto. Le ragioni dell'omicidio di Johannes restavano ancora oscure. A seconda di quanto tempo sarebbe ancora passato prima del ritrovamento del cadavere, sarebbe stato più o meno difficile definire con precisione il momento della morte. Probabilmente risaliva a diversi giorni prima, non si poteva parlare di ore. Lui non era in grado di fornire un alibi per un intervallo di tempo così lungo, tutto era possibile. D'altra parte nei boschi italiani e nelle case isolate non era certo un problema sbarazzarsi senza essere visti di un fratello scomodo e ingombrante. Non c'era alcun altro colpevole possibile. Johannes non aveva nemici e il suo matrimonio era solido. A parte la breve storia con Carolina, forse. Ma la cosa era finita e Carolina non si era dimostrata troppo entusiasta di parlare di Johannes per telefono. Di sicuro non sussistevano intenzioni di separazione o divorzio, al contrario: Johannes e Magda erano in procinto di trascorrere una vacanza insieme. Anche Magda poteva essere sfiorata, forse, dall'ombra di un sospetto, ma non avrebbe incontrato problemi così immediati. Stando così le cose, con il ritrovamento del cadavere Lukas sarebbe finito in custodia cautelare in un carcere italiano, dove sarebbe poi rimasto a cuocere a fuoco lento per mesi, finché le indagini non fossero terminate e non fosse stata presentata un'accusa. Né credeva sarebbe riuscito a tirarsi fuori dal carcere una volta che ci fosse finito. Tutti questi elementi erano evidenti, ma l'aspetto più pazzesco era che lui non era il colpevole. Johannes però era morto, su questo non c'erano dubbi. Chi lo aveva ucciso, se non aveva nemici in vita e nessuno aveva un movente abbastanza valido? Chi, per Dio? Forse Magda?


No. Non riusciva a immaginarlo neppure facendo uno sforzo. Lei era la persona più affettuosa e sensibile che avesse mai conosciuto. Tenera, dolce e altruista. Appassionata e fedele. Quando amava una persona, era pronta a sacrificarsi per lei. Allora chi era stato? Lukas si rese conto di avere una possibilità soltanto per sottrarre la testa al cappio che si stava stringendo lentamente intorno al suo collo. Doveva lasciare l'Italia, e Magda. Quanto tempo infatti sarebbe passato prima che il misterioso scopritore del cadavere andasse dalla polizia? Non aveva motivo di aspettare e, viceversa, non aveva neanche chiesto un riscatto. Si era limitato a mandare quella foto. Senza una riga, senza una richiesta, niente. No, il grande sconosciuto non sarebbe rimasto per sempre nell'ombra, se già aveva fatto la sua prima mossa. Lukas quindi doveva sparire. Doveva tornare in Germania il più in fretta possibile, prima che la bomba scoppiasse. A quel punto non sarebbe stato così facile schiaffarlo in prigione. La macchina burocratica funzionava a rilento, quando c'era di mezzo un'estradizione ancora di più. Doveva tornare a Berlino con Magda, prima che sembrasse una fuga. O magari da solo. Se necessario doveva lasciare Magda lì alla Roccia, perché sarebbe stato difficile convincerla di interrompere così all'improvviso le ferie. Lei non avrebbe capito. La mente di Lukas era un vorticare di «se» e di «ma». Tuttavia, ciò che lo addolorava di più era un pensiero che a poco a poco si stava trasformando in certezza: non poteva lasciare Magda sola proprio adesso! Non solo perché era in ansia per lei, ma perché lei si sarebbe sentita di nuovo abbandonata e lui l'avrebbe perduta. E con lei tutto ciò che aveva appena conquistato e che aveva sognato per l'intera vita. Qualunque decisione prendesse, era in trappola. Lukas si preparò due uova al tegamino e ci bevve sopra una birra. Ma dov'era finita Magda? Perché nonaveva chiuso casa se era andata da qualche parte? La donna all'ingresso del pronto soccorso era vestita con la divisa delle infermiere dell'ospedale: calzoni, casacca e zoccoli di plastica verdi, dentro i quali si intravedevano i piedi scalzi. Fu la prima cosa che Magda notò. Ebbe un brivido immaginando quanto le dovessero sudare i piedi lì dentro. Aveva un'espressione severa e nient'affatto compassionevole e non era difficile immaginarsi che la sua presenza e la sua aura potessero spingere qualcuno alla fuga. Nella sala d'aspetto dove si trovava anche il bancone dell'accettazione erano in attesa sei persone. Mostrò all'infermiera la mano gonfia, spiegò di essere stata punta da un calabrone e stava per prendere posto insieme agli altri pazienti in attesa quando l'infermiera imperiosamente le disse di seguirla. «Ti aspetto qui», le disse Gabriella da dietro, e Magda annuì sollevata.


Durante il tragitto avevano deciso di comune accordo di darsi del tu come facevano tutti nei dintorni. Magda era stata molto contenta. Si sentiva già legata a Gabriella e questa sensazione le faceva bene. Il medico che la visitò si limitò a scrollare la testa, poi uscì dalla stanza e tornò nel giro di pochi secondi con una tenaglia affilata. «Per il resto sta bene?» si informò. «Ha la nausea, capogiri, difficoltà a respirare?» «No. Per il resto sto bene», rispose Magda. Mentre cercava di infilare la tenaglia tra l'anello e la carne gonfia e arrossata, il medico ferì accidentalmente Magda. Il dito cominciò a sanguinare, ma la cosa non parve turbarlo affatto ed egli continuò a serrare la mano di Magda in maniera impietosa. Poi ci riprovò. Magda strinse i denti e pregò che la cosa finisse in fretta. Alla fine il dottore riuscì a infilare la tenaglia sotto l'anello e a tranciarlo. Dovette agire con entrambe le mani e chiese a Magda di restare immobile per non rischiare di ferirla ulteriormente. Magda aveva l'impressione di essere finita tra le mani di un meccanico anziché di un medico, ma dopo interminabili secondi l'anello finalmente si aprì e lui glielo sfilò dal dito. «Ecco fatto», le disse alzandosi. «Grazie», rispose Magda. Un infermiere le lavò la mano, massaggiò il dito per riattivare la circolazione e le fece un'iniezione per combattere l'allergia. Con questo si concluse la medicazione. «Ho bisogno di qualche altro medicinale?» domandò Magda, mentre il medico compilava il modulo dell'intervento su un vecchissimo computer dallo schermo bombato. Lui scrollò il capo. «No, guarirà da sola. Se entro tre giorni la mano non si sarà sgonfiata, torni qui.» Stampò il referto, lo diede a Magda e la salutò. «Auguri», aggiunse uscendo dalla stanza. Gabriella si alzò sorridendo quando Magda tornò da lei. «Hai fatto in fretta», osservò. «Ti hanno tolto l'anello?» Magda annuì e aprì la mano sana dove stringeva l'anello troncato. «Che cosa dirà adesso tuo marito?» domandò Gabriella. «Niente. Del resto non è stata colpa mia.» Le due donne tornarono verso l'auto. «Ho sentito dire che tuo marito era scomparso...»


«Dove lo hai sentito?» «In paese. Non immagini nemmeno come girino in fretta le notizie. Basta andare al negozio di alimentari per sapere tutto di tutti.» Gabriella non voleva assolutamente rivelare a Magda di essere la moglie del maresciallo dei carabinieri della locale stazione, per non rovinare il rapporto di fiducia che si stava creando tanto velocemente tra di loro. «Sì, certo», rispose Magda, «tuttavia non pensavo che anche noi fossimo oggetto di chiacchiere. Del resto abitiamo piuttosto isolati e veniamo qui in vacanza solo due volte all'anno. » «E vero, comunque vi conoscono tutti.» Magda annuì. Era una cosa inevitabile. Ambra era un paese piccolo e di rado capitava qualcosa, così la gente sfruttava ogni minima occasione per spettegolare. «E vero, mio marito era scomparso», disse mentre risalivano sull'auto di Gabriella. «Non aveva più dato sue notizie e io ero in pena per lui. Ma ora è tornato. Sono andata a Roma e l'ho ritrovato. » «Ma è fantastico. Come hai fatto a rintracciarlo?» «E stato un caso. Ci siamo incontrati e basta.» «Come mai non era tornato a casa e non ti aveva telefonato? » «Il telefono alla Roccia era guasto senza che io lo sapessi. Suonava libero, ma non potevo ricevere telefonate. E siccome aveva perso il cellulare non si ricordava il mio numero: non l'aveva scritto da nessuna parte, ma l'aveva memorizzato sul suo telefono. Ci teneva tutti i numeri di telefono. Quello di sua madre, di altri amici eccetera. Era molto in ansia, dato che non poteva raggiungermi, perché sapeva che dovevo essere molto in pena per lui.» «Perché non è tornato a casa come previsto?» «E stato male. Influenza estiva. Bella forte anche. Con febbre alta. Per tre giorni è rimasto chiuso in camera, riusciva a stento ad alzarsi dal letto per andare in bagno. Terribile, quando una cosa del genere ti capita in albergo e in una città che non conosci.» Gabriella cercava di memorizzare ogni parola del racconto di Magda, mantenendo intanto un'espressione rilassata e amichevole.


«Adesso come sta?» «Meglio. Molto meglio. E del tutto guarito.» «Mi fa davvero molto piacere che tutta la vicenda si sia conclusa nel migliore dei modi.» Gabriella strinse la mano di Magda. «La prossima volta che tornerai a Roma, avvisami, che verrò con te. Io sono nata a Roma e la conosco molto bene. Magari potrei mostrarti qualche angolino tipico che da sola non potresti mai scovare.» «Sarebbe bellissimo», replicò Magda seria, convinta in quel momento di aver trovato una nuova amica. Lukas controllò il telefono. Era a posto. Maledizione, non le sarebbe costato mica tanta fatica lasciargli un biglietto se doveva andare via! E poteva ben immaginare, meglio di chiunque altro, che cosa significasse rimanere senza notizie. Dopo pochi minuti, non ne potè più della forzata inattività. Portò i piatti sporchi nel lavandino e uscì per tosare il prato. Mentre stava per mettersi al lavoro, notò l'auto di lei che si avvicinava insolitamente piano. La sensazione di sollievo che lo assalì fu come una sorsata d'acqua fresca dopo una lunga cavalcata nel deserto. Avvertì le forze che gli tornavano a scorrere nelle vene come una corrente calda che lo riempì di ottimismo. Non si sarebbe fatto abbattere e sarebbe rimasto. Magda scese dall'auto e invece di dare una spiegazione sollevò la mano deformata. «Santo cielo, che cosa ti è successo?» La cinse per le spalle con un braccio, poi si misero a sedere sulla terrazza e lei gli raccontò tutta la storia. «Ero tanto preoccupato per te», le disse, «non sapevo dov'eri. Non hai lasciato un biglietto e non hai neanche chiuso la porta.» «Davvero? Che strano, non me ne sono proprio resa conto. Devo essermene dimenticata.» «Ho creduto che fosse successo qualcosa...» «Poverino», disse, strofinandosi contro di lui e accarezzandogli la nuca. «Mi spiace tanto. Sai, quando faccio qualcosa automaticamente, cinque minuti dopo non me ne ricordo già più. La prossima volta cercherò di stare più attenta. » Tirò fuori dalla borsa la fede rotta e la posò sul tavolo.


«Avrei da chiederti un favore, Johannes. Per me questo anello è molto importante. Una volta che la mano mi sarà tornata normale, voglio che andiamo a Firenze e ci compriamo due fedi nuove. Magari è un segno per indicare l'inizio di un nuovo capitolo, molto più bello, del nostro matrimonio. » Lukas rimase per un istante senza parole, poi l'abbracciò. «E un'idea stupenda. Lo faremo sicuramente.» La baciò e cercò di sentirsi felice, ma invano. La sensazione di essere in balia di un gorgo che lo trascinava inesorabile verso il fondo era più forte. *** Capitolo 46. «Maledizione, non c'è proprio nessun caso!» imprecò Neri quando tornò a casa puntualmente alle sette e un quarto per cena. «Oggi pomeriggio la signora ha telefonato per ritirare la denuncia di scomparsa. Purtroppo io non c'ero, e ha risposto Garzi.» «Tu dov'eri?» «A coadiuvare i colleghi di Bucine per un posto di blocco. » «Che sciocchezza. Forse non sarebbe stata una cattiva idea mettere un pochino alle strette la signora.» Neri colse il tono sarcastico di Gabriella e si innervosì. Che cosa poteva farci lui se gli avevano ordinato di partecipare a quell'assurdo posto di blocco? «Santissimo Iddio, Gabriella, smettila con queste tue fantasie criminali! Il marito è tornato, punto e basta. Avrei preferito anch'io un bel caso di omicidio, ci avevo quasi sperato, ma non c'è, e questo è quanto. Non posso farci niente. Del resto non possiamo certo interrogare a tappeto tutti gli abitanti della nostra piccola Valdambra con il solo scopo di trovare un'occasione per me!» «La tua terza occasione, tesoro. Anche a me ha raccontato che il marito è tornato», disse Gabriella con tono volutamente annoiato, dondolando il piede, in un gesto che irritava da morire Neri.


«Come hai fatto a parlarle oggi? Forse cominci a immischiarti anche nel mio lavoro?» La voce di Neri era alta e stridula. «Stai calmo, tesoro. L'ho incontrata dalla dottoressa e ci siamo messe a parlare per caso. E poi l'ho accompagnata al pronto soccorso perché una puntura di calabrone le aveva scatenato una reazione allergica. Non credo che questo sia vietato, maresciallo», aggiunse. «D'accordo. E poi? Ha raccontato qualcos'altro?» «Non vorrei immischiarmi nel tuo lavoro, raccontandotelo.» «Porca miseria, Gabriella, non farmi arrabbiare e parla!» «Sei così irritabile anche durante gli interrogatori, tesoro?» Neri si limitò a sbuffare. «Va bene», disse Gabriella con un sorriso condiscendente. «Devo dire che Magda è proprio una persona simpatica e cortese e parla benissimo l'italiano...» fece una pausa eloquente. «E...?» la incalzò lui impaziente. Non sopportava quando Gabriella faceva apposta a tenerlo sulle spine per innervosirlo e rinfacciargli la propria superiorità. «Niente e...» Si guardò le unghie. «E davvero molto colta, disponibile, estroversa... e sicuramente ci rivedremo spesso... però... Donato, non so perché, è soltanto una sensazione la mia, però non credo a una sola parola di quello che mi ha detto.» «Come? A che cosa non credi?» «Prova a pensare: il marito va a trovare un suo amico a Roma. Non soggiorna da quest'amico, bensì in un albergo. E questo lo trovo già abbastanza bizzarro.» «Anch'io preferirei pernottare in albergo», osservò Neri. «Così avrei la mia privacy e un bagno tutto per me.» «D'accordo. Come vuoi tu.» Gabriella era stata interrotta nel proprio ragionamento ed era leggermente irritata. «Andiamo avanti: l'uomo perde il cellulare e si ammala. E


non riesce ad avvisare la moglie? A quanto pare non ricorda il suo numero di telefono, perché lo aveva salvato sul cellulare...» «Nemmeno io conosco il tuo numero a memoria. Se non lo avessi sul cellulare, non potrei telefonare.» «Maledizione, Donato, taci e ascoltami per cinque minuti! Oppure la mia opinione non ti interessa?» «Certo che m'interessa», mormorò il marito mogio. «Non riesce neppure a farle avere una mail servendosi del personale dell'albergo, e sta così male da non poter salire su un treno e farsi le due ore di viaggio fino ad Arezzo? Ma per favore, Donato!» Gabriella si toccò la fronte. «Se proprio lo vuoi sapere, per me sono tutte balle. Non è credibile. È una storia inventata che non sta in piedi.» Il maresciallo aggrottò la fronte. «Ammetto che sembra un po' cervellotica, ma ci sono persone davvero strambe. Forse noi ci comporteremmo in maniera diversa, ma il marito di Magda è un tipo un po' originale.» «D'accordo, come vuoi. Tu puoi anche crederci, ma io no.» Gabriella assunse un'espressione offesa. «Allora che cosa credi tu? Che il marito in realtà non sia tornato? Che lei abbia mentito? Ma perché? Perché avrebbe dovuto raccontare ai carabinieri che è tutto a posto e che possiamo smettere di cercare, se non fosse vero e se lei continuasse a essere in ansia?» «Perché in realtà non è affatto in ansia.» «E perché?» «Questo non lo so. Donato, devi andare da lei. Parlaci. Falle qualche domanda scomoda. E cerca di scoprire se l'uomo che sta con lei alla Roccia è davvero suo marito.» «E come faccio? Gli chiedo di mostrarmi i documenti?» «Potrebbe essere un'idea.» «Gabriella, è ridicolo.» Un sorrisetto ironico curvò gli angoli della bocca di Neri che per un istante si sentì superiore alla moglie. «Fa' quello che ti pare. Sei tu il carabiniere, io non posso sostituirmi a te negli interrogatori. Ti ho detto


quello che penso e basta. E se tu non hai l'impressione di avere per le mani un altro caso interessante allora io non ti posso aiutare. » Gabriella uscì impetuosamente dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle. La conversazione con la moglie aveva innervosito Neri, che si sentiva ferito nell'onore e offeso nell'orgoglio. Per questo il giorno dopo alle due partì per andare alla Roccia. Lukas stava sparecchiando la tavola dopo pranzo e Magda leggeva una rivista tedesca quando Neri si fermò davanti alla casa. Magda alzò lo sguardo sorpresa. Quando lo riconobbe, gli sorrise educata, si alzò e gli porse la mano. «Buonasera, maresciallo», disse cortese. «Che cosa la porta qui da noi?» «Mi trovavo nei paraggi», rispose Neri vago, «e volevo solo accertarmi che fosse tutto in ordine.» «E molto gentile da parte sua. Comunque è tutto a posto. Vuole bere qualcosa?» «Sì, grazie, un sorso d'acqua se possibile.» «Volentieri.» In quel momento Lukas uscì dalla casa. «Johannes», disse Magda, «ti presento il maresciallo Donato Neri. Si è occupato delle indagini quando non c'eri.» Magda entrò in casa per andare a prendere l'acqua. Con il cuore in gola, Lukas si avvicinò a Neri. «Lei è il signor Tillmann?» Lukas annuì e strinse la mano del maresciallo. «Buonasera. » «Ho saputo che durante il suo viaggio a Roma è stato molto male.» Lukas cominciò a sudare. Non sapeva come rispondere. E adesso? Aveva paura di sbagliare, quindi si limitò ad assentire. «Che cosa ha avuto?»


«Non saprei. Non mi sentivo per niente bene.» «Non è stato dal medico?» «No. A Roma non conosco nessuno.» In quell'istante Magda tornò in terrazza con una brocca d'acqua. Ne versò un bicchiere a Neri, poi prese la parola. Evidentemente aveva sentito l'ultima frase. «Si trattava di influenza estiva», spiegò. «Possono essere disturbi molto violenti. Un virus davvero fastidioso, e non ci si può fare niente. Nemmeno il medico può aiutare, anche se si è convinti di morire. Non è così, tesoro?» Lukas annuì docilmente. «E non ricordava il numero di cellulare di sua moglie per informarla dell'impossibilità di tornare a casa?» Lukas guardò Magda sconcertato. «Scusi, cosa ha detto?» Magda lo tranquillizzò con un cenno e rispose al posto suo. «Ci sono persone che sanno a memoria i compleanni di tutti i loro parenti, ma non ricordano neppure un numero di telefono. Altri invece conoscono tutti i numeri di telefono e si scordano dei compleanni. Sono molto pochi quelli che ricordano sia gli uni che gli altri. Johannes è una persona che spedisce puntualmente a mia madre un mazzo di fiori il giorno del suo compleanno, ma non è in grado di telefonarle perché non si ricorda il suo numero. Queste persone possono sfruttare l'opportunità di salvare i numeri nella memoria del cellulare. Ma, se lo dovessero perdere, sarebbero nei pasticci. » Sorrise con aria ammiccante. «A quanto mi sembra, lei lo ha perdonato», disse Neri abbattuto. «Che cosa dovevo perdonargli? Non è stata mica colpa sua! Forse bisognerebbe abituarsi a portare con sé sempre due cellulari, anche se può sembrare maniacale. Servirebbe a evitare un sacco di fastidi.» Lukas riusciva a capire solo a grandi linee quello che Magda stava dicendo a Neri in italiano, ma aveva la sensazione che lei avesse appianato le cose e avesse trovato risposte plausibili per ogni domanda. «Se non sbaglio suo cognato è venuto qui un paio di giorni? » chiese Neri. «Sì, ma è tornato in Germania. Fa l'attore e aveva un impegno a Hannover.» Neri si alzò. «Sono molto contento di aver chiarito tutto, signora. La prego di telefonarmi, nel caso dovesse avere altri


problemi. Arrivederci, signora Tillmann, arrivederci, signor Tillmann !» Neri si mise il berretto, si inchinò e tornò alla sua macchina. Aveva la sgradevole sensazione che Gabriella avrebbe rivolto altre domande ai due, domande che a lui non sarebbero mai venute in mente, ma che lei gli avrebbe presentato di sicuro quella sera spalmate sul pane. Magda era seduta immobile al tavolo. «Che cosa c'è? Che cosa ti succede?» le chiese Lukas. «Niente.» «Ma si vede che qualcosa ti preoccupa. A cosa stai pensando? Qualcosa ti ha fatto arrabbiare?» Magda scrollò il capo. «Forse sono stato io a fare qualcosa di sbagliato?» Lukas la guardò con aria mesta. «No, tu non hai fatto niente di sbagliato. E tutto a posto. Smettila però di farmi domande e lasciami cinque minuti in pace, per amor del cielo!» Detto questo balzò in piedi e corse dentro casa. Era così arrabbiata da sentirsi scoppiare. Quel maresciallo sapeva tutto. Ogni minuzia, ogni particolare, tutto ciò che lei aveva raccontato a Gabriella il giorno prima. Non avrebbe più scambiato neppure una parola con Gabriella. Quella stupida sgualdrina non aveva avuto altro di meglio da fare che correre dai carabinieri a spiattellare tutto quello che lei le aveva raccontato in via confidenziale. Magda si sentiva delusa e tradita. Doveva diventare più diffidente, non doveva più aprire il suo cuore alla prima persona che le risultava simpatica. Forse Gabriella aveva raccontato tutta la storia a un'amica che a sua volta l'aveva rivelata a un'altra amica che l'aveva detta al marito il quale l'aveva poi riferita a Neri. Durante la colazione, dal parrucchiere, oppure al mercato. Quando non aveva importanza. Il fatto era che Gabriella aveva parlato. E troppo. Peccato, aveva creduto di aver finalmente trovato un'amica. Invece si era sbagliata di grosso.


*** Capitolo 47. «Ma sei impazzito? Hai perso del tutto il lume della ragione? Donato, è davvero inconcepibile!» Quando era tornato a casa, aveva subito raccontato a Gabriella di essere stato dalla signora della Roccia e di aver avuto l'impressione che tutto fosse veramente a posto. Tuttavia era tormentato dai rimorsi per non aver chiesto i documenti all'uomo che aveva trovato lì. Per questo aveva raccontato a Gabriella il colloquio avuto nel pomeriggio nella maniera più dettagliata e veritiera, sperando di distrarla. Ed era rimasto soddisfatto di sé, perché era convinto di esserci riuscito. Gabriella non gli aveva ancora chiesto niente sui documenti d'identità, però si era alterata e lo stava aggredendo furente. Rossa in faccia, colpiva il tavolo con il palmo della mano, così forte da farsi male. Neri non riusciva a capirci niente ed era convintissimo di non aver commesso errori. «Come hai potuto essere così stupido», lo insultò di nuovo Gabriella, «da raccontarle tutti i particolari che ti avevo riferito io? Magda me li aveva confidati e tu vai a strombazzarli come se fossero scritti a grandi lettere sui muri di tutte le case! Ti rendi conto di quello che hai fatto, eh?» Neri era diventato paonazzo come la moglie. Per la vergogna e per la collera. «Ma che dici! Non sono mica segreti, Gabriella! Il signor Tillmann non conosceva il numero di cellulare della moglie. E allora? Era mio diritto chiedergli informazioni! E si era sentito male. Era mio dovere sapere che malattia aveva avuto! Chi non chiede non ottiene risposte!» Gabriella sospirò disperata. Si mise a sedere al tavolo di cucina e si nascose il volto tra le mani. «Donato», sibilò, «continui a non capire? Magda non sa che io sono tua moglie. Penserà che io abbia spifferato in giro le sue confidenze, e che mi sia rivolta alle autorità. E davvero incredibile! Non mi dirà più niente! Grazie alla tua lingua lunga, la nostra fonte di informazioni si è prosciugata, tesoro mio! E sappiamo bene dove arriverai con le tue indagini e i tuoi interrogatori.


» Neri cominciava a comprendere. Aveva di nuovo rovinato tutto, Gabriella aveva ragione. Le domande che aveva posto a Magda e a suo marito erano state del tutto avventate. Era come se avesse riferito segreti d'ufficio, per così dire. «Sarei potuto venirlo a sapere da qualsiasi parte», cercò di difendersi. «Da Raffaella, da Emilio... a tutti piace chiacchierare.» «Certo. Non è detto che sia stata per forza io a riferirti tutto in prima persona. E vero, sì. Però agli occhi di Magda non sono stata capace di tenere la bocca chiusa. E per questo non verrà più a raccontarmi niente. Bella mossa, maresciallo !» Erano tornati al punto in cui lei era diventata sarcastica, pensò Neri. Adesso sarebbe uscita di casa, oppure il litigio si sarebbe aggravato. «Amore mio», tubò teneramente, «non agitarti. Non ne vale la pena. Forse oggi non è stata una delle mie giornate migliori, può essere, ma fa lo stesso, perché, come ti ho già detto e come ho sempre saputo, non c'è proprio alcun caso. Il marito è tornato e questo è quanto. Possiamo scordarci tutta la storia.» «Credo che ormai non serva più a niente ripeterti per la centesima volta che ti sbagli. Il caso c'è. Dentro di me si sono accese tutte le luci dell'allarme e, da ieri, sento anche suonare le sirene. Tu però non mi vuoi credere. Quindi va' pure a rinchiuderti nel tuo ufficetto e tappati le orecchie.» La voce di Gabriella divenne un sussurro minaccioso. «Sono stufa, Donato. Non ce la faccio più a stare in questa casa, in questo paese, in questa provincia, dove l'unico divertimento è guardare i girasoli che fioriscono per due settimane e poi appassiscono. Non ne posso più! Non ce la faccio più a guardarti sprecare un'occasione dopo l'altra e andartene in giro alla cieca per i dintorni. Potrebbero pugnalare qualcuno sotto i tuoi occhi e tu non te ne accorgeresti, perché magari il colpevole, mentre compie il delitto, ti rivolge un allegro: "Salve". Non ti accorgi di niente! Non hai la minima immaginazione criminale e senza immaginazione puoi anche scordarti di fare l'investigatore. Mi spiace, ma è così.» «Adesso esageri.» «Forse.» «Che cosa vuoi fare?» «Non lo so ancora.» Gabriella si scostò i capelli dalla fronte. «Credo che me ne andrò al cinema. La cena è in frigorifero, puoi riscaldartela. Buona serata.»


Neri la seguì con lo sguardo, affranto, mentre Gabriella usciva dalla cucina. Quella sera per la prima volta l'aveva sentita pronunciare le frasi che aveva sempre temuto più di ogni altra cosa. «Non ne posso più», gli aveva detto, e: «Sono stufa». L'indomani forse gli avrebbe detto: «Ti lascio e torno a Roma». E allora sarebbe finito tutto. Magda lanciò un grido. Lukas si alzò di scatto dal letto. Si sentiva mancare, per alcuni secondi non ricordò dove si trovava, tutto gli girava intorno e nelle orecchie gli risuonava soltanto quel grido agghiacciante che lo riempiva di terrore. Accese l'abat-jour e in quel momento lei tacque. Aveva la faccia sudata, il lenzuolo, dato il caldo, era appallottolato ai piedi del letto e lei lo fissava terrorizzata. «Che cosa c'è?» bisbigliò lui. «Che cosa hai sognato?» Lei taceva, scossa da un violento brivido, e lui l'abbracciò. «È tutto a posto, Magda, è tutto a posto. Ci sono qui io, non devi preoccuparti.» Magda sospirò e si strinse a lui. «Ho sognato di averti ucciso», singhiozzò. «Ti ho ucciso e ti ho sepolto sottoterra, e i cinghiali ti hanno divorato.» Lui la strinse forte. «Torna a dormire, è stato solo un sogno, non è successo niente.» Magda sospirò, si lasciò cadere sul cuscino e nel giro di pochi minuti si riaddormentò. Lukas però rimase a lungo a guardarla, e la paura lo trafisse come una lama arroventata. Due giorni più tardi arrivò la seconda foto. Questa volta per posta e indirizzata specificamente al signor Tillmann, località La Roccia. Lukas andò a prenderla personalmente all'ufficio postale e questa volta era pronto per ciò che l'aspettava. Un'altra foto di Johannes. Scattata da una prospettiva diversa, ma non meno raccapricciante. Era un po' meno ravvicinata, ma Lukas continuava a non capire dove fosse stata scattata. Quale scopo aveva in mente il mittente di quelle foto? Voleva soltanto farlo impazzire?


Lukas cominciò a sudare. Cercò alacremente un'idea sul da farsi e su come comportarsi, ma non gli venne in mente niente. *** Capitolo 49. Hildegard Tillmann aveva dormito tre ore al massimo. Da giorni, forse settimane, era così. I lancinanti dolori alla schiena e l'ansia per Johannes le toglievano il sonno. Si era svegliata alle quattro e mezzo ed era rimasta immobile sdraiata a letto: non osava accendere la luce per non svegliare il marito. Aveva assoluto bisogno di un antidolorifico, ma non osava alzarsi. La quantità di pasticche che ingoiava era inimmaginabile e ogni giorno si sorprendeva che il suo stomaco riuscisse a tollerarle. Prendeva farmaci per l'ipertensione e il colesterolo, aspirina per fluidificare il sangue e prevenire un infarto, potassio per il cuore, calcio per le ossa, vitamine per il benessere generale, e poi i lassativi, antidolorifici per la schiena e ultimamente anche antidepressivi, tranquillanti e sonniferi per la notte che tuttavia non bastavano a farla dormire. Il suo portapillole arrivava a contenere quindici compresse al giorno. «Il tuo mal di schiena è psicosomatico», le ripeteva il marito, «in questo momento ti stai sobbarcando un bello stress.» Hildegard lo sapeva bene, e le parole del marito non l'aiutavano granché. Il mal di schiena non scompariva, anche se lei era consapevole di quale fosse la sua causa. Da quando Johannes era scomparso, non aveva più cucinato, né pulito e non era più andata a fare la spesa. Suo marito si era fatto carico di tutto, controvoglia ma rassegnato. Hildegard passava le giornate a tormentarsi sul divano, chiedendosi se non fosse meglio ingoiare un'overdose di sonniferi e farla finita. Ogni due giorni Lukas telefonava e Hildegard viveva soltanto per questo momento, questo squillo del telefono, che per lei era diverso da tutti gli altri. Alle cinque e mezzo non ne potè più. Si alzò e uscì in silenzio dalla camera da letto, per quanto glielo consentisse il mal di schiena. Richard respirava piano e russava. Per fortuna non si era svegliato. In bagno aveva sistemato uno sgabello sotto la doccia. In questo modo poteva concedersi qualche minuto di relax. Seduta lì sopra, si fece scorrere l'acqua calda sulle spalle e sognò il figlio Johannes. Lo vide quando aveva dieci anni, seduto al tavolo della cucina, che batteva ritmicamente con le posate sul tavolo


gridando: «Abbiamo fame, fame, fame», mentre aspettava il suo piatto preferito, la frittata di patate. Dopo pochi secondi anche Lukas si era unito alla cantilena. Hildegard aveva rosolato le patate, sorridendo tra sé e ringraziando il cielo di averle dato due meravigliosi figli che gridavano a squarciagola pieni di voglia di vivere. Alle sei si mise seduta al tavolo in cucina e bevve il suo primo caffè. Era amaro, ma a lei faceva piacere sentire un sapore qualsiasi, perché ormai dolce, aspro o salato per lei erano praticamente la stessa cosa. Non coglieva più le differenze. Non perse neppure tempo ad alzare la tapparella in cucina, non le interessava sapere se ci fosse il sole o piovesse. Altrettanto poco le importava sapere che cosa accadeva nel mondo, per questo rinunciò ad accendere la radio. Richard la raggiunse alle otto e mezzo. «Buongiorno», le disse, poi prese la caffettiera e si riempì una tazza. «Come hai dormito?» Lei scrollò le spalle e sorrise. Lui conosceva già in anticipo la risposta. Richard lavò le tazze della colazione, passò l'aspirapolvere in salotto, rifece i letti e diede un'occhiata in frigorifero, per vedere se c'era abbastanza verdura per pranzo o se doveva andare a fare la spesa. L'insalata poteva bastare, e lui fu contento di non dover uscire. Si ritirò allora nella minuscola stanza dietro la cucina che aveva trasformato in laboratorio. Da quando era in pensione, dedicava tutto il tempo libero al suo hobby: ricostruiva modellini di monumenti famosi con i cerini. Al momento stava lavorando alla riproduzione del Reichstag di Berlino e sperava di terminarla entro Natale. Il lavoro gli era stato commissionato da un medico che esponeva queste insolite opere d'arte nell'atrio della sua clinica pagandole cifre esorbitanti. Richard amava molto lavorare con i cerini. Quando si concentrava per trasformare un fiammifero in una minuscola trave, riusciva a dimenticare tutte le sue preoccupazioni. Il mal di schiena della moglie e la scomparsa di suo figlio maggiore. Hildegard rimase seduta in cucina fino alle dieci. Poi andò in bagno, si vestì e si mise a sedere sul divano in salotto, per trascorrere il resto della giornata fissando ipnotizzata l'apparecchio telefonico. Lukas le telefonò verso le undici e mezzo. «Nessuna novità, mamma», disse. «Purtroppo non è cambiato niente, non sappiamo nulla di nuovo dall'altro ieri. I carabinieri hanno controllato negli ospedali e negli aeroporti di Roma, ma non hanno intenzione di fare altro. Perché ritengono che non sia stato commesso nessun crimine e che una persona adulta possa fare quello che vuole. Non ci resta che aspettare, mamma. Aspettare che Johannes torni di sua volontà. Avrà avuto un motivo per andarsene così. Il problema è che noi non lo conosciamo.»


Hildegard si sentiva un nodo alla gola. Non riusciva a parlare. «Hanno...» cominciò incerta, «volevo dire, sai se sono stati presi contatti tra le autorità italiane e quelle tedesche? » «Ne dubito.» Hildegard conficcò le unghie nel bracciolo del divano nel tentativo di dominarsi. «Non riesco proprio a capire!» gridò. «Possibile che sia davvero così normale che una persona sparisca senza motivo? » «Noi non sappiamo cos'altro fare, mamma», disse Lukas con voce deliberatamente pacata e bassa. «Mi sembra d'impazzire!» Hildegard era sull'orlo di una crisi di nervi. «Comunque non ho intenzione di restarmene seduta qui ancora a lungo, fingendo che non sia successo niente. Non ce la faccio più ad attendere e sperare che lui torni, Lukas. Non ce la faccio. Andrò alla polizia a sporgere denuncia di scomparsa. Forse le autorità tedesche scopriranno qualcosa. Qualcuno dovrà darsi da fare!» «Non possono niente, credimi. Al massimo, possono contattare le autorità italiane, ma è una procedura burocratica lunghissima. Noi qui siamo molto più vicini e possiamo continuare a tornare dai carabinieri e snervarli con la nostra insistenza.» Hildegard annuì in silenzio. «Resterò qui in Italia finché Magda avrà bisogno di me», aggiunse Lukas. «Può darsi che decida di prolungare le ferie. Non riesco a immaginare, infatti, che torni in Germania senza Johannes.» «Sì», mormorò Hildegard. «Sì, certo.» Anche lei aveva bisogno di lui. Forse persino più di Magda. Torna qui, lo implorò in silenzio, ti prego, torna da me! Però non lo disse. «Ci sei ancora, mamma?» «Sì, sì.» Le costò fatica pronunciare le parole successive. «Tu nutrì ancora delle speranze?» bisbigliò. «Certo che sì!» Lukas alzò la voce e cercò di apparire ottimista. Poteva farlo. Lo aveva imparato. Mettere in una frase un «sorridendo» era una cosa da nulla per un doppiatore. «Non è accaduto ancora niente, mamma. E, finché non riceviamo altre notizie, dobbiamo partire dal presupposto che Johannes stia bene.»


