Riconversione: rifacciamo la pace

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Luca Martinelli

Riconversi贸ne: (ri)facciamo la pace



RÏconversione: (ri) facciamo la pace Esperienze esemplari e ripetibili di trasformazione nei modi di produzione e nelle relazioni all’interno degli spazi in cui si svolge la vita delle comunià di Luca Martinelli


“Riconversione: (ri)facciamo la pace” © Altra Economia Soc. Coop. Via Vallarsa 2 - 20139 Milano Tel. 02-89.91.98.90, e-mail: segreteria@altreconomia.it Autore: Luca Martinelli Prima edizione maggio 2015 Progetto grafico: Laura Anicio

Il catalogo dei libri di Altreconomia è sul sito: www.altreconomia.it/libri


Indice

Introduzione

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Capitolo 1 Ogni animale ha un nome

pag. 13

Capitolo 2 La riconversione delle bollicine

pag. 22

Capitolo 3 Il parco dopo la caserma

pag. 28

Capitolo 4 L’etica del muretto

pag. 35

Capitolo 5 Il cibo del nostro cibo

pag. 41

Capitolo 6 Dal bianco al bianco

pag. 46

Capitolo 7 Come se fossi a casa tua

pag. 53

Capitolo 8 Una tenuta ben custodita

pag. 58



Questo libro è dedicato a Sabrina Sganga. È un omaggio alla giornalista che -tra le altre coseha avuto il merito di immaginare, con Camilla Lattanzi, una campagna come “Imbrocchiamola!”, il cui messaggio riunisce l’essenza di ogni iniziativa per ridurre il nostro impatto sul pianeta: “Chiedi e consuma acqua di rubinetto sempre e ovunque; sii il cambiamento che vuoi realizzare”.

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L’associazione “Sabrina Sganga” è stata costituita, nel 2013, dalla famiglia e dagli amici di Sabrina. Centrale nella vita e nel lavoro di Sabrina Sganga è stata l’etica come pratica quotidiana; si è occupata, con il suo lavoro di giornalista, lungamente degli stili di vita, con una attenzione pionieristica alle economie alternative e solidali ed al consumo critico. L’associazione si occupa degli stili di vita, di consumi, di giustizia sociale, di tutela dei diritti e di salvaguardia dell’ambiente. L’associazione Sabrina Sganga nel 2013 ha istituito un premio giornalistico, che è arrivato alla terza edizione. Info: www.premiosabrinasganga.it

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Introduzione Riconversione: (ri)facciamo la pace

È l’enciclopedia Treccani a darci una definizione del concetto di riconversióne: “In economia, adattamento di impianti o attrezzature esistenti a nuovi tipi di produzione in seguito a mutamenti qualitativi della domanda, a trasformazioni di processi o a innovazioni tecnologiche (r. industriale, r. dell’industria siderurgica, r. metalmeccanica)”. Il corsivo è nostro. La voce continua precisando che una riconversióne molto accentuata avviene “in connessione al passaggio dallo stato di guerra a quello di pace, con la trasformazione di industrie per la fabbricazione di armamenti in produzioni civili”. Possiamo considerare la crisi -che è al contempo ambientale e sociale, e per ultimo anche economica- come il frutto

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di uno stato di guerra permanente nei confronti del Pianeta (degli ecosistemi e di chi li abita). Per costruire la pace, cioè per permettere di abitare la Terra rispettandola, risulta allora evidente l’esigenza di una profonda trasformazione relativa ai modi di produzione e alle relazioni all’interno degli spazi in cui si svolge la vita delle comunità: una vera e propria riconversióne culturale del nostro Paese. L’obiettivo di questo lavoro è rendere comuni, condivisibili e riconoscibili a tutti gli “stili di vita ispirati a principi di mutualità, sostenibilità e solidarietà”, cui Sabrina ha dedicato il proprio lavoro giornalistico, mettendo in luce, prima di altri, che alle forme d’impegno individuale fosse necessario associare processi di cambiamento collettivo, finalizzati “al superamento di situazioni di degrado sociale e ambientale legato al consumo e alla produzione” -come ricorda il bando di questo Premio giornalistico a lei dedicato-. È per questo che riteniamo importante raccogliere “storie di riconversióne”, da Nord a Sud del Paese, esperienze esemplari e ripetibili che raccontano come sia possibile valorizzare per davvero l’esistente, superando la visione mercatista della vita e del rapporto tra gli esseri umani, il Pianeta e le sue risorse. Una storia di riconversióne -ad esempio- è quella relativa all’area dell’ex Ospedale psichiatrico di Trieste, un “quartiere” costruito sulle colline che dominano la città nel Parco di San Giovanni: dopo la “rivoluzione” voluta da Franco Basaglia, l’area è diventata un laboratorio di imprenditoria sociale, di proposte culturali e di formazione, un vero “parco delle idee” (si va da Radio Fragola al bar-ristorante “Il posto delle fragole”, passando per la cooperativa Lister Sartoria Sociale, che svolge attività di sartoria, maglieria ed arredo) dove i triestini possono oggi anche coltivare il proprio orto. Le storie che proponiamo vanno quindi oltre il significato che in Italia è stato attribuito alla parola riconversióne, 10


spesso associata alla parola “valorizzazione”, dando così un’enfasi commerciale al termine. Gli esempi in questo senso non mancano, basti pensare alla (prossima) “riconversióne” in abitazioni e hotel dell’ex Teatro comunale di Firenze, ceduto a fine dicembre dall’amministrazione comunale a un fondo d’investimento, o alla “riconversióne” di vecchi cementifici in impianti di co-incenerimento di rifiuti, come accade in Puglia dove il gruppo Cementir riceve finanziamenti pubblici (fondi europei, stanziati da Regione Puglia) per farlo. Al contrario, come dimostrano le storie che racconteremo nei reportage del progetto “Riconversióne”, è possibile riutilizzare i beni pubblici dismessi per fini sociali e culturali d’interesse collettivo, o ri-pensare un territorio, favorendo -grazie all’agricoltura biologica- l’occupazione giovanile per evitare lo spopolamento delle vallate alpine o appenniniche.

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luca martinelli

Due dei cavalli che vivono in libertĂ . Nel 2013 i volontari che hanno dato una mano alla Fattoria della pace “Ippoasiâ€? sono stati 59.

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Capitolo 1 Ogni animale ha un nome

I cavalli sono entrati nella vita di Christian quando lui aveva quindici anni. Trinadoro era il nome della prima trottatrice acquistata dal padre, che da lì a poco avrebbe comprato una intera scuderia di cavalli da corsa, a Montecatini Terme (PT). Oggi, a 33 anni, Christian mi accoglie a San Piero a Grado, alle porte di Pisa, nella “Fattoria della pace”, dove alcuni cavalli, insieme ad oltre ottanta animali, sono accolti e vivono in libertà: è negli ultimi anni, gestendo due maneggi, prima a Collesalvetti (LI) e poi a Marina di Pisa (PI), che Christian Luciani -livornese di nascita- ha realizzato la sua personale “riconversione”. “Mi avevano insegnato che i cavalli erano oggetti a nostro servizio, e che fin dal momento dell’addestramento i puledri avrebbero dovuto capire che dovevano sottomettersi al volere dell’uomo” racconta Christian. Soma, addestramento, allenamento e attività agonistica sarebbero violenze nei confronti del cavallo, “perché geneticamente e biologicamente” non sono preparati a questo. “Credevo che fossero animali solitari, perché ero stato abituato a vedere ogni cavallo nel proprio box”. Quelli che corrono nel recinto della “Fattoria della pace”, che occupa circa tre ettari all’interno del Parco regionale Migliarino San Rossore Massaciuccoli, invece, giocano insieme e si buttano per terra, strusciando i fianchi sulla terra. “È un gesto innato dei cavalli, quando sono allo stato brado; nel farlo dentro i box, che sono stretti, rischiano però di morire, restando bloccati”. La “Fattoria della pace” è un progetto dell’associazione Ippoasi (www.ippoasi.org), che è nata nel febbraio del 2010. Nei primi anni, il rifugio per animali era a Marina di Pisa, 13


all’interno dell’area che ospitava l’ultimo centro ippico gestito da Christian insieme alla ex moglie, co-fondatrice dell’associazione. “Quando abbiamo deciso di chiudere con il maneggio avevamo 20 allievi e 20 cavalli a pensione. Abbiamo fatto una scelta anti-economica, dettata da una spinta etica” spiega Christian. Aggiunge che i genitori di molti allievi non ne compresero i motivi, anche perché l’attività dell’associazione equestre Ippoasi (“il nome dell’ultimo centro ippico portava già in seno il nuovo progetto, vedi” racconta Christian) li aveva illusi che esistesse un’equitazione sostenibile: i cavalli, intanto, erano “scalzi”, cioè non venivano ferrati, e Christian aveva svolto diversi corsi fino a diventare “pareggiatore naturale”. Poi era stata eliminata anche l’“imboccatura”, e infine la selle: “I cavalli venivano montati con una fascia”, spiega Christian. A fine 2008, quando Christian e la sua ex moglie decisero di porre fine al maneggio a Marina di Pisa possedevano 7 cavalli, un asino, galline e 3 capre. “I cavalli, che erano stati innanzitutto una fonte di reddito, diventarono improvvisamente un costo, e per noi fu molto duro -spiega Christian-: per tutto il 2009 -aggiunge- si è retto, senza mai pensare di dar via gli animali”. È stato a quel punto che è nata Ippoasi, seguendo l’esempio di altre strutture simili che nel frattempo Christian e la ex moglie avevano conosciuto in Italia, come “Vallevegan”, a Rocca Santo Stefano (Roma), ovvero “l’A-fattoria degli animali liberi” (www.vallevegan.org), o Vitadacani, di Arese, nell’hinterland di Milano (www.vitadacani.org). Entrambe le realtà seguono la cultura del veganismo, una filosofia di vita basata sul rifiuto di ogni forma di sfruttamento degli animali. “Ero già diventato vegano -racconta Chrstian Luciani-, ma lo avevo fatto con un percorso esperenziale, togliendo dalla mia dieta un animale dopo l’altro, a partire dalle galline, dopo aver instaurato una relazione di affetto e rispetto con quelle che ospitavo presso il centro ippico di Collesalvetti”. Fu poi la volta delle mucche, infine dei ma14


iali. Dopo i terrestri, Christian passa ai pesci. Quindi, toglie tutti i derivati animali. “All’inizio di questo percorso -aggiunge- non riuscivo a capire che il problema non era solo la mia dieta, ma anche lo sfruttamento degli animali”. Questa riconversione, il cui simbolo è l’attività di Ippoasi, ruota intorno a due parole, “da reddito”, appiccicate in coda agli animali, come a qualificarli oggetti a disposizione dell’uomo, e non soggetti. Nella “Fattoria della pace” convivono mucche, cavalli, asini, capre, galli e galline, maiali, pecore, oche, pony. “Si tolgono tutte le esigenze specie-specifiche” traduce in un linguaggio più tecnico Christian. Che precisa, però, come Ippoasi non sia un’associazione animalista, ma un progetto culturale e politico, con zampe ben piantate anche nel mondo dell’economia solidale: le t-shirt sono quelle di Raggio Verde, da filiera equo solidale e in cotone biologico, stampate ad acqua. Le assicurazioni del rifugio, invece, sono quelle “etiche” del Consorzio CAES (www.consorziocaes.org), e le donazioni -che sono in realtà “adozioni”, reali, dei singoli ospiti- si raccolgono su un conto corrente aperto presso Banca Etica (“Ippoasi è socia”, puntualizza Christian). “Abbiamo anche fondato il primo Gas vegano di Pisa, e siamo attivi all’interno del Distretto di economia solidale Alt(r)o Tirreno, dove abbiamo promosso una riflessione sul rapporto tra umani e non umani, un ambito cui il mondo dell’economia solidale a nostro avviso dovrebbe guardare con maggiore attenzione” sottolinea Christian. Un antidoto naturale “è dare un nome ad ogni altro animale”, mi spiega Silvia Sacilotto, che da Pordenone è arrivata a Pisa un anno e mezzo fa, e oggi segue il progetto di Ippoasi a tempo pieno ed è la presidente dell’associazione: “Tutti quelli ‘da reddito’ -spiega- sono un riconoscibili attraverso un numero, quello della marca o del microchip che ognuno di loro deve avere sempre con sé”. Per ovviare a questa spersonalizzazione, tutti gli ospiti del rifugio di San Piero a Grado hanno un nome, e una piccola biografia sul sito di Ippoasi. 15


Mentre camminiamo all’interno del recinto, Christian e Silvia mi raccontano la storia di ogni ingresso. Luna e Terra, ad esempio, sono due mucche che arrivano dall’Abruzzo, dove sono state salvate dalla Lav di Chieti. Hanno 18 anni, e quando sono arrivate ad Ippoasi -poco dopo l’apertura- avevano paura di vivere in uno spazio aperto, con altri animali. Ci hanno messo due anni a recuperare il proprio equilibrio mentale. “Una mucca a 18 anni è nel pieno della propria vita -spiega Christian-, mentre i bovini da carne vivono al massimo 2 anni, e quelle usate per la produzione di latte non più di 5 o sei. Quello dell’età, per noi, rappresenta un problema, perché non esistono rimedi né medicine in grado di curarli. Nessuna Facoltà di veterinaria si è mai occupata di studiare gli effetti degenerativi della vecchiaia sugli animali, si occupano solo del loro utilizzo” sottolinea il fondatore di Ippoasi. Un’altra storia che mi racconta è quella di Sogno e Pierino, due capre letteralmente buttate via da un allevamento di Como perché rachitiche. Pierino è morto, dopo 5 mesi di degenerazione della malattia, mentre Sogno è davanti a noi e Christian lo indica: “È magro, e ha gambe lunghissime, per questo era stata scartato”. Intorno a noi, durante tutta l’intervista, ci sono una decina di volontari che puliscono il rifugio e riempiono di fieno le mangiatoie. È fine agosto, e approfittando delle ferie molti hanno passato una settimana qui ad Ippoasi. L’associazione fa parte anche della rete Wwoof, il movimento mondiale che mette in relazione volontari e progetti rurali naturali (www.wwoof.it). Secondo il bilancio sociale di Ippoasi, elaborato in collaborazione con il Centro servizi per il volontariato toscano, nel 2013 sono stati ben 59 quelli che hanno dedicato tempo alla gestione della Fattoria della pace. L’ospitalità è garantita a “Casa Ippoasi”, che è poi l’abitazione di Christian e Silvia, la cui porta è sempre aperta. “Ai volontari garantiamo vitto e alloggio” racconta Silvia. Per pagare queste spese, Christian lavora per tre giorni a settimana, come potatore e giardiniere. 16


I costi del rifugio, invece, sono coperti grazie alle visite delle scuole e alle adozioni, che sono reali e dipendono dalla “misura” degli ospiti. Si va dai 10 euro al mese per le galline e le oche, ai 50 per gli animali di medie dimensioni fino ai 100 euro al mese per le mucche. “Le spese complessive sono di circa 3mila euro al mese -spiega Silvia-. Solo il fieno ne costa circa duemila”. Per accogliere le scuole, l’associazione Ippoasi ha elaborato del materiale didattico apposito, per favorire “una conoscenza degli animali basata sulle loro caratteristiche emotive, cosa gli piace e ciò che non sopportano, e sulle relazioni. Impariamo a considerare gli ospiti come ‘altri animali’, al pari dell’uomo”. Nei primi 7 mesi del 2014, il rifugio ha accolto 600 bambini di 30 classi, su un totale di 2mila visitatori. “All’inizio arrivano principalmente persone sensibili, legati all’ambito vegano, oggi invece c’è un contatto importante con il territorio”. In vista dell’anno scolastico appena iniziato, Ippoasi ha inviato un’offerta didattica che prevede 4 incontri, con tre visite al rifugio in tre stagioni diverse. Alla fine, le classi potranno adottare un ospite. Ad aiutare la costruzione delle relazioni contribuisce anche la via Livornese, dove ha sede la Fattoria della pace: è una zona di passaggio, specie in estate, per tutti quelli che vanno al mare a Marina di Pisa e Tirrenia: chi vede gli animali alle mangiatoie ferma la macchina e si avvicina, e così può conoscere il progetto. Alla relazione con la città di Pisa hanno contribuito anche iniziative come le cene a lume di candela al rifugio, con menù biologico, vegano e a “Km zero”, promosse in collaborazione con Animali in Cucina. Il sostegno della città è stato evidente quando, a fine 2012, la Fattoria della pace ha dovuto lasciare Marina di Pisa, e si è trasferita nella sede attuale, “un terreno in abbandono da 15 anni, di proprietà della Regione Toscana e in gestione al Parco di San Rossore -spiega Christian-: quando lo abbiamo visto, lo abbiamo scelto. La Terza commissione del Comune di Pisa è rimasta impressionata dal mail bombing che abbia17


mo lanciato quando sembrava ci fossero problemi a rilasciare l’autorizzazione. Avevamo anche ventilato la possibilità di un’occupazione”. Era il tempo a non lasciar loro altra opportunità: a fine dicembre 2012 Ippoasi ha dovuto abbandonare l’area di Marina di Pisa, e gli animali non potevano restare per strada. “Quando si è trovato l’accordo, in 6 giorni abbiamo pulito tutta l’area e tirato su ottocento metri di recinzione”. Oggi Ippoasi è in attesa di conoscere il risultato della gara bandita ad agosto 2013 dalla Regione Toscana per l’affidamento dell’area per 4 anni, dopo averla occupata in virtù di un permesso provvisorio in attesa del bando. Nel frattempo l’attività dell’associazione -che nel 2012 e 2013 ha raccolto donazioni per poco più di 50mila eurocresce guardando al mare dell’Arcipelago toscano. Tra i volontari di Ippoasi, infatti, un “ruolo” speciale ce l’ha Marco Verdone, il medico veterinario omeopata che per Altreconomia edizioni ha scritto nel 2012 il libro a più voci “Ogni specie di libertà”, una Carta dei diritti degli animali dell’Isola di Gorgona, dove opera come veterinario responsabile della Casa di reclusione dal 1989. Oltre a curare gli ospiti del rifugio, Verdone ha redatto con l’associazione Ippoasi un progetto per la riconversione dell’ultima isola-carcere d’Italia, seguendo l’esempio della Fattoria della pace. “Il primo passo è chiudere il macello -spiega ad Ae Carlo Mazzerbo, direttore di Gorgona e autore della prefazione al libro di Verdone-. La relazione con l’animale, non più finalizzata alla produzione, diventerà così per il detenuto una forma di trattamento. Inoltre, la presa in cura della vita degli animali è senz’altro più in linea con l’idea di recupero e la rieducazione che la Costituzione riconosce al periodo di detenzione. È importante, inoltre, l’eliminazione di gesti violenti”. Ad oggi, a Gorgona ci sono circa 50 bovini, un centinaio di ovicaprini e un numero importante di maiali. Secondo Mazzerbo si tratta di “un numero eccessivo per le nostre capacità economiche, specie nell’ottica di una riconversione dell’attività”. Per questo, recentemente sono stati pubblicati dei bandi di gara, con l’obiettivo di alienare 18


alcuni animali, che sono di proprietà dello Stato. Il direttore, che in più occasioni ha parlato di Gorgona come “isola dei diritti estesi a tutti”, si è dato un’obiettivo: avviare il progetto entro fine 2015. “Noi vorremmo inserire la riconversione in un discorso più ampio -aggiunge-, individuando una realtà del territorio cui cedere alcuni servizi o attività, dal forno al bar, fino alla zona ortiva, garantendo anche la possibilità di aprire un piccolo ristorante. Queste realtà potrebbero assumere i detenuti. Sono servizi di cui fruirebbero i turisti”. L’obiettivo vero, infatti, è quello di creare un movimento turistico, trasformando l’azienda agricola in rifugio e fattoria didattica, in una visione di sostenibilità etica, rieducativa ed economica. Il primo passaggio, necessario, è collegare Gorgona (che dal punto di vista amministrativo fa parte del Comune di Livorno, e si trova a 37 chilometri dalla costa) alla terraferma. La riconversione ha i piedi piantati per terra.