«Grazie della telefonata», disse Hildegard stancamente. «Grazie.» Con questo riagganciò e crollò su se stessa. Le spalle leggermente curve, le mani davanti al viso, scoppiò a piangere. *** Capitolo 50. Il cielo era limpido, il sole splendeva e soffiava una leggera brezza, molto piacevole. Lukas sapeva di non poter più stare rinchiuso nella sua casetta come una chiocciola, non doveva permettere che Magda intuisse la sua paura e la sua incertezza. Non serviva a niente neppure continuare a rimuginare sulle foto e sul misterioso sconosciuto che le aveva spedite. Non lo portava a niente. Non poteva far altro che aspettare gli eventi. La porta di casa era chiusa a chiave, il navigatore satellitare programmato, ed erano sul punto di partire, quando una Citroen nera risalì il viale d'accesso. «E adesso chi arriva?» sbuffò Magda. «Non ho voglia di ricevere visite, me ne voglio andare.» La Citroen si fermò davanti a casa e Stefano Trepo ne uscì baldanzoso. Abbigliato in modo informale ma elegante, con pantaloni di lino beige e camicia nello stesso tessuto ma di una tonalità più chiara, si sollevò gli occhiali di marca sulla testa e sorrise. A quanto sembrava era di ottimo umore. A quel punto anche Magda e Lukas scesero dall'auto. «Buongiorno», li salutò Trepo, «a quanto vedo ho avuto sfortuna anche stavolta. Stavate per andare da qualche parte?» «Sì, in effetti avevamo in programma una breve gita.» «Posso chiedervi dove?» «All'abbazia di Monte uliveto Maggiore. Ci passiamo sempre davanti quando andiamo a Montalcino a prendere il vino, ma finora non ci siamo mai fermati a visitarla.»


Trepo rise. «Incredibile! È un monastero da vedere assolutamente, è meraviglioso. Vi piacerà moltissimo.» «Non ne dubito.» Magda cominciava a innervosirsi. Non aveva alcuna voglia di perdere tempo in chiacchiere. «Che ne direste», propose Trepo appoggiandosi disinvolto alla macchina e accavallando le gambe, «se vi accompagnassi? Conosco non solo l'abbazia, bensì tutta la zona circostante e posso farvi da cicerone. Credo proprio di essere un'ottima guida.» Sorrise e inforcò nuovamente gli occhiali da sole. «Che cosa vuole?» domandò Lukas che non aveva capito tutto. «Vuole venire con noi. Vuole farci da guida. Che ne pensi?» «Niente da fare.» Lukas si adombrò all'istante. «Voglio stare da solo con te.» «Andiamo, non fare il misantropo», ribatté Magda, «non voglio offenderlo e inoltre credo che sia un'ottima idea e possa venir fuori qualcosa di molto interessante. Non capita tutti i giorni di ricevere un'offerta del genere. E poi non ci costerà così tanta fatica chiacchierare un po' con lui.» Lukas scrollò le spalle poco convinto. «Se lo dici tu. Secondo me nel giro di mezz'ora quel tipo mi darà sui nervi.» «Proviamo.» Trepo aveva seguito il dialogo tra i due in silenzio. Non conosceva il tedesco, aveva capito soltanto che Magda era d'accordo con la sua proposta, ma il suo amico no. Comprensibile. Ai suoi occhi lui era un guastafeste, e Trepo trovava la cosa molto divertente. «È davvero un'idea stupenda!» esclamò Magda entusiasta. «Se ha tempo, ci farebbe piacere che venisse con noi.» «Possiamo prendere la mia auto», propose Trepo aprendo la portiera. «È un po' più spaziosa e poi potrete godervi il nostro piccolo giro turistico senza dovervi preoccupare della guida.» «Fantastico.» Magda prese la borsa. «Vieni, Johannes, sali.» In genere Magda non era una passeggera facile in auto. Non le piaceva affidarsi alle capacità di guida e alle decisioni di un altro, preferiva tenere le redini del proprio destino. Per questo evitava anche di viaggiare in aereo.


Quel giorno però era diverso. Trepo emanava un'aura di serenità che la contagiò quasi subito. Guidava l'auto con una mano sola, anche sulle curve, tenendo la destra posata con rilassatezza sul pomello del cambio. Magda sapeva che per raggiungere Monte uliveto dovevano passare da Asciano, per una strada che lei conosceva alla perfezione. Trepo però scelse un itinerario diverso. Attraversava monti e vallate, tra fitti boschi e vigne soleggiate. Oltre una cappella medievale, un viale di cipressi e le rovine di un vecchio mulino ad acqua. Il paesaggio era vario e meraviglioso, e fino ad Asciano la strada non era asfaltata. Magda cercò di memorizzarla. «Questa strada da sola giustifica questa gita», osservò, «è un vero gioiello nascosto.» «Se vuole, posso scriverle i punti di riferimento necessari nel caso voglia tornarci da sola. Si impiegano dieci minuti di più, ma secondo me ne vale la pena.» All'altezza di Asciano, Trepo riprese la strada asfaltata che si snodava in mezzo allo spettacolare paesaggio delle crete. Era molto soddisfatto di sé, e trovava geniale il modo in cui era riuscito a pilotare quell'escursione. Doveva ammetterlo, era stato aiutato da un pizzico di fortuna. In ogni caso adesso ce li aveva tutti e due seduti in macchina con lui e avrebbe trascorso l'intera giornata in loro compagnia. Era molto più che bere qualche bicchiere di vino sulla terrazza. Aveva tutto il tempo per conoscerli meglio e osservarli, e alla fin fine il tempo rivela più dell'alcol. Prima o poi tutti abbassano la guardia e mostrano il vero volto. Trepo e Magda chiacchieravano amabilmente, mentre Lukas, seduto dietro, si annoiava perché non capiva neppure una parola. Pochi chilometri dopo Asciano, Trepo formulò la domanda che gli bruciava sulla lingua già da parecchio: «Com'è possibile, signora, che lei conosca l'italiano tanto alla perfezione, mentre suo marito... Le chiedo scusa, non vorrei offenderla, ma... non lo parla per niente?» Magda sorrise e si girò verso Lukas. «Vede, le lingue non lo hanno mai interessato. Anche durante i lavori di restauro della casa, lui ha organizzato, calcolato e progettato tutto. Ma poi ero io a spiegare agli operai ciò che voleva. E il nostro modo di affrontare il lavoro, e funziona alla perfezione. Johannes le sa spiegare i fenomeni economici più complessi oppure il funzionamento di una pompa idraulica, ma confonde sempre l'imperfetto con l'imperativo. Del resto, perché tormentarlo con la grammatica di una lingua straniera, se le cose funzionano lo stesso anche così?» Trepo osservava Lukas discretamente dallo specchietto retrovisore. L'uomo guardava fuori dal finestrino e sembrava annoiato.


Trepo si chiese chi fosse. Di sicuro un assassino che si era sbarazzato del proprio rivale. Ma era il marito o l'amante? Doveva ancora scoprirlo, ma ci sarebbe riuscito entro la fine della giornata. *** Capitolo 51. Quando si svegliò il lunedì mattina, Carolina era afflitta da un indolenzimento muscolare che le rese quasi impossibile alzarsi dal letto. Provò a fare due piegamenti sulle ginocchia, ma lasciò perdere subito, i muscoli delle cosce le dolevano come se fossero imbevuti di acido lattico. Zoppicò fino in bagno. Evidentemente quel fine settimana aveva esagerato. Il venerdì sera era andata al maneggio, aveva dormito in tenda lì nei paraggi e poi aveva fatto un giro con la sua Penthesilea. Sfruttò il giro per il Brandeburgo per schiarirsi le idee. Era ancora molto irritata dal fatto di non riuscire a togliersi Johannes dalla mente, come invece era sempre riuscita a fare con altri uomini prima. Lui continuava a riaffiorare dal suo inconscio, ingombrava la sua mente, la irritava. Non sopportava di essere stata scaricata dopo una fantastica notte trascorsa insieme, alla stregua di una volgare puttana. Non ci era abituata e non voleva accettarlo. Se qualcuno doveva rompere una relazione, era lei. E nessun altro. Dopo quel faticoso fine settimana, Carolina si sentiva un po' meglio. Era decisa a dimenticare Johannes, a non chiamare più il suo numero di cellulare e a non lasciarsi più intimorire da strane telefonate. Che andasse al diavolo, a lei non interessava più. Questi nobili propositi durarono giusto tre ore. Quando cominciò a lavorare il salone era vuoto, circostanza nient'affatto sorprendente per un lunedì mattina. Carolina non sopportava i momenti in cui non c'erano clienti, li trovava molto faticosi, perché non sapeva adattarsi alla noia e all'inattività. Preferiva di gran lunga essere sotto stress piuttosto che ciondolare senza fare niente. Si mise a sfogliare svogliatamente la rivista di motociclismo, posata insieme a vari cataloghi della Harley sul tavolino accanto alla macchina per il caffè. L'articolo sul grande motoraduno annuale in Toscana era a pagina cinque.


Si mise in tasca il giornale con il proposito di leggerlo con tutta calma a casa, la sera. Un motoraduno di harleysti in Toscana. Un intero fine settimana, da venerdì pomeriggio a domenica sera. Bisognava provvedere individualmente alla sistemazione, ma il buffet della grande festa il sabato sera era gratis. Era l'occasione per rivedere amici, conoscenti, compagni, scambiarsi esperienze e festeggiare insieme. Un evento irripetibile in Toscana. Già, pensò alla fine della lettura, perché no? Johannes abita poco distante. Da casa sua al luogo del raduno, Leccarda, ci saranno al massimo venti chilometri. E la mia occasione. Johannes, arrivo! Ti voglio vedere, voglio parlare con te, voglio sentirti dire un'altra volta che non mi vuoi più. Ma non ci credo. E dirò a tua moglie che tu sei il più grande amore della mia vita e che farò di tutto per averti. Basta segretezza, non devi più scegliere tra lei e me. Perché io ho deciso. Per te. Non riuscirai a sbarazzarti un'altra volta di me, Johannes. *** Capitolo 52. Come al solito, pensò Magda, mentre entravano nel parcheggio dell'abbazia di Monte uliveto Maggiore, i posti più belli del mondo se li sono accaparrati i monaci per costruirci i loro conventi. Così era a Le Celle, il convento francescano nei pressi di Cortona, a Sant'Antimo vicino a Montalcino e a San Galgano nei pressi di Massa Marittima. In questo caso l'ampio complesso monastico sorgeva in mezzo a un paesaggio quasi irreale con le sue profonde gole di terreno argilloso. Da lì si godeva un fantastico panorama sulle aspre crete e insieme si provava una sensazione di serenità trasmessa dai folti boschi di cipressi che circondavano il monastero. Durante il viaggio Trepo, a beneficio di Lukas, aveva tradotto in inglese parte di quello che diceva quando Magda non glielo traduceva in tedesco. In questo modo si sforzava di coinvolgerlo nella discussione, e di questo Lukas gli era grato. Nell'ultima ora, dunque, la sua disposizione d'animo nei confronti della loro guida era diventata quasi positiva. Trepo parcheggiò nel piccolo spiazzo antistante l'edificio medievale. Attraversato un ponte levatoio, si trovarono all'interno del vasto complesso monastico. Mentre percorrevano una strada sterrata fino alla chiesa e alla parte abitata del monastero, Trepo cominciò a dare qualche spiegazione. «Il monastero venne eretto all'inizio del XIV secolo da Bernardo Tolomei. Costui era un erudito di Siena


che si era ritirato a vivere qui in solitudine insieme a due amici nobili, Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini. Insieme avevano costruito una cappella e conducevano una vita ascetica secondo le regole dell'ordine benedettino. Poco tempo dopo ottennero l'approvazione del vescovo d'Arezzo e cominciarono i lavori di costruzione del convento, dandosi nome di Olivetani e accogliendo altri adepti. Ma poi, nel 1348, quasi tutti i monaci morirono a causa della peste.» «Santo cielo», esclamò Magda meravigliata, «è incredibile la precisione con cui ricorda tutte le date e i particolari senza essersi preparato. Com'è possibile? Come fa? E forse un'enciclopedia ambulante?» Trepo sorrise lusingato. «Niente di tutto questo, però m'interesso di storia. Ed è facile ricordare le cose per cui si nutre interesse.» Nel corso della successiva visita alla chiesa Trepo parlò ininterrottamente, motivato non da ultimo dal complimento di Magda. Magda manteneva un'espressione interessata, annuiva di tanto in tanto e non ascoltava niente. Quando Trepo si accorse che non era concentrata, rivolse la propria dotta esposizione a Lukas, in inglese. Magda li lasciò soli, andò a sedersi in uno degli ultimi banchi della chiesa e ringraziò il cielo della vita appagante che conduceva. Lasciamelo, implorò, oh Signore, ti prego, lasciami mio marito. E tutto ciò che ho. Anche Thorben ha bisogno di lui, soprattutto in quest'età. Siamo una famiglia davvero fantastica, noi tre. Loro due mi procurano tanta felicità e danno senso alla mia vita. Il pensiero di perderli mi mette paura. Non potrei vivere senza di loro. Guardò Lukas, che ammirava assorto la cupola con l'ascensione di Maria di Iacopo Ligozzi ascoltando le spiegazioni di Trepo, e in quel momento provò un amore così intenso per lui da sentirsi sgorgare le lacrime dagli occhi. Magda accese due candele e levò un'invocazione al cielo. Fa' che tutto rimanga così com'è, supplicò, per favore, va bene così. Poi seguì Trepo e Lukas nel chiostro per ammirare gli affreschi della vita di san Benedetto, molto probabilmente uno dei più bei cicli di affreschi del Rinascimento. «Qui nel chiostro grande si trovano trentacinque nicchie», spiegò Trepo, «dipinte da due artisti molto diversi tra loro, anche se nell'insieme formano un tutto così armonioso e coerente che è difficile accorgersene senza saperlo. Il viaggio nella vita di san Benedetto comincia da qui. In questo primo riquadro lo vedete lasciare la casa dei genitori in sella a un cavallo bianco, accompagnato dalla sua balia Cirilla. Il paese sullo sfondo è Norcia, in Umbria. Gli affreschi dal numero uno al diciannove e dal trenta al trentacinque sono opera di Antonio Bazzi, detto il Sodoma, gli altri sono di Luca Signorelli a parte uno, che è di Bartolomeo Neroni. Il Sodoma era un pazzo. Viveva insieme a scimmie e capre, asini, cercopitechi, colombe, pappagalli e serpenti, ma soprattutto amava circondarsi di fanciulli di cui abusava. Era un'abitudine nota a tutti e da qui deriva anche il suo soprannome.


I monaci sapevano della sua vita dissoluta e lo chiamavano Mattaccio, ma lo tolleravano.» Magda rimase senza parole. Trepo ripetè la storia in inglese per Lukas e aspettò trepidante la sua reazione. Lukas non reagì. Non aveva più voglia di seguire le dotte spiegazioni di Trepo, tutto quello che desiderava era una bella birra fresca. Magda invece scrollò il capo. «Che vergogna», disse. «Io lo avrei cacciato subito. Anche se era un pittore di talento. Non assumerei neppure un giardiniere, se sapessi che ha ammazzato sua moglie.» Lei non sa niente, pensò di nuovo Trepo, non sa proprio niente. E decise di annotarsi in un secondo momento tutti i particolari che confermavano l'innocenza di Magda. Sotto ogni affresco c'era una didascalia in latino che spiegava la scena raffigurata. Trepo traduceva, spiegando e ampliando le storie. Nel terzo affresco, per esempio, si vedeva san Benedetto che aggiustava miracolosamente un capisteo rotto. Trepo indicò a Magda e Lukas la figura centrale in cui Sodoma si era ritratto, nei panni di un nobile con due tassi ai piedi e addosso un mantello d'ermellino. Trepo parlava incessantemente. Era più preciso e di gran lunga molto più interessante di una qualsiasi guida turistica, ma a poco a poco la concentrazione di Magda venne meno. Aspettava solo l'occasione di proporre ai suoi accompagnatori di andare a mangiare un boccone da qualche parte. Impiegarono un'ora e mezzo per il chiostro, poi visitarono la cinquecentesca biblioteca, costruita a forma di basilica a tre navate e contenente migliaia di volumi, e infine fecero un giro nella piccola bottega dei monaci dove questi vendevano unguenti e tinture di loro produzione, spezie, grappa, libri e souvenir kitsch di ogni genere. Lukas acquistò una miscela di erbe per il minestrone, il suo piatto preferito, Trepo un libro sull'architettura di alcuni conventi italiani e Magda una ghirlanda di rose che voleva spedire a Thorben. Erano le due passate quando entrarono nel ristorante La Torre, proprio alle porte del complesso monastico. «Questa è la mia giornata», annunciò Trepo, mentre si accomodavano all'ombra di un fico, «vi ho convinti a portarmi con voi per questa gita. Mi è piaciuta davvero molto e per concludere degnamente vorrei offrirvi il pranzo.» «D'accordo», disse Magda con un sorriso, perché una richiesta formulata con tanto sentimento non poteva certo essere respinta, «ma solo a patto che accetti un invito a pranzo da noi alla Roccia per sdebitarci. Quando le fa più comodo?


» «Sempre», rispose Trepo. «Vengo molto volentieri.» «Allora facciamo domenica sera», propose Magda prontamente, con la sensazione di aver appena stretto un'amicizia interessante. Un uomo molto istruito e affascinante, chiaramente alla ricerca di persone alla sua altezza quanto lo era lei. Trepo le appariva come un prezioso regalo e comprese che non avrebbe più voluto perderlo. *** Capitolo 53. Nella casella postale c'era un'altra foto di Johannes. Questa volta scattata di lato. Sotto la foto poche, sarcastiche parole: «Tanti saluti, amico mio». Lukas infilò la foto sotto il sedile anteriore dell'auto e proseguì verso il centro di Ambra. Qui comperò cinque carciofi e un filone di pane in un negozio di alimentari. Poi si fermò al bar a bere un caffè e quindi si rimise in viaggio verso casa. Quando arrivò, Magda stava spazzando la terrazza. Gli sorrise. «Allora, qualche novità alla posta?» Lukas scrollò il capo. «Soltanto due bollette.» Magda annuì e riprese a spazzare. «Senti, volevo dirti una cosa... però non devi arrabbiarti, tesoro. Di solito all'inizio delle vacanze cambiavi sempre il decalcificatore dell'acqua. Quest'anno non l'hai ancora fatto e l'acqua calda è sempre più tiepida.» «Maledizione!» Lukas finse di essersene dimenticato. «Perché non me lo hai ricordato?» «Non posso pensare a tutto io! Per esempio le grondaie! Devi pulirle. In autunno piove spesso e la terrazza si allaga e poi l'acqua entra in cucina. Ma lo sai benissimo anche tu.»


Lukas non sapeva proprio niente. Il ruolo che Magda gli aveva attribuito si faceva ogni giorno più difficile da sostenere. «In realtà non mi sono ancora ripreso», si giustificò, «ho passato un periodo davvero pesante.» «Lo so. Comunque c'è ancora tempo. Ti faccio notare solo un'ultima cosa. Se puoi interrare la fossa biologica. In questo momento assomiglia a un cantiere e mi dà molto fastidio. » Lo costrinse a sedersi su una sedia, gli si mise in braccio e lo baciò. «Prima però te ne stai un po' qui a riposare, prendi un po' di sole mentre io preparo i carciofi. Come li preferisci, con una salsa all'aglio, con la senape o alla mediterranea?» «All'aglio.» «Dici sul serio?» «Sì, mi va.» «Ma poi non ti viene il bruciore di stomaco? Per te sarebbe meglio la salsa alla mediterranea.» «D'accordo. Allora preparali con la salsa alla mediterranea. » Magda appoggiò la scopa al muro e scomparve in cucina. Lukas si era già adattato ai gusti e alle abitudini del fratello per colazione e non mangiava più panini con la marmellata, bensì muesli e latte, anche se lo disgustava. Si chiese seriamente come sarebbero andate avanti le cose. Il sabato mattina a colazione Magda preparò, con l'aiuto di diversi libri di cucina, il menu a cinque portate per la cena dell'indomani, si annotò gli ingredienti che mancavano e chiese a Lukas se aveva voglia di accompagnarla a fare la spesa. Lukas in realtà non ne aveva voglia, ma accettò prontamente. Il rischio che Magda passasse a ritirare la posta era troppo grande. Poco prima delle dieci partirono per andare all'Ipercoop di Arezzo. Tornarono poco dopo l'una. Magda fece una doccia fredda e poi si mise a cuocere la carne per il vitello tonnato. «Perché ti dai tanto da fare per quel tizio?» domandò Lukas, cercando di non sembrare troppo contrariato. «Sembra quasi che venga a cena sua maestà in persona.» «Non essere sciocco. Voglio fare bella figura. Non possiamo presentargli un piatto di spaghetti e via. Mi


dà l'impressione di essere un buongustaio.» Lukas non aggiunse altro. Era geloso, la cosa lo indispettiva, ma non poteva farci niente. Tutta quella cena gli dava sui nervi già un giorno prima. E pensare che poi avrebbe dovuto interpretare per tutta la sera il ruolo del marito di Magda, scomparso misteriosamente e poi riapparso come per magia. Si rendeva perfettamente conto che lì in Italia poteva risultargli ancora abbastanza facile. Il pensiero di come avrebbe dovuto comportarsi in Germania, se Magda avesse voluto invitare amici, conoscenti e parenti, lo riempiva di sgomento, perché tutti là conoscevano Johannes e lui non avrebbe potuto ingannarli. Trepo si pentiva di non aver disdetto l'invito alla prima. Ora stava seduto lì a teatro, si annoiava e non era affatto concentrato. Col pensiero pregustava già l'invito a cena alla Roccia. Lo aspettava con trepidazione, come non gli accadeva da tempo. Si sentiva il corpo pervaso dalla tensione. Dopo lo spettacolo, contrariamente alle sue abitudini, non partecipò alla festa. Non voleva discutere con nessuno della rappresentazione e degli attori, sarebbe già stato un problema scrivere una recensione. Avrebbe copiato qualcosa sull'autore da Internet e per il resto sarebbe rimasto sul vago. In ogni caso la scenografia non gli era piaciuta affatto. Poteva benissimo dilungarsi su quell'aspetto. In quella stagione a Firenze alle undici di sera c'era in giro tanta gente come in un sabato pomeriggio prenatalizio. Il taxi avanzava faticosamente per le strade intasate e Trepo arrivò a casa solo intorno a mezzanotte. Mentre saliva le scale, gli venne da chiedersi che cosa avrebbe fatto l'indomani a quell'ora. La risposta lo fece sorridere. Il giorno seguente Trepo dormì fino alle due del pomeriggio. La sera prima era rimasto alzato a battere rabbiosamente sul portatile la recensione distruttiva per l'emittente radio e si era addormentato davanti alla televisione dopo aver bevuto un paio di bicchieri di stravecchio. Verso le cinque si era svegliato e si era trascinato a letto. Si alzò di ottimo umore, riempì la vasca e si riappisolò nell'acqua calda. Poi si massaggiò accuratamente con la crema per il corpo e - ancora in accappatoio - si preparò un espresso doppio. Andò a sedersi con la tazzina davanti alla vetrata del balcone guardando i tetti e riflettendo su cosa fosse davvero importante per lui nella vita. L'appartamento sicuramente no. Poteva cambiarlo in ogni momento e a Firenze ce n'erano di molto meglio. Gli piaceva la vista sulla città, ma il suo domicilio non era uno status symbol. Finora aveva sempre evitato di invitare le persone da cui si aspettava qualcosa. Soltanto qualche donna conosceva il suo indirizzo. Ma quelle le aveva portate solo in camera da letto e sapeva che non ci sarebbe mai stata una seconda volta. A pochi giorni di distanza dalla sua morte, si era già quasi completamente dimenticato della madre. Si ricordava di lei solo quando entrava in casa sua, oppure dormiva nella sua tanto odiata camera di ragazzo. Neppure lei aveva mai avuto importanza per lui.


Invece la coppia che abitava alla Roccia era qualcosa di particolare. Quella sera sarebbe cominciata la partita e lui era il regista. Era una di quelle avventure per cui valeva la pena vivere. Partì da Firenze verso le sei e mezzo. Si era messo un paio di jeans, una camicia bianca e ampia aperta sul collo e un gilet di pelle nero. Aveva comprato un mazzo di rose per Magda e una grappa costosa per Johannes. Guidava con il finestrino abbassato e il gomito appoggiato alla portiera, mentre ascoltava le note del concerto per violino numero uno di Mozart e il vento caldo della sera gli scompigliava i capelli. Magda aveva pregato Lukas di indossare la giacca di seta color sabbia che le piaceva tanto. «Oh», esclamò quando lui se la infilò, «sei un po' ingrassato! Ti tira leggermente, ma non importa. La puoi tenere lo stesso.» Questa osservazione non fece certo bene alla vanità di Lukas, anche perché Magda invece era davvero bellissima. Portava un paio di calzoni di seta beige dal taglio ampio e una canottiera aderente dello stesso colore ma leggermente luccicante. Lukas non le aveva mai visto indosso quei capi. Stava per farle un complimento, quando udirono entrambi la macchina di Trepo che risaliva la strada e Magda uscì per riceverlo. Trepo si fermò, scese dall'auto con un gesto elegante tenendo in mano il mazzo di rose, ed esclamò: «Signora Tillmann, lei mi sorprende sempre! Dal nostro ultimo incontro è diventata persino più bella». Magda arrossì, lusingata. Lui la salutò con due fugaci baci sulle guance e poi le offrì le rose con un inchino appena accennato. «Grazie dell'invito. » «Ci fa molto piacere che sia venuto», rispose Magda con un sorriso affascinante. Solo in quel momento Trepo parve accorgersi di Lukas. Gli porse la mano e disse: «Buonasera, signor Tillmann». Lukas mormorò da parte sua un semplice «buonasera» e accettò di buon grado la bottiglia di grappa. Entrarono in casa. Magda gli fece fare il giro delle stanze. Trepo sembrava sinceramente interessato, notava ogni particolare e non lesinava complimenti. Di ogni cosa diceva: «bello», «bellissimo», «bravissimi», «complimenti», «fantastico», «meraviglioso»... Magda si sentiva quasi in imbarazzo di fronte a tanta euforia.


Alla fine si accomodarono in terrazza. Magda aveva superato se stessa nella preparazione della cena, e Lukas dovette ammettere dentro di sé che era veramente spassoso vedere come Trepo gustasse ogni boccone. Siccome Trepo non si preoccupava di coinvolgere Lukas nella conversazione parlando in inglese, Lukas rimase in silenzio. Si occupava delle bevande e continuava a riempire il bicchiere dell'ospite, nella speranza che così gli venisse sonno e decidesse di tornare a casa presto. Ma sembrava che il vino non avesse alcun effetto su di lui. A ogni bicchiere diventava più loquace, spiritoso, allegro. Lukas aveva la netta sensazione che Magda e Trepo non si limitassero a chiacchierare: gli sembrava proprio che stessero flirtando. Invidiava Magda, che era in grado di sentirsi a proprio agio anche usando una lingua straniera. «Diamoci del tu», disse Magda dopo aver servito il bis di pasta. «Ti va?» «Fantastico», rispose Trepo alzando il bicchiere verso di lei. «Io mi chiamo Stefano.» «Magda.» Trepo si alzò e la baciò sulla guancia. Poi si rivolse a Lukas. «Scusa, ma ho dimenticato come ti chiami.» «Johannes», bisbigliò Lukas assalito dalla nausea. «Salute, Johannes !» Trepo fece un brindisi con lui e tornò a sedersi. «Sono proprio molto contento di aver incontrato da queste parti persone così simpatiche, interessanti e intelligenti come voi.» Magda si sentì nuovamente lusingata. «Per noi è lo stesso, Stefano», confermò. «Spesso ci siamo ripetuti quanto sia difficile in un posto tanto isolato e in paesini così piccoli trovare qualcuno con cui trascorrere una serata davvero piacevole, perché in grado di sostenere discorsi che vanno al di là delle banalità. Ed entrambi pensiamo che tu sia una di queste persone.» «Ti ringrazio, Magda. Questo mi fa davvero molto piacere. » Si scambiarono un sorriso e Lukas si sentì terribilmente superfluo. La cucina di Magda era un sogno rurale, possedeva tantissima atmosfera, ma la sua praticità era ben lungi da quella di una moderna cucina. Era questo il più grande problema di Magda, il fatto di non avere abbastanza superfici d'appoggio e, con un pasto sontuoso come quello, aveva occupato ogni spazio libero. Per questo le risultava impossibile preparare il dessert senza aver prima riordinato almeno in parte. «Vi prego di scusarmi», disse pertanto, «devo occuparmi della cucina e del dolce, ma sono sicura che troverete facilmente un argomento di conversazione.»


«Naturale! Non c'è problema», si affrettò a rassicurarla Trepo. «Oppure preferisci che ti aiuti?» «No, no, figurati. Ce la faccio da sola. Torno subito.» Scomparve dentro casa. Se c'era qualcosa che lei non sopportava, erano gli ospiti che portavano in cucina i piatti oppure prendevano in mano uno strofinaccio con fare determinato. Inoltre riteneva importante che Trepo e Johannes stessero per qualche tempo da soli. Non le era sfuggita la tensione che c'era tra i due e sperava che un dialogo a quattr'occhi potesse stemperarla. Dalla finestra della cucina vide Johannes e Trepo alzarsi e avviarsi a fare un giro intorno alla casa. Fantastico, pensò, sicuramente riusciranno a capirsi una volta avuta la possibilità di chiacchierare tranquillamente. «Hai una moglie davvero bellissima», disse Trepo in inglese, poi fece un sospiro e levò gli occhi rapito verso la luna. «Lo so», rispose Lukas in inglese. «Me ne rendo conto ogni giorno.» «E davvero una persona straordinaria: bella, sicura di sé, intelligente e affascinante. Una donna così non la si incontra tutti i giorni. Né in Germania né qui.» «Lo so», ripetè Lukas. Non aveva la minima voglia di stare ad ascoltare i complimenti sdolcinati che Trepo rivolgeva a Magda. Il fatto che la guardasse adorante mentre erano a tavola era più che sufficiente. «Credo che per una donna simile un uomo sarebbe disposto a fare tutto. Davvero tutto. Capisci cosa intendo?» «Sì», rispose Lukas provando un fastidioso prurito per il disagio che sentiva. Per un po' continuarono a camminare in silenzio. Poi Trepo disse senza preamboli: «Ti sono piaciute le foto?» Lukas sussultò. Per guadagnare il tempo di riflettere su questa agghiacciante domanda, reagì in maniera non proprio originale. «Quali foto?» «Hai capito benissimo. Ti ho visto quando hai aperto la prima busta. È stato molto illuminante. Quindi smettiamola con le finzioni.» Lukas cercò di concentrarsi sulle sensazioni che in quel momento gli attraversavano il corpo. Provò un senso di caldo soffocante, e si meravigliò di riuscire a stare ancora in piedi. «Non dici niente?» chiese Trepo. «Che cosa dovrei dire?» «Chi è il morto?»


Lukas tacque. «Chi sei tu?» Lukas non reagì. «Benissimo, allora.» Trepo si appoggiò a un muretto mezzo crollato alla luce dell'ultimo lampione e si mise a giocare con un bastoncino che faceva rotolare avanti e indietro. «Stammi bene a sentire, Johannes, o come diavolo ti chiami. Il morto di cui parlo è il nostro segreto. Ne siamo al corrente solo io e te. Giusto?» Lukas si sforzò di non fare il minimo movimento che potesse essere considerato una risposta affermativa. «Presumo che non ti interessi troppo che io vada dai carabinieri a informarli dove possono trovare un cadavere che con molta probabilità è il marito di Magda. Giusto?» Lukas rimase immobile. «Vedo che mi capisci.» Trepo sogghignò. «Farai meglio ad ascoltare bene e a non dimenticare niente di quello che ti dirò. Di sicuro avresti grossi problemi se la faccenda uscisse alla luce del sole.» La vampata di calore era passata. Ora Lukas rabbrividì. «Sai, ultimamente ho avuto qualche problema e ho perso il lavoro. Mi trovo momentaneamente in difficoltà. Ma il cielo mi ha mandato dei nuovi amici. Te e Magda. Forse i migliori amici che io abbia mai avuto. In ogni caso siamo tutti nella stessa barca ed è importante che non affondi. Per questo vorrei pregarti di darmi una mano con venticinquemila euro.» Lukas si sentiva girare il mondo intorno. «Dov'è il cadavere?» Trepo rise sguaiatamente. «Ma per favore! Che domanda sciocca! Tu lo sai meglio di chiunque altro!» Riprese a camminare, come se considerasse chiuso l'argomento, e si diresse a grandi passi verso la casa. Dopo qualche metro si voltò, con aria stupita. «Allora? Che cosa c'è? Vieni, su! La nostra chiacchierata amichevole mi ha messo sete, ho assolutamente bisogno di un bicchiere di vino.» Poi si bloccò, come se gli fosse venuta in mente all'improvviso una cosa. «Ah, già, non ci siamo messi d'accordo: passerò di qui mercoledì. Magda mi ha detto di voler costruire una piscina. Magari porterò con me un architetto. Dopotutto tra amici è normale darsi una mano, giusto?» «Come posso essere sicuro che non te ne verrai fuori con nuove richieste ogni settimana?» obiettò Lukas. Trepo sembrava divertito. «Di che cosa si può essere sicuri a questo mondo?» domandò ridendo. Con un elegante movimento di fianchi si voltò e si diresse raggiante verso Magda che stava uscendo in quel momento tenendo in mano una grande scodella di tiramisù.


«Che cosa succede?» chiese Magda, irritata dall'espressione impietrita di Lukas. «Avete litigato?» «Al contrario», rispose Trepo allegramente, «abbiamo fatto proprio una bella chiacchierata. Hai un marito eccezionale, Magda!» «Lo so», confermò lei lanciando un'occhiata affettuosa a Lukas. Trepo andò via all'una e un quarto. Aveva bevuto due bottiglie di vino ed era di ottimo umore. Salutò Lukas e Magda con un abbraccio, li ringraziò per la «meravigliosa serata» e per l'«ottima cena», salì in auto e partì. Lukas e Magda riordinarono insieme la cucina. «E stata proprio una bella serata», osservò Magda mentre lucidava i bicchieri. «Finora non mi era mai capitato di trovarmi così bene con nessun italiano come con questo Stefano. Mi farebbe molto piacere continuare a frequentarlo.» «Io non lo sopporto», mormorò Lukas. «Mi è stato antipatico dal primo istante e anche stasera l'impressione non è cambiata.» «Si può sapere perché? Pensavo che foste stati bene insieme quando siete rimasti soli.» «Niente affatto. Ci siamo annoiati a morte.» Magda ripose i bicchieri nella credenza, Lukas asciugò i tegami e le padelle. «Sicuramente dipende dal fatto che non parli italiano. Che ne diresti di provare a frequentare un corso?» «Chissà, vedremo. Ci penserò», brontolò Lukas. Quella notte non fu la passione a trascinare Lukas tra le braccia di Magda, bensì nuovamente l'insopportabile paura di perderla. *** Capitolo 54. Il lunedì mattina Lukas andò a Montevarchi e aprì un conto presso la Banca Toscana. A Magda non disse niente. Poi accese il computer. Magda pensò che volesse navigare su Internet e scrivere delle e-mail e lo


lasciò in pace. Lukas impiegò due ore per trovare i dati che gli occorrevano. Siccome Magda detestava l'on line banking, perché lo riteneva poco sicuro, si era accordata con la sua banca per usare un altro metodo quando aveva bisogno di trasferire denaro mentre si trovava in Italia: scriveva l'importo, firmava, passava la lettera allo scanner e la mandava per e-mail alla banca, che provvedeva a fare il bonifico. Lukas trovò due ordini di bonifico. Uno risaliva a due settimane prima, l'altro era del dicembre precedente. Li stampò entrambi. Poi ritagliò la firma di Magda. Quindi, usando la stessa impostazione, grandezza di pagina e carattere, scrisse un nuovo ordine per un trasferimento urgente di dodicimila e cinquecento euro sul suo conto presso la Banca Toscana. Stampò il modulo e ci incollò la firma di Magda. Non sapeva se dalla copia scannerizzata poteva vedersi che la firma era falsa. Per sicurezza stampò la copia e si sentì quasi euforico quando si accorse che la firma in calce sembrava in tutto e per tutto autentica. Aggiungendo qualche parola di cortesia, spedì quindi la richiesta per e-mail a Herr Waise presso la banca di Magda, sforzandosi di usare uno stile il più possibile identico a quello di Magda. Per farlo aveva letto le e-mail che Magda aveva inviato in precedenza alla banca. Ora non gli restava che aspettare e inventarsi una storia per spiegare a Magda come mai avesse prelevato venticinquemila euro dal conto. Poteva stare tranquillo per un po' di tempo ancora, perché sicuramente sarebbe passata almeno una settimana prima che la contabile del bonifico arrivasse in Italia. In ogni caso agli occhi di lei lui era suo marito, avevano un conto insieme e non doveva giustificarsi per come usava il denaro. Sollevato per essere riuscito a compiere il primo passo, si appoggiò allo schienale della sedia e sbadigliò. In quel momento gli venne in mente che da tempo si riproponeva di scaricare la melodia del Padrino come suoneria del cellulare. Cercò il pezzo su Internet e, mentre lo scaricava, aprì il cassetto della scrivania. Gli occhi gli caddero su una busta con un indirizzo che lo paralizzò. Thorben Tillmann, c'era scritto. Kolleg St. Blasien, Fürstabt-Gerbert-Str, 14, 79837 St. Blasien. Lukas strappò la busta, aprì la lettera e cominciò a leggere. Carissimo Thorben, l'altro ieri io e papà abbiamo fatto una magnifica gita all'abbazia di Monte Oliveto Maggiore. E stata una giornata davvero stupenda. Tutte le volte che entro in un convento penso a te, perché le tue giornate in collegio forse assomigliano almeno un pochino alla vita monastica. Ho comprato una ghirlanda di rose perché so che le collezioni in segreto. Vuoi nasconderla, se ti vergogni di farla vedere agli altri, oppure incolpare la tua mamma che ha davvero dei gusti strambi.