L’APPELLO PER GORGONA L’isola-carcere di Gorgona è teatro da oltre vent’anni di una delle più avanzate sperimentazioni d’interazione tra uomo e esseri animali, tanto che una mozione votata in Senato il 5 maggio ha impegnato il governo “a valorizzare e promuovere buone pratiche come l’esperienza di reinserimento e recupero dei detenuti del carcere dell’isola di Gorgona attraverso attività con animali domestici”. Un’esperienza -condotta anche grazie all’impegno del dottor Marco Verdone, medico-veterinario sull’isola, e autore per Ae di “Ogni specie di libertà”- a rischio, perché l’amministrazione penitenziaria avrebbe intenzione di bandire una gara per affidare all’esterno le attività produttive, compresi gli animali presenti sull’isola. Essere Animali e Lav hanno lanciato un appello. Si può sottoscrivere su essereanimali.org 19


luca martinelli

A sinistra alcuni vendemmiatori delle Cantine Ferrari tra i filari di Maso Ben, nel comune di Drena (TN).


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Capitolo 2 La riconversione delle bollicine

Tra i filari di Maso Ben, nel territorio del comune di Drena (TN), si vendemmiano uve chardonnay e pinot nero. Sono vitigni fondamentali per produrre uno spumante “metodo classico” Trento Doc. Questo vigneto, di proprietà delle Cantine Ferrari, è anche in conversione al biologico. Una scelta che per l’azienda trentina, fondata nel 1902, risponde alla presenza di “criticità sociali nel territorio”, come le chiama Luca Pedron, agronomo e responsabile del Gruppo tecnico viticolo delle Cantine Ferrari. Pedron fa riferimento alle coltivazioni di melo e vite che, come tute le monocolture, hanno una forte pressione di alcuni parassiti. La difesa convenzionale fa uso di pesticidi, che anche a causa dell’urbanizzazione delle aree rurali sono fonte di criticità per la popolazione residente. Meli e filari di vite convivono, anche lungo la strada tra Trento e Arco che porta a Maso Ben, dove le vigne si arrampicano oltre i 700 metri sul livello del mare. È una caratteristica di questo territorio, dove la proprietà si è ridotta spesso a fazzoletti, anche di 5mila metri quadrati. “Ogni vigneto è inserito nel territorio, e non possiamo trattare le piante con pesticidi ed erbicidi, e poi limitarci ad assicurare il consumatore perché i residui presenti nel vino stanno entro i limiti di legge stabiliti nei protocolli. C’è un mondo vivente sotto i nostri piedi, da salvaguardare”. Luca Pedron riassume così la filosofia sostenibile dell’azienda per cui lavora da quasi 30 anni, che dal 2010 ha avviato un importante progetto di riconversione. L’obiettivo di questo percorso -frutto anche di una collaborazione con l’Istituto superiore di sanità (ISS), per quanto riguarda i dati relati22


vi alla presenza di residui in bottiglia- per Marcello Lunelli, amministratore delegato delle Cantine Ferrari, è “rivolto alla rigenerazione di un ambiente violentato da decenni di comportamento stressante”. La riconversione in corso è importante perché investe il 6% della superficie vitata dell’intero Trentino, 600 ettari su 10mila. Oltre alle terre di proprietà di Cantine Ferrari, cento ettari tutti in conversione al biologico, l’introduzione di pratiche sostenibili in vigna riguarda anche i 500 fornitori, che coltivano circa 1.400 appezzamenti, per un totale di altri 500 ettari. Luca Pedron ha curato la redazione del “Protocollo Ferrari di viticoltura di montagna salubre e sostenibile”, e oggi ne coordina l’implementazione, che si avvale del lavoro di un gruppo di agronomi che -per conto delle Cantine Ferrarisegue l’attività in campagna dei conferitori diretti, alcune centinaia di ettari, e dei soci di cantine sociali. I controlli rispetto al Protocollo -che è volontario e fa riferimento alla norma UNI 11233, “Sistemi di produzione integrata nelle filiere agroalimentari”- sono garantiti dall’ente di certificazione CSQA, che ogni anno analizza il 20 per cento dei fornitori. “Nel 2014, il 70 per cento degli appezzamenti è stato condotto con un metodo che potrebbe essere definito ‘simil bio’, perché gli unici trattamenti ammessi sono lo zolfo e il rame” spiega Pedron. Nel 2013, il Protocollo aveva riguardato il 38% dell’uva conferita e trasformata dalle Cantine Ferrari. Solo il 5% dei terreni di proprietà dei conferitori diretti viene ancora diserbato. Nelle proprietà della famiglia Lunelli, che controlla le Cantine Ferrari, invece, tutti i diserbi sono stati eliminati dal 2010, e oggi l’80 per cento delle vigne viene “gestito” con il sovescio, seminando graminacee e cereali, che garantiscono un vigneto vigoroso e -spiega Pedron- “hanno risolto anche i problemi di erosione, che riguardano i vigneti fortemente compattati, dove gli apparati radicali delle piante non si sviluppano, e il terre23


no non è in grado di assorbire temporali da 40 o 50 millimetri di pioggia in un’ora, sempre più frequenti”. Il terreno, spiega Pedron, “non è un supporto inerte”, perciò è importante ripristinarne la struttura e un adeguato contenuto di humus, fondamentale per trattenere l’acqua e gli elementi nutritivi, per essere meno dipendenti dagli apporti esterni e avere l’imprinting del teritorio sul prodotto finale”. Il supporto viene garantito dalle Cantine Ferrari anche a tutti i conferitori, cui è stata consegnata una copia del Protocollo, che sono invitati a seguire ogni anno otto ore di formazione, ma soprattutto “ricevono” durante l’anno almeno cinque volte una visita degli agronomi dell’equipe coordinata da Pedron. “Una avviene prima del germogliamento, per dare indicazioni in merito al numero di gemme per ettaro. Viene poi calcolata la fertilità, in base al numero di germogli e grappoli. Torniamo a verificare la produttività attesa dopo la fioritura, calcolando il numero di grappoli per vite, e quindi c’è una visita pre-vendemmiale, per controllare lo stato dell’uva” spiega Pedron. L’ultimo passaggio riguarda una campionatura, per determinare il giorno di vendemmia. Fondamentale è la selezione dei grappoli, in quanto l’uva deve arrivare sana allo stabilimento delle Cantine Ferrari. Sul computer di Luca Pedron c’è una mappa di tutto il territorio trentino, e notizie su ogni singolo appezzamento “legato” all’azienda. È un database che rende possibile informare ogni singolo conferitore tramite un servizio di messaggistica istantanea, ad esempio in caso di piogge improvvise, e permette anche di calcolare -in modo statistico- la resa di ogni singolo vigneto. “Questo percorso si accompagna ad un cambio generazionale all’interno dei consorzi, e anche nei campi. Uno dei passaggi più importanti, in questi anni, è stato quello che ha portato i viticoltori a ‘cambiare’ il proprio modo di stare nel campo -racconta Pedron-. Un vero percorso di sensibilizzazione, svolto anche all’interno del Consorzio di tutela vini del Trentino”. 24


Lo stabilimento di Cantine Ferrari è alle porte di Trento, ben visibile dall’autostrada A22. Sottoterra si sviluppa per circa 4 ettari, occupate da ben 20 milioni di bottiglie che maturano sui lieviti prima di diventare Ferrari. L’azienda della famiglia Lunelli nel 2013 ha fatturato 48,7 milioni di euro, ed è una delle realtà vitivinicole più grandi del trentino, e Giulio Ferrari -il fondatore, ai primi del Novecento- è considerato uno dei perfezionatori del metodo classico. “Non sappiamo se il mercato riconoscerà questo impegno nel biologico” spiega Marcello Lunelli, anche perché l’azienda ha scelto di tenere, almeno per il momento, un profilo basso nella divulgazione: “Non avrebbe nemmeno senso, a livello di marketing -aggiunge Lunelli-, perché il nostro vino base invecchia 3 anni, e le grandi riserve tra gli 8 e i 10 anni. Il biologico non è un’esigenza commerciale, ma un credo aziendale”. Ai produttori che hanno adottato il Protocollo, però, viene già riconosciuto un pagamento differenziato, un premio che può superare il 10 per cento al quintale per chi sceglie di fare biologico. “Ogni ettaro di vigna garantisce un reddito di circa 13mila euro” calcola Pedron. Il vero successo, racconta Lunelli, è “aver portato in cantina uva sana, anche in un’annata complicata come il 2014”. E aggiunge: “Ci vogliono circa cinque anni perché un vignetto si metta in un nuovo equilibrio con l’ambiente che lo ospita, un tempo lungo che presuppone un modo di fare impresa che è rivolto al futuro e alle nuove generazioni”. Il tempo della riconversione. ---

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Capitolo 3 Il parco dopo la caserma

A Milano c’è un parco nascosto, che nemmeno i suoi cittadini conoscono. È in periferia, e il suo perimetro è delimitato da un muro di cinta che avvisa: “Zona militare, limite invalicabile”. In fondo a via delle Forze Armate, a Nord-ovest della città, l’ex Piazza d’Armi è oggi un’immensa area wild, dove la natura selvaggia ha ripreso possesso degli spazi che per decenni hanno ospitato la scuola guida per carri armati. Attraverso un varco, “le Giardiniere” mi accompagnano all’interno. Camminando lungo i sentieri e le carrabili, in mezzo a quello che è ormai un bosco, raccolgo il progetto di questo gruppo di donne, che hanno scelto di darsi lo stesso nome di un gruppo di Carbonare attive a Milano nei primi decenni dell’800: vogliono che qui nasca un parco agro-silvo-pastorale, che preveda anche un risvolto didattico, culturale e scientifico. Il Consiglio di Zona 7, referente politico della circoscrizione in cui ricade l’ex Piazza d’Armi, si è detto favorevole al progetto, con una delibera consiliare del marzo 2014 in cui incoraggia le Giardiniere invitandole ad “andare avanti”. Fabrizio Tellini, il presidente, firma una lettera in cui scrive di condividere il progetto per le “finalità che esso persegue nell’indirizzo ‘agro-produttivo’ di una vasta area”. Per il Comune di Milano, invece, l’area della ex Piazza d’Armi è un ATU, un Ambito di trasformazione urbana che insiste su una superficie complessiva di oltre 600mila metri quadrati, che oltre all’area verde -che ne occupa quasi la metà- comprende due zone edificate limitrofe, gli ex 28