Qualche giorno fa ho incontrato Giovanni ad Ambra. E in ferie e m'ha chiesto quando arrivi. Gli ho detto che probabilmente sarai qui la prossima settimana. E rimasto molto contento. E anche noi lo siamo, Thorben! E giĂ cosĂŹ difficile vedersi solo per le vacanze. Perlomeno possiamo stare insieme qualche giorno. Ti prego di scrivermi l'ora esatta del tuo arrivo ad Arezzo, in modo che possiamo venire a prenderti. Abbi cura di te. Ti bacio e ti abbraccio,


La tua mamma Anche papà ti saluta con affetto!il Lukas era in un bagno di sudore. Rilesse la lettera ancora una volta, la ripiegò e se la infilò nella tasca dei pantaloni. Si guardò intorno nello studio. Su uno scaffale c'era una foto incorniciata. Ritraeva Thorben, all'età di circa dieci anni, mentre pescava con Johannes. Entrambi tenevano la canna e guardavano verso l'acqua, ma l'immagine rifletteva il profondo legame esistente tra padre e figlio. Lukas si avvicinò alla foto e la prese in mano. Allora si accorse della scatola azzurra infilata dietro di essa che a prima vista non si vedeva. L'aprì. Conteneva diverse lettere. Tutte indirizzate a Thorben, ma mai spedite. Thorben era un ragazzo davvero dolce. Un bambino delicato dai grandi occhi scuri che sembrava la copia di Magda. Gracile e sempre troppo magrolino e troppo basso per la sua età. «La cosa non mi disturba», ripeteva spesso Johannes. «Se c'è una cosa che proprio non sopporto, sono i bambini grassi.» A Thorben però la cosa spiaceva. Era sempre l'ultimo a essere scelto quando si giocava a palla prigioniera e il primo a essere colpito durante il gioco. Max, al contrario, era il più alto della classe, una vera montagna, e pesava venti chili più di Thorben. Stava sul campo da gioco saldo come una roccia e prendeva al volo il pallone ogni volta che gli veniva lanciato per colpirlo. Non correva molto veloce, però sapeva prendere. Le sue braccia muscolose si stringevano fulminee intorno alla palla come una pianta carnivora che addentasse una mosca. E i suoi lanci erano così violenti che tutti ne avevano paura. Max era sempre il primo a essere scelto per la squadra. Thorben era deciso a fare tutto il possibile per averlo come amico, e si offriva di scrivergli i temi e di fargli i compiti di inglese. Max era entusiasta. Era in perenne conflitto con la lingua tedesca. Inoltre scriveva come sentiva parlare sua madre. «La signora Müller c'è stato suo figlio a trovarla in ospedale ieri», diceva lei; oppure: «Hai mica visto come ci sta male quel cappello all'Erica?» Max lasciò che Thorben si sedesse accanto a lui, e Thorben gli permetteva di copiare. Così con il passare del tempo diventò indispensabile a Max che grazie al suo forte amico smise di sentirsi un insetto che chiunque poteva schiacciare. Alla fine delle scuole medie, Max era diventato uno studente discreto e insieme a Thorben entrò al ginnasio. Passati pochi mesi, tuttavia, il comportamento di Max cominciò a cambiare. S'incontrava con Thorben solo lo stretto necessario per ottenere aiuto nei compiti. Per il resto passava il tempo con una banda di giovani delinquenti che scippavano, fumavano spinelli e si ubriacavano. Quando Max lasciò la scuola, Thorben si chiuse in se stesso. Trascorreva i pomeriggi e le serate in


camera, davanti al computer, oppure suonando la chitarra. La musica diventò per lui più importante della vita reale. I suoi risultati scolastici peggiorarono drasticamente, ascoltava la musica con le cuffie fino a tarda notte, in classe era sempre stanco e si addormentava sul banco. «Non so che cosa gli stia succedendo», diceva Magda a Johannes, «so solo che non può continuare così. Non ho idea di che cosa faccia al computer, quando entro lui chiude subito la pagina che stava guardando, oppure spegne. Non fa più i compiti, si limita ad ascoltare musica o a strimpellare la chitarra. Non esce più di casa, gli amici non vengono più a trovarlo e, se continua così, non riuscirà a superare l'anno.» Johannes non era così pessimista. «E nel pieno dell'adolescenza», diceva. «E normale che abbia degli atteggiamenti del genere. Preferisco che ascolti la musica e passi qualche pomeriggio davanti al computer, piuttosto che si droghi o frequenti gruppi criminali.» «Qualche pomeriggio?» sbuffò Magda sarcastica. «Questa storia va avanti da quasi un anno.» «Che cosa vorresti fare? Togliergli il computer? Sfasciargli la chitarra? Buttargli via l'iPod? Lascialo perdere, Magda, lascialo in pace.» «Forse è il caso di mandarlo in collegio», disse Magda piano, guardando trepidante verso il marito. «Lì ci sono orari prestabiliti per il lavoro, lo sport e il gioco, lo svolgimento dei compiti viene sorvegliato, sarebbe sempre insieme ad altri ragazzi e non potrebbe stare su Internet per ore, né chiudersi nel suo mondo con un cd.» «Il collegio equivale ad arrendersi, Magda», disse Johannes. «Significa fuggire dalle difficoltà e abbandonare i figli. Ma io non voglio farlo. Voglio vederlo, quando torno a casa, tanto se ne andrà già abbastanza presto.» «Quand'è stata l'ultima volta che hai parlato con lui? Non me lo ricordo. Durante le cene con noi, non apre mai bocca.» «Quest'estate andremo in Italia. Avremo tutto il tempo di parlare.» Con questo Johannes considerò conclusa la discussione e uscì dalla cucina. Magda era risentita. Aveva la sensazione che Johannes sottovalutasse il problema e non avesse capito che Thorben stava sfuggendo completamente al loro controllo. Un mattino Thorben entrò in cucina mentre Magda stava spremendo delle arance. «Avrei una richiesta», disse. Magda sollevò le sopracciglia sorpresa. «Mio figlio parla ! Che novità! Pensavo che avessi perso la lingua.»


Thorben scrollò le spalle. Non era il momento giusto. La madre era di pessimo umore, ci avrebbe riprovato un'altra volta. «Quale richiesta?» domandò Magda. «Non importa. Niente di che.» «Avanti, parla! Di che cosa si tratta? Magari posso accontentarti. » Controvoglia, alla fine Thorben parlò: «Vorrei un pianoforte ». «Che cosa?» Magda lo guardò perplessa. «Un pianoforte. Anche usato. Non importa. Ti prego, mamma.» «Thorben, ascoltami bene. Mi fa molto piacere che tu suoni la chitarra. Mi farebbe molto piacere anche se suonassi il pianoforte. Non ho niente in contrario se ascolti la musica. Ma non solo quella! Non venti ore al giorno! Finché i tuoi voti a scuola restano così bassi, non posso accontentarti. Mi capisci, vero?» «No. Non ti capisco.» Gli occhi di Thorben lampeggiarono rabbiosi, e a Magda parve di cogliere una scintilla di odio. Ma non voleva cedere. «Se vuoi te lo dico con parole più semplici: porta a casa buoni voti, e avrai il tuo pianoforte.» «Questo si chiama ricatto.» «No, è una richiesta ragionevole. Perché, se vai avanti così, non sarai ammesso alla maturità, e ti precluderai ogni possibilità per il futuro.» «Non me ne frega niente del diploma.» «Visto? Quindi niente pianoforte!» Thorben non aggiunse altro. Uscì dalla cucina sbattendo la porta e da quel momento non rivolse più la parola ai genitori. Quattro settimane più tardi la ditta di traslochi Tillmann suonò alla porta del principale. «Buongiorno, Frau Tillmann», disse uno dei collaboratori di Johannes al citofono, «dobbiamo portare su un pianoforte. Va bene?»


No che non andava bene. Magda era molto in collera con Johannes, ma si limitò a rispondere neutra: «Ma certo, entrate. Terzo piano». «Si può sapere che cosa ti è saltato in mente?» domandò quella sera al marito. «Io ero contraria e adesso invece ha un pianoforte.» «Io sono favorevole.» «Io volevo concederglielo solo se i suoi voti fossero migliorati. » «Io no.» «Johannes, che cosa significa? Perché mi metti i bastoni tra le ruote?» Johannes si avvicinò a lei e la cinse con un braccio. «Non ricordi più come ti sentivi a quattordici, quindici anni? A quell'età si pensa soltanto alla fuga. E se Thorben si rifugia nella musica è l'alternativa migliore. Anche se la scuola per un po' dovesse soffrirne.» Magda aveva voglia di piangere, ma non disse niente. Era già abbastanza duro accettare che Thorben l'avesse esclusa e non volesse avere più niente a che fare con lei. Non voleva mettersi a litigare anche con Johannes. Qualche tempo dopo rimase letteralmente stupita dalle melodie che Thorben era già in grado di suonare al pianoforte, ma tutte le volte che sentiva le note dello strumento uscire dalla camera del figlio provava una stretta al cuore. Thorben conosceva Arabella esattamente da ventinove giorni e tredici ore. L'aveva colpito in una chatroom su Internet perché si era firmata «anima». «Perché 'anima'?» aveva chiesto Thorben. «Non lo so. Mi è venuto in mente così.» «Sei una ragazza?» «Sì. E tu?» «Io no.» Lei gli inviò uno Smiley per indicargli di aver trovato divertente quella risposta. «Quanti anni hai?» domandò Thorben.


«Quattordici. E tu?» Una quattordicenne che si faceva chiamare «anima» era qualcosa di stupefacente. «Io ne ho sedici.» Il mouse balzò sullo schermo perché gli tremava la mano. «Dove vivi?» «A Berlino.» «Anch'io.» Il cuore cominciò a battergli più forte. «Perché ti fai chiamare 'aquila'?» «Le aquile sono fantastiche. Vivono tra le montagne, si librano in alto e possono vedere tutto il mondo.» «Come fa un'anima?» «Forse. Cioè, sì, certo.» «Avete finito?» si intromise uno sconosciuto che rispondeva al nome di Kick47. «Vieni», scrisse anima, «andiamo in una chat privata. Così staremo da soli.» Da allora chattavano per ore ogni giorno. Thorben venne a sapere che lei frequentava il ginnasio a Wilmersdorf, abitava a Charlottenburg, amava le canzoni d'amore, le ballate, i film storici e i romanzi sentimentali, aveva i capelli lunghi castani e due fossette quando rideva. Si chiamava Arabella Weinert, non aveva fratelli né un ragazzo. Il padre era fotografo freelance, sua madre lavorava mezza giornata in un'agenzia di viaggi. Si scrivevano ogni cosa. Dei loro sogni, delle loro emozioni, delle loro paure. Quando non chattavano si scrivevano e-mail. A volte dieci al giorno. Arabella gli mandò la sua foto, e Thorben ebbe l'impressione che la ragazza più bella del mondo parlasse solo con lui. E lui la rendeva partecipe dei propri pensieri. Senti - volevo dirti


niente di che veramente


che scemenza dirlo ancora senti - sai che mi piaci-solo così in questo momento - fantastico altro non c'è però doveva venir fuori perché, come dire - è tanto speriamo duri - tra di noi allora è tutto okay La cosa più importante però è che tu ci sia senti... La sua prima poesia d'amore. Si sentiva come svuotato e tamburellava sulla scrivania in attesa di una risposta. Magda entrò in camera. «Che cosa succede? Non stai bene?» «No!» esclamò Thorben. «Non c'è niente! Proprio niente! Vattene! Lasciami in pace!» Magda rimase immobile sulla soglia, esterrefatta. Lo sguardo frenetico di Thorben e il suo nervosismo la impaurivano. «Posso aiutarti?» mormorò. «Vattene!» gridò Thorben. «Vattene, una buona volta!» Era sul punto di scoppiare a piangere, e disegnava cerchi furiosi con il mouse sul tappetino. Magda se ne andò e richiuse piano la porta. C'era qualcosa di strano. Lui non aveva amici, non aveva la ragazza, non andava al cinema, né in discoteca, e non faceva sport. Se ne stava seduto in camera sua davanti al computer, al pianoforte oppure in un angolo con la chitarra e pian piano stava perdendo la ragione. «Sei un poeta !» scrisse Arabella. «La tua poesia è la cosa più bella che io abbia mai letto.» E sotto aggiunse il suo numero di telefono.


Dapprincipio Thorben aveva paura a telefonare. Temeva di impappinarsi, di non trovare le parole giuste, di balbettare, e, cosa peggiore, di rimanere in un imbarazzante silenzio. Ma non accadde niente di tutto ciò. La voce di lei fu come musica alle sue orecchie e assorbì ogni parola che diceva. Pochi giorni più tardi si incontrarono per la prima volta. Thorben disse alla madre che andava al cinema con un amico. Magda lo guardò raggiante. «È stupendo. Che cosa andate a vedere?» «Non lo sappiamo ancora. Ci vediamo davanti al multi sala, poi decideremo.» «A che ora torni?» «Alle otto. Anzi, alle nove.» «Ok. Se dovessi fare più tardi, telefona, per favore.» «D'accordo, lo farò.» Con un sorriso uscì dall'appartamento. Per la prima volta Magda ebbe la sensazione che le cose stessero andando di nuovo per il verso giusto. *** Capitolo 55. Lukas sentì i suoi passi su per la scala. Spaventato, richiuse la scatola con le lettere, la rimise svelto sul ripiano, ci mise davanti la foto e si era appena voltato quando Magda entrò nella stanza. «Che ci fai lì?» domandò lei irritata di trovarlo in piedi in mezzo alla stanza con aria stupita e indifesa. «Niente. Stavo pensando.» «A che cosa?» «Ma, sai, volevo parlartene, forse dovremmo acquistare delle azioni. Sono andato su Internet, le Dax al momento sarebbero vantaggiose...»


Magda lo interruppe. «Per favore, lascia perdere queste cose in vacanza, ok? Ne riparleremo quando torniamo a Berlino.» «Se aspettiamo, potrebbe essere troppo tardi.» Magda fece un gesto con la mano a indicare che per lei era indifferente. «Per caso hai visto le mie scarpe da ginnastica? Le cerco da stamattina. Pensavo di essermele tolte nella camera degli ospiti, ma lì non ci sono.» «Mi spiace, ma non lo so. Hai guardato nel magazzino, dove stanno gli stivali di gomma?» Magda sorrise. «Buona idea», disse e uscì dallo studio. Lukas si mise a sedere sulla poltrona davanti alla finestra. Che cosa stava succedendo a Magda? Aveva rimosso la morte di Thorben. Forse stava facendo lo stesso anche con quella di Johannes? Lei era persino più bella che in fotografia, e Thorben non riusciva a capacitarsi di averla davanti in carne e ossa. Camminarono per la città tenendosi per mano. Dietro una piccola lavanderia che aveva la vetrina decorata con il disegno di un paesaggio, c'era una nicchia dove si trovava un ficus benjamin quasi secco. Thorben abbracciò Arabella. Lei si abbandonò subito un po' goffa e impacciata contro il suo petto. Lui la tenne così per diversi minuti, con il cuore che gli batteva, la testa che gli rimbombava, le orecchie che ronzavano, come se si trovasse su una spiaggia durante una burrasca. Poi la baciò. Le labbra di lei erano calde e morbide e sapevano di budino alla vaniglia. All'Europacenter si comperarono un gelato e si sedettero accanto a una delle fontane. «Domani andremo al lago», disse lei. «La città non è fatta per le aquile.» Thorben pregò sua madre di fargli prendere lezioni di chitarra. Due volte alla settimana. «Lezioni di chitarra? Ma se sai già suonare così bene! Perché non prendi lezioni di pianoforte?» «Al pianoforte compongo canzoni. E funziona bene. Ma le melodie che invento sono troppo complicate e non riesco a riportarle sulla chitarra» «Come vuoi. Prendi pure lezioni. Ma ce la fai con lo studio? » «Senza problemi.»


Magda sapeva che era una bugia. La scuola le aveva mandato una lettera in cui le veniva consigliato di ritirare Thorben. Di sicuro sarebbe stato bocciato, perché non dimostrava il minimo interesse per lo studio. Non ne aveva ancora parlato con Johannes, voleva farlo con calma durante il fine settimana, e adesso Thorben se ne usciva con questa richiesta. Sebbene lei lo trovasse sbagliato, aveva acconsentito, non voleva essere di nuovo l'unica che gli diceva di no. Thorben però non andava a lezione di chitarra. Prendeva lo strumento e i soldi che Magda gli dava e si incontrava con Arabella. Per due settimane non cadde neppure una goccia di pioggia, quel giugno fu insolitamente caldo. I berlinesi consumarono una quantità record di gelato e le piscine erano sempre stracolme. I due ragazzi avevano trovato una piccola insenatura tutta per loro al lago di Sacrow. Erano pochi metri quadrati di sabbia, nascosti tra salici piangenti e folti cespugli. Andavano a rifugiarsi lì tutti i giorni, si sdraiavano vicini e guardavano le nuvole in cielo. Tenendo la testa sul petto di Thorben, Arabella sentiva il battito del suo cuore e l'eco confortante della sua voce quando lui cantava accompagnandosi alla chitarra. Proprio come lui, anche lei sognava di vivere in un altro mondo, e proprio come lui sentiva di essere diversa. Erano due persone speciali, che non erano adatte a questa vita. Lui le cantava la sua canzone preferita di Yvonne Catterfield: «... per te sposto le nuvole, così riesci a vedere il cielo punteggiato di stelle. Per te faccio girare la terra, fino ad averti nuovamente vicino a me. Per te rendo ogni giorno infinito. Per te rischiaro più della luce. Per te piango, grido, rido, vivo. Tutto solamente per te!» «Per me è lo stesso», disse lei piano. «Provo le stesse cose da quando ti conosco.» Thorben cantava mentre il sole tramontava a poco a poco.


Sapeva che era già troppo tardi. Lui poteva stare fuori fino alle nove, e ormai non sarebbe più riuscito a tornare a casa entro quell'ora. Ma continuò a cantare, e Arabella lo accompagnava sottovoce. «E quando sento la tua mancanza conservo le lacrime per te, tu le trasformerai in una risata. Ti sento anche senza parole, percepisco, dove sei, anche quando fa buio. Per te sposto le nuvole, così riesci a vedere il cielo punteggiato di stelle. Per te piango, grido, rido, vivo. Solamente per te.» Arabella si alzò di colpo e si scostò i capelli dalla fronte. «Non voglio tornare a casa», mormorò. «E così bello qui. Voglio restare qui anche al buio.» Thorben suonò un paio di accordi e la musica sembrò scivolare sull'acqua. «Ok», disse. «Restiamo qui.» Non gli importava più niente dei suoi genitori, la sua casa, la città, la scuola, il mondo intero con le sue regole e le sue false promesse. Esistevano soltanto Arabella e quel fazzoletto di sabbia in riva al lago. Per questo non telefonò a casa, ma chiuse gli occhi mentre lei si chinava su di lui e lo baciava. E quando si spogliarono gli parve di spostare le nuvole per lei e fu la sensazione più esaltante che avesse mai provato in vita sua. Johannes tornò a casa alle nove e mezzo. «Che cosa c'è di buono per cena?» domandò dalla soglia. «Non ho mangiato niente per tutto il giorno e ho una fame tremenda !» «Thorben non è tornato a casa», annunciò Magda in tono tetro. «Come? Non è tornato a casa?» «Santo cielo, è così difficile da capire? Doveva essere di ritorno entro le nove, e sono già le nove e mezzo!» Lei aveva la voce stridula.


«Calmati! Mezz'ora di ritardo non è poi così terribile. Prima mangiamo, poi decideremo il da farsi.» Questo è tutto quello che gli interessa, pensò Magda furibonda. Mangiare. Del figlio non gli importa niente. Spalancò lo sportello del frigo e gli sbatté sul tavolo salame, formaggio, burro e un avanzo di insalata. «Buon appetito!» Johannes prese il pane dal cestino, si mise a sedere e se ne tagliò una fetta. «Non pensi di esserti un po' lasciata trascinare dall'isteria? » Magda non rispose, ma aveva gli occhi pieni di lacrime. «Non è mai successo che tardasse a rincasare», bisbigliò. «Con chi è uscito?» «Con nessuno. E andato a lezione di chitarra.» «Dove?» Magda gli lesse l'indirizzo che le aveva dato Thorben e che lei si era annotato. «Hai anche il numero di telefono?» Magda annuì. «Allora chiama. Fino a che ora aveva lezione?» «Fino alle sette. Poi è sempre andato a fare un giretto e alle nove tornava a casa puntuale». «Telefona.» Magda andò in salotto e compose il numero. Quando tornò in cucina dopo qualche minuto, non sapeva se esplodere di rabbia o gemere di disperazione. «A questo numero e a questo indirizzo non esiste nessun insegnante di chitarra.» Johannes tacque. Magda si accorse che cominciava a essere preoccupato anche lui.


«Ma dove si è cacciato quel disgraziato?» mormorò, battendosi il pugno destro sulla mano sinistra. «C'è una cosa che deve capire. Io posso giustificare qualunque colpo di testa, ma non sopporto di essere preso in giro.» Era la prima volta per entrambi. Thorben si era immaginato un sacco di cose, ma mai una sensazione così intensa e unica. Era diventato adulto. Cominciava a vivere. E la consapevolezza di poterla ripetere tutte le volte che voleva gli dava alla testa. Sapere che questo desiderio avrebbe fatto parte della sua vita. Non aveva più sogni. Alla fine si addormentò tra le braccia di Arabella. Infinitamente felice. Alle tre si ritrovò davanti alla porta di casa. Si rendeva conto che quella era la realtà: la madre in lacrime e il padre pallido come un cadavere, entrambi logorati e sfiniti, a pretendere spiegazioni da lui. «Dove sei stato?» - «Che cosa hai fatto?» - «Con chi sei stato?» - «Perché ci hai mentito?» - «Perché non hai avvisato?» - «Sai quanto ci siamo preoccupati?» - «Abbiamo chiamato la polizia!» «Come hai potuto farci una cosa del genere?» - «Parla!» Ma Thorben non parlò. Andò in camera sua senza aprire bocca, si sdraiò sul letto e sognò un'aquila che si librava sopra la testa di Arabella. Sempre lì dov'era lei. Lei non gli telefonò, ma gli inviò una e-mail. Carissimo Thorben, gli scriveva, ho parlato di te. Ho dovuto farlo, perché era davvero troppo tardi quando sono tornata a casa. Mia madre era fuori di sé e voleva rinchiudermi in collegio. Ho parlato di te ed è stato un errore, perché non posso più rivederti. Almeno non nelle prossime settimane. Finché non ti avrò dimenticato, o i miei genitori penseranno che ti abbia dimenticato. Ma non ti dimenticherò. Mai!Il Ti scrivo questa email di nascosto, e la cancellerò subito, perché la mamma conosce la password del mio computer. Ma ti prego! Rispondimi! Aspetto! La tua anima che ti ama sopra ogni cosa. Thorben le rispose subito. Anima mia, non ho detto niente di te, ma anche per me è la stessa cosa. Non posso più uscire, perché i miei genitori non sopportano di non sapere dove sono stato. Ma non glielo rivelerò mai! Muoio di nostalgia per te! La tua aquila. Continuarono a chattare. «Non ce la faccio più senza di te! Come potremmo riuscire a incontrarci?» «Puoi uscire di nascosto?» «Sì, ma solo di notte. Quando dormono.» «Benissimo. Allora ci incontriamo domani alle due alla Siegessäule. Ok?»


«Sì. Posso arrivarci a piedi.» «Non vedo l'ora.» «Anch'io.» «Ti amo.» «Io di più.» Thorben non immaginava che fosse così difficile uscire di casa di notte. Non si era mai reso conto che il parquet scricchiolava, la porta del corridoio cigolava e che bisognava essere un mago per afferrare il mazzo di chiavi senza fare rumore e girarlo più volte nella serratura per aprire la porta. Si fermava spesso, col cuore in gola, e restava immobile per sentire se i suoi genitori si erano svegliati e stavano uscendo dalla camera da letto. Ma non accadde nulla. All'una e un quarto lasciò l'appartamento e attraversò di corsa la città, pronto a nascondersi in un portone nel caso avesse incontrato una pattuglia della polizia. E poi si strinsero in un abbraccio disperato. «Non posso vivere senza di te.» «Nemmeno io.» «Ma loro non ce lo permetteranno.» «Non potranno mai separarci.» «Mai.» Tenendosi per mano corsero in mezzo alla strada, ridendo felici, senza badare alle macchine che li schivavano all'ultimo istante, poi si rifugiarono nell'oscurità del giardino zoologico. La notte era fresca e Arabella non aveva il maglione. Thorben le massaggiò le braccia nude. «Che cosa facciamo?» chiese Arabella. «Mia madre mi controlla. E un inferno. Secondo lei sono troppo giovane per avere il ragazzo.» Thorben le diede la sua giacca. Poi si misero a sedere stringendosi l'uno all'altra. «Che mondo schifoso», disse Arabella. «Non torneremo più a casa.» «Dove andremo?»


«Non lo so. Ma io non ne posso più. Voglio stare soltanto con te. Nient'altro.» «Io so dove potremmo stare insieme per sempre.» Thorben aveva un groppo in gola. Sentiva che sarebbe stato travolto da una valanga, se avesse detto ciò che pensava. Ma lo fece lo stesso. «Fuggiamo da qui. Tu come anima, io come aquila. Lontano da questa vita. Dopo la morte saremo sempre insieme, fino all'eternità, nessuno potrà più separarci. Non ci saranno più genitori, né scuola, né divieti. Niente di niente.» «Dove?» «In cielo.» «Ne sei sicuro?» «Sicurissimo, fidati di me.» «Non posso fare una cosa del genere ai miei genitori.» Arabella si nascose il volto tra le mani. «Ma loro vogliono separarci. Non vogliono che stiamo insieme.» «E vero. Hai ragione. Promettimi che non finirà tutto in un istante.» «Te lo prometto.» «Ho paura.» «Non devi. Ci sono io con te.» Arabella tacque e fece un profondo respiro. Singhiozzò quasi. Poi si premette la mano sulla bocca, quasi a volersi impedire di vomitare, si guardò attorno e sorrise. «Ti credo. Facciamolo.» Si baciarono finché cominciò ad albeggiare. Heinrich Sawatzki lavorava da ventitré anni nei trasporti pubblici di Berlino, dal 1990 come manovratore della metropolitana di superficie. Di solito gli veniva assegnata la tratta da Oranienburg a Wannsee. Era il suo percorso preferito. In particolare amava la curva prima di un piccolo boschetto di betulle. Però non vedeva ciò che lo aspettava oltre la curva. E quello che vide fu esattamente l'incubo che aveva paventato per ventitré anni. Erano lì. Una coppia. Giovani, molto giovani. Questo riuscì a vederlo. Si tenevano per mano. Stavano a gambe larghe a cavallo la ragazza della rotaia destra, il ragazzo di quella sinistra. Voltavano le spalle al


treno. Dovevano averlo sentito, ma non si mossero. Non tentarono neppure di fuggire. Heinrich Sawatzki sentì una scarica di adrenalina attraversargli il corpo. Frenò come un pazzo, come se potesse cancellare tutti i calcoli sulla lunghezza dello spazio di frenata e ridurlo a un niente. Era impossibile, lo sapeva perfettamente, eppure provò un tenue barlume di speranza. Ma non ce la fece. Il treno travolse i due giovani e lo schianto risuonò nelle orecchie di Heinrich, un rumore raccapricciante, che non avrebbe mai più dimenticato. Heinrich Sawatzki non sapeva se in quel momento avesse gridato oppure no. Ma un'immagine agghiacciante si era impressa nella sua mente e lui l'avrebbe portata per sempre con sé. Thorben e Arabella morirono sul colpo. A Magda e Johannes non fu concesso di vedere il corpo del figlio, per come era ridotto. Forse fu un errore. Quando Magda fu informata del suicidio del figlio, non volle crederci. Accusò i poliziotti che le diedero la notizia di mentire, li aggredì e li insultò. Poi rovistò in camera di Thorben alla ricerca di un messaggio, una lettera d'addio, un minimo indizio che le permettesse di credere a quel che era successo o si diceva fosse successo. Ma non trovò niente. Neppure il più piccolo appunto. E pure il computer era vuoto, niente e-mail, nessuna notizia, nessuna lettera, nessuno scritto che avrebbe potuto far presagire o spiegare il gesto, dopo. Quando la bara fu calata nella fossa al cimitero, Johannes scoppiò a piangere sulla tomba. Magda invece non versò neppure una lacrima. I suoi occhi asciutti bruciavano come se ci avesse strofinato del pepe e, quando li chiudeva, le sembrava di sentire dentro la testa un rumore come di carta vetrata che sfrega sul legno grezzo. *** Capitolo 56. Il mattino dopo era il momento giusto. Come ogni martedì, andò dal fornaio, alla posta e al mercato, e quindi all'agenzia della banca a Montevarchi. Erano le undici e mezzo. Se il denaro non era arrivato, non ce l'avrebbe fatta più a consegnarlo puntualmente. L'indomani Trepo sarebbe tornato a trovarli. Lukas non sapeva quando, ma immaginava che potesse arrivare di primo mattino. Lukas aveva la bocca asciutta mentre era allo sportello e aspettava. Doveva assolutamente andare a


comprarsi una bottiglia d'acqua nel bar più vicino. Per calmare i nervi, fissava l'orologio digitale appeso al muro. Non aveva mai riflettuto su quanto potesse durare un minuto, quando si fissano i numeri e si aspetta che la cifra scatti. Alle undici e cinquantadue finalmente fu il suo turno allo sportello e chiese un estratto conto. Mentre il foglio di carta usciva rumorosamente dalla stampante antidiluviana, si accorse che non compariva la cifra di dodicimila e cinquecento euro. C'erano soltanto i cinquanta euro che aveva versato per l'apertura del conto. «Per favore», scandì lentamente in inglese, poco convinto che l'impiegato l'avrebbe capito. «Sto aspettando l'accredito di dodicimila e cinquecento euro in due tranche. Due bonifici urgenti. Dovrebbero già essere stati versati sul conto. Potrebbe controllare?» L'impiegato alzò gli occhi al cielo spazientito e consultò il computer. Impiegò quattro minuti. Poi disse in italiano: «Sì, sono arrivati dodicimila e cinquecento euro, ma non sono stati ancora accreditati sul conto». Lukas comprese quanto gli stava dicendo. «Perché solo la metà?» L'impiegato alzò di nuovo gli occhi al cielo. «Non saprei. » «Posso prelevare il denaro?» La risposta fu un'energica scrollata di testa. «Solo quando sarà sul conto.» «Ma a me serve ora ! Subito !» L'impiegato continuò a scrollare il capo, seccato. «Oggi siamo aperti fino all'una e mezzo», disse, «provi a tornare più tardi. Forse i soldi ci saranno. Arrivederci.» Lukas pronunciò un grazie automatico e uscì dalla banca. Proprio di fronte c'era un bar. Ordinò un caffè e una bottiglia d'acqua minerale, si sedette alla vetrina e, con l'aiuto del vocabolario tascabile, si scrisse tutti i vocaboli di cui avrebbe potuto avere bisogno durante la sua seconda visita alla banca per aumentare le probabilità che l'impiegato lo capisse. All'una e un quarto tornò in banca. Dovette superare la doppia porta di sicurezza, una specie di cubicolo terrificante per qualunque claustrofobico, dove attese l'accensione della luce verde per schiacciare il pulsante e azionare il meccanismo di apertura, ma la porta non si spostò. La prima volta che era stato lì, ci era riuscito al quinto tentativo, ma questa volta non ci fu verso di aprirla. Cominciò a innervosirsi. Erano le tredici e ventidue.


Se non fosse riuscito a entrare, lo sportello si sarebbe chiuso proprio davanti al suo naso. Si mise a battere con il palmo della mano contro il vetro di sicurezza gridando a gran voce: «Ehi, lei, non funziona!» L'impiegato allo sportello si accorse di lui e lo guardò con aria interrogativa. Per la miseria, pensò Lukas, apri questa porta! Secondo te perché sto dentro questa campana di vetro, per divertimento? L'impiegato tentò di spiegargli a gesti di schiacciare il pulsante. Lukas era fuori di sé dalla rabbia. Ricominciò a battere contro il vetro imprecando in tedesco. «Non funziona!» esclamò. «Secondo te che cosa ho fatto per tutto questo tempo! E mezz'ora che provo ad aprire, ma questa cazzo di porta non funziona. Evitate di mettere porte così complicate se poi non sapete farle funzionare. Maledizione, mi apra!» L'impiegato evidentemente non capiva quello che Lukas stava sbraitando, però fu tanto gentile da aprire la porta dall'interno. Le tredici e venticinque. Lukas era in un bagno di sudore. L'impiegato gli rivolse un sorriso cordiale, spiegandogli qualcosa a proposito di una nuova legge in Italia che prevedeva l'uso di porte con quel meccanismo per prevenire le rapine. «Sì, sì», sbuffò Lukas, poi aggiunse in inglese: «Non ho niente da dire su queste porte, quando funzionano. Adesso la prego di guardare se i soldi sono stati accreditati sul mio conto.» L'impiegato non disse altro. Pigiò serio e concentrato i tasti del computer poi spinse un foglietto sotto la fessura dello sportello verso Lukas. «Sono arrivati entrambi i bonifici?» «No.» L'impiegato alzò il pollice, come a dire: soltanto uno. Lukas sospirò, scrisse la somma di dodicimila e cinquecento euro sul modulo di prelevamento e firmò. L'impiegato gli contò la cifra in banconote da cinquanta, cento e duecento euro. Lukas aveva sperato di poter dare a Trepo una busta discreta, invece adesso si ritrovava con una mazzetta di banconote spessa quasi come un pacchetto di sigarette. «Grazie», ripetè, poi uscì senza problemi dalla banca. La porta si aprì subito, in silenzio e come per magia. Erano le tredici e trenta passate quando Lukas uscì in strada con un sospiro di sollievo.