Magazzini militari di Baggio e la Caserma “Santa Barbara” di piazzale Perrucchetti. Secondo il Piano di governo del territorio (PGT) della Città di Milano, il 50 per cento dell’area è destinata a restare “verde”, mentre l’altra metà potrà essere edificata, realizzando immobili per una superficie massima di 430mila m2. Ciò significa che per ogni metro quadrato, si potranno costruire edifici per 0,7 metri quadrati, che facilmente non andranno ad occupare ogni spazio disponibile, ma saranno “accorpati” in condomini o mini-grattacieli a più piani, com’è possibile vedere in alcune simulazioni elaborate dagli studenti del Politecnico di Milano, impegnati in workshop sulla riqualificazione delle areee militari dismesse della città. Durante il mese di agosto, il Comune di Milano ha siglato un Protocollo d’intesa con il ministero della Difesa e l’Agenzia del Demanio, con l’obiettivo di una “razionalizzazione” e “valorizzazione” di alcuni immobili militari presenti nel territorio comunale. Tra i beni oggetto del Protocollo ci sono anche la Piazza d’Armi e i Magazzini di Baggio, e le parti si sono impegnate a raggiungere entro dodici mesi un Accordo di programma che miri alla dismissione e valorizzazione dei beni, secondo quando indicato dal PGT o -anche- in variante. Sul processo in corso s’inserisce anche il decreto Sblocca-Italia, che all’articolo 26, dedicato a “Misure urgenti per la valorizzazione degli immobili demaniali inutilizzati”, prevede per gli immobili della Difesa la possibilità che Demanio e ministero “possono proporre all’amministrazione comunale un progetto di recupero dell’immobile a diversa destinazione urbanistica”. Ciò che accadrà alla Piazza d’Armi di Milano, così, può essere visto come un prequel di un film destinato a girarsi in tutta Italia nei prossimi anni. Il progetto delle Giardiniere, cioè, stride con gli atti del Comune di Milano, che s’è impegnato formalmente a “porre in essere le attività di propria competenza per la valoriz29


zazione dei beni di proprietà dello Stato”. Se il presupposto dell’intervento è la dismissione, infatti, la riconversione della ex area militare (e pubblica) per fini produttivi in ambito agricolo e sociali non potrà (mai) avvenire. Eppure il gruppo de “Le Giardiniere” nasce all’interno dell’apparato comunale, come articolazione del Tavolo di lavoro Salute istituito dalla Commissione Pari Opportunità, presieduta dalla consigliera Anita Sonego. “Abbiamo inteso fin da subito il termine ‘salute’ in senso lato, come condizione di benessere -racconta Maria Castiglioni, parte delle Giardiniere-. Accanto al gruppo di lavoro sui consultori (vedi Ae 163), il cui lavoro era centrato sui servizi sanitari, noi abbiamo allargato lo sguardo alla buona gestione dei beni comuni. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la ‘salute’ va intesa come promozione del benessere, piuttosto che cura della malattia. In questa accezione, la salute è allora da collegarsi strettamente alle nostre condizioni di vita che a loro volta dipendono da come si gestiscono aria, acqua, terra e cibo”. Il lavoro del Tavolo è partito nel novembre del 2011, e per il primo anno è stato finalizzato a identificare che cosa voglia dire, oggi, vivere in una città salutare. “Per questo -racconta Maria- abbiamo contattato delle amministratrici perché ci raccontassero pratiche virtuose sulla gestione dei beni. Tra le persone più significative, senz’altro, c’è stata Lucrezia Ricchiuti, che allora era vice-sindaca di Desio (MB) e oggi è senatrice PD, che ci ha raccontato la revisione del PGT del Comune brianzolo, con la cancellazione di previsioni urbanistiche per 1,5 milioni di metri quadrati. È stato allora che abbiamo immaginato un progetto che legasse città e attività agricola, e pensando a un grande lotto di terreno non antropizzato a Milano abbiamo individuato quello di Piazza d’Armi”. Dopo aver chiarito un obiettivo, il Tavolo di lavoro ha avviato un processo di consultazione, “e di relazione” aggiunge Maria, coinvolgendo “testimoni significativi attivi in am30


biti liminari rispetto al nostro progetto, e cioè le agricoltrici delle ‘Donne in campo’ della CIA e di Coldiretti, alcune contadine delle cascine del Parco agricolo Sud, ma anche paesaggisti, territorialisti, il Distretto di economia solidale rurale del Parco agricolo Sud, Slow Food, Legambiente, Claudia Sorlini, che presiede il Comitato scientifico per Expo, le mamme della refezione scolastica milanese. Abbiamo passato più di un anno a parlare, ad incontrare”. Il nome de “Le Giardiniere” è “evocativo dell’amore per i giardini, che c’inserisce nella genealogia delle donne coraggiose e lungimiranti che fin dall’Ottocento desiderarono una Milano libera e giusta” spiega Maria. Che aggiunge: “Abbiamo scelto di chiamarci così anche per creare uno scarto simbolico: non siamo solo una realtà all’interno del Comune ma anche altro, ‘le Giardiniere’ del Tavolo salute”. Con il Comune, allo stato, il rapporto è dialettico, e non sempre le posizioni sono vicine. “Nel luglio del 2013 abbiamo sentito l’esigenza di rendere pubblico il nostro progetto. La vice-sindaca e assessore all’Urbanistica del Comune, Ada Lucia De Cesaris, all’inizio non ha preso in considerazione la nostra proposta. ‘Se volete uno spazio, posso darvelo altrove’ -racconta Evi Parissenti, esperta di comunicazione, un’altra Giardiniera-. Dopo aver ricevuto il sostegno del Consiglio di Zona, però, abbiamo fatto un altro tentativo: l’11 marzo 2014 abbiamo potuto incontrare nuovamente la vice-sindaca, che si è detta disponibile a scrivere una lettera al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, per chiedere l’area”. Nella lettera indirizzata a Pinotti, De Cesaris parla di “affidamento provvisorio” di una porzione dell’area, per permettere la realizzazione di un’iniziativa per la città e il quartiere, che permetta di fruire di un’area “sino ad ora interclusa”, con “un progetto di cura, con interventi d’orto e coltivazione leggera”. Il realismo, però, rimane, dato che -specifica la vice-sindaca del Comune di Milano -una eventuale 31


convenzione potrebbe prevedere l’obbligo di restituzione dell’area “nell’eventualità dell’acquisizione da parte di terzi della stessa”. La lettera è datata 17 marzo 2014. Cinque mesi dopo, Pinotti e De Cesaris hanno firmato il protocollo con l’Agenzia del Demanio, dove l’orizzonte resta quello della valorizzazione prevista dal PGT. Per questo, dopo l’estate, le Giardiniere hanno avviato un tavolo di lavoro per definire il master plan, che verrà presentato nel corso di un incontro pubblico in programma a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, il 12 novembre. Per loro, il parco agro-silvo-pastorale non è transitorio: “Abbiamo una nostra visione di cosa significhi sviluppo urbano -dice Maria-, e anche noi abbiamo il nostro PGT, inteso come Progetto Generativo di Trasformazioni”. A grandi linee, si tratta di lasciare un’alternanza di zone coltivate e aree umide, quelle naturali dei due laghetti che si formano in inverno all’interno della ex Piazza d’Armi. “Per quanto riguarda l’acqua, pensiamo di poter canalizzare quella piovana, usando queste aree come bacini di raccolta, senza pensare per il momento a portare acqua dai fontanili del parco delle cave” racconta Maria. La zona coltivabile, invece, dovrebbe essere quella lungo via delle Forze Armate, che attraverso un cancello sarebbe facilmente fruibile da tutto il quartiere. “Intanto, la Protezione Civile di A2a ci ha promesso un aiuto per pulire l’area. Potrebbe diventare anche una buona occasione per farne un sito di Expo diffusa, dal momento che il nostro progetto ha ottenuto il patrocinio del Comitato Scientifico Expo”. Daniele Colla è un giovane garden designer, e insieme ai colleghi (architetti, agronomi, dottori in Scienze forestali) dello studio di progettazione architettonica e paesaggistica GreenArk (greenarkstudio.it), sta aiutando le Giardiniere a redarre il master plan. Ha 32 anni, ed è entrato in contat32


to con il gruppo grazie a un post su Facebook. “Vorremmo fare in modo che si crei una sorta di riserva naturale, che possa diventare anche un ambito di studio per capire le dinamiche che hanno portato a quel tipo di rinaturalizzazione in un’area urbanizzata. All’interno dell’ex Piazza d’Armi ci sono aree in cui nidificano fagiani, conigli e anatre selvatiche, nonché anfibi tutelati dalle leggi faunistiche”. Daniele spiega che nel loro lavoro si stanno attenendo alle indicazioni delle Giardiniere, che hanno chiesto di immaginare interventi che “traccino nel terreno il minor numero possibile di segni, anche per quanto riguarda le vie di comunicazione interne, l’area agricola e quella adibita ad orti urbani, dove sarà possibile inserire strutture non fisse ma temporanee, in legno”. “Costruire l’ennesimo quartiere non serve” ha ricordato Maria durante la visita all’ex Piazza d’Armi. E basta girarsi intorno, a 360 gradi per capire il perché: oltre ad alcuni edifici pubblici, ovunque si volga lo sguardo, ci sono appartamenti. “Il ‘verde’ che è scritto nel Piano di governo del territorio del Comune sarebbe un parco di servizio, fruito solo da chi abiterà nelle case che verrebbero costruite. Difficilmente aperto all’esterno, non sarebbe un parco ‘permeabile’, com’è scritto nelle carte” conclude Daniele. L’unica valorizzazione reale, così, è quella proposta dalle Giardiniere. Che a Milano vogliono regalare un altro polmone verde, un vero parco, come quello -vicino all’ex Piazza d’Armi- delle Cave. ---

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luca martinelli

Sul crinale che scende verso il borgo di Monasteroli, presso Biassa (SP), si vedono ancora gli “scalini� dei terrazzamenti che stanno svanendo ---

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Capitolo 4 L’etica del muretto

I muretti a secco non rendono belle le Cinque Terre, ma solo vivibili: quello tra Monterosso a Mare e Portovenere è un paesaggio costruito, dove i crinali hanno lasciato il posto ai terrazzamenti coltivati, ed è questo che ha permesso all’uomo di insediarsi in quest’angolo remoto di Liguria, in provincia della Spezia, dove le montagne sono a ridosso del mare. I muretti a secco, però, non sono tutti uguali, a meno che a guardarli -di sfuggita- non sia il turista: ma le Cinque Terre non sono una cartolina, e l’occhio esperto di Luca Zucconi, un artigiano che vive a Castelnuovo Magra (SP) e lavora a costruire (e ricostruire) muretti a secco, pietra su pietra senza usare né malta né cemento, m’invita a osservarne meglio alcuni, lungo i tornanti della strada tra Monterosso e Levanto: ovunque io veda degli sfogatoi per l’acqua, che siano canalette o tubi di plastica, mi spiega, c’è del cemento. “Il muro a secco drena tutto” aggiunge, mostrando anche altri difetti in lavori eseguiti con sufficienza: le pietre non dovrebbero essere mai impilate, perché così vanno a creare delle “linee di frattura”, punti in cui la terra, spingendo, può portare il muretto a collassare. “I muretti lavorano sulla gravità, e più alto è il numero dei punti di contatto tra le diverse pietre, maggiore è la stabilità dell’artefatto” racconta Luca Zucconi, che oltre a lavorare forma giovani futuri artigiani nei corsi ad hoc organizzati in Liguria e non solo. Non è un approccio estetico a guidare “l’arte di costruire muretti a secco”, ma l’etica della manutenzione del territorio. Il muretto a secco, cioè, non dev’essere bello, ma utile. 35


E una parte importante della struttura è quella che non si vede, perché il manufatto dev’essere profondo (il rapporto con l’altezza è uno a tre, 70 centrimetri per un muro alto due metri) e realizzato utilizzando pietre di diverse misure, grandi, medie e piccole. Il costo varia tra i 150 e i 250 euro al metro cubo. “Purtroppo, la maggior parte delle richieste arrivano quando ormai i muretti sono caduti -dice Luca-. Mi chiamano per ricostruire”. È successo anche mentre eravamo insieme: era una persona di Genova, che lo chiamava “con urgenza”. Termine che fa rima con emergenza, ormai una parola d’ordine: a oltre tre anni dall’alluvione alle Cinque Terre, quella del 25 ottobre 2011 che ha colpito in particolare il borgo di Vernazza, è evidente che quell’evento era un campanello d’allarme, per tutto il Paese: l’equilibrio è venuto meno, e il territorio non è più visto come “alleato da rispettare per essere salvi”. Questa definizione, bellissima, è scritta nel manifesto elaborato dal Collettivo Parisse, che per tutto il 2014 ha promosso un “laboratorio per la costruzione e la tutela dei muri a secco”, coinvolgendo il Centro per l’arte moderna e contemporanea (CAMEC) della Spezia. Il Collettivo ha sede a Manarola, un altro dei borghi delle Cinque Terre, e s’incontra presso l’Archivio della Memoria, cioè l’abitazione-studio di Anselmo Corvara, che da quasi quarant’anni, lui ne ha 79, raccoglie testimonianze (oggetti, attrezzi, foto) di vita contadina su questi terrazzamenti. Il Collettivo lavora insieme dal 2011, per valorizzare il lavoro di Anselmo, e la tenacia dei contadini di Manarola. Il laboratorio ha avuto inizio raccogliendo sulla spiaggia “nuova” di Vernazza i sassi “alluvionali”, poi utilizzati per realizzare un muretto a secco che campeggia all’ingresso del CAMEC, a La Spezia. “Potrebbe restare lì per sempre” mi racconta Francesca Cattai, consulente artistico presso il Centro espositivo spezzino. E nel 2015, spiegano i membri del Collettivo Parisse, verrà promosso un nuovo laboratorio, che non vuole però sostituirsi alle associazioni che operano per la tutela del paesag36


gio. “La nostra azione ha un valore simbolico” raccontano Alessio, Alessandro e Daniela. Sono di Anselmo le parole che guidano l’azione del Collettivo: “Muretto a secco, mai stato cemento ai tempi”; “mia mamma fa muro, e io fatto uguale come mia mamma”. “I Parisse”, che hanno scelto il nome di un’antica famiglia insediata a Manarola dal Duecento, da cui discende anche Corvara, dialogano con chi, sul territorio, sta avviando la riconversione, a partire dal recupero dei muretti a secco, come l’associazione “Tu Quoque” di Vernazza o “Per Tramonti”, attiva a Schiara dal 1991. Se provate a digitare i nomi su Google Maps,però, non scoprirete né Schiara né Tramonti. L’unico modo per conoscere questi “borghi” è arrivare a piedi lungo i sentieri che scendono da Campiglia o dalla panoramica che da La Spezia raggiunge (da Sud) Riomaggiore e le Cinque Terre. “La nostra è un’associazione di volontariato” racconta il presidente, Gianni Paxia. Lo Statuto indica chiaramente l’oggetto sociale: “Salvaguardare il suo [di Schiara, ndr] patrimonio naturale e paesaggistico operando affinché terrazzamenti, viottoli, muri a secco e l’ambiente in genere siano conservati attraverso una azione di continua manutenzione e cura”. Per realizzarlo, da qualche anno Per Tramonti porta avanti il progetto T.R.A.MONTI, che significa terre restituite all’agricoltura. “Abbiamo la gestione in comodato di 1.500 metri quadrati di ‘piane’. Qui abbiamo messo a dimora piccole vigne di vermentino, albarola e bosco, che sono i tre vitigni con cui si produce lo Sciachetrà, il vino passito delle Cinque Terre, che qua però chiamano Rinforzato”. Il vigneto dovrebbe entrare in produzione tra un paio d’anni. La manutenzione del territorio realizzata dai soci di “Per Tramonti” ha superato la diffidenza iniziale di parte degli anziani spezzini proprietari dei terreni (e dei muretti) abbandonati, che oggi offrono loro altre piane. Il vino non verrà commercializzato, ma distribuito tra i soci di Per 37


Tramonti, che sono un centinaio, praticamente tutti coloro che possiedono una delle vecchie “cantine” di Schiara, molte delle quali riadattate ad abitazione rustica, perché qua non ha mai vissuto nessuno e l’energia elettrica è solo quella dei pannelli solari. “I soci attivi sono almeno una decina” dice Paxia, che per attivi intende “cantonieri” lungo i sentieri che portano a Schiara attraversando le “piane” dei vigneti. “Abbiamo firmato una convenzione con il Parco nazionale delle Cinque Terre e il Comune di La Spezia, che è in vigore ormai da 7 anni: programmiamo insieme gli interventi, che vengono finanziati per metà dagli enti, a fondo perduto, mentre il 50% del valore è dato dalla ‘valorizzazione’ del lavoro volontario”. In base al “Protocollo 2014-2016”, gli enti s’impegnano a garantire un contributo ordinario di 90mila in tre anni, oltre a un contributo straordinario di 23.037 euro per il 2014. “Chi vuole ricostruire i muretti a secco, però, può contare anche su un contributo pubblico di 96 euro al metro quadrato” mi racconta Marco Cerliani, presidente dell’associazione Campiglia, co-firmataria della Convenzione. Nata nel 2000, ha -in mediatra i 130 e i 150 iscritti. “In questi anni abbiamo svolto per conto degli associati l’azione di un Caf, seguendo le pratiche istruttorie per ottenere il contributo per ricostruire i muretti a secco franati. Abbiamo anche recuperato il trenino a cremagliera che scende verso il mare per 1.500 metri, coprendo un dislivello di 400 metri. Campiglia, infatti, è una frazione collinare del Comune di La Spezia, e domina le vigne di Tramonti dall’alto. Per raggiungere il mare c’è un’altra possibilità: una discesa fatta di mille scalini. A una parete della Lampara, l’unico ristorante del bordo, gestito da Cerliani con la madre, c’è un ritaglio di giornale: “Parte da Campiglia la valorizzazione della costiera delle Cinque Terre” è il titolo di un articolo del 1963. Secondo Cerliani, non c’è bisogno di nessun piano straordinario e nemmeno di grandi opere, ma né lui -né Luca Zucconi- sono in grado di quantificare “quanto lavoro” po38


trebbe creare un piano di piccole opere di manutenzione. Quegli interventi necessari a tutelare il paesaggio ligure, come spiega Vittorio Centenaro, sindaco di Leivi. Questo piccolo Comune dell’entroterra genovese, 2.840 abitanti, è alle spalle di Chiavari, ed è “responsabile” dell’alluvione che ha colpito il centro rivierasco, 30mila abitanti, nel novembre scorso. “L’allagamento è stato causato quasi tutto dall’esondazione delle acque del torrente Rupinaro, che è quello che passa per Leivi” racconta Centenaro, come ad indicare che il dissesto idrogeologico non può -e non deveessere affrontato a valle, dove sono possibili solo interventi di mitigazione e adattamento. Secondo l’analisi di Centenaro, il problema principale dell’entroterra ligure non è il cemento, ma l’abbandono. Sono i terrazzamenti, creati già nel Settecento per piantare ulivi e poi noccioli al posto dei boschi di castagno e oggi lasciati a se stessi a presentarsi come “ferite” nel territorio. “I contadini erano tutti ingegneri idraulici, perché impedire le frane era un loro interesse economico”. Per questo, ad Altreconomia racconta l’intenzione di un’ordinanza per obbligare tutti i cittadini a creare schemi di regimentazione delle acque piovane, tanto nei pressi delle abitazioni quando nei terreni agricoli”. Sono interventi di ingegneria naturalistica, e Luca Zucconi me ne ha mostrati alle Cinque Terre. Servono a canalizzare l’acqua, per far sì -come avveniva in passato- che questa arrivi nel primo “valletto” (come vengono chiamati i corsi d’acqua che attraversano i borghi liguri) e da lì nei fiumi e infine al mare. Si tratta però di investimenti gravosi per soggetti che oggi vivono la campagna come un hobby, e non ne fanno una fonte di reddito. Ma il governo, invece di “incentivare” questo tipo di intervento (ad esempio mediante meccanismi di defiscalizzazione, come quelli previsti per le grandi opere) ha scelto di applicare l’IMU (imposta municipale unica) anche per i terreni agricoli montani. Dovrebbe sapere che la natura presenterà il conto. 39


luca martinelli

Silvio Abello nel suo mangimificio di Verzuolo, in provincia di Cuneo. Dal 2000 tutti i prodotti dell’azienda piemontese sono certificati biologici