*** Capitolo 57. Stefano Trepo si presentò alla Roccia il mattino seguente alle dieci e mezzo. Come aveva calcolato Lukas. Portava pantaloni di cotone chiari, una T-shirt bianca e una costosa cintura di pelle con la fibbia d'argento. Completava il tutto un cappello di paglia chiaro che gli stava proprio bene. Era accompagnato da Marco Monini, architetto di Perugia, un ometto barbuto con occhiali da presbite e la schiena curva, che dopo ogni frase faceva un risolino da gnomo dispettoso. Magda manifestò grande entusiasmo per quella visita, come se avesse ricevuto un regalo inaspettato, mentre Lukas, intento a potare il cespuglio di erica cresciuto davanti al muretto a secco verso la strada, osservava lo spettacolo tenendosi in disparte. Stefano gli rivolse un cenno di saluto con la mano, ma Lukas non rispose. Poi si girò nuovamente verso Magda e Marco Monini. «Spiegagli che cosa vuoi fare e che cosa hai in mente», disse a Magda. «Mio figlio vorrebbe tanto una piscina», cominciò Magda, «perciò abbiamo deciso di farla costruire. Magari sarebbe meglio fare il giro della casa e vedere direttamente il posto dove sarebbe meglio realizzarla. Se dobbiamo avere una piscina, infatti, voglio anche poterla vedere.» Monini esaminò tutti i posti che Magda gli mostrò, senza fare commenti. Poi disse: «Immagino che La Roccia si chiami così per un preciso motivo. Il sottosuolo è molto roccioso?» «In effetti sì.» «Allora dovremo usare apparecchiature di scavo pesanti. Questo aumenterà molto il costo dei lavori. La scavatrice costa sessantacinque euro l'ora, poi bisogna aggiungere il compenso del manovratore, per un totale di cento euro l'ora. Secondo me ci vorrà una settimana di lavoro. Quindi si tratta di un costo aggiuntivo di circa quattromila euro. Dove vanno messi i materiali di scavo?» «Oddio!» Magda cominciava a paventare difficoltà infinite e, siccome ricordava perfettamente l'epoca in cui la casa era stata ristrutturata, non voleva ripetere un'esperienza del genere. I tre proseguirono il giro. «Che ne diresti di questo posto?»


domandò Trepo, indicando l'orto. «E pianeggiante e il terreno mi sembra meno roccioso che sull'altro lato della casa.» Attese trepidante la reazione di Magda, che tuttavia rimase serena. «No», disse, «qui c'è troppa ombra e non potrei vedere la piscina dalla terrazza.» «Ma quando tuo figlio verrà qui con gli amici a fare chiasso sarai contenta che la piscina sia un po' distante da casa.» Trepo insisteva: trovava stupefacente che lei non battesse ciglio all'idea che qualcuno scavasse nell'orto dov'era sepolto il cadavere. Era evidente che era all'oscuro di tutto, e Johannes lo sapeva benissimo, visto che se ne stava lontano. «Non ha importanza. Un po' di chiasso non mi dà fastidio, ma una piscina è un abbellimento per la casa e non voglio nasconderla.» «Come vuole...» Monini si fregò le mani. «Se non la spaventano i costi, signora, può sistemare la piscina dove vuole. In ogni caso può stare sicura che non ci saranno smottamenti. Il fondo è stabile e il basamento è abbastanza ampio. A questo punto la sistemerei proprio davanti alla terrazza. E il punto migliore.» Magda annuì. «Meraviglioso.» «Si è già procurata una concessione edilizia?» «No. Non ho ancora niente.» «Se vuole posso pensare a tutto io.» «Quanto tempo ci vorrà per ottenere la concessione?» Monini ci pensò su. «Un anno, se siamo fortunati. Più probabilmente un anno e mezzo, due se ci va male.» Magda lo guardò sgomenta. «Mia figlio allora avrà diciotto anni prima che possa venirci a nuotare!» «Pensaci bene, Magda», intervenne Trepo. «Non devi costruire la piscina soltanto per tuo figlio. Costruiscila anche per te, oppure lascia perdere. Di sicuro tuo figlio non trascorrerà le vacanze qui con voi in eterno.» «Stefano ha ragione», disse Magda a Monini. «Ci penseremo con calma, poi le farò sapere.» «Scusami un istante, vorrei fare un saluto a Johannes.» Con queste parole Trepo lasciò Magda e Marco in terrazza e si avvicinò a Lukas. «Bene, carissimo», gli disse porgendogli con un sorriso raggiante la mano che tuttavia Lukas non strinse.


Trepo non si lasciò intimidire. «Volevo salutarti. Che splendida giornata! Come va?» gli domandò in inglese. «Per niente bene, come puoi forse immaginare», rispose Lukas. «Ma non mi dire! Cosa c'è che non va?» Lukas si limitò a sbuffare. «La vita è meravigliosa e, se hai rispettato il nostro piccolo accordo, non ci sarà alcun problema.» Lukas gli consegnò la voluminosa busta. «Oh», esclamò Trepo, poi guardò il contenuto e sorrise. «La prossima volta però non darmi banconote di così piccolo taglio. Ora non le conto. Mi fido. In fondo è nel tuo interesse soddisfare le mie richieste.» Lukas provò una stretta allo stomaco quando Trepo disse: «La prossima volta». La cosa non era finita lì. Naturale. Trepo non aveva motivo di rinunciare a un ricatto tanto proficuo. «In realtà non sono venticinquemila, bensì solo dodicimila e cinquecento», disse Lukas sentendosi come un ragazzino colto in fallo. «Avevo richiesto due trasferimenti da dodicimila e cinquecento euro ciascuno, ma ne è arrivato uno soltanto. Evidentemente le banche italiane non riescono a evadere la richiesta nel giro di una settimana.» Trepo non reagì al tono sarcastico di Lukas. «Tornerò il prossimo mercoledì. Mi darai il resto. Altrimenti per te saranno guai seri.» Lukas annuì, allarmato. «A proposito», domandò Trepo mentre suddivideva le banconote nelle tasche dei pantaloni e restituiva la busta vuota a Lukas, «che ne dici di organizzare qualcosa per mercoledì prossimo per festeggiare l'avvenimento?» Fece un sorriso sdolcinato. «Mi piace tanto venirvi a trovare, perché si sta sempre tanto bene qui da voi. Porterò una bottiglia di champagne e così potremo brindare alla nostra amicizia. Non ti pare un'ottima idea?» Lukas non rispose, mentre la rabbia gli scoppiava in petto come un incendio. «A proposito!» Trepo finse di essersi appena ricordato qualcosa. «Stavo per dimenticarlo. Anch'io ti ho portato qualcosa. Ecco.» Tirò fuori dal taschino della camicia una minuscola foto del cadavere. Era grande quanto una fototessera.


«Da tenere nel portafoglio. Come ricordo.» In vita sua Lukas non aveva mai provato un impulso altrettanto intenso di assalire una persona e prenderla a pugni in faccia. Avrebbe voluto tanto sentire il rumore delle ossa che si spezzavano. Ma non lo fece. Rimase immobile, sentendosi a pezzi. Trepo gli diede una pacca amichevole sulla spalla. «Stammi bene, mio caro! Ci vediamo mercoledì prossimo.» Si girò e se ne andò. Lukas lo guardò allontanarsi fremendo d'odio. «Marco ha detto che la piscina costerà minimo sessantamila euro», disse Magda con un sospiro a Lukas una volta che Trepo e Marco furono ripartiti. «Certo è un bel gruzzolo.» «Non abbiamo bisogno di una piscina, Magda. Non ne abbiamo mai sentito la mancanza. Tu sei una che entra in acqua solo quando fuori ci sono minimo trentacinque gradi all'ombra e l'acqua è altrettanto calda, cosa che forse accade cinque giorni all'anno. Quando ho caldo io mi faccio una doccia. Lascia stare, Magda, con quei soldi possiamo fare magnifici viaggi per il mondo. Non hai sempre desiderato andare in Vietnam?» «Thorben ha sempre desiderato una piscina. Da anni.» Lukas valutò come reagire. Poi disse a bassa voce: «Thorben è morto, Magda. Smettila di illuderti». Magda spalancò gli occhi iniettati di sangue. «Ma che cosa dici?» «Thorben è morto da un anno», proseguì Lukas pacato. «E stato travolto dalla metropolitana a Wannsee.» Magda si voltò di scatto e rientrò in casa. Lukas non la seguì. Restò indeciso sulla terrazza senza sapere che cosa fare, quando udì un tonfo e un tintinnio. Corse dentro casa. Magda era caduta e aveva trascinato con sé una caraffa vuota che si era infranta sulle piastrelle. Lukas la trovò svenuta tra il tavolo e il frigorifero. Si chinò su di lei. «Tesoro, che cosa ti è successo?» bisbigliò. «Svegliati. Ti prego, Magda, svegliati.» Le diede dei colpetti sulla guancia e la baciò sulle labbra. «Se vuoi costruiremo la piscina per Thorben. Nessun problema.»


Lukas guardò l'orologio, tenendo d'occhio la lancetta dei secondi. Se fosse rimasta svenuta più di tre minuti, avrebbe chiamato un medico. Aveva visto appeso sopra la scrivania di Johannes il numero del pronto soccorso. Magda si ridestò dopo due minuti. «Che cosa è successo? » balbettò. «Niente, tesoro mio, niente. Hai avuto un mancamento.» Magda si rialzò lentamente, scrollandosi la polvere dai calzoncini. «Ci ho pensato», disse. «Dirò a questo Monini che non se ne fa niente. Non ci serve una piscina. Thorben viene così di rado... e comunque preferisce nuotare al lago. Ti va un caffè?» Lukas annuì e Magda preparò la caffettiera. *** Capitolo 58. «Vieni con me», disse Carolina alla sua amica Dani, «sarà una meraviglia. Il primo giorno arriviamo in Austria, dormiamo in tenda, poi il mattino dopo valichiamo le Alpi e scendiamo fino in Toscana. Ci restiamo tre giorni e poi torniamo indietro. Non c'è niente di meglio che percorrere le tortuose e strette strade di montagna italiane con una Harley. In tutto staremo via solo una settimana. Partiremo giovedì, arriviamo venerdì sera e poi sabato e domenica c'è il raduno. Ci saranno un sacco di motociclisti fuori di testa. Dei veri pazzi, te lo dico io. E se vieni anche tu sarà molto più bello.» «Oddio», Dani si passò la mano tra i capelli, «non posso. Non riesco a prendermi una settimana di ferie proprio adesso.» «Sono due anni che progettiamo di fare un giro insieme e c'è sempre qualcosa che ce lo impedisce. Questa è un'occasione imperdibile.» «Lo so, ma non posso andare via! Il lavoro all'agenzia pubblicitaria è l'occasione della mia vita. Non posso andare in ferie durante il periodo di prova.» «Ah... non sapevo che fossi in prova. Pensavo che potessi organizzarti il lavoro come meglio credi.»


«Quando avrò il posto, sì. Allora potremo andare via per qualche giorno. Ma bisognerà aspettare ancora un paio di mesi. Ok?» «Ok.» Carolina era molto delusa. «Vorrà dire che ci andrò da sola.» Dani si alzò e si prese una birra dal frigorifero. «Lascia perdere questo raduno, tieni da parte i giorni di ferie per settembre, così potremo partire insieme. Potremo andare in Irlanda. Oppure, se ci tieni tanto, anche in Toscana.» «Voglio andarci adesso. Subito. Non capisci?» «Non riesci a dimenticarlo, vero?» Carolina annuì. «Penso a lui continuamente. Ogni secondo. Era l'uomo dei miei sogni, Dani.» Dani stappò la bottiglia. «Sì. Forse. Ma ti ha mollata. Non puoi farci niente. Non lo riavrai mai.» «E tu come fai a saperlo?» «Gli uomini sono terribilmente cocciuti. Quando hanno preso una decisione, la mantengono. Anche se sono convinti che sia stata sbagliata al cento per cento. E uno schifo, ma è così.» «Dovrà dirmelo lui personalmente. Così almeno capirò dal suo sguardo se si è pentito della decisione presa.» «È una perdita di tempo, Carolina.» «Forse. Oppure no.» «Da quando in qua corri dietro agli uomini?» «In questo caso non corro proprio dietro a nessuno. E solo che non mi lascio dare il benservito in questo modo.» «Ma ci sarà anche sua moglie!» «Non me ne frega niente. E se dovesse avere dei problemi tanto meglio.» Dani sogghignò. «La vendetta è dolce, vero?» Invece di rispondere, Carolina si accese una sigaretta e soffiò anelli di fumo nell'aria. Dopo una pausa insopportabilmente lunga, disse sottovoce: «Ho saputo che è scomparso.


Lo stanno cercando. Voglio sapere che cosa è successo. Se è tornato. O forse dipende da me se ha lasciato la moglie. È una faccenda piuttosto bizzarra». «Così ti vuoi presentare da loro dicendo a sua moglie: "Buongiorno, sono Carolina, quella che ha avuto una relazione con suo marito. Potrei parlare con lui?" Sei matta!» Carolina sorrise. «Sì, vorrei fare qualcosa del genere. Non potrà mica torcermi il collo. Certo, sarebbe tutto più semplice se ci fossi anche tu con me.» Dani si strofinò il sopracciglio destro. «Non puoi aspettare fino a settembre?» Carolina scrollò il capo. «No. Mai. Impazzirò senza di lui. Purtroppo me ne sono accorta troppo tardi.» Carolina partì il giovedì mattina presto alle sei, con il serbatoio della Harley pieno, una tenda, un materassino, un sacco a pelo, due paia di jeans, tre magliette, bikini, piatti e posate di plastica, qualche barattolo di fagioli e di zuppa, una foto di Penthesilea e una carta di credito nel portamonete. Sfrecciò sull'autostrada con la massima concentrazione. Il vento le premeva sul casco, gli insetti si spiaccicavano sulla visiera, mentre lei dava la caccia al suo amore perduto. Fermamente decisa a ritrovare l'uomo dal quale aveva imparato che un uccello non può sempre e solo volare, ma ogni tanto deve anche posarsi. *** Capitolo 59. Lukas non aveva messo in conto che Trepo gli spedisse altre fotografie. Per questo rimase scioccato quando Magda, di ritorno dal parrucchiere, gli porse una grossa busta. Prima di tornare a casa da Montevarchi, aveva fatto un salto all'ufficio postale di Ambra. «Una lettera per te», disse aggiungendo con una punta di rimprovero, «senza mittente.» Rimase lì ad aspettare che lui aprisse la busta. Lukas cominciò a sudare. Non sapeva come comportarsi. Non gli bastava ricattarlo? Ora doveva pure bombardarlo con quelle atroci fotografie?


«Grazie», disse, posando la busta sul tavolo della terrazza. «Non la apri?» domandò Magda con un sorriso, ma in tono gelido. «Sarà di Anneliese. Ha l'abitudine di non scrivere mai il mittente sulla busta. Adesso non ho voglia di leggerla. L'aprirò più tardi.» «Chi è Anneliese?» «La mia agente», stava per dire, ma si ricordò appena in tempo che Johannes non aveva alcuna agente. «La mia segretaria», rispose quindi. «Mi tiene informato di ciò che accade in azienda, e di tanto in tanto mi spedisce dei documenti.» «Per posta?» domandò Magda sarcastica. «Perché non usa il computer? Del resto voi usate i camion per trasportare mobili e scatoloni, mica le carrozze a cavalli. E da quando la tua segretaria si chiama "Anneliese"? Che fine ha fatto Frau Krämer?» Le cose stavano precipitando. «Frau Krämer è malata», rispose Lukas prontamente. «Da tre mesi. Ha un tumore. Anneliese la sostituisce.» «E come mai non me ne hai mai parlato?» «Mio Dio, Magda, che cosa ti prende? Non sarai mica gelosa della mia segretaria! Anneliese ha diciassette anni, sta ancora studiando, ma è una ragazza davvero volenterosa.» «Per avere diciassette anni devo dire che ha un nome davvero antiquato.» Quando Magda si fissava su un argomento non mollava più. Forse dipendeva solo dal fatto che era di cattivo umore, oppure stizzita perché Lukas non voleva darle la soddisfazione di aprire la lettera sotto i suoi occhi. «Già, è davvero buffo. Anch'io mi sono sorpreso del suo nome. Ma capita spesso che dei nomi fuori moda tornino in auge. E così si sentono di nuovo bambine chiamate Emma, Henriette o Hedwig. O magari Anneliese.» «Che genere di tumore ha colpito Frau Krämer?» «Un tumore all'utero», rispose Lukas di getto. «Davvero?» Magda spalancò gli occhi. «Mi pareva che qualche anno fa mi avessi raccontato che aveva subito una isterectomia da giovane e che per questo non aveva potuto avere figli!» Lukas provò un moto di stizza verso se stesso per aver parlato senza riflettere. Qualsiasi altro tipo di tumore sarebbe stato perfetto. Il tumore al seno, per esempio, quello ai polmoni o all'intestino. E lui invece, da vero idiota, aveva sparato la prima cosa che gli era venuta in mente. «Non so, forse ho capito male io, sai com'è, non sono stato lì a farmi raccontare tutto nei minimi dettagli. Dopotutto tra noi c'è solo un rapporto professionale.»


«Frau Krämer lavora per te da tantissimi anni.» «E allora?» «Lascia perdere, Johannes», tagliò corto Magda entrando in casa. Dopo pranzo Magda sembrava un'altra persona. Tenera e affettuosa, piena di attenzioni per Lukas. Non c'era più traccia dell'irritabilità che aveva manifestato solo due ore prima. «Che ne diresti», disse facendo quasi le fusa, «di andare a Firenze? Il cielo è coperto, non fa tanto caldo, è una giornata ideale per quattro passi in centro.» Lukas aveva quasi l'impressione che lei volesse trascinarlo via ogni volta che riceveva una lettera. Era al corrente della prima, perché era stata collocata sulla bacheca del bar. Quelle successive era riuscito a nascondergliele, mentre l'ultima era stata lei stessa a consegnargliela. E, come era già successo la prima volta, lui ora non aveva la minima voglia di andare a Firenze. Aveva bisogno di tranquillità, voleva restare solo, perché quest'ultima foto lo aveva scosso quasi quanto quella in cui aveva visto per la prima volta il fratello morto. In questo caso non era ritratto solo il volto di Johannes: si vedeva il corpo per intero, nella fossa. Una fossa sulla quale cresceva un piccolo ulivo appena piantato, che lui stesso aveva rinforzato con un palo di sostegno. Johannes era lì. Vicino a lui. Possibile che fosse stato un estraneo a scavare una fossa lì alla Roccia? Senza che nessuno lo notasse? Sarebbe stato alquanto strano e in realtà Lukas lo riteneva del tutto impossibile. Su quel terreno roccioso occorrevano ore per scavare una buca così grande. Magda era quasi sempre a casa. Soprattutto quando era sola. Al massimo si allontanava per un'oretta, giusto il tempo per sbrigare qualche commissione. Un'impresa tanto laboriosa avrebbe richiesto un tempo ben più lungo. Era vero, lei aveva trascorso un'intera giornata a Siena... ma l'assassino non poteva essere un indovino, e non poteva aspettare per giorni con il cadavere in giro l'occasione giusta per seppellirlo. No, era del tutto escluso che fosse stato un estraneo a uccidere Johannes e a sbarazzarsi del cadavere lì sulla proprietà. E se fosse stato lo stesso Trepo? Aveva seppellito il cadavere alla Roccia per poter incolpare Lukas oppure Magda. E, come se non bastasse, aveva pure pensato di ricavarci qualcosa con un ricatto. Ipotesi sottile, ma Trepo avrebbe avuto le stesse difficoltà di un qualunque estraneo a scavare la fossa. Inoltre non aveva un valido movente. L'idea che gli si affacciò alla mente era così terribile da fargli provare una vampata di calore: Magda.


Si rifiutava anche solo di pensare a tale ipotesi. Ma non riusciva a non farlo. Il sospetto continuava a riaffiorare, gli girava in testa, e a un certo punto non riuscì più a opporsi. Magda aveva ucciso Johannes, lo aveva sepolto e aveva piantato un albero sulla sua tomba. Poi si era inventata la storia del viaggio di Johannes a Roma. Era completamente pazza. E lui si trovava ancora più in trappola di prima. Alle due presero il treno per Firenze da Montevarchi. Il viaggio durava tre quarti d'ora e dalla stazione di Santa Maria Novella a piazza del Duomo bastavano cinque minuti a piedi. A quell'ora il treno era semivuoto. Magda e Lukas trovarono senza problemi due posti vicini. Rimasero in silenzio fino a dopo Figline. Lukas stringeva la mano di Magda e le massaggiava dolcemente le nocche. La osservava mentre lei guardava fuori dal finestrino socchiudendo gli occhi per il riverbero del sole. Si era sollevata gli occhiali da sole sulla testa per tenersi i capelli scostati dal viso. In quel momento era davvero bellissima, giovane, spensierata. Non è possibile, pensò lui provando una stretta al cuore, un'azione del genere supera qualsiasi fantasia. Tentennò per una ventina di minuti, poi raccolse il coraggio e disse: «Magda, devo tornare in Germania». Lei lo guardò allibita. «Perché?» «Ci sono problemi in ditta.» «C'era scritto sulla lettera?» Lukas annuì. «Sono saltati diversi ordini, un camion si è ribaltato nei Vosgi ed è prevista una ispezione fiscale. Tutte questioni assai spiacevoli.» «Quando devi partire?» «Al più tardi a fine settimana.» Magda tacque. Poi cominciò a piangere piano. Lukas l'abbracciò. «Perché non vieni con me? Partiamo insieme! Sistemo gli affari e poi faremo in modo di tornare qui il prima possibile.» «Ci penserò», disse soltanto, poi non aprì più bocca fino all'arrivo del treno nella stazione di Santa Maria Novella. Mentre passeggiavano per la città, Magda sembrava aver dimenticato tutti i suoi problemi. In via de' Cerretani si comperò una cintura con la fibbia a forma di testa di serpente. Ne rimase entusiasta come una bambina. Poi prese Lukas sottobraccio e lo condusse per il centro cittadino. Aveva la capacità di procedere spedita senza tralasciare una sola vetrina. «Vuoi entrare anche in Duomo?» le chiese Lukas.


«Oggi no», rispose. «Ho un'altra idea.» Il suo obiettivo era Ponte Vecchio. Bevvero un caffè in piazza della Repubblica, poi percorsero via Calimala, costeggiarono la loggia del Mercato Nuovo e infine girarono in via Por Santa Maria sbucando a Ponte Vecchio. Magda si fermò a guardare Lukas. Nei suoi occhi non c'era mai stato tanto calore e tanto amore come in quel momento. «Comperiamoci degli anelli», disse con un sorriso. «Non ce la faccio più a non portare la fede al dito. Mi sembra di non essere sposata, di non essere legata a te. Ripetiamo di nuovo tutto quanto, proprio come allora.» Lukas annuì e la baciò, pensando intanto al fratello da lei assassinato. Le ricerche di Magda durarono due ore e mezzo. Entrò in ogni bottega e si fece mostrare tutte le fedi nuziali. Sebbene in quasi ogni negozio trovasse un anello di suo gradimento, non lo comprava, per timore di lasciarsi sfuggire un altro modello più bello e assolutamente perfetto. Lukas l'assecondava in silenzio. Si sentiva un accessorio, uno schiavo della frenesia da shopping di Magda. Rimase del tutto distaccato durante la scelta dell'anello, con la sensazione che Magda gustasse soprattutto l'idea di presentarlo ai negozianti come l'uomo che lei aveva intenzione di sposare. Alla fine Magda scelse due anelli d'oro bianco abbastanza spessi con tre minuscoli brillanti che aveva visto nella prima bottega. Lukas lo trovava un po' eccessivo sulla propria mano, se ne vergognava quasi, ma non disse niente. Non voleva farla arrabbiare né rischiare di far ricominciare daccapo quella odissea da un'oreficeria all'altra. «Che cosa facciamo ora?» domandò Lukas quando uscirono dal negozio. Era ormai tardo pomeriggio e il Ponte Vecchio era molto più animato di turisti rispetto a prima. «Vogliamo mangiare da qualche parte?» Magda scrollò il capo. «Non ho fame. Torniamo a casa, dove festeggeremo con una bottiglia di champagne il nostro secondo matrimonio.» A Lukas in realtà sarebbe piaciuto andare a mangiare, ma non la contraddisse. L'astuccio con gli anelli che teneva nella tasca della giacca pesava come un macigno. Adesso che non esistevano più dubbi sul fatto che Johannes fosse sepolto alla Roccia, sapeva di essere in totale balia di Magda. Conviveva con l'assassina di suo fratello; lui era innocente, ma sarebbe stato il maggior indiziato nel caso il cadavere fosse stato scoperto. Era una follia. Magda si appoggiò al suo braccio canticchiando sottovoce mentre tornavano verso la stazione percorrendo gli stretti vicoli cittadini.


«Ho visto che hai prelevato venticinquemila euro», gli disse di colpo. «Perché?» Lukas trasalì. Era stato scoperto. «Mah, niente, Magda», sospirò, «non voglio tediarti con i miei problemi.» «Che cosa è successo?» «Ci sono stati alcuni problemi con la ditta. Al momento non abbiamo liquidità. Anche per questo devo tornare in Germania.» «Venticinquemila euro! Ti rendi conto, Johannes! Da quando mettiamo nella società i nostri capitali privati? Non lo avevi mai fatto, e in passato hai già avuto problemi di liquidità. » «Questa volta è stato necessario. Credimi, Magda, è questione di poco.» Magda era irritata. «Non sono d'accordo, comunque.» Lui voleva mettere fine alla discussione, e per farlo si vide costretto ad abbracciarla e baciarla, anche se si sentiva molto impacciato. Magda lo guardò con occhi preoccupati. «Non farlo più, amore», disse. «La cosa mi spaventa. Proprio adesso, quando, come dici tu, l'azienda sta attraversando un brutto momento. Prima o poi ci ritroveremo al verde. Perché sono convinta che puoi scordarti i soldi che butti nell'azienda.» Lukas comprese che non avrebbe più potuto prelevare nulla dal conto. Se Trepo avesse avanzato ulteriori richieste, non avrebbe potuto farci niente. Allora si sarebbe trovato davvero nei guai. Fino a poche settimane prima, avrebbe considerato il massimo della disgrazia la cancellazione di un contratto, e un problema il fatto di non trovare lavoro, ma in realtà era libero e spensierato. Adesso era immerso fino al collo nelle difficoltà e stava affondando. «Dobbiamo affrettarci», disse Lukas. «Il prossimo treno per Montevarchi parte tra dodici minuti. Se non lo prendiamo, ci toccherà aspettare quasi un'ora.» Magda si mise subito a correre. Lukas fece quasi fatica a starle dietro. Arrivarono alla Roccia mentre il sole scendeva infuocato dietro le colline davanti a Solata. L'aria era immobile, mancava il vento che di solito accompagnava il tramonto e durava almeno un'ora. A Magda quel vento non piaceva, perché le rovinava la cena sulla terrazza. «Oggi si sta benissimo fuori», disse a Lukas, «fa caldo e non c'è una bava di vento. Finalmente


cominciano quelle calde nottate estive che mi sogno tutto l'anno.» Lukas andò in cucina, preparò un'insalata e una minestra di zucchine. Quando, venti minuti dopo, uscì in terrazza con due lanterne antivento, la zuppa, formaggio, insalata e una bottiglia di rosso di Montalcino, era quasi buio. Magda era seduta a occhi chiusi, come se dormisse. «Tesoro, svegliati, la cena è pronta.» «Non sto dormendo.» Lukas apparecchiò. Magda si alzò e tornò poco dopo con gli anelli che aveva preso dalla tasca della giacca di lui. «Siediti, per favore», disse sorridendo mentre apriva l'astuccio. I brillanti luccicavano alla luce delle candele e Lukas pensò che effettivamente preferiva se entrambi portavano l'anello. Versò il vino e Magda alzò il bicchiere. «Tu sei il grande amore della mia vita», disse sottovoce, serissima. «Sto bene con te. Mi rendi felice. Tutte le mattine ringrazio il cielo di potermi svegliare accanto a te, e gioisco per tutta la giornata quando mi sei accanto. E ringrazio Dio anche di potermi addormentare vicino a te. Mi sento protetta, libera e spensierata. Dopo tutti gli anni trascorsi l'idea di fare l'amore con te continua a eccitarmi e il mio amore per te non è diminuito, anzi è diventato sempre più intenso. Non mi sono mai pentita di averti sposato, lo rifarei anche subito ! Grazie, Johannes.» Con gli occhi lucidi di lacrime, avvicinò il bicchiere a quello di Lukas, producendo un tintinnio cristallino. Lukas intanto pensava alacremente a come reagire. A come avrebbe reagito Johannes. Dopo un istante di riflessione, mentre lei beveva un sorso di vino, cominciò: «Quello che hai detto è meraviglioso, Magda, e mi rende molto felice. Anch'io provo le stesse cose. Godo di ogni giornata con te e sono felice di avere una moglie così fantastica. Ti amo, Magda». Magda si mise a piangere in silenzio mentre Lukas le infilava l'anello più piccolo all'anulare della mano destra. Poi lei fece lo stesso con lui. Si alzò, andò a sedersi sulle sue ginocchia, lo abbracciò e lo baciò. «Niente e nessuno potrà mai separarci», bisbigliò. «Mai.» Lukas cercò di godersi questo istante meraviglioso, ma non ci riuscì.


Non poteva togliersi dalla testa il pensiero del fratello morto che si decomponeva sottoterra lì alla Roccia. «Chi ama, non può morire», amava ripetere Johannes, «ne sono convinto.» *** Capitolo 60. Le Harley sfrecciarono una dopo l'altra per la Valdambra quel venerdì, riempiendo il tragitto da Montevarchi e Siena dell'assordante rombo e crepitio dei motori. Gli abitanti della zona si erano abituati al raduno annuale dei motociclisti, un appuntamento come la processione del Venerdì Santo, la cena di Ferragosto e i fuochi d'artificio di San Silvestro. I motociclisti facevano ormai parte del luogo, erano accolti dappertutto con simpatia, dato l'amore degli italiani per il motociclismo, anche perché di solito si comportavano in maniera educata e amichevole. Carolina aveva trascorso la notte nella sua tenda piantata in un prato nei pressi di Kufstein dopo sette ore di viaggio, ed era ripartita al mattino alle otto. Ora era già all'altezza di Modena, dove l'autostrada era a quattro corsie. Quella di destra era occupata da un interminabile convoglio di automezzi pesanti, sulle altre sfrecciavano gli automobilisti irritati compiendo acrobatiche manovre di sorpasso. Pur essendo abituata a guidare in autostrada, Carolina era provata dall'estrema concentrazione necessaria. Poco prima di Firenze il traffico si paralizzò. Carolina avanzò sulla corsia d'emergenza, passando accanto alle automobili ferme e, quando questa finì, cominciò a zigzagare tra le auto. Non ne poteva più. Aveva la gola riarsa, le gambe indolenzite e la schiena anchilosata. Ma la cosa peggiore era la stanchezza. Era allo stremo delle forze, ma non voleva fermarsi quando mancava ancora così poco alla meta. Gli ultimi quaranta chilometri piene di curve e di gallerie fino all'uscita di Valdarno furono una vera tortura. Subito dopo il casello si fermò in un bar, si tolse il casco, bevve un caffè e si comperò una bottiglia d'acqua. Non vedeva l'ora di potersi togliere i pesanti stivali, immergere i piedi nell'acqua gelida, bersi una birra, mangiare qualche cucchiaio di fagioli in scatola e poi mettersi a dormire. Nient'altro. Soltanto dormire. Per dodici ore filate. Dieci minuti più tardi ripartì. Quando raggiunse l'ampio parcheggio davanti al ristorante La Leccarda, dove si sarebbero svolti i festeggiamenti per i due giorni successivi, trovò già una cinquantina di


harleysti. Carolina cercò tra di loro facce conosciute, salutò qualche amico, poi rimontò in sella e riprese il viaggio verso Castelnuovo Berardenga. All'altezza di San Gusmè imboccò una stradina di campagna che portava a un casale. C'era una minuscola enoteca aperta, senza nessuno. Dentro, i ripiani che andavano dal pavimento al soffitto traboccavano di bottiglie di vino, vinsanto, grappa e olio d'oliva. C'erano inoltre schiacciata, spezie, olive, pomodori secchi e diverse salse per crostini. Sugo di fegatini, salsa di carciofi, di funghi, ragù di lepre. Carolina prese una bottiglia di vino e un sacchetto di biscotti e aspettò. Era sorpresa che nessuno sembrasse preoccuparsi del fatto che qualcuno avrebbe potuto svuotare la bottega e andarsene indisturbato. Dopo una decina di minuti comparve una donna anziana, rotondetta e dall'aria risoluta, che salutò calorosamente Carolina.


«Ha già trovato qualcosa?» Carolina annuì poi aggiunse in un italiano stentato: «... Posso chiedere una cosa?» La donna si rese conto delle difficoltà linguistiche di Carolina e disse: «Provi a parlare in tedesco. Magari la capisco». Con enorme sollievo, Carolina domandò se era possibile piantare da qualche parte una tenda per tre giorni. Dopo averle fatto pagare il vino e i dolci, la donna disse a Carolina di seguirla e la condusse su un prato al di sopra di un vigneto. «Può fermarsi qui, per dieci euro al giorno», le disse. «Davanti all'enoteca c'è una pompa da cui può prendere l'acqua. E la prego di non lasciare rifiuti in giro.» «Naturalmente no. La ringrazio.» La donna sorrise e se ne andò. Carolina spinse la Harley sul prato, montò la tenda e si sentì felice. La giornata, iniziata all'insegna dello stress, si stava concludendo meravigliosamente. Mezz'ora dopo era seduta davanti alla tenda a gustarsi con un cucchiaio grossi fagioli freddi e a bere vino. Carolina aveva un debole per i fagioli. Avrebbe potuto mangiarli a qualsiasi ora del giorno in tutte le varianti possibili. Freddi o caldi, con sale e pepe oppure cotti con il pomodoro... C'era un grande silenzio tutt'intorno. Dalla fattoria non proveniva alcun rumore. Il sole scivolò dietro i monti come una palla infuocata e Carolina accolse con gioia la notte. Era il luogo perfetto per rilassarsi e abbandonarsi ai sogni. Non aveva nessuna voglia di gozzovigliare con gli altri motociclisti. Il raduno era stato solo un pretesto senza il quale non sarebbe mai arrivata lì in Toscana. Avrebbe dato l'impressione di corrergli dietro. Così invece si trattava di una coincidenza, un'opportunità di rivedere Johannes capitata per caso. Dopotutto non avevano litigato. Avrebbero potuto vedersi per due o tre ore, per parlare, andare a fare una passeggiata, oppure mangiare insieme. Nient'altro. Carolina non era affatto convinta di ciò che la sua mente voleva farle credere. Era combattuta, le sue emozioni erano un unico groviglio. Per un verso avrebbe desiderato che Johannes si infilasse nella tenda e trascorresse la notte con lei, per l'altro si sentiva così ferita da provare l'impulso di distruggerlo.