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Capitolo 5 Il cibo del nostro cibo

Se nel vostro piatto entrano uova, latticini o carne, quest’articolo vi riguarda. Alla base della catena alimentare di galline, suini e vacche, c’è del mangime, e così siamo entrati in un mangimificio, per capire come lavora -e le possibili scelte industriali- di chi alimenta, ogni anno, oltre 630 milioni di animali (vedi box). In Italia, gli impianti che producono mangimi sono 503, anche se i primi venti valgono quasi il 60 per cento di un mercato che nel triennio 2011-2013 si è mantenuto sempre sopra i 7,3 miliardi di euro di fatturato, distribuendo oltre 14 milioni di tonnellate di prodotto. Leader del settore è il Gruppo Veronesi (www.gruppoveronesi. it), che è l’esempio di un’azienda “integrata”: oltre all’omonimo mangimificio, possiede i marchi Aia (che produce carni avicole, di coniglio, di suino e bovine, oltre a uova) e Negroni (che produce salumi). Nell’autunno del 2014, lo stabilimento padovano del gruppo è stato oggetto di due manifestazioni di attivisti “No OGM”: la produzione dell’intero settore, infatti, sarebbe “per oltre il 90 per cento basata su ingredienti OGM (in particolare soia OGM)”. Il virgolettato è tratto dalla relazione conclusiva di un’indagine conoscitiva realizzata tra il 2008 e il 2010 dal Senato della Repubblica, e riporta informazioni fornite dai vertici dell’Associazione nazionale tra i produttori di alimenti zootecnici (Assalzoo, www.assalzoo.it). Secondo il rapporto 2014 della stessa associazione, l’Italia nel 2013 ha prodotto 736.300 tonnellate di panelli o farine di soia utilizzando materie prime importate, pari al 48% del totale di panelli o farine estratte da semi oleosi (oltre alla soia, in questa categoria rientrano anche il girasole, o la colza) in quell’anno. 41


L’altro “ingrediente” fondamentale nelle “ricette” dei mangimi sono i cereali (mais, orzo e frumento), ma si possono utilizzare anche farine animali, o le penne delle galline. Silvio Abello, che ci ha aperto le porte del suo stabilimento, a Verzuolo, in provincia di Cuneo, ha scelto di non usare nella composizione delle ricette alcun prodotto di origine animale. L’azienda piemontese dal 2000 produce solo mangimi certificati biologici: quella di Verzuolo Biomangimi (www.verzuolobiomangimi.it) è una storia di riconversione, perché fino per quarant’anni l’azienda aveva lavorato come tutti gli altri: “Avevamo in catalogo 10 diverse ‘ricette’, per tutte le tipologie di animali, e almeno sei tra queste contenevano prodotti medicali, sostanze antibiotiche” racconta oggi Abello. “Per chi produceva mangimi da distribuire ad allevatori che operano in regime ‘convenzionale’, e non biologico, era quasi impossibile farne a meno -aggiunge-: tra gli anni Ottanta e Novanta, chi voleva restare sul mercato doveva produrre di più, almeno il 20 per cento. Così è aumentatà la densità media degli animali negli allevamenti, e con questa anche il rischio di contrarre malattie”. Anche Abello è un allevatore, di suini, ed è socio di una cooperativa -che si chiama “La sorgente” ed ha sede a Saluzzo, sempre nel cuneese- che riunisce allevatori e cerealicoltori. “L’80% della materia prima trasformata dal mangimificio arriva dai soci della cooperativa: quindici anni fa era molto difficile reperire materie prime certificate e ci rendemmo conto che era importante auto-produrre” spiega Abello. La soia utilizzata, ad esempio, è tutta italiana. “Oltre all’assenza di contaminazione OGM, per quanto riguarda la soia abbiamo l’obbligo di ritirare prodotti che non siano estratti chimicamente, ma utilizzando presse meccaniche -spiega Abello-: in questo modo, il seme non viene ‘sfruttato’ completamente, e c’è un residuo maggiore d’olio nel panello, ma è totalmente naturale”. Secondo Assalzoo, il biologico vale circa l’1,5% del mercato, circa 210mila tonnellate. 42


L’impianto di Verzuolo, che nel 2014 ha prodotte 170 tonnellate di mangimi, è altamente automatizzato: i silos e i contenitori che vengono utilizzati per stoccare i cereali e le altre materie prime sono gestiti attraverso una “sala di controllo”. Il prodotto finito -che esce dalle macchine in farine o pellet- viene poi stoccato, per essere poi venduto quasi integralmente sfuso. “Verzuolo biomangimi” è certificata da Bios (www.certbios.it), e agli allevatori i suoi prodotti costano circa il 30 per cento in più del convenzionale. I mangimi per le galline ovaiole hanno un prezzo di circa 50 euro al quintale, mentre l’alimento destinato a suini e vacche ne costa circa quaranta. “Per alimentare un maiale, e portarlo da 25 a 160 chili, servono cinque quintali di mangime, per un valore di circa 200 euro” racconta, come esempio, il titolare della Verzuolo Biomangimi. Nella sua azienda agricola oggi alleva 400 suini, che erano 720 -nello stesso spazio- quando faceva agricoltura tradizionale. “A una densità ridotta, corrisponde uno stato di salute migliore”. Per quanto riguarda l’alimentazione, Abello racconta che con i suini preferisce evitare la soia, “perché cambia il sapore delle carni. Come proteico per i maiali uso il favino -spiega, e poi svela alcuni segretti del ciclo produttivo-: per le pecore, utilizzo un panello di girasole che trasferisce un gusto particolare anche allo yogurt; per le galline ovaiole, invece, abbiamo individuato un trito di erbe mediche, con un alto contenuto di caroteni e xantofille, che colora un po’ il guscio dell’uovo”. Questo mangime permette di ottenere un prodotto finito (l’uovo) con caratteristiche adeguate agli standard della grande distribuzione organizzata (Gdo). “Nell’ambito dei mangimi prodotti per allevamenti ‘convenzionali’, è possibile aggiungere dei coloranti che permettono di ottenere guscio e tuorlo del colore desiderato. Ma se il tuorlo è di un rosso acceso, quell’uovo non potrà mai essere biologico” scherza Abello. Le formule di tutte le razioni alimentari, sia per il biologico che nel convenzionale, sono comunque elaborate da un veterinario: “Nell’area mediterranea, gli allevatori hanno spesso un problema nella produzione di alimenti proteici. Per que43


sto, molti comprano mangimi che sono definiti come ‘nuclei proteici’ o ‘integratori’ -spiega Andrea Martini, veterinario del Dipartimento di Scienze Produzioni Agroalimentari e dell’Ambiente dell’Università di Firenze, dove insegna Zootecnia biologica-: l’esigenza principale che impone l’utilizzo di mangimi è l’esigenza di garantire una dieta equilibrata”. L’importanza nella composizione dei mangimi è legata alle “certificazioni di filiera”. Verzuolo Biomangimi, ad esempio, è “autorizzata a produrre” per la Granarolo, o per Carrefour. Questo significa, che l’azienda di Silvio Abello può distribuire in proprio mangimi ad allevamenti che, a valle, vendono il prodotto a questi gruppi. “Il capitolato latte e uova ‘bio’ di Granarolo, ad esempio, comporta che il prodotto sia interamente nazionale, compresa la soia utilizzata, e che nella formulazione non vengano utilizzati prodotto di origine animale -spiega Abello-. Carrefour, invece, impone analisi sulle contaminazioni da diossina e anche sulla presenza di PCB, i policlorobifenili”, di cui negli ultimi anni sono state trovate tracce -ad esempio- in campioni di latte del bresciano, “trasferito” nel prodotto finito dallo stomaco delle vacche, colpevoli di ruminare foraggi prodotti sui terreni inquinati dalla industria Caffaro. “La differenza più grande, tra chi produce mangimi ‘bio’ e chi fa convenzionale, è che noi siamo tenuti a una ‘certezza agricola’, dobbiamo sapere che cosa e dove si è seminato. Chi fa convenzionale, compra le materie prime sul mercato, guidato da una logica di ottimizzazione dei costi. Questo comporta anche la possibilità di variare le formule, costantemente, a seconda del livello dell’offerta di questa o quella materia prima proteica. Qui invece diamo continuità al prodotto” racconta Abello. L’azienda di Verzuolo ha chiuso il 2014 con un fatturato di 9 milioni di euro, in crescita del 12 per cento rispetto all’anno precedente. Nel 2001, dopo la conversione al biologico, i ricavi erano appena 800mila euro. Il 98 per cento 44


del prodotto viene venduto sfuso, e solo una minima parte in sacchi. I dipendenti sono quattro, racconta Abello, e nessuno di loro si occupa della parte commerciale. Eppure, l’azienda distribuisce i propri mangimi anche fuori dal Piemonte, a Udine, Terni e Viterbo, dove -ad esempioha come cliente la Fattoria Cupidi di Gallese (VT), un’azienda che produce 8.500 uova biologiche al giorno e che fa parte del “Bio-distretto della via Amerina e delle Forre” (vedi Ae 155). È un’economia delle relazioni, anche se nascosta agli occhi del cittadino-consumatore.