Lui e il suo rapporto con la moglie. Se restava irraggiungibile per lei, allora non doveva averlo nessun'altra. Nonostante la terribile stanchezza, quando si infilò nel sacco a pelo stentò a prendere sonno. Era troppo agitata al pensiero del mattino successivo. Mancavano solo poche ore. Sentiva il cuore contorcersi al pensiero di quanto amava e odiava Johannes. *** Capitolo 61. Magda era partita da un quarto d'ora, diretta a Bucine per pagare il premio dell'assicurazione sulla casa. Ne avrebbe approfittato per fare un saluto a Katharina. Lukas aspettò ancora cinque minuti, per essere sicuro che lei non tornasse indietro perché aveva dimenticato qualcosa, poi si mise al lavoro. Era l'occasione perfetta per scoprire almeno una parte della fossa. Anche se l'agghiacciante spettacolo che gli si sarebbe presentato lo avrebbe perseguitato per tutta la vita. Voleva avere la certezza. Una foto era solo una foto, vedere il cadavere con i propri occhi era tutt'altra cosa. Cominciò a scavare con una paletta da giardinaggio, restando sempre vigile e tenendo d'occhio la casa, casomai lei fosse spuntata all'improvviso. Il terreno era smosso e abbastanza morbido. Segno che qualcuno aveva scavato di recente. Siccome l'ulivo gli era d'impiccio e tra l'altro, dissotterrandolo, si sarebbe facilitato il lavoro, per prima cosa staccò il tronco dal paletto di sostegno poi estrasse l'alberello con molta forza dal terreno. Al di sotto trovò un telo di plastica verde, in parte strappato, ci lavorò intorno lentamente e nel giro di pochi minuti liberò la spalla di Johannes. Il cuore gli batteva forte nel petto. Con grande cautela spostò allora la terra di lato, facendo attenzione a non ferire Johannes, anche se era un pensiero assurdo. E poi pian piano cominciò a spuntare la faccia: il mento, gli zigomi, e gli occhi senza vita. Era persino peggio di come se l'era immaginato nei suoi incubi. Quell'ammasso cereo in decomposizione, sporco di terra, un tempo era stato il volto del fratello, il buco nero l'occhio che gli aveva ammiccato quando la mamma minacciava di rinchiuderli in casa per punizione. Non preoccuparti, aveva detto quello sguardo, ce la faremo, ce la fileremo lo stesso e non se ne accorgerà nessuno. Solo allora si rese conto di ciò che aveva visto fin dal principio ma che la sua mente si era rifiutata di accettare: la cosa più raccapricciante. Quando aveva piantato il paletto a sostegno dell'ulivo, senza


saperlo, aveva impalato il fratello. Proprio nel cuore, come un vampiro, per impedirgli di risorgere e di commettere altre atrocità. Lukas scoppiò a piangere. Era la prima volta dopo tanti anni. Magda era di fronte alla casetta gialla di Katharina a Rapale e suonava a distesa il campanello, senza ottenere risposta. E stato davvero stupido passare di qui senza telefonare prima, si disse stizzita. Fece il giro della casa. Le finestre erano tutte chiuse, la porta d'ingresso anche. Peccato, pensò Magda, mi sarebbe piaciuto bere una tazza di tè insieme a lei e guardare i suoi nuovi quadri. Senza lasciare alcun messaggio, risalì in macchina e ripartì per La Roccia. A circa trecento metri da casa sentì squillare il cellulare. Era Hildegard. Aveva la voce arrochita, come se da giorni qualcuno le stringesse la gola con una morsa d'acciaio. «Ciao Magda», la salutò. «Hai notizie di Johannes? Non ho più saputo niente da voi, anche Lukas non mi chiama da tre giorni e mi sento morire per l'angoscia.» «Oddio, quanto mi dispiace», disse Magda. «Con tutto quello che abbiamo avuto da fare, ci siamo dimenticati di avvisarti. E tutto a posto, Hildegard, stai tranquilla, Johannes è tornato. Sono andata a Roma e l'ho ritrovato. Ti prego, scusaci se non ti abbiamo chiamato, ma del resto è tornato solo l'altro ieri.» «Oddio, che bello! Oddio, grazie!» singhiozzò Hildegard. «E la notizia più bella che abbia mai sentito in vita mia. Raccontami, Magda, come lo hai ritrovato?» «Ho girato per molti alberghi e ristoranti», disse, mentre sentiva i singhiozzi di Hildegard al telefono, «...poi mi sono messa a vagare per la città tenendo gli occhi bene aperti. Ho esaminato ogni faccia che mi passava accanto, ho cercato di pensare dove potesse essersi fermato e - non ci crederai - l'ho trovato. Poco prima del tramonto alla Fontana di Trevi.» «Ma perché non ti aveva più dato notizie?» «Sai bene com'è fatto! Il cellulare gli era caduto nell'acqua e la SIM si era rovinata. Certo, avrebbe potuto comprarsi un nuovo cellulare, ma non conosceva nessun numero a memoria. Né il mio né quello di Lukas né il tuo.» «Ti prego, passamelo. Voglio parlargli.» «Non so dove sia, perché sto tornando a casa proprio adesso. Devo togliere la catena in fondo al vialetto. Aspetti, oppure preferisci che ti richiamiamo tra dieci minuti?»


«Aspetto.» «Come vuoi. Ma devo cercarlo e potrebbe volerci un po'. Il terreno intorno a casa nostra non è come un fazzoletto di giardino davanti a una villetta.» «Lo so. Ti prego, cercalo.» Magda posò il cellulare sul sedile del passeggero, aprì la catena e fermò l'auto davanti alla casa. Hildegard la sentì chiamare a gran voce: «Johannes!» Anche Lukas sentì la sua voce da lontano e fu percorso da un brivido. Non ricordava l'ultima volta che aveva provato tanta paura come in quel momento. Si affrettò a sistemare l'alberello al suo posto e come un forsennato ricoprì la fossa del fratello. Se lei si fosse avvicinata adesso, sarebbe stato tutto perduto. Lei chiamò di nuovo. La sua voce era lontana come la prima volta. Lukas ne dedusse che si fosse fermata dentro casa perché non sapendo dove lui si trovasse, non voleva cercarlo a caso. Gli restava ancora qualche secondo di tempo. Forse lei avrebbe addirittura smesso di cercarlo, pensando che fosse andato a fare una passeggiata. Ti prego, Dio, fa' che resti dentro casa. Ti prego. Ma lei non restò dentro casa. Lo chiamò ancora un paio di volte, si guardò intorno, poi partì. Diretta proprio verso l'orto. Lukas aveva il cuore in gola. Gli sembrava che dovesse scoppiargli e muoveva la pala come se ne andasse della sua stessa vita. Se la trovò davanti proprio mentre pestava con i piedi la terra sulla fossa. «Che cosa ci fai qui?» gli chiese lei. «Io... ho sistemato meglio l'ulivo», balbettò lui. «Era tutto storto e temevo che potesse spezzarsi.» «Ah», fece lei. «Non me n'ero accorta. Tieni», gli porse il cellulare. «Tua madre vuole parlare con te.» Detto questo si voltò e si incamminò verso casa. Lukas cominciò a sudare. Magda non si era accorta di niente, o forse aveva fatto finta di non accorgersi. Oppure era davvero all'oscuro di tutto. Lukas si portò il cellulare all'orecchio. «Sì, mamma?»


«Lukas?» «Sì.» «Veramente volevo parlare con Johannes. Magda mi ha detto che è tornato.» «Sì, sì, certo, è vero, cioè, voglio dire, è tornato», balbettò Lukas, «ma al momento non è qui, purtroppo. E andato ad Ambra per far aggiustare la sega circolare. Non funziona più.» «Basta così», disse Hildegard dopo una pausa, «non vi credo. C'è qualcosa che non va! Se volete convincermi che Johannes sia veramente tornato, dovete farmi parlare con lui. Io non so che cosa stia succedendo, che cosa sia capitato là in Italia e perché continuiate a mentirmi. È morto, Lukas? Perché non mi dite la verità? Lukas, per favore, tuo fratello è morto?» «No.» Non aveva mai mentito a sua madre in maniera tanto spudorata. «Che razza di gioco perverso state facendo con me?» domandò Hildegard gelida. «Non stiamo facendo proprio nessun gioco. Davvero. Ma non posso spiegarti tutto al telefono. Posso dirti soltanto che non devi stare in pensiero. E tutto a posto.» La madre riuscì solo a proferire un'esclamazione incredula. «Tornerò a Berlino il prima possibile. D'accordo? Allora parleremo di tutto e capirai perché Johannes adesso non ha voglia di telefonarti.» «Non deve mica sforzarsi di parlare con me. Mi basta un 'ciao' e un 'arrivederci', per darmi la conferma che sia ancora vivo», bisbigliò Hildegard. «Non ho forse il diritto di poterlo almeno salutare?» «Non è possibile. Quantomeno non ora.» Lukas attese un istante. «Non dici più niente, mamma?» «Che cosa dovrei dire? Non ce la faccio più. Sono distrutta.» Si soffiò il naso. Lukas aspettò paziente. «Perché tu non torni a casa, se davvero Johannes è tornato?» «Tornerò, stai tranquilla. Presto. Porta pazienza ancora per un poco. Un paio di giorni, al massimo una settimana.» «Ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo?» «Ti prego, mamma.»


Hildegard chiuse la comunicazione senza salutarlo. Quando rientrò in casa, Lukas trovò Magda seduta al sole accanto al muro rivolto a sud, intenta a confezionare un maglione che voleva regalargli per Natale. *** Capitolo 62. Carolina dormì otto ore filate. Alle sette si svegliò, riposata, di buonumore e piena di energie. La mattinata era piacevolmente fresca. Fece qualche esercizio di yoga sull'erba, poi andò a riempire la borraccia d'acqua fresca. Alle otto mangiò di nuovo fagioli freddi. Poi lucidò scrupolosamente la Harley e infine partì. Si era comperata una cartina stradale e aveva imparato a memoria il percorso fino alla Roccia. Superata la prima curva dopo Solata, da cui la proprietà le apparve alla vista in tutta la sua estensione, tolse la marcia e proseguì in folle. Nessuno doveva accorgersi del suo arrivo fino a quando non fosse stata pronta a presentarsi. Spinse il pesante mezzo sul ciglio della strada, senza perdere di vista La Roccia, e rimase ad aspettare con il cuore in gola. Pochi minuti più tardi vide una donna uscire dalla cucina e apparecchiare per due persone il tavolo sulla terrazza. Carolina sentì aumentare dentro di sé il nervosismo. Quella donna doveva essere Magda. Era bella. La maglietta aderente e i calzoncini corti le davano un'aria più giovane. Carolina provò un tuffo al cuore. Si era immaginata la moglie di Johannes più anziana. Per diversi minuti non accadde niente. Alla fine Magda riapparve con una teiera e una fruttiera e si mise a sedere. Cominciò a sbucciare una mela. Pochi minuti più tardi comparve anche l'uomo. Si stirò le membra, sbadigliò di gusto, si passò le mani tra i capelli scompigliati e baciò Magda sulla nuca. Lei si girò, gli sorrise e lo baciò sulla bocca. L'uomo si mise a sedere. Non era Johannes. Che cosa sta succedendo, pensò Carolina, maledizione, che cosa sta succedendo? Quello doveva essere il fratello, l'uomo che le aveva telefonato. Ma il bacio che aveva scambiato con Magda non era affatto


quello che ci si dà fra cognati. I due si misero a mangiare, scambiando qualche parola di tanto in tanto, annuendo, sorridendo. Versandosi vicendevolmente il tè. Carolina aveva una gamba intorpidita. Darei qualunque cosa per un caffè caldo, pensò. Forse avrebbe fatto meglio ad andare a bere un cappuccino da qualche parte e tornare più tardi. Invece rimase. Venti minuti più tardi Magda sparecchiò e l'uomo scomparve dietro la casa. Di Johannes neppure l'ombra. Non sono qui per restare nascosta nell'ombra, si disse Carolina alzandosi. Ora o mai più. Decise di lasciare la moto lì sul ciglio della strada e di proseguire a piedi fino al casolare. Non voleva rischiare che Magda si accorgesse del suo arrivo sentendo il rumore della motocicletta. Preferiva piombarle davanti di sorpresa, e guardarla negli occhi. Scavalcò senza problemi la catena che delimitava il vialetto di accesso alla proprietà e si incamminò per il viottolo sterrato. Giunta davanti alla casa, si guardò intorno. In giardino non c'era nessuno. La porta d'ingresso era aperta. Solo una tenda di perline nascondeva la vista dell'interno. Carolina fece appello a tutto il suo coraggio e chiamò: «Salve! C'è nessuno?» Dovette ripetere il saluto due volte, prima che Magda venisse sulla porta, asciugandosi le mani con uno strofinaccio. «Sì?» domandò. Il tono non era particolarmente amichevole, ma neppure ostile. Piuttosto, distaccato. «Mi scusi se piombo qui all'improvviso», cominciò Carolina esitante, rendendosi conto che la voce le tremava. «Mi chiamo Carolina Hammacher.» Vide chiaramente il guizzo sorpreso di Magda. «Mi trovo qui per caso, voglio dire per lavoro, e suo marito mi ha detto di avere una bellissima casa in questa zona.» Si girò come per guardarsi intorno. «È incantevole, sul serio. Non vorrei disturbarla, ma potrei scambiare due chiacchiere con suo marito, per favore? » Nella sua mente Magda si era immaginata già centinaia di volte l'aspetto che poteva avere la donna di cui Johannes era innamorato. E adesso se la trovava davanti in carne e ossa.


Proprio lei, quella che lui aveva incontrato regolarmente a Berlino, all'improvviso era qui in Italia. Una donna che non avrebbe mai pensato di veder comparire né in sogno né nella realtà. Dunque Carolina lo aveva seguito fino in Toscana, fino alla Roccia, il loro nido privato, il loro rifugio segreto, dove non avevano né obblighi né lavoro né relazioni né un passato. Carolina aveva infranto il loro bozzolo. «No. Non può parlare con lui.» «Perché no?» «Ha da fare.» «Non è un problema. Posso aspettare per un po'.» «Che cosa vuole da lui?» L'espressione di Magda era granitica. «E da molto tempo che non lo vedo e volevo chiedergli solo una cosa. E magari bere un caffè con lui. Come ho detto, mi trovo per caso da queste parti e sarebbe davvero un peccato non approfittarne per salutarci.» La storia allora non era finita. Lei non voleva mollare. Come una piovra, che allenta la stretta di un tentacolo solo per serrare la sua vittima più saldamente con un altro e trascinarla con sé negli abissi. «Perché prima non ha telefonato?» «Ci ho provato, ma ha il cellulare staccato.» In quel momento Lukas spuntò dall'angolo della casa. «Una visita per te dalla Germania», annunciò Magda freddamente. Lukas rimase sorpreso, ma sorrise amichevole e porse la mano a Carolina. «Buongiorno.» «Veramente io volevo parlare con Johannes Tillmann», disse Carolina. Magda si voltò ed entrò in casa senza una parola. «Venga», propose Lukas, «facciamo due passi.» Si avviarono lungo il viottolo. «Mi chiamo Carolina Hammacher e mi trovo per caso qui in Toscana. Volevo approfittarne per fare un saluto a Johannes. Lei è il fratello, giusto?» «Sì, esatto.» Lui la guardò. «Ci siamo sentiti per telefono qualche tempo fa. Si ricorda?»


«Certo. Mi disse che Johannes non c'era. Dov'è?» Lukas si fermò. «Non lo so. Davvero, non lo so. E come se fosse scomparso dalla faccia della terra.» «Non è ancora tornato?» «No.» «E lei non ha più avuto sue notizie? Niente di niente?» Lukas si limitò a scrollare il capo e Carolina provò una stretta al cuore. Nonostante il caldo venne assalita da un brivido. «Ma è assurdo!» «Invece è così.» Carolina colse il tono rassegnato di Lukas. «Come si chiama?» «Lukas.» Non si fidava di questo Lukas e aveva l'impressione che le mentisse. Prima l'aveva visto baciare Magda, ed era stato qualcosa di più di un semplice saluto tra cognati. E adesso fingeva di essere il fratello preoccupato. Era tutto molto bizzarro. «La prego di raccontarmi tutta la storia, Lukas. Tutto quello che è successo. Tutto quello che sa.» Dalla finestra della cucina Magda guardava Lukas e Carolina allontanarsi sempre di più dalla casa. Quando scomparvero oltre una curva del sentiero, Magda uscì di casa. Era evidente che volevano restare da soli; stava per ricominciare tutto quanto daccapo. Nella sua mente andò prendendo forma un piano diabolico. Dall'abbigliamento di Carolina, si capiva che era arrivata fin lì in moto. Probabilmente insieme al gruppo di harleysti che ogni anno d'estate si incontravano per un grande e chiassoso raduno intorno al ristorante La Leccarda. Magda andò nel magazzino dove Johannes teneva gli attrezzi e non tardò a trovare quello che cercava. Lukas e Carolina erano arrivati al torrente nel fondovalle. Il lieve gorgoglio dell'acqua aveva un effetto tranquillizzante. Si fermarono. «Questo è tutto. Altro non so», disse Lukas. Carolina rimase in silenzio. Dopo aver sentito tutta la storia, nutriva scarse speranze di poter rivedere


Johannes vivo. Lui infatti non era il tipo che agiva in segreto. Se avesse voluto lasciare la moglie, glielo avrebbe detto chiaramente. Come aveva fatto con lei. Se avesse voluto cominciare una nuova vita, non ne avrebbe fatto segreto. Era un individuo pragmatico. Corretto e concreto. Inoltre non avrebbe lasciato senza guida la sua azienda. No. Per qualche motivo Johannes non era più vivo. «E morto, vero?» «Non so proprio dirglielo.» Carolina si accese una sigaretta e si mise a fumare in silenzio. «Per Magda è una situazione molto difficile», proseguì Lukas. «Non ha ancora accettato la scomparsa di Johannes. Per questo attualmente crede che io sia lui e che sia tutto a posto.» Ecco dunque spiegato quel bacio. Il discorso filava. «Ma non può andare avanti all'infinito con questa messinscena. » «Certo che no. Ma preferisco continuare ancora un po', finché lei non starà meglio e sarà in grado di affrontare la verità. Oppure finché Johannes non verrà ritrovato. Vivo o morto. Allora dovrà accettare la realtà e rendersi conto che esistono due persone: io e Johannes.» «Mi raccomando, mi informi non appena ci saranno delle novità.» «Naturale.» Carolina sentì il bisogno di sedersi su un sasso e di mettersi a piangere. Sino a lavare via dalla mente l'immagine agghiacciante di un Johannes morto, vittima di un incidente o di un omicidio. Magda caricò in macchina la tanica di gasolio, richiuse il magazzino e tornò in casa. Sopra l'armadietto delle chiavi era appesa una foto di Johannes, Thorben e lei. L'avevano fatta con l'autoscatto, mentre erano sul traghetto per la Sardegna. Thorben era abbronzato e sorrideva raggiante nell'obiettivo. Nonostante il dentista avesse fatto un ottimo lavoro, anche sulla foto si notava che l'incisivo superiore sinistro era leggermente più grigio degli altri denti. A sei anni Thorben era caduto da una giostra sbattendo la faccia. Nel giro di due giorni il dente era diventato nero. Era ancora un dente da latte, ma anche quello permanente era cresciuto scuro. A dodici anni glielo avevano fatto curare. Ormai era ora che lui cominciasse le vacanze e si decidesse a venirli a trovare. Magda prese la carta da


lettera e la penna stilografica che Johannes le aveva riportato da un viaggio a Milano e si mise a scrivere. Tesoro mio, oggi ha piovuto ininterrottamente, ha pioggia ci ha svegliato stanotte, tamburellando sul tetto e contro i vetri. Per questa stagione è molto insolito, ma la natura ne ha un gran bisogno. Vedrai come sarà tutto verde, al tuo arrivo... Magda si fermò, riconoscendo le voci di Johannes e Carolina che risalivano lungo il viottolo. Carolina porse la mano a Lukas. «La ringrazio molto. Ho apprezzato la sua sincerità. Grazie.» «Spero che avremo presto notizie di Johannes», disse lui. «Lo spero anch'io», rispose lei, pur sapendo che era impossibile. «Le auguro di fare buon viaggio.» Carolina sorrise. «Grazie. Porga i miei saluti a Magda. Arrivederci.» Lukas si accorse allora che la macchina di Magda non c'era più. Trovò strano che fosse andata via così all'improvviso, ma forse non se l'era sentita di trovarsi nuovamente faccia a faccia con Carolina. Rivolse un ultimo saluto alla donna e qualche minuto più tardi sentì l'inconfondibile rombo di una Harley. Poco dopo la vide sfrecciare per la strada in discesa, diretta verso il bivio per Solata. Magda fermò l'auto in uno slargo appena oltre un tornante in discesa. Le sembrava il punto perfetto. Carolina doveva passare per forza di lì. Quando sentì il rumore di una moto ancora distante ma che si avvicinava rapidamente, versò in fretta sull'asfalto il contenuto della tanica, risalì in macchina e ripartì verso casa. Dopo poco, incrociò la Harley che procedeva veloce in direzione opposta. Dallo spiazzo antistante La Roccia, Lukas guardava Carolina condurre disinvolta la pesante moto lungo il tortuoso tracciato che scendeva verso valle. A tratti la visuale era nascosta dalla vegetazione o dalle sporgenze del terreno, ma la Harley sbucava sempre con andatura fluida e regolare. A un certo punto, Lukas riconobbe l'auto di Magda che risaliva verso La Roccia. E poi accadde. Una frazione di secondo. Carolina, per quanto fosse una motociclista esperta, non ebbe il tempo di reagire. In mezzo a un tornante la moto perse aderenza all'improvviso, senza che lei potesse intervenire in alcun


modo. Una violenta sbandata, la moto che si impunta sull'asfalto e Carolina catapultata in aria. Johannes, fu il suo ultimo pensiero, vieni ad aiutarmi. Portami all'ospedale e tienimi per mano. Poi venne inghiottita dalle tenebre. Lukas vide la moto impennarsi all'uscita di un tornante, Carolina si staccò dalla sella, si rigirò per aria volando sopra la strada e andò a sbattere violentemente a terra. La moto le piombò addosso con tutto il suo peso. Poi nulla si mosse. «Nooo», urlò Lukas con la bocca spalancata per l'orrore. Continuava a fissare la strada, come se potesse far tornare indietro il tempo. Rimase per un istante paralizzato dallo shock, poi si mise a correre. Scese a precipizio la strada sterrata ripida e tortuosa. Non correre mai in discesa, gli aveva sempre insegnato la madre, perché non riesci a fermarti. Carolina era corsa e non era riuscita a fermarsi. Lukas inciampò in un sasso, si ferì un ginocchio e le mani. Aveva i calzoni strappati, le mani insanguinate che gli bruciavano. Ma continuò a correre. Dopo un chilometro era stremato e si fermò a riprendere fiato. Dal punto in cui si trovava non riusciva a vedere il luogo dell'incidente. Però da lontano sentì il suono di una sirena. Senza correre, raggiunse la curva successiva e guardò verso il fondovalle. L'ambulanza risaliva la strada mentre alcuni automobilisti erano chini sul corpo di Carolina. Pochi secondi più tardi Magda lo raggiunse e lo abbracciò stringendolo forte. «Non lasciarmi», bisbigliò, «ti prego, non lasciarmi.» Magda gli teneva la testa posata sulla spalla, e lo stringeva come se non volesse più lasciarlo andare. Un istante dopo, tuttavia, si staccò da lui, che la fissava sgomento per quanto appena accaduto, e gli disse in tono distaccato: «Torniamo a casa».


«Ma non hai visto?» Lukas si passò la mano tra i capelli in un gesto di disperazione. «Andava troppo veloce, Magda, è volata dalla motocicletta, ho visto tutto. Non può essere sopravvissuta! Non può essere sopravvissuta!» «Io torno a casa», disse Magda gelida chiudendo la portiera. *** Capitolo 63. La telefonata arrivò alle undici e quarantasette. Fu Garzi a rispondere. Non parlò molto, rimase in ascolto e alla fine concluse: «Ok, tutto chiaro. Arriviamo». «Che cosa succede?» domandò Neri. «Un grave incidente stradale. Una motociclista è rimasta ferita.» «Dove?» «Tra Solata e Cennina. Sembra che viaggiasse a folle velocità e sia finita fuori strada.» Garzi e Neri salirono in macchina e partirono sgommando. Sei minuti dopo raggiunsero il luogo dell'incidente. L'elicottero di soccorso era appena atterrato, un medico e diversi paramedici erano impegnati intorno a Carolina. Pochi minuti più tardi il dottore si avvicinò ai due carabinieri. «Non possiamo fare più niente per lei. Chiamate un'ambulanza per farla trasportare a Firenze. All'obitorio.» Neri annuì. «Intanto ci dia i suoi documenti, per favore.» Il dottore gli porse la carta d'identità e Neri si annotò il nome di Carolina, il suo indirizzo a Berlino e l'anno di nascita. Garzi gli fece notare che forse sarebbe stato opportuno segnarsi anche il numero di carta d'identità e la data di emissione per i colleghi tedeschi e Neri la giudicò ancora una volta una spiacevole intromissione. Sebbene il paese più vicino fosse a tre chilometri e mezzo di distanza, intorno al luogo dell'incidente si era radunata una piccola folla e Neri si chiese da dove fossero spuntate così in fretta tante persone. Poi si sforzò di togliersi dalla mente tali pensieri insulsi e si concentrò sulla voce di un vecchio contadino, che parlava tanto forte da risultare assordante anche all'aria aperta.


«Ho capito subito che sarebbe finita male», tuonò. «Si vedeva da come guidava veloce.» «Ha assistito all'incidente?» «Purtroppo no», rispose il vecchio, dispiaciuto più per non aver assistito all'incidente che per l'incidente in sé. «Ero su in cima al sentiero al capanno di caccia. Da lì non si vede questa curva.» Neri decise che non c'era più bisogno di ascoltare il contadino. In sostanza non faceva altro che confermare ciò che tutti avevano intuito: la motociclista andava troppo forte. Probabilmente per pura spericolatezza, per l'amore della velocità e il brivido di affrontare il pericolo. Anche se a Neri costava una certa fatica immaginarsi che una donna di trentaquattro anni potesse essere tanto avventata. «Proprio una bella donna», disse il medico a Garzi. «Sono gli incidenti che restano in mente più a lungo. Quando un individuo perde la vita in maniera tanto assurda e gratuita. » Neri non provava compassione per la donna deceduta, pensava piuttosto con un certo fastidio che i tedeschi in Toscana erano diventati una specie di calamità naturale: uccidevano i bambini, venivano assassinati, scomparivano senza lasciare traccia, oppure si rompevano il collo sulle magnifiche strade della regione. A lui avevano causato solo scocciature, lavoro, fastidi e la sensazione costante di trovarsi di fronte a problemi senza soluzione. Adesso doveva mettersi in contatto con i colleghi tedeschi, e non ne aveva proprio voglia. Quando Lukas vide che Carolina veniva deposta in una bara di ferro grigio, tornò sui propri passi e si avviò verso La Roccia. Magda stava lavando la macchina quando lui imboccò il vialetto d'accesso. Chiuse l'acqua, gli sorrise e lo abbracciò. «Che cosa spaventosa», disse, «sei stato sul luogo dell'incidente? » Lukas scrollò il capo. «No. Però è morta.» «Già», disse Magda, «lo immaginavo.» «Non riesco proprio a capire!» Lukas tolse la schiuma dalla carrozzeria. «Non mi sembrava affatto una persona spericolata. Dopotutto aveva esperienza con le Harley. Perché avrebbe dovuto rischiare la vita su una strada come quella?» «Cosa vuoi saperne tu? Ti prego, smettila di scervellarti.


Visto che gli incidenti non capitano senza motivo, sicuramente guidava troppo forte.» Questo è sicuro, pensò Lukas, maledizione. Sapeva una cosa soltanto. Johannes l'aveva amata, e adesso erano morti entrambi. Aveva voglia di piangere, così rientrò in casa, perché non sopportava l'atteggiamento indifferente di Magda che risciacquava l'automobile fischiettando. *** Capitolo 64. Non era proprio la sua giornata. L'incubo sembrava non voler finire mai, questa almeno era l'impressione di Neri. Quando rincasò alla sera, pregustando già un bicchiere di vino insieme alla moglie, trovò sul tavolo il biglietto che aveva paventato da mesi. C'era scritto con la grafia tondeggiante di Gabriella: Sono andata a Roma da mia madre. Ha telefonato una vicina di casa. Non sta bene, non ci sta più con la testa. E già successo due volte che è andata a fare la spesa e poi non ha più trovato la strada di casa. Mette le scarpe in frigorifero, si lava le mani con il burro e butta le banconote dal balcone. Ho paura che possa dar fuoco alla casa oppure commettere qualche altra sciocchezza. Non può più essere lasciata sola, perciò non so quanto tempo dovrò restare. Ci sentiremo per telefono, tesoro. Mi raccomando, cerca di mangiare tanti broccoli, perché fanno bene alla salute. Basta farli bollire dieci minuti in acqua salata, condirli con noce moscata, pepe, sale e aglio, cospargerli di parmigiano e metterli tre minuti in forno. Ce la puoi fare, amore. Ti abbraccio.


Gabriella Naturale. Sua suocera Gloria. Non ci aveva proprio pensato. Per Gabriella rappresentava la scusa perfetta per andare a Roma e lasciarlo lì da solo ad Ambra. Con tutti quei casi interessantissimi. Quel pomeriggio era stato chiamato in una casa proprio di fronte al tabacchificio. Nonostante la presenza di cinque cani in quella casa, era stato commesso un furto. Fantastico! Probabilmente il ladro aveva usato qualche etto di mortadella per tenere a bada la muta. Nessuno aveva visto né sentito niente, il padrone di casa, un settantacinquenne, stava giusto facendo un pisolino dopo pranzo mentre la sua casa veniva svuotata. Neri provava un disgusto indicibile per tutto quanto. E quando poi la sera si era ritrovato da solo in una cucina vuota e fredda la vita gli era risultata insopportabile. Aveva telefonato a Gloria una decina di giorni prima. Gli era parsa perfettamente lucida e in sé. Si era indignata per tre quarti d'ora buoni perché la sua vicina tutte le mattine spazzava il marciapiede davanti a casa spostando polvere e sporco sulla sua soglia. Possibile che, nel giro di pochi giorni, questa stessa amorevole vicina avesse telefonato premurosa a Gabriella perché Gloria aveva sviluppato una forma fulminante di demenza senile? Neri non credeva a una parola di quel che gli aveva scritto la moglie, ma non faceva differenza. Gabriella aveva trovato un pretesto e se n'era andata a spassarsela a Roma, mentre lui guardava dentro il frigo mezzo vuoto e rifletteva sul fallimento della sua carriera. Una cosa se non altro gli era riuscita. Subito dopo l'incidente, si era fatto coraggio e aveva informato i colleghi a Berlino. In un inglese zoppicante aveva cercato di chiarire che si era trattato di un incidente senza intervento di fattori esterni né di responsabilità terze. Era inutile procedere con ulteriori indagini. La famiglia della vittima poteva decidere che cosa fare della motocicletta distrutta. Secondo lui non aveva molto senso inviare quel rottame in Germania. Ma Garzi, che stava ascoltando la telefonata, gli aveva fatto notare che una Harley come quella valeva assai più di una Vespa qualsiasi. Neri arrossì violentemente, si piegò in avanti, tenendosi lo stomaco, addusse improvvisi problemi intestinali e passò il telefono al collega, il quale riprese la conversazione in una disordinata mescolanza di inglese e italiano. Per Neri il caso era chiuso lì. Si ritirò in bagno e ci rimase dieci minuti. Era una grande scocciatura, ma in cuor suo gioiva di aver lasciato a Garzi il compito di chiarire tutta quella spiacevole faccenda. Gli stava bene. Così imparava a fare sempre il saccente. Neri decise di saltare la cena. Non aveva alcuna voglia di cucinare. Si stappò una bottiglia di vino e si sedette davanti al televisore. Sperava di essere assalito quanto prima dalla stanchezza e di addormentarsi


per dimenticare tutto quell'orrore: le bizzarre persone che abitavano alla Roccia, la motociclista morta, l'assurdo furto a casa di quel cretino settantacinquenne e ovviamente anche la maledetta Roma e la moglie Gabriella, tanto smaniosa di tornare in quella città. *** Capitolo 65. Stefano Trepo era un uomo di mondo e manteneva le promesse. Per questo il mercoledì successivo non dimenticò di prendere dal frigorifero una bottiglia di champagne e di caricarla in auto dentro una borsa termica prima di mettersi in viaggio per La Roccia. Lo champagne per lui era qualcosa di speciale, la bevanda più nobile e prelibata che conoscesse. Quando voleva festeggiare un successo oppure premiarsi per qualcosa, stappava una bottiglia nel suo appartamento fiorentino, brindava a se stesso, beveva lentamente, gustandosi ogni singola sorsata. Per questo la bottiglia che portava oggi era quanto mai indicata, perché il modo in cui era riuscito a mettersi in contatto con un omicida e a ricattarlo con tanto successo meritava più di un premio. Avrebbe dovuto concedersi una intera cassa di champagne. Arrivato alla Roccia, Trepo si rese subito conto che davanti alla casa era parcheggiata solo un'auto, e rise tra sé. Molto bene. Evidentemente Johannes voleva collaborare, e aveva organizzato tutto in modo da farsi trovare solo. Questo semplificava le cose, perché così avrebbe potuto parlare indisturbato con il suo nuovo amico, farsi consegnare i soldi e poi brindare alla loro straordinaria collaborazione. Lukas aveva sentito il rumore dell'auto che arrivava. Non poteva vederla da dove si trovava accanto alla fossa biologica, ma era sicuro che non si trattava di Magda. Il motore della sua macchina aveva un suono diverso. Allora doveva essere Trepo. Quel lurido bastardo era tornato per davvero. Lukas si sentì avvampare mentre la rabbia e la disperazione lo facevano sudare. Trepo scese dall'auto, chiamò per nome Magda e Johannes, ma non ottenne risposta. Girò intorno alla casa, come aveva fatto anche l'ultima volta, e guardò in cucina. Era vuota, ma non più così ordinata e pulita. Sul tavolo c'erano un cartoccio di latte vuoto schiacciato, un libro aperto, un paio di occhiali e delle fette di pane.


Abbassò cauto la maniglia della porta. Era aperta. Trepo entrò e chiamò: «Magda?» Nessuna risposta. Dopo qualche istante chiamò di nuovo: «Johannes!» E ancora nessuna risposta. Uscì. Uno dei due doveva essere da qualche parte. Se fossero andati via entrambi, non avrebbero certo lasciato la porta aperta. Trepo si incamminò per la proprietà, a sinistra della casa, fino all'orto che lo attirava con un'inspiegabile forza magnetica. Non c'era nessuno neppure lì. Si fermò e si guardò intorno. Poi scorse Lukas, che lavorava con la pala voltandogli le spalle ed evidentemente non lo aveva né sentito né visto arrivare. Il suo cellulare si mise a suonare. Trepo rispose. «Pronto? » disse, e sembrò molto soddisfatto della chiamata. Lukas invece aveva sentito benissimo lo squillo del cellulare di Trepo. Poi udì la sua voce arrogante, quella risata affettata di cui Trepo amava tanto infarcire i suoi discorsi. Sebbene continuasse a voltargli le spalle e non potesse vederlo in viso, Lukas riusciva a immaginarselo senza difficoltà. Il sorriso sornione perennemente stampato in faccia, le scarpe di vernice immacolate messe in mostra con movimenti simili a passi di danza, i costosi pantaloni firmati, la camicia elegante che di sicuro doveva costare uno sproposito, e la discreta sciarpa di seta del tutto superflua con quel caldo. Trepo parlava instancabile, Lukas non capiva una parola, a parte che ora si trovava da amici, una coppia di intellettuali tedeschi davvero fantastici, con i quali voleva bere un goccio di champagne... Lukas fu assalito dalla nausea. Quella sanguisuga, quel disgustoso parassita parlava dietro di lui mentre si avvicinava. Gli sembrava di sentirne il fiato sul collo. Strinse convulsamente le mani intorno alla pala, fino a farsi sbiancare le nocche. Si sentiva la bocca impastata e aveva il respiro così accelerato da rischiare di finire in iperventilazione. Dopo aver salutato calorosamente l'interlocutore al telefono, Trepo si rivolse a Lukas con voce flautata e di ottimo umore. «Buongiorno, come stai?» Lukas aveva la mente vuota, il suo gesto fu come un'esplosione quando si voltò di scatto e colpì con tutte le forze. La pesante pala investì Trepo come uno scacciamosche che spiaccica un insetto molesto sul vetro della finestra. Trepo fu colto di sorpresa e si rese conto soltanto del metallo che gli colpiva il cranio. L'ultimo suono che udì fu una specie di schianto come di legno spezzato. Risuonò amplificato nella sua testa mentre si spaccava, come se il cervello gli implodesse simile a una casa che crolla su se stessa.


Non avvertì nemmeno l'impatto con il terreno. Lukas rimase immobile, stringendo la pala. Che silenzio, pensò, finalmente si è zittito. Come ipnotizzato, fissava il rivolo di sangue che fuoriusciva dall'orecchio sinistro di Trepo e lasciava una chiazza rossa sul cemento chiaro della fossa biologica. Trepo ebbe un guizzo, mosse impercettibilmente le palpebre. Lukas valutò se fosse il caso di colpirlo di nuovo, come si fa con una vespa tramortita, per essere sicuri che non si muova più, ma poi lasciò perdere. Controvoglia lo afferrò per le ascelle e avvertì il calore corporeo sotto la costosa camicia di Gucci. Lo trascinò fino alla prima camera della fossa biologica, ringraziando Dio per il regolamento comunale che prescriveva di installare una fossa di quelle dimensioni alla Roccia. Aprì il coperchio e guardò dentro. La fossa era piena per metà di acqua e scarichi del gabinetto. Trepo era magro e sarebbe passato senza problemi dall'apertura. Lo sollevò e lo spinse oltre il ciglio della fossa, finché il peso stesso fece precipitare il corpo all'interno. Era privo di sensi e, se il cielo fosse stato misericordioso con lui, non avrebbe ripreso conoscenza e non si sarebbe reso conto di annegare nell'acqua fetida. Lukas richiuse il coperchio e fece un profondo respiro. Rimase in ascolto, pronto a udire le invocazioni d'aiuto di Trepo, ma dalla cisterna di cemento non proveniva alcun suono. Riprese la pala e si mise al lavoro più alacremente di prima per finire di ricoprire di terra la fossa. L'indomani stesso avrebbe piantato dell'erba tutt'intorno, lasciando libero solo il coperchio. Forse sarebbe riuscito a comprare quel giorno stesso dei grossi vasi di terracotta da collocarci sopra. La fossa biologica non veniva mai svuotata. Finché restava umida e continuava a filtrare acqua, funzionava da sola. I residui organici si depositavano nel terreno dove venivano distrutti dai batteri, l'acqua passava poi nella seconda camera dove il processo si ripeteva. Nella terza camera l'acqua era relativamente pulita e, dopo un ultimo processo di chiarificazione, veniva convogliata lontano dalla casa in un letto di ghiaia. Era un processo del tutto naturale e funzionava finché il sistema restava umido. Ma potevano volerci mesi. I batteri avrebbero avuto tutto il tempo di divorare completamente Trepo. Lukas lavorò duramente, con un senso quasi di felicità. Aveva risolto il problema di Trepo. Magda era uscita da più di due ore e poteva tornare da un momento all'altro. Quella mattina le era venuta una voglia improvvisa di andare al mercato a Siena per comperarsi due magliette. Cercava anche un marsupio in cui tenere il cellulare, i documenti e le chiavi quando andava in paese e non voleva portarsi


la borsa. Mentre spalava come un forsennato, non ebbe tempo di riflettere su ciò che era accaduto, l'unico suo pensiero era di finire prima che tornasse Magda. Una volta completato il lavoro, corse dentro casa, per allontanarsi il più possibile dalla seconda tomba scavata sulla proprietà. E lì fu assalito da un nuovo spavento. Di fronte a casa era parcheggiata l'auto di Trepo. Doveva portarla via. Non poteva spiegare a Magda la presenza di quella macchina davanti a casa mentre Trepo era scomparso. Aprì la portiera dalla parte del guidatore con mani tremanti. Per fortuna non era chiusa, ma le chiavi non erano nel cruscotto! Lukas fu assalito dal panico. Aveva commesso un terribile errore scaraventando Trepo nella fossa biologica senza prima frugargli nelle tasche! Molto probabilmente teneva le chiavi dell'auto nei pantaloni. Con un senso di nausea Lukas pensò a ciò che l'aspettava, ma si mosse ugualmente. Tornato alla fossa biologica, aprì il coperchio della prima camera e guardò dentro. Il corpo di Trepo era riverso su un fianco, il volto per metà immerso nei liquami. Lukas rimase a guardarlo per qualche secondo con attenzione, ma non colse nessun segno di vita. Facendo un grande sforzo su se stesso, infilò il braccio nel liquido mefitico e tastò con la mano alla ricerca della tasca dei pantaloni di Trepo. Un pezzo di carta igienica gli sfiorò le dita, facendolo trasalire di spavento e di disgusto. Lukas sperava con tutto il cuore che le chiavi fossero nella tasca rivolta verso l'alto, ma quando ci frugò con la mano si accorse che era vuota. Imprecò ad alta voce. Adesso veniva la parte più difficile. Doveva girare il corpo. Cercò di muoverlo usando entrambe le mani e tutte le sue forze. Con una specie di rivoltante gorgoglio il corpo di Trepo rotolò sulla schiena. Lukas provò un brivido. Si alzò e si spostò sull'altro lato della fossa. Da lì non doveva contorcere la mano così tanto e riusciva ad arrivare meglio alla tasca destra dei calzoni della vittima. Gli costò un po' di fatica e molta pazienza trovare la tasca, ma alla fine tastò qualcosa di duro sotto la stoffa bagnata: aveva trovato le chiavi della macchina. Da lì in poi le cose procedettero speditamente. Estrasse le chiavi, richiuse la cisterna, si pulì le mani sui calzoni e tornò di corsa in casa. In cucina si lavò le mani e preparò un biglietto per Magda che lasciò sul tavolo. Tesoro, scrisse, vado a fare una lunga passeggiata. Tornerò verso sera. Ti abbraccio.


Poi prese le chiavi di casa e uscì richiudendo la porta. Salito in macchina, mise in moto e partì a tutto gas. La ghiaia del vialetto sollevata dalle ruote rimbalzava contro la carrozzeria mentre sfrecciava per la discesa e svoltava verso Nusenna. Da quella parte era meno probabile incontrare Magda. Non è possibile, pensò Lukas, mentre veniva fermato da due carabinieri a un posto di blocco a poca distanza da Bucine. Le ginocchia presero a tremargli così forte da impedirgli quasi di frenare. Calmati, si disse, non hai motivo di agitarti: il cadavere non è nel baule, ma nella fossa biologica della Roccia. Il carabiniere lo salutò cordialmente portandosi la mano al berretto e gli chiese in italiano: «Per favore, favorisca patente e libretto di circolazione». Questo qui lo conosco, pensò Lukas. Maledizione, dove l'ho già visto? Lo fissò assorto. Forse un po' troppo a lungo, perché anche il carabiniere aggrottò la fronte come se si stesse chiedendo chi fosse quell'automobilista. In quel preciso istante Lukas ricordò e provò una sensazione di soffocamento: quello che aveva di fronte era Neri, al quale l'ultima volta aveva dichiarato di essere Johannes Tillmann. Non poteva assolutamente mostrargli i documenti su cui stava scritto Lukas Tillmann. Neri non gli sembrava la persona più perspicace di questo mondo, ma di sicuro se ne sarebbe accorto... anzi in quel momento esclamò: «Signor Tillmann! Non l'avevo riconosciuta». Lukas annuì con un sorriso incerto e si mise a frugare nel portafoglio per guadagnare tempo. Alla fine scrollò le spalle e mostrò le mani in un gesto di resa. «Ho lasciato i documenti a casa.» Tanto per fare qualcosa, frugò nel cassettino del cruscotto, dove gli capitò tra le mani un foglio infilato in una busta di plastica, molto simile al foglio di circolazione dei veicoli tedeschi, soltanto un po' più grande. Lo porse a Neri. «Stefano Trepo», lesse Neri. «Chi è, un suo amico?» «Sì, sì, un amico», mormorò Lukas nervosamente. «Lei ce l'ha la patente?» chiese Neri. Lukas comprese la parola patente. «Sì, sì, sì, sì», confermò. «A casa. L'ho scordata. I've forgotten.» «Poco male», disse Neri con un sorriso. «Tanto la conosco. »


Lukas non comprese una sola parola. «Domani mattina venga nel mio ufficio con la patente, d'accordo?» Lukas lo guardò confuso. «Come?» «Domani! Tomorrow! In ufficio! Con la patente! Ok?» Lukas annuì sorridendo sollevato. «Va bene, grazie.» «Arrivederci, signor Tillmann!» «Arrivederci.» Lukas ripartì. L'indomani doveva presentarsi con la patente di Johannes, pensò. C'era da sperare che Magda, o chiunque fosse stato, non avesse seppellito il cadavere nell'orto insieme ai documenti. Non sapeva che genere di foto avesse Johannes sulla patente, poteva solo sperare che avesse almeno una vaga somiglianza con lui, in modo da poterla vendere a Neri come propria. Il resto del tragitto fino a Firenze fu senza intoppi. Lukas cercava la stazione, ma faticò a trovarla. Le indicazioni infatti non erano per niente chiare e fu costretto a chiedere ripetutamente. Dopo essersi perso un paio di volte, riuscì finalmente a raggiungere la meta e fermò l'auto al quinto piano di un enorme parcheggio coperto in funzione ventiquattr'ore su ventiquattro. In questo modo era meno probabile che qualcuno notasse un'auto abbandonata. A meno che la polizia non cercasse proprio quel preciso veicolo con quel numero di targa. Ma questo sarebbe accaduto solo dopo che fosse stata sporta denuncia per la scomparsa di Trepo. E, in quel caso, le autorità avrebbero pensato che Trepo avesse lasciato lì la macchina per recarsi da qualche parte in treno. Lo scomparso risultava in vacanza. Lukas pulì accuratamente il volante, la leva del cambio e la maniglia della portiera per eliminare le impronte, chiuse l'auto, uscì dal parcheggio, gettò il biglietto in un cestino e tornò a Montevarchi con il primo treno disponibile venti minuti più tardi. Giunto lì, prese un taxi fino a Solata poi continuò a piedi. Mentre camminava verso La Roccia, prese una decisione irrevocabile. Erano quasi le sei quando arrivò a casa. Magda lo abbracciò e lo baciò come se fosse stato via un mese. «Ho letto il biglietto», gli disse, «ma cominciavo a preoccuparmi. Mi preoccupo sempre quando non ci sei! Stavo quasi per chiamare quel buffo carabiniere, quel Neri, per denunciare la tua scomparsa.» Magda rise e Lukas l'abbracciò. «Ho fatto una bellissima passeggiata. Ho continuato a camminare senza pensare che prima o poi dovevo tornare indietro. Mi spiace.»


«Non era oggi che doveva venire Trepo? Mi è tornato in mente quando ero già a Siena.» «Sì, infatti. Così aveva detto. Sono rimasto qui fino alle dodici e mezzo, ma non si è fatto vedere.» Magda si limitò a scrollare le spalle. «Chi se ne importa.» Lukas le prese una mano e gliela accarezzò dolcemente. Magda gli sembrava così rilassata e serena che giudicò fosse il momento adatto per parlarle della sua partenza per la Germania. «Non posso rimandare oltre, Magda», disse, «devo assolutamente tornare a Berlino a chiarire alcune cose.» «Quando?» «Sarebbe meglio domani stesso.» Lei si voltò a guardare verso il bosco senza parlare. «Vieni anche tu! Partiamo insieme. Ti prometto che torneremo qui prima possibile.» «No», rispose lei. «Non mi va. Io resto qui.» Si alzò e si mise a passeggiare avanti e indietro sulla terrazza, poi si spostò dietro di lui, gli accarezzò la testa e lo abbracciò. «Ho deciso di restare per sempre in Italia. Lascerò il lavoro alla farmacia. I ricavi della società sono più che sufficienti per noi due. Non ho più voglia di andare avanti e indietro. Vorrei passare qui tutto il tempo, senza dover pensare: Oddio, tra una settimana finiscono le ferie. Mi capisci?» «Sì, sì, certo... ma...» «Questo è il nostro paradiso! Ci piace stare in Italia, stiamo insieme e siamo felici. Facciamo in modo che continui così. La vita a Berlino è così avvilente, e il lavoro rovina tutto.» «E come possiamo fare, secondo te?» Lukas non sapeva davvero più che cosa pensare. La sua vita di un tempo sembrava allontanarsi sempre di più. «Non devi pensare sempre a tutto tu, Johannes!» Si mise di nuovo seduta e lo guardò amorevolmente. «Trova un manager che si occupi dei tuoi affari. Con Internet, fax e telefono potreste collaborare senza problemi. Poi, di tanto in tanto, vi incontrate e fate insieme il punto della situazione...» «Tu la fai così facile...»


«Ma è facile, tesoro! E poi non troveresti fantastico anche tu vivere qui e non venirci solo in vacanza? Oppure hai così tanta nostalgia del tuo ufficio e del lavoro?» «Non si tratta solo del lavoro...» «Che cosa è più importante per te? Il lavoro oppure la vita con me? Perché io non tornerò più indietro. Questo è sicuro.» Lukas sospirò. «Mi sembra una decisione un po' affrettata la tua.» Magda sorrise. «Va' a Berlino e organizza le cose. Per quanto mi riguarda, puoi anche vendere l'appartamento. E buttare via tutto quello che contiene. Non m'interessa più. Regala i mobili, oppure vendili, come ti pare. Basta che mi porti le cose che sono sulla mia scrivania. E il raccoglitore nell'armadio accanto alla porta. Nient'altro.» «Per svuotare un appartamento mi ci vorrebbero settimane. » «Ci penseremo poi. Per il momento trova un manager capace e torna qui. In una settimana dovresti farcela.» «Può darsi di sì, ma può darsi anche di no.» «Ti prego! Non posso vivere senza di te! Non resisto neppure poche ore mentre sei a fare una passeggiata. Mi sento morire di nostalgia! Possiamo pensare a svuotare insieme l'appartamento quest'autunno o quest'inverno. Verrò con te.» Sarebbe meglio lasciare per sempre questa casa, pensò Lukas, ci sono sepolti due cadaveri. Questo posto è maledetto e, finché vivremo qui, non riusciremo a sottrarci alla sua influenza negativa. *** Capitolo 66. Durante il tragitto verso l'aeroporto, Magda rimase stranamente taciturna. Aveva l'aspetto infelice e continuava a mordersi il labbro inferiore.


Lukas le posò la mano sulla coscia. «Starò via solo una settimana», le disse, «vedrai che passa in fretta. In men che non si dica sarò di nuovo qui con te.» «Sì, sì», rispose lei, «hai ragione. Hai proprio ragione.» Ma dal tono sembrava stesse dicendo: Che razza d'idiota sei a partire proprio adesso. Farai del male a entrambi e perdipiù non ha senso, ed è del tutto inutile. «Non c'è bisogno che cerchi parcheggio ed entri con me, Magda, sul serio. Fammi scendere e riparti subito. È decisamente più comodo.» Avevano appena imboccato l'uscita di Firenze nord verso l'aeroporto. «No», disse lei. Soltanto: «No». Magda trovò un posto libero nella parte più lontana del parcheggio. Scesi dall'auto, si diressero verso il terminal tenendosi per mano. Mentre Lukas era in coda per il check-in, venne assalito da un'inspiegabile paura. L'impiegata trattenne il suo documento un istante più a lungo del necessario, esitò mentre guardava la sua foto, o forse era solo una sua impressione. In ogni caso lui era un assassino in fuga, che pregava solo di riuscire a lasciare il paese senza problemi, senza intoppi e senza essere scoperto. Tutto ciò che pensava e temeva in realtà non era così minaccioso, perché le probabilità che nelle ultime due ore da quando erano partiti dalla Roccia qualcuno avesse trovato i cadaveri, ne avesse denunciato la scoperta e i carabinieri avessero diramato l'ordine di sorvegliare gli aeroporti erano molto scarse. Quasi inesistenti. Nessuno poteva essere andato alla Roccia a ficcare il naso nella fossa biologica e a scavare in giro. Nessuno. Ma poi gli tornò in mente Trepo, che aveva trovato il cadavere, e Massimo che, di sua iniziativa, si era messo a scavare nell'orto. Ciò che era accaduto una volta poteva benissimo ripetersi. La hostess si assentò per un istante, scomparendo in una saletta dietro il bancone. Lukas valutò se fosse il caso di scappare lasciando il terminal dell'aeroporto, ma poi decise di restare dov'era. Era come paralizzato. Dopo pochi secondi l'impiegata tornò al suo posto, cerchiò con il pennarello il numero del gate, sorrise e gli augurò un buon volo. Il primo ostacolo è superato, pensò Lukas, ma non era ancora al sicuro in aria. Dopo aver infilato la carta d'imbarco nella tasca della giacca, salutò Magda con un abbraccio. Lei gli si strinse contro. «Torna presto», mormorò. «Stai attento e non dimenticarti di me.»


«Te lo prometto.» Lui la baciò. «Non essere triste.» Lei annuì e sorrise tra le lacrime. Poi lo abbracciò di slancio, gli sfiorò il collo con un bacio, si staccò da lui e corse verso l'uscita. Si fermò un'ultima volta sulla porta, si voltò, gli rivolse un cenno di saluto poi scomparve. Lukas bevve un caffè al bar e valutò se andare subito all'imbarco oppure aspettare ancora un poco. In realtà gli era indifferente, e questo servì solo a fargli capire che molto probabilmente aveva perduto per sempre la sua spensieratezza. D'ora in poi la sua vita sarebbe stata una fuga senza fine, con la paura costante di essere scoperto. Esaminò allarmato il contenuto del suo bagaglio a mano, per accertarsi che non ci fosse dentro nulla che potesse essere sottoposto a un controllo attirando così l'attenzione su di lui. Non trovò niente. Era tutto in ordine. Superò i controlli della sicurezza senza problemi e si sentì decisamente più sollevato quando si mise a sedere in sala d'attesa a fissare lo schermo con l'indicazione «Berlin-Tegel, partenza ore 13,05». In condizioni normali Lukas aveva paura di volare. Non gli piaceva affidare la propria vita a un apparecchio e a una persona di cui non sapeva quanta esperienza avesse e come si sentisse quel giorno. Durante il decollo e l'atterraggio sentiva regolarmente dei rumori sospetti che gli facevano pensare a un guasto ai motori, e mentre volava sopra le nuvole non provava un senso di libertà, bensì al contrario di soffocante prigionia. Perché era legato al destino di quell'aeroplano nella buona e nella cattiva sorte. Stavolta però la situazione era diversa. Aveva lasciato l'Italia e poteva rilassarsi per la prima volta. Il volo era un'esperienza innocua paragonato ai problemi che lo aspettavano sulla terra. Anche l'idea di precipitare e morire non gli appariva più come l'eventualità peggiore. L'aereo non precipitò, ma atterrò due ore più tardi senza problemi all'aeroporto di Berlin-Tegel. Lukas prese un taxi e si recò subito a casa dei genitori. Parlare con loro aveva la priorità su tutto il resto. Siccome quell'incontro gli appariva come una montagna invalicabile, voleva affrontarlo il prima possibile. *** Capitolo 67.


Per quanto si fosse preparato mentalmente, rimase sconvolto alla vista di sua madre. Era dimagrita, il suo volto era solcato da nuove rughe e il suo sguardo era spento. Questa non è più la mia mamma brillante, elegante, mondana, pensò Lukas. Questa è un relitto. L'abbracciò forte. «Ragazzo mio», singhiozzò lei, «sei qui. Se non altro ho ancora te. Almeno te.» Entrarono insieme nell'appartamento. Il padre lo accolse sulla porta del salotto e gli porse la mano senza parlare. Poi lo strinse a sé e gli diede una lieve pacca sulla spalla. «Sono contento che tu sia qui», bisbigliò. Anche lui sembrava molto invecchiato. Gli stappò in silenzio una birra, gli porse bottiglia e bicchiere mentre sua madre stava seduta sul divano con le mani intrecciate a guardarlo fisso. «Racconta», disse, «voglio sapere tutto.» Lukas fece un profondo respiro. «Sarò sincero con voi», esordì. «Johannes è scomparso e a tutt'oggi non è ancora tornato.» Hildegard soffocò un singhiozzo. «Non sappiamo se sia vivo o morto. Non sappiamo niente. È una situazione così assurda che nessuno di noi riesce ad accettarla.» «Ma perché Magda al telefono mi ha detto che era tornato? Perché ci ha raccontato di averlo ritrovato a Roma?» «Perché Magda è fisicamente e mentalmente esaurita. E ovvio che non lo ha trovato a Roma, ma se ne è convinta per non crollare del tutto. Magda ha subito un grave shock. Se mente al telefono lo fa perché non riesce a sopportare la verità. Cercate di capirla. Per questo tra l'altro non vuole tornare in Germania. Non vuole tornare senza Johannes, vuole aspettarlo e, per riuscire ad affrontare la vita quotidiana, si illude che lui sia con lei. A volte crede che io sia Johannes, allora sta meglio. Forse è per questo che al telefono ha detto che era tornato. Perché mi scambia per lui. E una situazione davvero grave.» «Secondo te che cosa è accaduto?» domandò Hildegard. «Non so davvero cosa pensare. A volte credo che se ne sia andato così, senza dire niente, ma a volte temo che sia morto.» Hildegard fissò il figlio minore trattenendo il fiato. Quasi per un minuto intero. Poi chiese: «Dimmi


quello che pensi veramente, nel tuo cuore. Ti prego, sii sincero!» «Io credo che ritornerà. Che prima o poi ritornerà.» Pronunciare questa bugia lo fece sentire un vigliacco, ma riteneva di doverlo ai suoi genitori. Richard sbuffò. «Tutta questa storia non rispecchia il modo di fare di Johannes.» Lukas scrollò le spalle. «Negli ultimi mesi anch'io ho creduto di non conoscere mio fratello. Tutto mi sarei aspettato da lui tranne questo. Che se ne andasse così, senza una parola. » «E questo lascia presupporre il peggio.» Richard si schiarì la gola rumorosamente. «È successo qualcosa?» domandò Hildegard. «Aveva problemi con Magda?» «No. Al contrario.» «Forse non ha superato la morte di Thorben.» «Può darsi. Anche se ho sempre avuto l'impressione che l'avesse presa molto meglio di Magda.» Trascorsero diversi minuti di silenzio. Alla fine Lukas si alzò, si appoggiò al bracciolo della poltrona e abbracciò la madre. «Andrà tutto bene», mormorò, «vedrai. Ma dobbiamo restare uniti. Noi tre.» Sua madre piangeva piano, ma lui si rese conto che il suo abbraccio le faceva bene. Poi guardò il padre. «Papà», esordì, «è un momento difficile, molto. Dobbiamo riflettere bene sul destino della ditta. Non possiamo far finta di niente, perché rischiamo di mandare tutto a rotoli.» Richard annuì e si tolse delle briciole dai pantaloni. «Volevo chiederti di gestirla tu fino al ritorno di Johannes. O fintantoché io tornerò in Germania. Al momento devo restare in Italia con Magda. Non posso lasciarla sola.» «Quanto tempo ci vorrà?» «Non ne ho idea. Mesi forse.» «Lukas», disse Richard mettendosi a scarabocchiare dei quadretti su un foglio di carta, «io ho settantotto anni e non mi occupo più della ditta da otto. Che cosa dovrei fare secondo te?»


«So che per te non è facile, papà.» La voce di Lukas era affettuosa e pacata. «Ma non potrei pensare a una persona più adatta di te. Se c'è qualcuno che conosce a fondo gli affari, sei tu. Era la tua società. Sai come gestirla. E se il lavoro dovesse diventare troppo impegnativo per te nomina un amministratore che si occupi di tutto al posto tuo e che tu dovrai solo controllare.» Richard rimase in silenzio, assorto. Lukas osservò il padre. «Le cose non andranno così all'infinito. » «Sì, sì, questo l'ho capito.» Richard si avvicinò al mobile, aprì lo sportello del bar e prese una bottiglia di cognac. «Ne vuoi un goccio anche tu?» domandò, alzando la bottiglia, ma Lukas rifiutò scrollando la testa. Richard si mise a sedere alla scrivania e si riempì il bicchiere. Di solito lo faceva soltanto per le feste o per le occasioni speciali. «D'accordo», disse brusco, «me ne occuperò io. Ma vorrei essere tenuto informato e sapere la verità. Che sia chiaro.» «Certo. Puoi contarci.» Richard si alzò. «Vieni nel mio studio. Dobbiamo definire i dettagli.» Lukas seguì il padre, mentre Hildegard andava in cucina a preparare la cena. Lei era sicura che Johannes non se ne fosse andato di sua iniziativa. Era una persona così stabile ed equilibrata. Amava la vita, il lavoro e la moglie. Gli piaceva vivere a Berlino e trascorrere le vacanze nella sua casa in Toscana. Depressione per lui era una parola sconosciuta, e sembrava aver trovato ormai da tempo il senso della vita. Le riusciva più facile immaginare Lukas nel ruolo del perenne scontento, sempre alla ricerca della felicità. Mentre affettava le cipolle con le lacrime agli occhi non solo a causa loro, giurò a se stessa che non avrebbe mai smesso di cercarlo. ***


Capitolo 68. «Fammi capire», tuonò Anneliese, «vuoi smettere di recitare? Che ti è successo, hai trovato un forziere di monete d'oro, oppure hai perso del tutto il lume della ragione?» La bassottina Paulinchen rovesciò gli occhi beata mentre faceva pipì sul foglio di plastica. Anneliese, che di solito si affrettava subito ad asciugare il lago, stavolta non reagì, ma continuò a parlare. «Ragazzo mio, se hai dei problemi, per me puoi anche smettere per sei mesi, prenderti un anno sabbatico e andare dallo psichiatra. Oppure metterti a bere. Ho visto succedere tutte queste cose, e ti assicuro che poi passano. Ma non raccontarmi questa assurda panzana che vuoi smettere di recitare. » «Non posso spiegarle i dettagli, ma non è più possibile.» «Scemenze. Non esiste niente che non possa essere spiegato. Ti sei innamorato forse?» «Anche.» «Aha.» Anneliese assunse un'espressione più soddisfatta. «Allora la guarigione è in vista. Vedrai che passa. E, dimmi, come pensi di mantenerti una volta tornato alla ragione? D'aria e d'amore?» «Mi occuperò della società di mio fratello. C'è un sacco di lavoro da fare e tantissime responsabilità. Non mi sarà più possibile passare qualche settimana a fare le prove e stare in tournée diversi mesi.» «Oddio, ma è terribile! Perché lo fai?» Anneliese si tolse i numerosi anelli dalle dita nodose, li appoggiò sul tavolo poi si infilò quelli della mano sinistra sulla destra e viceversa. Cominciava sempre a fare questo giochetto quando si annoiava. «Mio fratello è malato. Molto malato. Non potrà più dirigere l'azienda.» «Mi rincresce molto.» Anneliese rimirò compiaciuta il proprio lavoro. «Certo è proprio una scocciatura pensare che ho appena fatto stampare il nuovo catalogo e ancora di più che ho parlato di te con Wedel.» «E?» Lukas non stava in sé dalla curiosità. «Non ci pensare, ragazzo, e occupati della tua contabilità.


» «Per favore, Anneliese. Quanti giorni?» Per tenerlo ancora di più sulle spine, Anneliese si alzò, si avvicinò all'imponente armadio di quercia massiccia dove custodiva documenti e foto degli attori, prese dalla nicchia tra il mobile e la parete secchio, straccio e spazzolone e asciugò il lago di Paulinchen. «Tre», rispose poi. «Tre giorni di seguito. In una settimana. » Lukas fu preso dalla familiare sete di un lavoro, una fonte di guadagno anche minima, come ai vecchi tempi. «Quando?» chiese. «Tra poco. Tra il 17 e il 24. Ma non montarti la testa, ragazzo, ho un sacco di candidati che potrebbero farcela a occhi chiusi. Pensavo solo che in questo momento avessi urgente bisogno di soldi. Mi rimbombano ancora le orecchie dalla tua ultima visita qui un paio di settimane fa.» Dopotutto Anneliese era ancora in gamba, pensò Lukas, e i soldi che avrebbe guadagnato in quella settimana gli sarebbero serviti per rimpinguare in parte il conto di Magda e per presentarsi a lei con un bel regalo. Fantastico. Forse sarebbe andato tutto a posto. «Accetto la parte. Di che cosa si tratta?» «Di un piccolo delinquente, che viene brutalmente picchiato, finisce sulla sedia a rotelle e vuota il sacco. Ovviamente non sopravvive alla cosa, come puoi ben immaginare. » Con un mezzo sorriso Anneliese si incamminò verso il bagno per risciacquare lo straccio e lasciò aperta la porta. «Ecco perché solo tre giorni di riprese», disse tornando con un secchio di acqua pulita. «Ma è una parte intensa. Per niente male.» «Quanto?» «Come al solito. Di più non è stato possibile.» Quell'occasione era come una manna dal cielo. Soprattutto il momento era davvero vantaggioso, perché combaciava esattamente con la settimana che lui aveva pensato di trascorrere a Berlino. Avrebbe raccontato a Magda che c'erano delle difficoltà in azienda e che si sarebbe dovuto trattenere un'altra settimana. «Ok. Benissimo. Grazie, Anneliese.» «Mi sembrava che avessi detto che non recitavi più», commentò lei piccata sciacquando il foglio di plastica. Lukas ebbe l'impressione che l'odore acre nell'aria diminuisse.


«Non posso impegnarmi per qualche settimana di fila, ma ogni tanto un giorno di riprese può andare.» «Il solito originale», brontolò Anneliese. «A proposito», disse Lukas alzandosi, «d'ora in avanti sarò raggiungibile solo sul cellulare.» «Come mai?» «Cambio casa.» «Oddio», esclamò Anneliese con voce stridula, «cominci pure tu a fare come tutti gli altri, che non si possono inserire nell'agenda telefonica perché cambiano casa ogni quattro settimane? Dove ti trasferisci?» «In Italia.» Anneliese ammutolì. Poi commentò a bassa voce: «Una decisione davvero sensata, ragazzo mio. Certo da laggiù è molto pratico dirigere un'azienda e partecipare a qualche ripresa di tanto in tanto». «Ci sono gli aerei, e c'è Internet. Nessun problema.» Anneliese sospirò e dentro di sé rimpianse di non avere trent'anni di meno. Prima era tutto molto più semplice. *** Capitolo 69. Mio tesoro amatissimo, che gioia ricevere la tua Ietterai Mi scrivi di avere una ragazza che si chiama Arabella. Tesoro, è fantastico!. E che bel nome ha. Sarà bella quanto il suo nome. Devi raccontarmi altre cose di lei. E non dimenticare di portarti dietro una foto quando verrai a trovarci. Naturalmente, puoi portare anche lei. Posto ce n'è. Potete decidere voi in quale camera dormire. Nella tua? In quella degli ospiti? Oppure anche Arabella va dai genitori durante le vacanze? E probabile, di sicuro anche loro vorranno avere la figlia vicina per qualche tempo. In ogni caso, sappi che Arabella sarebbe la benvenuta qui da noi! Sono proprio contenta che tu mi abbia raccontato di essere innamorato senza farne un mistero. Non sono molti i giovani della tua età che hanno un rapporto così aperto con i genitori come tu con noi. Ormai non manca più molto tempo... oggi è martedì e domenica ci rivedremo!. Non sto più nella pelle per l'emozione!


Sai una cosa? È davvero una buffa coincidenza. Se l'aereo di papà atterrerà puntuale domenica, lui prenderà a Firenze lo stesso treno tuo. Che tempismo perfetto! Amore mio, abbi cura di te e saluta Arabella da parte mia. Ti abbraccio, figlio mio. La tua mamma che ti aspetta con gioia. *** Capitolo 70. La dottoressa Nienburg aveva la voce morbida di una donna molto giovane e, quando Lukas le aveva telefonato per prendere un appuntamento, aveva creduto di parlare con una ragazzina. Era la madre di Erich, un collega con cui Lukas era stato in tournée sei mesi, quattro anni prima e faceva la psicoterapeuta. Quando Lukas le aveva telefonato dicendole di avere bisogno di lei, gli aveva fissato subito un appuntamento. Ora che l'aveva di fronte, Lukas cercò di nascondere il suo stupore. «No, non ha parlato con mia figlia al telefono», gli assicurò lei sorridendo mentre lo conduceva nello studio, «sono proprio io. So bene di non avere l'aspetto che si potrebbe presumere dalla mia voce.» Mechthild Nienburg era decisamente brutta. Con il suo metro e novanta era alta quanto un cavallo. Indossava un paio di pantaloni beige con la piega che mettevano in risalto il sedere enorme e un leggero pullover verde muschio che non solo non si intonava al colore dei pantaloni, ma aveva una linea che risaliva probabilmente agli anni Settanta. Una dozzinale collana dorata completava l'insieme. Gli scarponcini marroni, ideali per lunghe escursioni in montagna, dovevano essere come minimo il numero quarantatre. Un imponente anello con sigillo, minaccioso come un'arma, le adornava la mano sinistra. Aveva capelli biondo scuro, opachi, di media lunghezza, con la riga di lato. Erano pettinati in un'acconciatura ondulata; di tanto in tanto la dottoressa se ne scostava inconsciamente qualche ciocca dietro l'orecchio. Nonostante i suoi cinquantotto anni, Mechthild Nienburg non portava occhiali. Il suo sguardo castano emanava così tanto calore e bontà da far dimenticare subito la sua spaventosa statura. E quando sorrideva le si formavano due fossette nelle guance che davano un che di birichino e malizioso alla sua espressione. Lukas provò un'immediata simpatia per lei e le raccontò nella maniera più dettagliata possibile la storia


di Magda, tacendo tuttavia il destino di Johannes e di Trepo. «Mio fratello aveva un'amante», disse, «da circa quattro mesi. Magda lo è venuta a sapere casualmente qualche settimana fa. Per lei è stata la catastrofe, perché da bambina ha subito un trauma analogo.» «Che cosa le è accaduto?» «Suo padre ebbe un incidente mortale insieme alla sua amante. Non so quanti anni avesse Magda. All'incirca undici. » Fece un profondo respiro che suonò quasi come un gemito. «In ogni caso non è riuscita ad accettare la cosa e ha preteso da Johannes una decisione irrevocabile: lei oppure l'altra.» «E?» «Non so che cosa abbia deciso lui. Non so neppure che cosa sia accaduto tra loro, Magda non me ne ha mai parlato. In ogni caso sembrava che lui volesse trascorrere le ferie insieme a Magda. Era un buon segno. Ma due giorni dopo è partito per Roma e non è più tornato.» Si sporse in avanti. «Presumo che abbia usato questo viaggio come pretesto per cominciare una nuova vita con la sua amante da qualche altra parte. Non è certo un gesto maturo, anzi direi piuttosto vigliacco, ma non saprei come spiegarmi altrimenti la sua scomparsa.» «Sono d'accordo con lei», disse la dottoressa Nienburg, «ma potrebbe spiegarmi dove sta ora il problema?» «Magda è impazzita», rispose Lukas. «Mi rendo conto che sia un'espressione abusata, ma questa volta dico sul serio. Maledettamente sul serio. Lei crede che suo marito sia tornato e che tutto sia di nuovo a posto. Per lei io sono Johannes. Devo vestirmi e comportarmi come lui. Lei mi ama ed è felice. Dottoressa, sembra incredibile, ma lei ne è del tutto convinta! Allora mi chiedo: è possibile che abbia dimenticato l'aspetto di Johannes e il suo modo di essere, al punto da scambiarmi per lui?» La dottoressa Nienburg annuì. «Sì, certo, è possibile. Lei non ha dimenticato niente, ha rimosso. L'opera di rimozione da lei intrapresa è stata così radicale che crede a tutto ciò che si è andata ripetendo negli ultimi tempi. E riuscita a cancellare tutti i ricordi. Probabilmente ha conservato le esperienze positive, mentre ha eliminato dalla memoria quelle negative. Per sua cognata lei ora è il marito e, se non si interverrà in maniera decisa, resterà così per sempre.» «Ma è un incubo.»


«Sì, infatti. Le spiace se fumo?» «No, no, niente affatto.» Mechthild Nienburg andò dietro la scrivania e si accese una sigaretta. Poi si soffermò a guardare fuori dalla finestra. «Vede, io amo Magda», cercò di spiegare Lukas. «L'amo da quando l'ho vista la prima volta, diciassette anni fa. Ho sempre invidiato mio fratello per questo e, sebbene nel corso degli anni abbia avuto altre donne, Magda è sempre rimasta nei miei sogni. Ora tutti i miei desideri si sono realizzati, sono felice di stare con lei, ma la mia vita è un inferno. È come se fossi morto. Ho una vita diversa da mio fratello, altri amici, altre abitudini, un altro lavoro... e adesso devo rinunciare a tutto. Devo comportarmi come Johannes, anche se nessuno che ci conosca entrambi potrebbe scambiarmi per lui. Questa follia funziona soltanto con le persone che non ci conoscevano prima. Riesce a immaginarlo?» «Posso immaginare quanto debba essere traumatico per lei doversi calare nei panni di un'altra persona.» Lukas annuì. Gli venne voglia di piangere. Lì in Germania, con la distanza, la sua situazione gli sembrava ancora più assurda che in Italia. «Che cosa si può fare?» «Il problema, a prescindere dalle sue difficoltà, è che dopo un processo di rimozione così radicale è assai probabile che nel corso del tempo si sviluppino disturbi psichici, come nevrosi o psicosi. Bisogna pertanto far affiorare nuovamente i contenuti rimossi. Frau Tillmann deve imparare a poco a poco a riallacciare rapporti con persone, fatti e vita reale del suo presente.» «In che modo?» «Con la psicoanalisi.» «Sì, certo, ma in questo caso è molto difficile. Io da solo sono del tutto impotente.» «Completamente.» Mechthild Nienburg sorrise e socchiuse la finestra. «Sua cognata si è creata un mondo tutto suo. Un nuovo passato senza sensi di colpa né ricordi negativi, un presente gradevole e un futuro radioso dato che non porta con sé residui che possono metterle paura. Ha creato intorno a sé un bozzolo e si sente bene. Chiunque ora cerchi di infrangere questa sicurezza, spezzando il bozzolo e facendole aprire gli occhi sulla realtà, provocherà in lei sentimenti di odio. Si opporrà, cercherà di resistere. E alla fine crollerà. » Mechthild si sedette di fronte a Lukas e lo guardò con espressione seria. «Lei non può permetterlo. Il rischio che qualcosa possa andare storto è una responsabilità troppo grande per lei. Inoltre è meglio che odi me anziché lei.» «Su questo ha ragione. Ma lei non vuole tornare in Germania.