I mangimi in numeri Nel 2013, in Italia sono stati allevati 517 milioni di polli da carne, 54 milioni di galline ovaiole, 31 milioni di tacchini e -ancora- 8,5 milioni di suini, oltre 4 milioni di bovini da carne e più di due milioni di vacche da latte. Nello stesso anno, secondo l’annuario di Assalzoo, nel nostro Paese sono stati prodotti quasi 5 milioni di tonnellate di carne, mentre il consumo pro-capite di carne fresca è stato di 83,4 chili a testa. Tra i 28 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è il quinto produttore di mangimi, con 14,04 milioni di tonnellate nel 2013, dietro Germania, Francia, Spagna e Regno Unito. L’industria mangimistica ha utilizzato (nel 2012) oltre 12 milioni di tonnellate di cereali, e in particolare granoturco (8,5 milioni di tonnellate), orzo (1,3 milioni di tonnellate) e frumento tenero (1,29 milioni di tonnellate). 45


luca martinelli

Uno dei 36 dipendenti della Dismeco alle prese con una lavatrice, dalla quale è possibile recuperare fino al 98% dei materiali che la compongono

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Capitolo 6 Dal bianco dal bianco

Gli operai con interventi metodici “smontano” lavatrici, una dopo l’altra. Separano i metalli dal vetro degli oblò, i circuiti elettrici dai cestelli. Alla fine della catena di montaggio i materiali vengono smistati: tutti verranno avviati a riciclo. I dipendenti della Dismeco lavorano in un capannone di Marzabotto (BO), lungo il corso del fiume Reno: da qui, un tempo uscivano le bobine su cui veniva stampato il Corriere della Sera. “Questa è stata la cartiera Rizzoli, poi passata alla Burgo” racconta ad Altreconomia Claudio Tedeschi, amministratore delegato della società. Quando nel 2010 Dismeco ha rilevato una parte del il complesso industriale per trasformarlo in un centro per il recupero dei RAEE, i rifiuti da apparecchi elettrici ed elettronici (dai “grandi bianchi”, come i frigoriferi, alle lampadine a basso consumo), l’attività era ferma, dal 2006: 600 i dipendenti licenziati. “La Direttiva RAEE apriva a nuove opportunità, e quando abbiamo avuto l’opportunità Abbiamo scelto di ristrutturare gli spazi recuperando la struttura in modo filologico, cioè rispettando l’architettura originale e le successive stratificazioni, e non abbiamo consumato suolo -spiega Tedeschi-. La riconversione della ex cartiera ha anche un nome, anzi un marchio registrato: si chiama “Borgo Ecologico” il progetto Dismeco che prevede di “declinare ad ampio spettro il tema della sostenibilità”, come racconta Tedechi, a cominciare dalla copertura fotovoltaica dei tetti degli edifici presenti nei 42mila metri quadrati acquisti da Burgo. “Abbiamo anche acquistato villa Rizzoli, che si trova a fianco dello stabilimento, e quando sarà completato il restauro mi auguro di47


venga diverrà un centro didattico, al servizio del territorio” spiega l’ad della società. A far da corona allo stabilimento c’è il Monte Sole, con il Parco storico che ricorda l’eccidio nazista di Marzabotto (www.parcostoricomontesole.it), una strage che nell’autunno del 1944 vide morire oltre 700 civili. È uno dei simboli dell’identità emiliana, al pari della “meccanica applicata” cui -secondo Tedeschi- si deve la nascita di un’azienda come Dismeco, fondata nel 1977: è la prima in Italia a trattare i RAEE, gestita dal padre dell’attuale amministratore delegato, che è anche componente della Commissione ambiente di Confindustria Emilia-Romagna e dell’Osservatorio sulla Green Economy IEFE dell’Università “Bocconi” di Milano. “Avevo 19 anni, allora era tutto diverso: ogni cosa era aggiustabile; smontando selettivamente recuperavamo migliaia di pezzi di ricambio” racconta oggi Tedeschi. L’attuale Dismeco è figlia di due norme del 2004 e del 2005, i decreti legislativi 49/2014 e 151/2015, che hanno introdotto nell’ordinamento italiano quattro Direttive UE relative “alla riduzione dell’uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche, nonché allo smaltimento dei rifiuti”. La sigla RAEE fa parte, da allora, del nostro quotidiano, perché ogni volta che cambiamo un elettrodomestico il vecchio dev’essere “gestito” in modo appropriato. I rifiuti da apparecchi elettrici ed elettronici sono suddivisi in cinque categorie (vedi box), mentre la raccolta è gestita attraverso consorzi (Dismeco lavora con APIRAEE, Ecodom, ECOEM, Ecolamp, Ecolight, Ecoped, ecoR’it, ERP, EsaGerAEE, PVCycle, RAEcycle, ReMedia), che nel 2014 hanno recuperato in tutto il territorio nazionale 231.717.031 chilogrammi, in media 3,8 per ogni italiano. In Emilia-Romagna, la regione dove opera Dismeco, sono stati raccolti RAEE per 21.918.935 chilogrammi, anche se -spiega Tedeschi- “si ipotizza che ogni anno si vendano 60mila tonnellate di apparecchi elettrici ed elettronici”, e ciò significa che una parte spariscono, e non vengono trattati in modo adeguato. Che 48


significa, nel caso di una lavatrice, ad esempio, “il recupero del 98 per cento dei materiali che la compongono”, come si fa a Marzabotto. “La nostra azienda tratta circa 10mila tonnellate di RAEE ogni anno -racconta Tedeschi-, e questo significa che abbiamo un grande potenziale di crescita, di quasi sei volte”. In fondo al piazzale dove i camion scaricano i rifiuti che verranno avviati a trattamento c’è un terzo capannone dell’ex cartiera, che ancora non è stato recuperato da Dismeco. L’azienda -spiega Tedeschi- cresce e investe “senza aver ricevuto un euro di contributo pubblico, occupando 36 persone e arrivando a fatturare quasi 4 milioni di euro”. È orgoglioso nel raccontarmi di aver “re-inventato concettualmente un metodo per il trattamento dei ‘grandi bianchi’, che permette di non prendere gli elettrodomestici e buttarli tal quali nei trituratori”, come fanno quasi tutti, ma di realizzare uno “smontaggio selettivo”, come definisce Tedeschi la catena di montaggio che abbiamo visto all’inizio di questo racconto. Recuperare i materiali, per poi rivenderli, è essenziale per chi si occupa di RAEE. Lavatrici, televisori, personal computer, lampadine, infatti, vengono quasi sempre acquistate. “Fino al 2011, ricevevamo un corrispettivo per il trattamento ambientale. Ma la verità è che tali guadagni, vista la cronica scarsità di materiale si sono ridotti del 200%, e oggi in larga parte compriamo ‘rifiuti’ e rivendiamo materie prime, spesso agli impianti posti alla fine della filiera, come le acciaierie. Le categorie con maggiore valore aggiunto sono i piccoli elettrodomestici” aggiunge Tedeschi. Ogni anno, Dismeco ne “tratta” 3mila tonnellate. Le lavatrici, invece sono 25mila al mese, e almeno 35mila invece le lampadine a basso consumo, che pure vengono lavorate con una macchina innovativa, frutto del progetto europeo “Relight”, che permette anche la separazione delle basi che contengono i circuiti elettrici. Secondo l’imprenditore bolognese, tuttavia, questi sforzi potrebbero non rivelarsi sufficienti: il Piano regionale di gestio49


ne dei rifiuti, adottato dalla giunta regionale nel febbraio del 2014, non interviene con la dovuta attenzione in merito ai rifiuti da apparecchiatura elettriche ed elettroniche, secondo Tedeschi perché i RAEE intercettati dal sistema equivalgono ad appena 25mila tonnellate su 2 milioni di tonnellate di raccolta indifferenziata, e non sono un business interessante per HERA ed IREN, le due multi-utility quotate in Borsa che gestiscono il ciclo dei rifiuti praticamente in tutti i Comuni dell’Emilia-Romagna. Dove esistono solo due impianti che trattano RAEE, quello di Dismeco a Marzabotto e quello di Tred Carpi, una società mista costituita da AIMAG e UNIECO. “In altre regioni, come la Lombardia o il Veneto gli impianti sono 8, o 10 -spiega Tedeschi-. E questo fa sì che i RAEE ‘regionali’ vengano trattati in loco, mentre i rifiuti elettrici ed elettronici emiliani spesso ‘superano’ i confini”, cancellando così quel principio di territorialità del ciclo dei rifiuti che è alla base del “decreto Ronchi”, il testo di legge del 1997 che ha introdotto in Italia una gestione di tipo aziendale nell’igiene urbana. “A mio avviso, il bacino ottimale per la gestione del RAEE, considerando in molti casi l’esigenza di recuperare con propri mezzi il rifiuto da trattare, è di 200 chilometri dall’impianto di selezione” spiega Claudio Tedeschi. C’è poi, a suo avviso, un approccio etico, che possa salvaguardare, a parità di condizioni economiche, il principio di “prossimità” nella gestione, per “evitare costi sociali ed ambientali inutili”. Anche se Tedeschi è diventato Consulente (gratuito) per la pianificazione strategica dei rifiuti delle aziende ASA di Tivoli e MessinAmbiente di Messina, dove ha collaborato alla realizzazione del progetto “Messina miniera urbana”, con cui è stata introdotta nella città siciliana la raccolta dei rifiuti elettrici, a Marzabotto non verranno mai trattati rifiuti provenienti da Tivoli né da Messina. “Vorrei evitare ogni possibile strumentalizzazione” dice Tedeschi, che preferisce che a parlare siano i numeri di Dismeco. Nell’ultimo anno, pur chiuso in utile, la sostenibilità economica delle attività ha scontato problemi di carattere strutturale, che dipendono 50


dal mercato e che potrebbero essere affrontati con interventi legislativi: “I contratti che sigliamo con i consorzi che si occupano della gestione dei RAEE domestici (in tutto sono 17, ndr) hanno spesso durata annuale, e quando -com’è successo nel 2014- il prezzo delle materie prime crolla, questo riduce in modo esponenziale la nostra marginalità”. C’è poi un’altra variabile, con un impatto diretto sull’attività di azienda come Dismeco: “Il nostro successo dipende dai flussi” sintetizza Tedeschi. E il dato su base nazionale dimostra che in Italia non è ancora chiara l’importanza di recuperare le materie prime contenute nei RAEE: vengono avviati a trattamento appena il 36% dei frigoriferi, ma solo il 20% di lavatrici, lavastoviglie e cappe, ad esempio. Per le lampade, poi, il rapporto tra raccolto e immesso sul mercato risulta pari appena al 14%.