Quantomeno non nei prossimi mesi.» La dottoressa Nienburg non fece commenti, limitandosi a osservare in silenzio gli anelli di fumo. In quel momento il cellulare di Lukas si mise a suonare. La melodia era quella inconfondibile del film Il Padrino. La dottoressa Nienburg sorrise. «Molto bella», disse. «Davvero originale. Mi piace.» Lukas lasciò suonare il telefono guardando lo schermo. «E Magda. Ma non voglio rispondere.» Rimasero ad ascoltare la musica a lungo, Magda era tenace. Alla fine però la melodia s'interruppe. Lukas spense il cellulare. «Probabilmente richiamerà tra una decina di minuti, ma non voglio essere interrotto adesso.» Infilò il cellulare nella tasca della giacca e rivolse un'occhiata interrogativa alla terapeuta. «Voglio farle una domanda cruciale», disse. «Cerchi di darmi una risposta sincera: che cosa farebbe se ricevesse l'offerta per un ruolo da protagonista in una serie televisiva? Sessanta giorni di riprese all'anno, il successo artistico ed economico garantito e la sicurezza per molti anni.» Sorrise e le fossette sulle sue guance diventarono più marcate. «Declinerà l'offerta e resterà con lei? Oppure la lascerà per costruirsi una carriera?» «È una domanda maledettamente difficile.» «Lo so.» «E anche perfida.» «Ne sono consapevole.» Lo guardò fisso negli occhi. Lukas non sapeva come rispondere. «Credo che la lascerei», bisbigliò, «perché lei ama Johannes e non me. Lo credo, ma non ne sono sicuro.» «Ok», replicò alla terapeuta. «Allora la lasci. Se ne vada, ci metta una pietra sopra.» Lukas la guardò perplesso. «Come dice? Non capisco.» «Lei mi ha detto che molto probabilmente suo fratello Johannes ha lasciato la moglie.» Lukas annuì. «Però non lo ha fatto in maniera esplicita, si è limitato a sparire in segreto. La variante più classica. Il


tipico caso del marito che va a prendere le sigarette e non torna più.» «Esatto.» «Bene. Allora adesso deve fare ciò che suo fratello non ha avuto il coraggio di fare. Le dica che vuole il divorzio, che ha conosciuto un'altra donna e che si è innamorato. Chiaro e tondo. Senza se e senza ma.» «Lei non riuscirà a superare il colpo.» «Invece ce la farà. Certo, sarà difficile, ma forse riuscirà a tornare sul piano della realtà. Deve affrontare il fatto che il suo matrimonio è finito. E pian piano si renderà conto che ciò significa anche libertà. E un nuovo inizio. Potrà riorganizzare la propria vita in maniera diversa, potrà innamorarsi di nuovo... tutto è possibile.» «Io però che cosa ci guadagno?» Lukas si sentiva già assalire dalla tristezza. «Vedrà che la mia proposta servirà soprattutto a lei. Dovrà solo resistere, mantenere le distanze. Qualche settimana, forse qualche mese. Io comincerò la terapia con Magda e al più tardi l'estate prossima lei andrà a trovarla. Come Lukas. Come la persona che è. Magda intanto avrà avuto tutto il tempo di accettare il fatto che Johannes non tornerà più e molto probabilmente la vedrà di nuovo come il fratello del marito. Ciò che poi accadrà tra di voi da quel momento sta a lei deciderlo.» «Non posso farlo. Non ne avrei il coraggio.» «Però ne varrebbe la pena.» La dottoressa Nienburg sorrise. Lukas si alzò. Aveva il palmo delle mani sudato. Si mise a camminare su e giù per la stanza. Aveva una gran confusione in testa, non capiva più niente, riusciva a seguire il ragionamento della terapeuta solo con fatica, al momento non era in grado di valutare i pro e i contro, né le possibili conseguenze. Di una cosa soltanto era sicuro: non avrebbe lasciato Magda. Neppure per finta, per poi tornare da lei come Lukas. No. Mai. Perché, se il trucco non avesse funzionato, l'avrebbe perduta per sempre. Ed era un rischio troppo grande. «La prego, venga in Toscana e provi a parlare con lei. Per favore! Forse riuscirà a convincerla a tornare in Germania con me. Per un paio di mesi soltanto. Magari per un anno. Si sottoporrà a una terapia e, quando starà meglio, organizzeremo il trasferimento. Venderemo i nostri appartamenti e traslocheremo. Non precipitosamente, ma in maniera pianificata. La prego, venga. Non vedo altra possibilità.» La dottoressa Nienburg si avvicinò alla scrivania con un sospiro e aprì l'agenda degli appuntamenti. «Lei è fortunato, sa. Ho sempre desiderato andare in Toscana, ma finora non ci ero mai riuscita.» «Penserò io a trovarle un alloggio e a pagarle il viaggio.


Non c'è problema.» La donna annuì facendo schioccare la lingua, mentre continuava a sfogliare l'agenda. «D'accordo», disse infine, «La prossima settimana non posso, ma poi sono libera. Per dieci giorni. Il 7 potrei prendere il volo per Firenze e il 17 tornare indietro. Se Frau Tillmann non oppone resistenza e parla con me, basteranno questi giorni per raggiungere un primo risultato.» Lukas si sentì sollevare un peso dal cuore. Finalmente un barlume di luce all'orizzonte. Avrebbe voluto abbracciare la dottoressa Nienburg, ma lasciò perdere. Si profuse in ringraziamenti e le diede l'indirizzo della Roccia. Insieme al suo numero di cellulare. «Allora l'aspetto il 7», le disse raggiante porgendole la mano. «Ci vediamo in Toscana. A presto!» Uscendo dallo studio avrebbe voluto fare un salto per quanto si sentiva leggero e fiducioso. *** Capitolo 71. La telefonata arrivò alle diciotto e trenta di venerdì. Neri era seduto alla scrivania e stava risolvendo un sudoku. Il decimo di quella giornata. Accanto a sé aveva un cronometro, perché giocava a tempo, cercando di diventare sempre più veloce. Era meno frustrante che passare al livello di difficoltà successiva, che non riusciva mai a superare. Sussultò allo squillo del telefono, fermò il cronometro e aggrottò la fronte. Una telefonata pochi minuti prima della fine della giornata, quando stava per chiudere tutto e andare a casa, era la cosa peggiore che potesse augurarsi. Rispose in tono seccato. L'interlocutore doveva sapere che lo aveva disturbato. Era Gabriella, sconvolta, chiaramente in preda al panico. Non l'aveva mai sentita così. «La mamma è scomparsa!» gridò la moglie al telefono. «Tre ore fa. Prima di chiamarti l'ho cercata e ho chiesto dappertutto. Nessuno l'ha vista. Probabilmente si è persa nel bosco e non sa più tornare a casa. Oddio, Donato, che cosa dobbiamo fare? Non possiamo mica lasciarla fuori per tutta la notte.» «Certo che no. Ma stai tranquilla, Gabriella. Non c'è motivo di agitarsi.» Tutte le volte che Gabriella


perdeva il controllo, a lui piaceva assumere il ruolo della persona tranquilla ed equilibrata che manteneva la testa sul collo. «Non c'è motivo di agitarsi?» ripetè stridula Gabriella. «Senti questa ! Mia madre è malata, Donato, non sa più chi è, come si chiama, né dove abita. Le basta spingersi più lontano del fornaio, per non riuscire più a tornare indietro. E adesso chissà dov'è finita, da sola nel bosco, probabilmente ha una gran paura, e tutt'intorno a lei ci sono cinghiali e caprioli, non ha niente da mangiare né da bere, è scalza con un paio di vecchie pantofole. Forse potrebbe morire stanotte là fuori, e io non dovrei preoccuparmi?» Gabriella era tornata a sorpresa da Roma una settimana prima, insieme a sua madre e con l'auto piena fino a scoppiare. «Sai che mi piace stare a Roma», aveva spiegato al marito interdetto che scaricava dall'auto le valigie, le borse, gli scatoloni e i sacchetti della madre e li accatastava nel vialetto, «fosse stato per me, sarei rimasta settimane, ma che dico, mesi...» Davvero lusinghiero, pensò Neri. Aveva così tanta nostalgia di me da perdere quasi il senno. «Però non era possibile», proseguì Gabriella. «La mamma non sa più quello che fa ed è un pericolo per sé e per gli altri. Dovevo restare tutto il giorno in casa a badare a lei. E a questa stregua preferisco farlo qui. Perciò ho deciso di portarla con me.» In quel momento Neri provò l'impulso di rompere qualcosa per sfogare la rabbia. Era davvero inaudito. Gabriella aveva deciso tutto senza consultarlo. D'ora in avanti la sua vita sarebbe diventata impossibile. L'idea di andare al lavoro al mattino l'avrebbe riempito di angoscia, tanto quanto quella di tornare a casa la sera, con la suocera che mangiava rumorosamente a tavola e poi blaterava del passato seduta in poltrona davanti al televisore. Perché era quello che faceva in continuazione. La sua memoria a lungo termine funzionava perfettamente, era solo quella recente a essere sparita. Per questo lui non si era accorto di niente quando le telefonava saltuariamente. La suocera scese dall'auto con un sorriso smagliante, gli diede un buffetto sulla guancia e disse: «Ragazzo mio, ma quanto sei magro. Non ti danno da mangiare a casa?» A cena divorò una quantità incredibile di cibo, come se stesse partecipando a una di quelle gare americane a chi mangia di più e ci fosse in palio un premio di cinquantamila dollari. Neri dovette rinunciare a metà della sua porzione di pasta e a tutta la carne. Gabriella gli sorrise e gli lanciò un'occhiata come a dire, porta pazienza, si sistemerà tutto, domani cucinerò un po' di più.


Ma non si sarebbe sistemato niente. Neri lo sapeva benissimo. E adesso Gloria era scomparsa. Se n'era andata chissà dove. Probabilmente era seduta su un tronco d'albero, aspettava di essere soccorsa ed era sempre più arrabbiata perché non arrivava nessuno. «Ma perché l'hai lasciata uscire? Voglio dire, dov'eri tu? E come ha fatto a uscire di casa?» Neri intuiva che non c'era modo migliore per scatenare la collera di Gabriella, ma ormai era fatta e lui stesso si chiedeva perché non si fosse tenuto per sé quelle domande. «In nome di Dio, Donato, mi credi davvero così scema? Che cosa dovrei fare? Dovrò pur andare a fare la spesa, se non vogliamo morire tutti di fame. Ovviamente avevo chiuso a chiave, ma lei deve aver rovistato nel cassetto del corridoio dove teniamo le chiavi. E proprio un bel problema, mio caro maresciallo», rispose sarcastica, «non possiamo certo incatenarla e imbavagliarla tutte le volte che dobbiamo assentarci per qualche minuto.» «Certo che no», confermò Neri, augurandosi di cuore che la suocera sparisse per sempre nel folto del bosco. «Allora fa' qualcosa! Dopotutto, sei tu l'autorità», gridò Gabriella nella cornetta. «Già, secondo te che cosa dovrei fare?» «E che ne so io? Raduna colleghi, volontari, amici, vicini, chiunque abbia due gambe, affinché comincino a cercare. Bisogna agire subito, prima che faccia buio. Se non riusciamo a trovarla entro le prossime tre ore, rischia di passare la notte nel bosco. Ammesso che riesca a superarla.» «Farò il possibile», sospirò Neri. «Tu resta vicino al telefono. » «Ti ringrazio tanto», mormorò lei prima di riagganciare. Neri rimase un istante a riflettere, poi batté le mani e cominciò a telefonare. Ricorse a tutti i mezzi del suo limitato potere, mise in moto tutto ciò che un carabiniere può fare per ritrovare una vecchia confusa e smarrita. Dopotutto si trattava della madre di sua moglie. «Mi raccomando», disse a Tommaso Grotti, il suo ex assistente a Montevarchi che ora stava salendo rapidamente i gradini della scala gerarchica, «è questione di vita o di morte. Mia suocera si è persa nel bosco. E poco vestita e ha urgente bisogno di medicine. Se non le prende entro domattina, sono problemi.»


«Capisco», mormorò Grotti tetro. «Ho bisogno di tutti gli uomini disponibili. Chiama anche i colleghi che oggi sono di riposo e di' loro di portare amici, conoscenti, parenti. Tutti i volontari possibili. Ciascuno dovrà avere una torcia. Mi servono anche cani, jeep, tutto ciò che ti viene in mente. Dobbiamo far scattare un sistema a catena. Tutti quelli che chiami dovranno a loro volta chiamare altri. Metto in allarme tutto ciò che ho a disposizione in zona. Ci vediamo nella piazza di Ambra.» «Quando?» domandò Grotti, colto alla sprovvista da quell'ingente operazione. «Subito. Io ci sarò, guiderò le ricerche e assegnerò le zone alle singole pattuglie. In qualsiasi momento arriviate, io sarò lì. Sbrigatevi!» Riagganciò molto compiaciuto con se stesso. Tutta colpa di quel buco di paese dov'era stato relegato, se non riusciva ad avere successo. Lui era il coordinatore delle grandi catastrofi, solo in casi del genere dispiegava tutte le sue capacità e poteva mostrare sino in fondo la propria abilità. Cominciò un'operazione impeccabile. Vennero radunati colleghi dei carabinieri, della forestale, e ogni genere di volontari; jeep, Panda 4X4, moto da cross e mountain bike si dispersero a raggiera nei boschi e nei vigneti per cercare la madre di Gabriella. Le ricerche proseguirono anche dopo il tramonto, i partecipanti si tenevano aggiornati con cellulari e walkie-talkie, ma senza esito. Nessuna traccia di Gloria. Alle dieci e mezzo Neri sentì squillare il cellulare per la centesima volta. «Pronto», rispose con voce forte e decisa. Si sentiva molto sicuro di sé. «Donato», gli disse Gabriella sottovoce, «Donato, ascolta, la mamma è appena tornata a casa.» «Come? E tornata a casa? Da dove?» Neri vide tante piccole lucine colorate danzare davanti agli occhi mentre le ginocchia gli cedevano. «Non era nel bosco. Era a bere un caffè da Silena. Si sono incontrate per caso, si sono messe a chiacchierare e Silena l'ha invitata a casa sua. A quanto sembra si sono trovate così bene che la mamma si è fermata anche per cena e ha bevuto un paio di bicchieri di vino. Silena l'ha addirittura riaccompagnata a casa. E pensare che abita solo a un centinaio di metri da noi.» Neri non sapeva che cosa dire, sopraffatto da un senso di nausea. Che figuraccia! Valutò alacremente quale fosse il modo migliore per uscire dalla storia senza troppi danni. Fu necessario un intervento da manuale logistico e organizzativo per richiamare tutti i volontari dal bosco. Neri impiegò tutte le proprie energie per far rientrare l'operazione, ma un'ora e mezzo più tardi, quando tutti erano tornati a casa, restavano ancora cinque uomini sparsi nel bosco che non era stato possibile raggiungere.


Neri aveva raccontato a tutti che la suocera era stata trovata da una loro vicina di casa nei pressi di Rapale mentre raccoglieva fiori e cantava canzoncine infantili. Quando rincasò dopo mezzanotte, stremato, Gabriella lo abbracciò. «Non è colpa tua, Donato», gli disse. «Nessuno poteva immaginare che la mamma fosse a casa di una vicina. E mi auguro di cuore che questo non abbia ripercussioni negative sulla tua carriera. Ma comincio a pensare che tutto ciò che tu intraprendi vada storto. Sei proprio sfortunato.» Era esattamente ciò che Neri aveva sempre temuto. Il fatto che Gabriella lo dicesse a voce alta non rendeva certo le cose più facili. *** Capitolo 72. Magda sfogliò tutti i libri di cucina sistemati sullo scaffale sopra il lavandino, senza trovare da nessuna parte il foglietto con la ricetta che le serviva. Non era neppure nei cassetti della credenza e aveva anche cercato nella scrivania, dove in ogni caso non metteva mai le ricette. Peccato, sarebbe stato così bello accogliere Johannes, che sarebbe tornato la sera successiva, con il suo dolce preferito. Ma senza ricetta non sarebbe mai riuscita a preparare quella torta dal ripieno così complicato. Sebbene non le piacesse farlo, in tarda mattinata chiamò i suoceri. La ricetta le era stata data molti anni prima da Hildegard e lei sapeva che la suocera la custodiva gelosamente in una scatola da scarpe. Richard le rispose al terzo squillo. «Ciao, Magda», le disse, «hai buone notizie, oppure telefoni per un altro motivo?» «Buongiorno, Richard», rispose Magda. «Volevo preparare a Johannes una torta di ciliegie ripiena. Mi puoi passare Hildegard, per favore, perché ho bisogno della ricetta.» «Hildegard è dal medico», disse Richard, «per il suo mal di schiena. Continua a peggiorare. Le dirò di richiamarti appena torna.» «D'accordo, ti ringrazio. A proposito, tu come stai?» domandò per senso del dovere. «Non mi lamento. Ho molto da fare. Devo ancora riabituarmi...


rimettersi in pista dopo tanto tempo e prendere le redini della società non sono cose facili.» «Come? Perché? Che cosa stai facendo?» «Ho preso temporaneamente la direzione dell'azienda, finché la situazione con Johannes non sarà chiarita.» «Ah», fece lei, «capisco. Be', è fantastico. Saluta Hildegard da parte mia.» Riagganciò. Richard rimase con la cornetta in mano, chiedendosi se non avesse fatto una gaffe. Magda era seduta sulla sdraio a leggere una novella di Gerhart Hauptmann quando Lukas le telefonò un'ora più tardi. «Tesoro», le disse dolcemente, «non ti spaventare e non ti arrabbiare, ma domani non posso tornare, non ce la faccio, devo ancora chiarire tante cose in azienda e ho bisogno di più tempo.» Magda rimase in silenzio. Fu assalita da una cocente delusione che la fece ammutolire. Da una settimana la sua esistenza ruotava intorno all'attesa, aveva cominciato a contare i minuti che mancavano al suo ritorno... e adesso questo. E pensare che lui aveva promesso, aveva giurato, di tornare entro una settimana. «Quanto tempo ancora?» sussurrò. «Giusto una settimana. Tornerò sabato sera.» «Perché, Johannes, perché?» domandò lei, come se non avesse ascoltato la sua spiegazione. «Se voglio poter stare con te, devo trovare un sostituto, altrimenti l'azienda andrà a rotoli. E non è così facile trovarne uno. Finché non l'avrò fatto, devo occuparmi di un sacco di questioni.» Magda si irrigidì. «Sentiamoci più tardi», tagliò corto, per impedirsi di alzare la voce con lui o di mettersi a piangere. «D'accordo. Allora ti saluto. Ti farò sapere con quale treno arriverò. E, mi raccomando, non dimenticare mai che ti amo, qualunque cosa accada.» Magda annuì, senza riuscire a vedere né a sentire nulla, e riagganciò. Aveva una gran confusione in testa. Lui le aveva mentito. Non c'era proprio niente da sistemare in azienda, se ne stava occupando il padre. Non doveva neppure cercare un sostituto. No, poteva esserci un solo motivo che lo tratteneva a Berlino: Carolina. Rimase ancora per un po' seduta fuori senza leggere né dormire. Era così infelice che non riusciva neppure a piangere.


Magda era immersa nei suoi pensieri quando, il pomeriggio successivo, imboccò la strada da Solata verso La Roccia. Non fece quindi caso a un movimento tra i cespugli e non ebbe tempo di frenare quando un animale le sfrecciò davanti all'auto. Udì il lieve tonfo quando la bestiola colpì la carrozzeria. La vide volare in aria e ricadere a circa tre metri di distanza sul ciglio erboso. Solo in quel momento si rese conto che era una volpe, e lanciò un grido. Balzò dall'auto, si inginocchiò accanto all'animale, accarezzandolo e tastandolo con prudenza. La volpe guaiva piano. «Non preoccuparti, volpacchiotto, ti porto dal veterinario, vedrai che guarirai.» Sul corpo non c'erano ferite evidenti, era caldo e morbido, ma un rivolo di sangue gli usciva dalla bocca e dal naso. Lei cercò di sollevarla, ma la volpe guaì più forte per il dolore e lei allora la lasciò. «Volpacchiotto», bisbigliò, «volpacchiotto, che cos'hai? Mi spiace, mi spiace davvero tanto, ma purtroppo non ti ho vista!» Rimase accanto alla volpe per dieci minuti buoni, accarezzandole la pelliccia rossiccia, poi non sentì più il battito del suo cuore. La volpe fissava il sole con gli occhi sbarrati. «Non puoi morire!» sussurrò Magda. «Ti prego! Ho bisogno di te...» Le sue lacrime rigarono la pelliccia dell'animale. «Vieni con me, piccola volpe», disse piano, «non puoi restare qui.» Aprì il bagagliaio, sollevò con cautela la volpe e la depose dolcemente all'interno. Poi raggiunse casa guidando a passo d'uomo, come se gli scossoni della strada potessero farla soffrire ancora. La lasciò nel baule fino a sera. Un'ora circa dopo il tramonto cominciò a scavare una fossa e la seppellì accanto a Bingo, mentre il sole tramontava. Sopra la fossa piantò un cespuglio di rose rosse.


*** Capitolo 73. Il mattino successivo si alzò presto e andò a Montevarchi comprare un piccolo ulivo. *** Capitolo 74. Carissimo Thorben, non avrei più voluto scriverti prima del tuo arrivo, ma devo farlo, perché è accaduta una cosa meravigliosa. Mi ero già accorta con stupore che negli ultimi tempi la volpe era diventata sempre più grassa. A volte pensavo che le dessi troppo da mangiare, oppure che i croccantini per cani fossero troppo grassi per una piccola volpe, ma poi non l'ho più vista per qualche giorno e dopo era più grassa di prima. Quindi non poteva certo dipendere dal mio cibo. E poi si è accovacciata sotto il cedro che cresce a ridosso del muro a secco. E rimasta lì e, tutte le volte che mi avvicinavo piano, guaiva. Ho cominciato a spaventarmi sul serio. E poi invece... avevamo sempre pensato che fosse una volpe maschio, invece era una femmina! Ed era incinta! Si era messa sotto il nostro cedro per partorire. Le siamo sempre stati accanto, a turno, io e papà, naturalmente a una certa distanza per non impaurirla. Ci sono volute due ore per far uscire il primo volpacchiotto. Senza nessun problema. Papà continuava a fare foto come un pazzo. (Quando sarai qui, le potrai guardare con tutta calma.) Poi le cose sono andate molto spedite. Quattro cuccioli uno dopo l'altro. Pensavamo che il parto fosse concluso, invece, un'ora dopo, è uscito un altro cucciolo. Il volpacchiotto numero cinque.


La volpe era tutta indaffarata a leccare i cuccioli per pulirli e incoraggiarli a vivere. Noi non abbiamo dovuto fare assolutamente niente, anche perché non sapevamo se avrebbe accettato il nostro aiuto. In ogni caso sembra che tutti i cuccioli stiano bene. Succhiano il latte felici e secondo papà sono già cresciuti. La volpe comunque ha deciso di restare con noi e ne siamo felicissimi. E un vero miracolo. Prima avevamo una volpe quasi addomesticata, e adesso ne abbiamo sei. Per premiare la volpe della fiducia che ci dimostra, le diamo da mangiare ogni giorno. Papà sta già pensando di catturare qualche topo. Per una volpe sono sicuramente più nutrienti del cibo per cani, ma nessuno dei due sa come fare. Potrebbe sistemare delle trappole, naturalmente, ma le volpi mangiano i topi morti? Come vedi la nostra piccola famiglia si sta allargando e quando arriverai sono sicura che ti divertirai tantissimo con tutti quei cuccioli dolcissimi. Ho tanta voglia di rivederti! La tua mamma. P.S. Saluta affettuosamente Arabella. Peccato che questa volta non avremo modo di conoscerla, ma speriamo di riuscirci d'inverno. *** Capitolo 75. Quando Lukas uscì dal terminal dell'aeroporto di Firenze, una vampata di calore lo schiaffeggiò in viso come se fosse entrato in una sauna. La leggera giacca che indossava risultò troppo pesante prima ancora di raggiungere la fermata dei taxi. «Alla stazione», disse al tassista mentre si accomodava con un sospiro sul sedile. Era contento che il viaggio finora fosse andato bene e che non mancasse molto alla meta. Ancora un'ora e avrebbe potuto stringere tra le braccia Magda alla stazione di Montevarchi. Era a casa. Non avrebbe mai creduto che un giorno avrebbe indicato la Toscana come casa sua, invece era accaduto. Erano bastate poche settimane. Il tassista era un tipo taciturno che si muoveva con sicurezza per le vie cittadine nonostante il traffico. Raggiunsero la stazione a tempo di record e Lukas riuscì a prendere il treno delle 16,09 che impiegava solo mezz'ora per arrivare a Montevarchi. Mentre era sul treno, telefonò ad Anneliese. In realtà avrebbe voluto farlo da Berlino il giorno prima, ma poi si era incontrato con Erich per una bevuta d'addio. Dopo aver cenato al ristorante, erano passati da un


bar all'altro, e alla fine lui si era dimenticato di quella telefonata. «Volevo ringraziarla ancora per la parte che mi ha trovato», disse ad Anneliese, «è stato perfetto. Mi sono divertito. » «Strano! Mi sembrava di aver capito che non volessi più fare certe porcherie, ragazzo.» «Per favore, Anneliese, non mettiamoci a discutere proprio adesso, la chiamo dall'Italia, la telefonata mi costa un patrimonio. Volevo solo dirle che non posso recitare a teatro, ma sono sempre disponibile per le riprese.» «Ho capito, ho capito», latrò Anneliese. «Non sono ancora così rimbambita da aver dimenticato la nostra emozionante conversazione. Però ti dico una cosa, ragazzo: sarà dura, maledettamente dura.» «Lo so.» Lukas alzò gli occhi al cielo. «Non è che la televisione tedesca aspetti proprio Lukas Tillmann, che nessuno conosce.» «Lo so.» «Bene, allora ci siamo capiti.» «Mi farò vivo io. Grazie ancora di tutto.» «E stato un piacere, ragazzo», mormorò Anneliese prima di riattaccare. Lukas ebbe l'impressione di sentire un guaito di Paulinchen in sottofondo. Magda era sul marciapiede della stazione, rigida e impettita. Non lo salutò quando lo vide scendere, non gli andò neppure incontro. Lukas provò una stretta d'angoscia. Doveva essere capitato qualcosa. Quando la strinse a sé, lei non reagì, non ricambiò l'abbraccio. Ma sorrise incerta. «Sono tanto contento di essere tornato», le disse baciandola. «Finalmente sono di nuovo a casa.» Lukas trovava irritante la freddezza di Magda, ma non disse nulla, non fece domande, voleva vedere quando Magda si sarebbe decisa a parlare. Non dovette aspettare a lungo. «Sei riuscito a trovare un sostituto per dirigere la società?


» gli chiese a cena. Lukas annuì. Era stato scoperto e cercò di inventarsi su due piedi una storia plausibile. «Finalmente sì. È uno svevo di quarantaquattro anni. Mi è sembrato molto serio e molto corretto. Ha moglie e due figli. Era rimasto disoccupato per cinque mesi, perché la società per cui lavorava è fallita. Perciò è molto contento di aver trovato un nuovo lavoro. Credo che sia molto volenteroso e si ambienterà in fretta. Mi ha fatto un'ottima impressione.» «Come lo hai trovato?» «Con Internet.» «Come si chiama?» «Gregor Majewski.» Magda lo fissò gelida. Poi disse sottovoce: «Sei un bugiardo maledettamente in gamba». Lukas si sentì salire il sangue alla testa. Magda continuò a parlare in tono tranquillo. «La settimana scorsa ho telefonato a casa dei tuoi genitori, perché volevo farti una sorpresa e prepararti il tuo dolce preferito. Siccome non trovavo più la ricetta, volevo chiederla a tua madre. Ma in quel momento lei era dal medico. Ho parlato con tuo padre che mi ha raccontato di aver assunto la direzione della società almeno per il momento.» Che sfiga, pensò Lukas, non sarebbe potuta andare peggio di così. «Ora, ovviamente, mi chiedo che cosa avessi da fare tu questa settimana di così importante a Berlino. Di sicuro non dovevi cercare un sostituto e questo Majewski è un'invenzione bella e buona.» Sorrise sarcastica. Lukas cercò disperatamente una motivazione plausibile, ma non gli venne in mente niente. «Avevo tantissime cose da sistemare, Magda, un sacco di dettagli...» «E poi ti sei incontrato con Carolina», dichiarò lei calma. «Di nuovo. Non è ancora finita.» «Magda! Carolina è morta!» Magda non registrò l'obiezione di Lukas, ma continuò a parlare. «Mi hai mentito, perché volevi avere una settimana intera da passare con lei. Si tratta sempre di Carolina, oppure è un'altra donna?» «Magda, mi spiace davvero tantissimo di averti mentito, sul serio! Ho sbagliato, lo riconosco, ma avevo bisogno di un po' di tempo a Berlino. Non volevo farti arrabbiare e avevo paura che non capissi, così mi sono inventato la storia del sostituto. Mi rincresce moltissimo.»


«Perché continui a farlo, Johannes? Perché continui a rovinare tutto?» «Non c'è nessun'altra donna, Magda. Per me esisti solo tu.» «Stai mentendo di nuovo!» Sconvolta, balzò in piedi e cominciò a inveire contro di lui con voce stridula. «Non lo tollero, non ce la faccio proprio! Tu mi tradisci, mi ferisci, perché? Perché mi fai tutto questo? Dimmelo, Johannes, perché?» Lukas abbassò gli occhi, senza rispondere. Non sopportava quello sguardo accusatorio. «Sei stato di nuovo da lei, vero? Per una settimana. Notte dopo notte. Ho ragione? Perché non lo ammetti? Perché continui a mentirmi? È così patetico, Johannes, così umiliante. Per te sono davvero così poco importante da non meritare la verità?» A Lukas tornò in mente ciò che gli aveva detto la dottoressa Nienburg: Deve fare ora ciò che suo fratello non ha osato fare. Le dica che vuole separarsi, perché ha conosciuto un'altra donna con la quale desidera andare a vivere. Chiaro e tondo. Senza se e senza ma. Rivolse un'occhiata infelice a Magda e poi prese una decisione irrevocabile. «Sì», disse. «Hai ragione tu. C'è un'altra donna. Finora non ho avuto il coraggio di parlartene.» «A Berlino sei stato insieme a lei?» Magda di colpo era diventata bianca come un cencio. «Sì.» «È Carolina?» «Sì.» Rispose di sì, perché era più facile. Evidentemente Magda aveva rimosso l'incidente mortale accaduto a Carolina. «Carolina» era un concetto chiaro che non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni. Magda si mise seduta. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Mentre stava lì, rannicchiata su se stessa, gli faceva un'impressione di grande tenerezza e vulnerabilità; avrebbe voluto stringerla tra le braccia, ma ormai non era più possibile. Senza riflettere e senza volerlo davvero, aveva imboccato la strada indicata dalla dottoressa Nienburg. Sembrò trascorrere un'eternità e nessuno aveva il coraggio né la forza di rompere il silenzio. Alla fine Magda si alzò ed entrò in casa. Lukas rimase seduto distrutto in terrazza. Non sapeva che cosa fare, si sentiva troppo sconvolto per riuscire a concentrarsi su qualcosa. Dalla camera da letto provenivano i singhiozzi di Magda, li sentiva fino a lì, e gli straziavano il cuore.


Sarebbe voluto andare da lei, sdraiarsi accanto a lei, ma non lo fece, perché non sapeva più che cosa fosse giusto e che cosa sbagliato. In quel momento sentì suonare la melodia del Padrino e provò quasi un senso di gratitudine che in quel frangente qualcuno gli telefonasse per distrarlo. Era la dottoressa Nienburg. «Ha fatto buon viaggio? E arrivato bene in Italia?» si informò. «Sì. Molto bene. Grazie.» «Spero di non disturbarla...» «No, si figuri, nient'affatto.» «Non mi sembra molto contento. Come vanno le cose con sua cognata?» «Male. Molto male. Abbiamo avuto una piccola discussione, la situazione è degenerata e allora...» esitò un istante, si alzò e si allontanò dalla casa per paura che Magda potesse sentirlo, «ecco, allora, nel fervore del momento, ho chiuso con lei. Proprio come mi aveva consigliato lei, dottoressa. A causa di un'altra donna, senza se e senza ma. Non so come sia successo, è stato così spontaneo, che io stesso ne sono rimasto sgomento. In ogni caso non è stata una decisione ponderata, e adesso sto malissimo.» «Questo è normale. Però le assicuro che ha fatto proprio bene. E il primo passo, sicuramente il più doloroso, per uscire da questa situazione.» «Adesso vorrei rimangiarmi tutto.» «Non lo faccia! Per nessun motivo», lo incalzò con veemenza la dottoressa Nienburg. «Deve essere forte. Mantenga il controllo, a qualunque costo! Non può tornare indietro proprio adesso.» «Per lei è facile dirlo.» «Lo so. Ma ce la farà. Ne sono sicura.» «Lo spero», rispose Lukas convinto che non ce l'avrebbe fatta. «Non avevo messo in conto che lei seguisse il mio consiglio tanto velocemente, ma a questo punto la mia presenza in Toscana è più che mai necessaria. Magda ha toccato il fondo, ed è completamente sola. Un ottimo punto di partenza per una terapia.» Venne colta da un accesso di tosse e Lukas aspettò paziente che le passasse. «Le telefono proprio per questo, Herr Tillmann. Volevo mettere in chiaro un paio di cose. Mi ha già trovato una camera d'albergo?» «No, ma lo farò domattina. C'è un albergo ad Ambra e ha sempre qualche camera libera. Anche in alta stagione. Non si preoccupi. Eventualmente conosco anche un altro albergo nei dintorni, ma costa duecento euro a notte e mi sembra un po' troppo caro.»


«Non c'è problema, davvero», lo tranquillizzò la dottoressa Nienburg, «mi accontento anche di una semplice camera. Vorrei solo essere sicura che mi prenoti qualcosa e che domani sera non mi ritrovi per strada.» «Non accadrà, glielo prometto.» «Non c'è bisogno che venga a prendermi alla stazione, ho noleggiato una macchina per tutto il periodo, e arriverò da lei alla Roccia lunedì mattina. Le va bene verso le dieci?» «Sì, perfetto. Non può nemmeno immaginare quanto mi faccia piacere, perché ho l'impressione di avere bisogno del suo aiuto almeno quasi quanto Magda. Non posso cavarmela da solo in questa situazione.» «Tenga duro fino a dopo domani, poi affronteremo tutto, d'accordo?» «Sì. L'aspetto. Devo informare Magda della sua visita?» «Male non fa. Al momento forse non è consigliabile coglierla di sorpresa in continuazione. Non deve avere la sensazione di aver perso completamente il terreno sotto i piedi. Il nostro scopo è di aiutarla, non di aumentare la sua insicurezza. » «Bene, allora le parlerò.» «Ottimo. Buona fortuna. Ci vediamo lunedì.» «Grazie, grazie davvero. A lunedì!» Lukas riattaccò. Si accorse che il cellulare era quasi scarico e decise di metterlo in carica prima di andare a letto. Quando entrò in camera, Magda dormiva profondamente. Lukas rimase sveglio ancora a lungo, ascoltando il richiamo della civetta e il fruscio del vento tra gli alberi. Mentre il primo chiarore del mattino si diffondeva dietro le colline, Lukas comprese di aver commesso il più grande errore della sua vita. Lui voleva amarla e vivere con lei. Lei aveva rimosso il dolore per la perdita di Johannes, ma il suo momentaneo disturbo psicologico era riparabile. In ogni caso lui non l'aiutava causandole ancora una volta un dolore altrettanto grande. Decise di chiederle scusa, anche se la dottoressa Nienburg gli aveva detto che sarebbe stato un errore. Le avrebbe spiegato che non c'era nessun'altra donna nella sua vita. Carolina era morta, non doveva più temerla. L'avrebbe stretta tra le braccia e le avrebbe promesso di non mentirle più.


Mai più. Qualunque cosa fosse successa. Poi le avrebbe dato la collana che le aveva comperato a Berlino. Era una delicata catenina d'oro con un ciondolo d'acqua marina a forma di goccia. Lei era il grande amore della sua vita, e gliel'avrebbe detto. Domattina presto. O, meglio, stamattina, a colazione, tra poche ore. Mi capirà e mi perdonerà, si disse. Tutto si aggiusterà, pensò, tutto si aggiusterà. *** Capitolo 76. Si era addormentata piangendo. Per tutta la sera aveva sperato che lui la raggiungesse, la stringesse tra le braccia e si sdraiasse accanto a lei, ma lui non era arrivato. Alla fine, stremata, si era addormentata. Quando si svegliò verso le sei, aveva la testa che le rimbombava e gli occhi gonfi. Johannes era sdraiato accanto a lei. Non lo aveva sentito arrivare, ma adesso dormiva profondamente. Aveva il respiro regolare. Magda si alzò in silenzio, si infilò l'accappatoio e le pantofole. Andò in bagno, si lavò i denti e, mentre il getto caldo della doccia le scorreva sul corpo, la sua mente era occupata da un unico pensiero ossessivo: lui aveva rovinato tutto. Si infilò calzoncini e maglietta e andò in cucina. La radiosveglia in camera da letto avrebbe suonato alle sette. C'era abbastanza tempo, mancava ancora mezz'ora buona prima che lui scendesse a fare colazione. Aprì la porta sulla terrazza e uscì. Sarebbe stata un'altra giornata afosa. Ma faceva ancora fresco. Respirò a fondo, gettò la testa all'indietro e gustò per un attimo la fragrante aria del mattino. Non c'erano più dubbi, ormai era assolutamente sicura. Tornò in cucina e mise a bollire l'acqua per il tè. Poi pulì il tavolo e lo apparecchiò con due tovagliette turchesi, posate, piatti e tazze. Quindi aggiunse del salame, del pecorino e qualche ravanello. Quando l'acqua fu pronta, la versò nella teiera. Poi preparò il muesli di Johannes. Tagliò a dadini la frutta: una mela, mezza banana, mezza arancia e ci aggiunse tre cucchiai di muesli.


Da sopra le giunse il rumore della porta della camera che veniva aperta. Poco dopo sentì richiudersi quella del bagno. Lui si era alzato. Tra una decina di minuti sarebbe sceso. Aspettò a versare il latte perché non voleva che il muesli si ammorbidisse troppo. Teneva la boccetta di sonnifero nella tasca dei calzoni. Lui non si sarebbe accorto di niente e non avrebbe sofferto. Questo glielo doveva. Aspettò paziente. Si aggirò per la cucina, pulì l'affettatrice, compilò una lista della spesa, poi controllò se in frigorifero ci fossero alimenti scaduti. Sette minuti più tardi ritenne giunto il momento. Prese la fialetta dalla tasca, svitò il tappo e versò venti gocce nel latte. Ora non poteva più tornare indietro. Quel mattino Lukas si svegliò ottimista. Non vedeva l'ora di andare da lei per parlarle, in modo da togliersi quel peso dal cuore. Dopo una breve doccia si infilò i jeans e la maglietta azzurra che sapeva piacerle tanto. Poi staccò dal caricabatteria il cellulare ormai carico, se lo infilò nella tasca dei pantaloni, tolse dalla borsa da viaggio l'astuccio con la collanina e scese in cucina. Magda lo accolse sorridendo. Lui la raggiunse, l'abbracciò forte e la baciò con passione. «Ti prego, dimentica tutto ciò che ti ho detto ieri sera. Era una bugia. Non c'è nessun'altra donna, non c'è nessuna Carolina, Carolina è morta, nella mia vita ci sei soltanto tu.» Per un istante lei gli credette. Ma poi fu assalita nuovamente dai dubbi. Perché aveva raccontato quella storia del sostituto da cercare? Non sarebbe stato necessario, se non avesse avuto niente da nascondere. No. Era giusto andare avanti. Lei ormai aveva deciso. Lukas si mise a sedere e cominciò a mangiare il muesli. «Oggi potremmo andare al mare», propose. «A passeggiare sulla spiaggia, fare il bagno, e poi a mangiare in un bel ristorantino di pesce. Che ne pensi?» «Ottima idea», rispose lei titubante.


«A proposito», esclamò lui balzando in piedi, «stavo, quasi per dimenticarmene. Ti ho portato un regalo!» Le porse il piccolo astuccio di velluto. «Aprilo.» Magda ubbidì. L'acquamarina brillò riflettendo i raggi del sole. «E davvero bellissima», bisbigliò lei. Lukas sorrise compiaciuto. «Speravo che ti sarebbe piaciuta. » Mangiò qualche altra cucchiaiata di muesli. Magda gli versò il tè. «Potremmo anche trovare un albergo e fermarci due o tre giorni al mare, se vuoi.» «Meglio di no», rispose lei esitante, «non so quando arriverà Thorben, e sarebbe brutto se non fossimo qui.» Lukas sussultò, ma non ebbe il tempo di reagire, perché fu assalito da un improvviso malessere. Il corpo non gli ubbidiva più e la sua mente era sempre più annebbiata. Ecco che cosa è accaduto a Johannes, riuscì ancora a pensare, e ora tocca a me... Si inclinò in avanti e cadde dalla sedia. Magda si inginocchiò accanto a lui. «Tesoro», mormorò, «non è così brutto, non sentirai male, ti aiuterò.» Gli sollevò le palpebre. Aveva già perso i sensi. Magda rimase a fissarlo per un po', gli accarezzò la guancia, poi aprì il cassetto della cucina dove teneva la siringa. Gli slacciò la cintura e la zip dei jeans, poi glieli calò sulle ginocchia e gli iniettò la succinilcolina nella coscia. Gli prese la mano e gliela accarezzò. «Fa' buon viaggio», gli disse sottovoce, «dovunque tu stia andando. Siamo stati bene insieme e non ti dimenticherò mai. Peccato per te, peccato per noi, Johannes. Peccato che tu abbia conosciuto Carolina, altrimenti avremmo passato di sicuro ancora tanti anni felici insieme. Amico mio, mio amato, buonanotte. Dormi per sempre.» Lo baciò sui capelli e gli tastò il polso. Il cuore gli batteva ancora.


«Solo un attimo ancora, manca poco, poi la tua anima volerà via, Hannes. Mi spiace tanto averlo dovuto fare. Ma non mi sarei più potuta fidare di te. E non volevo lasciarti a un'altra. Questa era l'unica strada. Ciao, amore mio.» La testa di Lukas si piegò improvvisamente di lato, lei vide la carotide guizzare un'ultima volta, poi anche il respiro si fermò. Magda non sentì più il battito. Lukas era morto. Qualche tempo dopo uscì in giardino e cominciò a scavare la fossa. Nella prima mezz'ora lavorò di lena e giunse a buon punto, poi le forze cominciarono ad abbandonarla. Non aveva immaginato che fosse così faticoso scavare una buca. Ma il terreno della Roccia era sassoso, aveva sottovalutato l'impresa. Dopo due ore era stremata e fu costretta a fare una lunga pausa. Riprese il lavoro un'ora più tardi. Continuò a scavare, a lottare, si fece venire le vesciche alle mani. Aveva la fronte imperlata di sudore, i capelli appiccicati al collo. Mangiò un boccone e tornò a scavare. Quando la fossa le sembrò sufficientemente profonda, andò a dormire per un paio d'ore. Quando si svegliò, cominciò ad avvolgere il cadavere. Prima di infilargli il sacco della spazzatura sulla testa, lo baciò. «Ti ho amato tanto, Johannes», mormorò. «Forse un giorno ci rivedremo. In un'altra vita.» Fasciò il cadavere avvolto nel sacco della spazzatura con del nastro adesivo. Come se fosse un pacco. Dopo il tramonto cominciò a trascinare il cadavere fuori dalla cucina verso la fossa. Fece buio in fretta. Lo aveva sistemato su una coperta di lana, ma fu una vera tortura. Il corpo senza vita era troppo pesante. Terminò il lavoro dopo la mezzanotte. Fece rotolare il cadavere nella buca, lo ricoprì di terra, ci piantò l'ulivo, poi appiattì il terreno. Quindi si mise seduta al grande tavolo davanti alla casa a bere un bicchiere di vino. Suo marito era morto. Lei lo aveva ucciso e seppellito. Si mise a cantare sottovoce nella notte: «...So darlin, darlin, stand by me, oh, stand by me. Oh, stand, stand by me. Standby me». Una civetta lanciò il suo richiamo, ma lei non lo udì. Rientrò in casa, si mise a letto e si addormentò. Serena, felice, leggera.


*** Capitolo 77. La dottoressa Nienburg arrivò puntuale alla Roccia alle dieci di lunedì mattina con l'auto presa a noleggio. Trovando la porta aperta, chiamò piano: «Salve!» e poi un po' più forte: «Buongiorno! C'è nessuno?» Magda spuntò da dietro l'angolo della casa e si fermò sorpresa alla vista dell'imponente figura femminile. «Buongiorno», esordì la sconosciuta, «mi chiamo Nienburg. Lei è Frau Tillmann?» Magda si limitò ad annuire, incrociò le braccia sul petto e tacque. «Le chiedo scusa per il disturbo e per il mio arrivo improvviso. Ma volevo parlare con Herr Tillmann.» «Non c'è. È a Roma. Ma dovrebbe tornare per il fine settimana. » La dottoressa Nienburg rimase un istante a riflettere. La situazione era davvero complicata. Certo, Frau Tillmann credeva che Lukas fosse suo marito, ma perché diceva che era a Roma? Oppure in quel momento stava parlando del vero Johannes scomparso? In quel caso sarebbe stata del tutto lucida. No, non era possibile. Tutto quanto le aveva raccontato Lukas non aveva l'aria di essere un fenomeno transitorio. «Suo marito è a Roma? Strano! Avevamo un appuntamento per stamattina alle dieci. Non glielo ha detto?» «No, non lo ha fatto.» Magda sospirò stizzita. «Non riesco a capire. Sono venuta apposta in Italia per incontrarmi con lui.» «Che cosa vuole da lui?» «Si tratta di un problema molto serio di cui volevamo parlare.»


«Aha.» Santo cielo, questa donna è inavvicinabile, pensò Mechthild Nienburg, è spaventoso. «Aspetti un istante, provo a telefonargli.» La dottoressa compose il numero di cellulare di Lukas e aspettò che squillasse, ma lui non rispose. «Non risponde», disse a Magda. «Lei è proprio sicura che sia a Roma?» Magda cominciava a perdere la pazienza. «Se ha detto che andava a Roma, significa che è andato a Roma. Altrimenti dove potrebbe essere?» Di sicuro Lukas non poteva essere a Roma, pensò la dottoressa Nienburg, ma allora dov'era? Gli era successo qualcosa, oppure non stava più lì di casa. Possibile che avesse seguito con tanto rigore il piano di chiudere con Magda da non riuscire più a sopportare la sua presenza? «Le spiace se mi fermo e aspetto un pochino? Sono sicura che arriverà. Ci siamo sentiti sabato sera e ci siamo dati appuntamento per stamattina. Se avesse avuto intenzione di andare a Roma, mi avrebbe informata.» Magda indicò il tavolo sulla terrazza. «Faccia pure. Si accomodi. » «Grazie. E davvero molto gentile da parte sua.» La dottoressa Nienburg si accomodò e poco dopo Magda tornò con una bottiglia di acqua minerale e due bicchieri. Li riempì, ma, dalla sua mimica e dalla sua espressione contrariata, era chiaro quanta fatica le costasse farlo. «Ha proprio una bella casa», osservò la dottoressa Nienburg con un sorriso, «davvero fantastica ! Un panorama eccezionale, e poi questo silenzio, assolutamente incredibile per una persona abituata al frastuono della città. Scommetto che di notte non si riesce a dormire per il troppo silenzio.» «Ci si fa l'abitudine. All'inizio era strano, lo ammetto.» «Da quanto tempo viene qui in Toscana?» «Da dieci anni. Ma questa casa è stata ristrutturata solo quattro anni fa.» La dottoressa Nienburg le fece un cenno d'approvazione. «Davvero stupenda, complimenti.» La conversazione si arenò. Come faccio a entrare in contatto con lei? si chiese la dottoressa Nienburg. Deve esserci pure il modo di


spezzare questo guscio che la circonda! «Suo marito non tornerà, Frau Tillmann», disse la dottoressa, rompendo improvvisamente il silenzio, «l'ha lasciata per un'altra donna. Me lo ha detto lui stesso sabato sera.» Magda cominciò a tremare. Quella donna era una disgustosa ficcanaso. Era ora di sbarazzarsi di lei. «Non so proprio di che cosa parla.» «Suo marito non è a Roma. Probabilmente è già in viaggio per la Germania, per raggiungere la sua amante. Non si illuda, Frau Tillmann. Non tornerà nel fine settimana, non tornerà mai più. Lei è rimasta sola e deve accettare la sua nuova situazione.» Magda balzò in piedi e corse dentro casa. Era fuggita. Non reggeva quel confronto. Bene, una reazione comprensibile, pensò la terapeuta. Prima o poi sarebbe tornata. Come accade al lupo quando gli si lancia un pezzetto di carne, che prima fugge via, ma poi si avvicina lentamente e circospetto. Per questo la dottoressa Nienburg non accennò affatto ad andarsene. C'era qualcosa che non funzionava. Già la sera prima era rimasta stupita nello scoprire che non era stata prenotata nessuna camera a suo nome all'albergo di Ambra. Ma aveva imputato l'errore al portiere dell'hotel e non aveva dato troppo peso alla cosa, dal momento che c'erano diverse camere libere. Ne aveva avuta persino una con vista panoramica sul paese. Prima di andare a dormire si era messa seduta in balcone per mezz'ora ad ammirare il torrente e le luci dell'antica cittadina, grata di non essere affacciata sull'altro lato, direttamente sulla superstrada dove giorno e notte passavano i camion tra Arezzo e Siena. Quella sera aveva rinunciato a chiamare Lukas, riproponendosi di farlo al mattino, ma poi non c'era riuscita. E adesso non lo trovava neppure in casa. Mai avrebbe immaginato un'eventualità del genere. E poi quel farle un bidone senza avvisarla non corrispondeva al Lukas che aveva conosciuto lei. Per questo era decisa a restare e a capirci qualcosa. Si alzò, per dare un'occhiata in giro e cercare di farsi un quadro della donna che trascorreva lì le vacanze. Il giardino era incolto, ma sbirciando dentro le finestre qua e là si rese conto che la casa era ordinata e pulita e dimostrava un gusto spiccato nell'arredamento. Perché Lukas non l'aveva aspettata? Tirò fuori il cellulare e compose di nuovo il suo numero. Un attimo più tardi udì la melodia del film Il Padrino. La suoneria del cellulare di Lukas. Molto piano, ma inconfondibile. Si guardò intorno stupita. Allora Lukas era nelle vicinanze...


Però non riusciva a vederlo, anche se aveva una visuale aperta sul giardino. Non era possibile nascondersi da nessuna parte. Partì la segreteria. «Lukas», disse al telefono, «santo cielo, Lukas, dov'è finito? Sono Mechthild Nienburg, la prego di richiamarmi subito !» Chiuse la comunicazione. Attraversò il giardino, assorta. Che cosa stava succedendo? Come mai sentiva la suoneria di Lukas? Notò "un piccolo ulivo piantato di recente, con la terra smossa tutt'intorno. Lanciò un'occhiata verso la casa; nessuna traccia di Magda. Provò a richiamare Lukas, e sentì di nuovo il motivo della suoneria. Mechthild Nienburg si accovacciò, per riuscire a localizzare meglio il punto da cui proveniva la musica. Da quella posizione si accorse di un particolare che prima non aveva notato: la terra intorno all'ulivo era smossa secondo una forma stretta e allungata. Con il cuore che le batteva forte, si alzò a fatica e si avvicinò a quel punto. Allora ne ebbe la certezza: la terra smossa aveva forma e dimensioni di una tomba. Con labbra tremanti mormorò una preghiera e schiacciò il tasto di richiamata del suo cellulare. Di nuovo la melodia del Padrino. La dottoressa Nienburg venne assalita dai brividi. Aveva paura. Una paura terribile, simile a quella che si prova un attimo prima che la terra tremi. Magda osservava la dottoressa Nienburg dalla finestra della cucina. Quella ficcanaso si aggirava proprio nel punto in cui il giorno prima lei aveva sepolto Johannes. Che cosa c'entrava lei con Johannes? Perché lo aveva seguito fino in Italia? Stava per portare due grosse tazze di caffè in terrazza, quando si accorse che la terapeuta si era inginocchiata e aveva posato l'orecchio sulla terra smossa di recente. La musica proveniva da sottoterra. Ora la sentiva ancora più chiaramente. Quelle note lente e malinconiche le straziarono il cuore. Nessuno sotterra un cellulare funzionante in un orto. Lukas era lì. Molto vicino. Aveva trovato la sua tomba. Magda prese in fretta la decisione. La tazza di caffè destinata alla terapeuta aveva una piccola incrinatura sul manico.


Ci versò alcune gocce e uscì in terrazza. La dottoressa Nienburg sentì Magda che la chiamava e guardò verso la casa. Magda stava uscendo con due tazze di caffè. La dottoressa cominciò a capire: Magda Tillmann era un'assassina che aveva ucciso il marito e forse anche il cognato. Come la vedova nera che divora i maschi dopo l'accoppiamento. Si mise a pensare freneticamente alle mosse da fare. Si alzò, sperando che Magda non l'avesse vista. «Arrivo», disse dirigendosi verso la terrazza. Era ancora scossa per l'agghiacciante scoperta appena fatta. «Ho preparato il caffè», disse Magda, «e qualche biscotto. Ho pensato che fosse il modo giusto per ritrovare le energie e fare due chiacchiere.» Come mai questo repentino cambiamento? si chiese la dottoressa Nienburg. Nel giro di dieci minuti una trasformazione radicale dal totale rifiuto all'amichevole premura. Piuttosto sospetto. «Il mio caffè è leggendario», disse Magda con un sorriso. «Meglio di quello del bar. Ne vado molto fiera.» La dottoressa Nienburg non si era mai sentita tanto sconvolta. Se ne stava seduta lì al sole con una donna priva di scrupoli che molto probabilmente aveva finito di seppellire la sua ultima vittima giusto il giorno prima. Per questo era importantissimo non mostrarsi diffidenti. La cosa migliore era bere il caffè con calma, chiacchierando amabilmente, poi congedarsi e correre ad avvertire la polizia. *** Capitolo 78. Hildegard sapeva di irritare Lukas con le sue continue telefonate. Era tornato in Italia sabato sera e non aveva dato ancora notizie di sé. Probabilmente anche per lui la situazione era molto pesante. Si era tormentata per tutta la domenica, ma poi aveva resistito all'impulso di


telefonargli. Voleva dimostrare a se stessa di riuscire a stare due giorni senza sentirlo. Adesso però che era lunedì mattina, non ce la faceva più. Aveva trascorso un'altra notte insonne. Voleva sentire assolutamente la sua voce, per trovare la forza di sopportare ancora quel dramma infinito della scomparsa di Johannes. Dapprima provò a chiamarlo sul cellulare, ma dopo parecchi squilli a vuoto le rispose la segreteria. Con mani tremanti compose il numero di telefono della Roccia. Il caffè fumava. «Le piace il caffè?» domandò Magda. «Oh, sì, molto.» «Allora lo provi.» In realtà per la dottoressa Nienburg il caffè era ancora troppo caldo. Prese la tazza e ci soffiò sopra per raffreddarlo. In quel momento si sentì suonare il telefono dentro casa. Magda non reagì. «Non risponde?» domandò meravigliata la terapeuta. «No.» «Perché no?» «Perché non mi interessa. Non mi importa chi stia chiamando. E poi non voglio essere scortese e preferisco restare qui a chiacchierare con lei.» «Si figuri, non è scortese. Al contrario.» Il telefono continuava a squillare. Magda sorseggiava il caffè con le gambe accavallate. Il suo atteggiamento insospettì la dottoressa Nienburg. In quel momento le passò per la testa il pensiero che il caffè potesse essere avvelenato. Magda insisteva troppo sul fatto di berlo. «Però potrebbe essere Johannes», le suggerì a bassa voce. Magda si bloccò un istante, si passò una mano tra i capelli e corse dentro casa.


Mechthild Nienburg valutò se fosse il caso di scambiare le tazze, poi notò la piccola crepa sul manico. Magda se ne sarebbe accorta. Allora si alzò, buttò il caffè nel prato e fece appena in tempo a sedersi prima che Magda tornasse da lei. «Quando ho risposto avevano riattaccato», disse. «Comunque, se si trattava di Johannes, di sicuro richiamerà.» La dottoressa Nienburg posò la tazza vuota sul tavolo e si alzò. «Il suo caffè era davvero ottimo, Frau Tillmann, ma adesso devo proprio andare. Magari ripasserò a trovarla. La ringrazio di tutto.» Porse la mano a Magda, prese la borsa e si avviò verso l'auto. Quando la mise in moto, si augurò di non essere stata troppo precipitosa, suscitando i sospetti di Magda. Nel retrovisore vide che Magda si era messa gli occhiali da sole e la seguiva con lo sguardo. *** Capitolo 79. Il bar principale è il luogo nevralgico di ogni paese, l'aveva imparato dopo una vacanza in Sardegna. Per questo entrò nel bar della piazza e chiese se ci fosse una persona che sapesse sia il tedesco sia l'italiano e che potesse aiutarla come interprete. Le fu dato l'indirizzo e il numero telefonico di Katharina. Mechthild Nienburg si recò direttamente a Rapale. Katharina stava lavorando a un quadro, ma non rimase affatto infastidita da quella visita a sorpresa, anzi, salutò la terapeuta con molto calore come se la conoscesse da anni. «Che cosa posso fare per lei?» le chiese. «Si tratta della signora Tillmann», esordì la dottoressa Nienburg prudente. «E anche del marito scomparso. Ho fatto una scoperta e vorrei pregarla di accompagnarmi alla polizia. Non posso spiegare alle autorità ciò che ho scoperto con il mio povero italiano.» Katharina reagì positivamente. «Magda Tillmann è una mia cara conoscente. Un'amica quasi. Per questo l'aiuto volentieri. Ma credevo che il marito fosse tornato.» «No. Il cognato era venuto a trovarla. Forse per questo si è sparsa la voce che il marito fosse tornato da Roma.» «E possibile. Ma che cosa è accaduto? Voglio dire, che scoperta ha fatto?»


«Posso spiegarglielo in auto? Ho fretta, e dovremmo andare subito alla polizia». La dottoressa Nienburg raccontò a Katharina tutto quello che sapeva. Non tacque neppure il particolare della sinistra melodia che proveniva da sottoterra. Katharina ascoltò con attenzione, mentre guidava sicura per la tortuosa strada verso Ambra, senza interrompere la dottoressa neppure una volta. Solo quando questa ebbe finito di parlare, osservò allibita: «Non posso crederci». «Neppure io. Ma l'importante adesso è che riferisca tutto ciò che le ho detto nella maniera più dettagliata possibile alle autorità. Ce la fa?» «Naturalmente. Conosco bene l'italiano tanto quanto il tedesco. Ma tutta questa storia mi sembra un incubo.» Neri salutò le due donne con esagerata gentilezza, le invitò ad accomodarsi nell'ufficio e a esporgli il problema. In preda all'agitazione, lo sguardo febbrile, Katharina raccontò al maresciallo tutta la storia. Neri si sentì mancare e si rese conto con angoscia di non aver controllato l'identità dell'uomo apparentemente ricomparso. Il signor Tillmann tra l'altro non si era mai presentato a mostrare la patente di cui era privo al posto di blocco. «Entrambi i fratelli, Johannes e Lukas Tillmann, sono scomparsi. La dottoressa Nienburg teme che siano sepolti nell'orto della proprietà. Deve fare qualcosa e subito», concluse Katharina. «Ci penserò io», rispose Neri evasivo. Katharina tradusse le sue parole. «No, pensarci non è sufficiente», ribatté la dottoressa Nienburg in tedesco, con voce dura. «Deve perquisire la casa, scavare nel giardino. Parlare con la donna. Probabilmente abbiamo a che fare con una pluriomicida.» In quel momento Garzi entrò nell'ufficio. «Che cosa c'è?» domandò. Neri gli spiegò la situazione in poche parole. Garzi aggrottò la fronte. «Approfondiremo la cosa, signora», disse serio. «Quando?» «Subito.»


«Bene. E molto urgente. In modo che la signora non abbia la possibilità di scappare in Germania.» Le due donne lasciarono la caserma. Neri guardò il collega. «Che cosa ne pensi di questa faccenda? » «Non promette niente di buono», rispose quello, «ora è venuta voglia anche a me di fare quattro chiacchiere con la signora Tillmann. Chiederemo un mandato di perquisizione e poi scaveremo in tutta la proprietà.» Neri alzò le sopracciglia con un sorriso sarcastico. «Fa' pure tutto ciò che reputi necessario, caro mio. Io mi sono già scottato più che a sufficienza con le ricerche di mia suocera, non voglio un'altra grande operazione che finisca in niente. Preferisco starne fuori.» L'esperienza rende l'uomo saggio, pensò Neri, soddisfatto di aver dato il benservito al collega e di avergli lasciato la responsabilità del caso. Di un caso che ai suoi occhi non era mai stato tale. Garzi aveva fiutato sangue. Tenace come una zecca, si mise in azione quel pomeriggio stesso, riuscendo a ottenere il mandato di perquisizione per La Roccia. Casa e proprietà. Mostrò a Magda l'ingiunzione del giudice. Magda non la degnò neppure di uno sguardo. «Dov'è suo marito, signora?» le domandò. «A Roma. Ma tornerà presto.» Garzi annuì. «D'accordo. Comunque, se non ha niente in contrario, diamo un'occhiata in giro.» Magda si limitò a un gesto invitante con la mano, come a dire: Accomodatevi, prego. Fate ciò che dovete. Garzi e Neri si diressero sicuri verso l'orto. «Prima di metterci a scavare a casaccio, e di chiamare rinforzi, proviamo a telefonare al morto!» Garzi sogghignò e Neri tacque. Non aveva la minima voglia di scherzare. Dalla tasca della giacca Garzi ripescò un foglietto su cui si era annotato il numero di cellulare di Lukas Tillmann e lo compose col proprio apparecchio. Poi si portò un dito alle labbra per indicare a Neri di restare in silenzio. La melodia del Padrino giunse sino a loro da sottoterra, dapprima flebile, poi sempre più forte. «Porca miseria», bisbigliò Garzi, la fronte imperlata di sudore freddo. Neri si portò una mano alla bocca, sentendosi svenire.


La melodia tacque. Garzi rifece il numero. E la musica ricominciò da sottoterra. Garzi allora fece esattamente ciò che la dottoressa Nienburg aveva fatto quel mattino. Si inginocchiò e appoggiò l'orecchio al terreno, per sentire meglio quel suono agghiacciante. Poi venne assalito da un'improvvisa frenesia. «Ho bisogno di una pala», gridò, «maledizione, qui c'è un cadavere, Neri. La signora Tillmann lo ha ammazzato e il suo cellulare suona ancora. Non riesco a capire!» Si asciugò il sudore dalla fronte. «Presto, Neri, prendi gli attrezzi dall'auto mentre io vado a prendere la Tillmann. Non vorrei che ci scappasse sotto il naso.» Contagiato dal nervosismo di Garzi, Neri si mise in azione. Garzi entrò in casa. Magda era seduta al tavolo di cucina a scrivere una lettera. «Signora Tillmann», dichiarò il carabiniere con voce decisa, «abbiamo ragione di ritenere che nella sua proprietà sia sepolto un cadavere. Pertanto mi vedo costretto a prenderla in custodia cautelare. Mi rincresce molto.» Magda lo guardò come se non avesse capito nemmeno una parola. Con atteggiamento apatico, si lasciò ammanettare e condurre all'auto di servizio. Lui la invitò a salire sul sedile posteriore e poi le fissò le manette alla maniglia della portiera. Quando tornò nell'orto, Neri aveva appena cominciato a scavare. Proprio nel punto in cui la melodia del Padrino gli era risuonata nelle orecchie derisoria e sarcastica. Garzi si piazzò a gambe larghe di fianco al collega e lo osservò. «Fai in fretta, ma con attenzione», lo esortò, «per evitare di rovinare qualcosa.» Neri continuò a scavare, cercando di fare ogni cosa nel modo giusto, pur essendo convinto che avrebbe lavorato molto meglio se il collega non gli avesse alitato sul collo in quel modo. Ci vollero solo pochi minuti perché affiorasse il sacco di plastica. «Visto, Neri?» esclamò Garzi indicando il sacco legato con il nastro adesivo, «maledizione, vedi? E una follia, non è possibile!» Neri rimase muto come un pesce. Garzi si inginocchiò e strappò la plastica nel punto in cui presumeva si trovasse la testa e alla vista del volto terreo di Lukas esclamò sgomento: «Oddio, oddio, oddio!» Neri aveva una gran confusione in testa. Gabriella aveva avuto ragione ancora una volta. Garzi lo guardava sbigottito. «Porca miseria», borbottò,


«è l'affare più grosso che abbia mai incontrato in tutta la mia carriera.» Anche Neri era della stessa opinione. «Questo è il signor Tillmann», disse. «Il signor Tillmann?» Garzi socchiuse gli occhi e aggrottò la fronte. «Quello di cui la signora ha denunciato la scomparsa sei settimane fa?» Neri annuì esitante. «Dimmi una cosa, Neri», Garzi gli diede una pacca sulla spalla, di incoraggiamento, o forse di disprezzo, «su quale pianeta vivi? Piacerebbe anche a me avere la batteria di questo cellulare, che dura sei settimane! Secondo te è possibile che il signor Tillmann sia qua sotto da sei settimane, e intanto abbia telefonato allegramente e abbia conservato un aspetto fresco come questo cadavere? Un po' pallido, date le circostanze, ma per il resto a posto? Lo credi davvero?» Anche Neri ora si rese conto di aver tratto per l'ennesima volta le conclusioni sbagliate e di aver detto un'idiozia. Ma non cercò di giustificarsi. Non sarebbe servito a niente. Garzi fece qualche respiro profondo. Poi indicò il secondo ulivo. «Guarda là, un altro ulivo comprato all'Ipercoop. Proviamo a dare un'occhiata per vedere se là sotto troviamo il signor Tillmann.» Tolse la pala dalle mani di Neri e si mise a scavare accanto all'altro ulivo. Si trovarono davanti a una situazione analoga a quella del primo cadavere. Garzi scoprì il sacco di plastica e poi la testa della vittima. In questo caso però la plastica sul viso era già stata strappata. «Guarda qui», osservò Garzi, «non siamo i primi che fanno questa raccapricciante scoperta. Siamo stati preceduti da qualcun altro, oppure da una famiglia di cinghiali. Vedi, Neri?» Neri vomitò. «No, guarda. Non mollare proprio adesso! Questo cadavere è in avanzato stato di decomposizione. Proprio come ci si può aspettare da chi guarda il mondo da sotto in su già da diverso tempo. Molto probabilmente è questo il cadavere del tuo signor Tillmann. Chi sia l'altro lo sa solo Iddio.» Garzi si sedette su un sasso. Era distrutto. «Chiama rinforzi, Neri» disse, «dobbiamo scavare in tutto il giardino. Bisogna avvertire anche la scientifica. E subito. Non dobbiamo toccare nient'altro qui.» Con un cenno d'assenso Neri fece le telefonate richieste. Forse le più difficili della sua carriera. Proprio in quel momento si ricordò che solo poco tempo prima si era ritrovato in quel punto esatto con una pala in mano ed era rimasto lì a chiacchierare con Massimo. Perché non si era messo a scavare? Se avesse trovato il cadavere del signor Tillmann, probabilmente la sua vita sarebbe cambiata. E invece no. Aveva perso un'altra occasione. Vennero trovati in tutto tre cadaveri e il caso creò grande sgomento tra la popolazione del Valdarno.


Il corpo nella fossa biologica fu riconosciuto quasi subito per quello di Stefano Trepo, critico letterario e teatrale di Firenze, di cui finora nessuno aveva denunciato la scomparsa. Gli altri due cadaveri furono identificati senza ombra di dubbio come Johannes e Lukas Tillmann. Garzi venne festeggiato come un eroe. Era stato lui a scoprire le vittime e a risolvere il caso. Gli venne persino offerto un trasferimento a Roma. «Per amor del cielo», disse a Neri, «che cosa ci andrei a fare a Roma? Solo perché ho scoperto due cadaveri vogliono allontanarmi da casa? Mai! Qui sto bene e qui resto. Roma è proprio l'ultimo dei miei desideri!» Neri deglutì a fatica, rosso in volto. Per fortuna Gabriella non aveva sentito niente di quanto aveva detto Garzi né lo avrebbe mai saputo. Forse quella era stata la sua ultima occasione, e quella più importante. Non l'aveva sfruttata e Roma era ormai irraggiungibile. *** Capitolo 80. La signora Tillmann, che dichiarò di non sapere nulla dei tre cadaveri sepolti nella sua proprietà, fu rinchiusa nel carcere di Firenze. Pur avendo un avvocato tedesco, non rispose alle accuse. Mechthild Nienburg prese una camera in un albergo di Firenze e ogni giorno trascorreva diverse ore con Magda. Cercava di conquistarne la fiducia per aiutarla, ma era un'impresa disperata. Magda non si arrabbiava, non si difendeva, sorrideva solo tra sé. E a volte, quando sembrava particolarmente felice, canticchiava sottovoce una melodia. Carissimo Thorben, l'autunno è ormai arrivato. Il vento spazza le foglie dagli alberi e di mattina la casa è immersa nella nebbia. Non riesco a vedere né le colline né la strada che porta a Solata. So di avertelo già detto e scritto diverse volte, ma non mi interessa, devo ripetertelo: sono stata così bene con te alla Roccia! E stato meraviglioso anche che l'ultima settimana Arabella sia riuscita a venire. Così perlomeno l'abbiamo potuta conoscere. E una ragazza incantevole e ora capisco perché tu ne sia innamorato. Non puoi immaginare quanto ci rende felici sapere che volete venire a vivere qui con noi alla Roccia!


Sono sicura che non avrete alcuna difficoltà a trovare un lavoro a Firenze o ad Arezzo. Papà ha già cominciato a ristrutturare la casa per voi. Potete prendere il suo studio e tutta l'ala orientale. Sono più di cento metri quadrati. Papà sta già preparando anche due camere per i bambini, perché sappiamo quanto desideriate avere dei figli. Anche noi! Sarebbe bellissimo poter avere presto dei nipotini alla Roccia! I lavori procedono speditamente. Penso che per Natale Johannes riuscirà a terminare almeno tre stanze. Quando verrete, potrete esprimerci i vostri desideri particolari, papà cercherà di esaudirli tutti. Sono tanto felice e tanto serena come mai in vita mia. Tutto si è sistemato a meraviglia. Vivremo insieme, vi sosterremo in tutte le maniere possibili e nella vecchiaia non saremo soli. Fino a qualche anno fa guardavo al futuro con grande angoscia, adesso tutte le mie paure sono svanite. Ed è tutto merito tuo. Tuo, Thorben, mio meraviglioso figlio. Ti voglio bene e ringrazio il cielo di averti mandato. La tua mamma.


Indice Prima parte 7 Seconda parte 227 *** CORBACCIO. SHILPISOMAYA GOWDA. LA FIGLIA SEGRETA. Mumbai. Alla vigilia della stagione dei monsoni, in un remoto villaggio indiano Kavita dà alla luce una bambina. Jasu, il padre, è determinato a ucciderla, come ha già fatto una volta: le figlie femmine sono un peso. Ma la madre questa volta non è disposta a cedere e riesce a portarla in un orfanotrofio. San Francisco. Una pediatra si rassegna a fatica al fatto di non poter avere figli propri e si fa convincere dal marito indiano a adottarne uno. Insieme andranno a Mumbai dove conosceranno Asha, la loro figlia, la figlia di Kavita. Somer è sopraffatta dal senso di estraneità che avverte in India e teme che Asha possa legarsi solo al padre, indiano come lei. Asha cresce in California, non sa nulla della sua famiglia di origine, non sa che finalmente Kavita e Jasu hanno avuto un maschio, non sa che Kavita ancora piange per quella figlia che non ha mai visto, sa solo che si sente divisa fra due culture e che non riesce a trovare il suo posto nella famiglia di Somer e Krishnan, il cui matrimonio invece di rafforzarsi con l'arrivo tanto desiderato di un figlio, entra in profonda crisi. Decide così di partire per l'India e di rintracciare i suoi genitori naturali... *** Fotocomposizione: Nuovo Gruppo Grafico s.r.l. - Milano


Finito di stampare nel mese di gennaio 2011 per conto della Casa Editrice Corbaccio s.r.l. dalla Grafica Veneta S.p.A. di Trebaseleghe (PD). Printed in Italy.


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