Nel mondo del RAEE Nell’aprile del 2014 è stata adottata nell’ordinamento italiano la nuova Direttiva europea sui rifiuti da apparecchi elettrici ed elettronici, la 2012/19/EU. Tra le novità introdotte vi è anche una percentuale minima di raccolta differenziata (a partire dal 2016 pari almeno al 45% delle apparecchiature immesse sul mercato, per poi salire al 65% a partire dal 2019), e la possibilità per i consumatori di consegnare gratuitamente i RAEE di piccole dimensioni -cioè quelli inferiori a 25 centimetri- presso i grandi punti vendita, quelli di oltre 400 metri quadrati, senza alcun obbligo di acquisto. Sono 7.289 i produttori italiani e 176 produttori quelli esteri che partecipano al “sistema RAEE”, e annualmente comunicano la quantità di apparecchiature immesse sul mercato. È in base a questi dati, e immaginando un tasso di sostituzione di uno a uno, che è possibile calcolare a quanto dovrebbero ammontare i rifiuti, che sono suddivisi in cinque categorie, da R1, freddo e clima, a R5, sorgenti luminose, passando per R2 (Grandi Bianchi), R3 (TV e Monitor), R4 (tutte le altre apparecchiature al di fuori degli altri raggruppamenti). 51


luca martinelli

A sinistra e a lato due cantieri della societĂ Edilcasa di Biella

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Capitolo 7 Come se fossi a casa tua

Andrea Mondin e Pacifico Dal Molin sono due imprenditori edili. Entrambi sono abbonati ad Altreconomia, e credono che il capitale della relazioni e la filiera corta a “Km 0” non siano un’esclusiva dell’agricoltura biologica e del rapporto diretto tra produttore e consumatore di un Gas. “Nel nostro settore, quando costruisci ti riferisci a un cantiere come a una ‘casa da vendere’ -spiega Pacifico-, mentre noi costruiamo ‘case da abitare’, come se fossero le nostre”. “Per quanto è possibile, ci serviamo di fornitori in un raggio di cento chilometri” aggiunge Andrea. Da Biella, la cittadina piemontese sotto le Alpi dove ha sede Edilcasa (www. edilcasabiella.it), questo raggio abbraccia centinaia di migliaia di ettari di foreste e boschi: robinia, castagno e rovere sono le essenze autoctone utilizzate per costruire case di legno, o per ristrutturare abitazioni già esistenti per isolarle meglio e renderle energeticamente più efficienti. La canapa utilizzata per l’isolamento arriva invece dal Centro Italia. L’essenza di Edilcasa emerge visitando il cantiere di Pralungo -a una quindicina di chilometri dal capoluogo, in Valle Elvo-: non c’è impianto di riscaldamento, ma la temperatura all’interno dell’immobile è di quasi 16 gradi, in una mattina coperta di inizio gennaio quando fuori ce ne sono tre. La casa ha un “cappotto” di 80 centimetri. Anche gli infissi sono in legno locale. Uno dei criteri utilizzati nel costruire, racconta Andrea, è quello della “facile sostituibilità: questa robinia, ad esempio, che subisce un unico trattamento, quello del sole, dura 50 anni. Ma se dovesse marcire ogni singolo asse può essere sostituito”. 53


Nei due cantieri che visito noto due grandi assenti: le buste di cemento da 25 chili e una betoniera per impastarlo. “Lavorare in questo modo cambia tutto: non c’è sporco, non c’è polvere” racconta Beppe, che incontro sul cantiere di Pralungo: per ora, è uno dei dipendenti di Andrea e Pacifico, ma presto potrebbe essere loro socio. È un esempio da manuale del capitale delle relazioni quello che Andrea mi racconta nell’ufficio di Edilcasa, un appartamento a pochi metri dalla stazione Fs di Biella: da tre anni, ogni giovedì pomeriggio, lui e Pacifico riuniscono intorno al tavolo cui sediamo tutto lo staff, per una riunione settimanale durante la quale con Tiziana, Mirco, Prospero, Beppe e Damiano analizzano i conti di Edilcasa, valutano le strategie e analizzano “risultati, e difficoltà, anche quelle personali, perché -spiega- siamo convinti che una buona qualità della comunicazione sia una base fondamentale nel nostro lavoro”. Sulle pagine di Ae hanno conosciuto la decrescita, e due anni fa, partecipando alla “domenica in cascina” promossa dalla cooperativa agricola biologica Iris a Calvatone (Cr) hanno scoperto “L’economia del bene comune” (www.gemeinwohl-oekonomie.org/it): il movimento fondato in Austria da Christian Felber ha immaginato uno strumento utile a ripensare l’economia d’impresa, il “bilancio del bene comune”. “Un bilancio non giuridico (il modello è scaricabile dal sito, ndr) -specifica Andrea-, che mette al centro dati non contabili, come il soddisfacimento dei bisogni, la creazione di un valore d’uso, l’equità distributiva, la partecipazione estesa a tutti, la cogestione, la democrazia di genere, l’ecosostenibilità, la qualità della vita”. Nel maggio 2013, un pullman di 50 persone è partito da Biella alla volta di Calvatone, per conoscere l’esperienza di Iris, quella di un’impresa mutualistica a proprietà indivisa, nata nel 1978 ed oggi impegnata in un investimento importante, per la costruzione di un pastificio (vedi Ae 149): “Crediamo nella cooperazione, in un’organizzazione dell’at54


tività capace di garantire a tutti una vita dignitosa” spiega Andrea, che insieme al socio Pacifico e ai collaboratori di Edilcasa ha deciso che i titolari dell’impresa, i manager, non possano guadagnare più di tre volte i propri dipendenti. “Ci siamo rivolti a numerosi consulenti del lavoro, nel biellese, e tutti hanno cercato di frenare il nostro percorso volto a dar vita a una cooperativa per far entrare in società tutti i dipendenti. Alla fine ci siamo dovuti rivolgere a un professionista di Genova”. La cooperativa che nascerà riceverà in affitto, per alcuni anni, il ramo d’azienda dell’attuale Edilcasa, che è una società in nome collettivo (Snc). Nel frattempo, insieme ad altre realtà del biellese- Esa System, Landscape e Primat srl- Edilcasa ha dato vita a un’idea e a un marchio, Build Different (www.builddifferent. it), che tiene insieme competenze nei settori edile, della formazione e della comunicazione: gli spazi si progettano, coinvolgendo professionisti, insieme a coloro che andranno ad occuparli. “Ai nostri clienti proponiamo sempre un contratto trasparente -spiega Andrea-: discutiamo l’investimento complessivo, a partire dalla loro disponibilità, coinvolgendo professionisti nella progettazione, architetti e ingegneri. E in 15 anni non abbiamo mai ‘sballato’ i conti”. “Non è vero che in un cantiere edile i costi siano sempre fuori controllo” fa eco Pacifico. Quando elaborano un budget, inseriscono anche una voce imprevisti, “ma nel momento in cui finiscono le attività ‘a rischio’, come possono essere quelle legate all’abbattimento di un muro portante nel caso di una ristrutturazione, proponiamo di utilizzare la somma ‘accantonata’ per migliorare ulteriormente l’efficienza energetica dell’edificio” aggiunge Andrea. Dopo aver studiato entrambi per diventare tecnici meccanici per l’industria tessile, i due amici -figli di famiglie emigrate negli anni Sessanta dal Veneto nel biellese- hanno “ereditato”, dal padre di Andrea, un’impresa artigiana. Il fatturato dell’azienda è pari a circa un milione di euro, legato per il 90% a ristrutturazioni, ma se sub-appaltasse55


ro le attività che Edilcasa non realizza direttamente potrebbero arrivare a 4. “Questo, però, non è il nostro modo di fare imprese” racconta Andrea. Edilcasa lavora su cinque cantieri e solo uno, la casa passiva in legno di Pralungo, riguarda una nuova costruzione. Nei prossimi mesi, quando il cantiere -dove Andrea mi accompagna per conoscere Prospero, Beppe e Mirco- sarà terminato, la casa sarà costata 280mila euro, tra l’8 e il 12% in più rispetto al valore medio di scambio della zona, che è di 1.800 euro al metro quadrato. “Fin dall’inizio sapevamo che alla Edilcasa sarebbe rimasto un utile di 10mila euro -spiega Andrea-, ma l’utile sociale di quest’azione è altro: per nove mesi, il cantiere ha occupato 10 persone”. E il risultato finale è una casa che non consuma energia da fonti fossili. Lavorando con trasparenza Edilcasa non ha problemi di insoluto, e non dipende dai prestiti delle banche. “Anzi abbiamo una liquidità di circa 150mila euro -spiega Andrea-. Da 7 anni i nostri bilanci sono in costante crescita, e questo per me significa una cosa: che la nostra attività ha sostenuto 25 famiglie”. Dalla parte dell’orto Un altro cantiere aperto per Andrea Mondin è quello del “Progetto Anam”, in sanscrito “senza nome”. Un terreno di qualche ettaro in cui Edilcasa ha scelto di non costruire è diventato la base di una nuova attività agricola, che vede 4 famiglie impegnate insieme nella gestione di un orto -con il metodo della permacultura- e nel recupero del bosco, da cui in futuro potrà essere ricavato anche legname da utilizzare nei cantieri edili. “Crediamo che la crisi sia un’opportunità, a patto di saper cogliere l’importanza della sinergie tra attività diverse: quella agricola per il momento non è economica, ma rivolta al benessere delle famiglie”. Un progetto che Andrea ha portato in azienda, consapevole che non tutti debbano venire a lavorare l’orto -impegno fisso, una 56


volta a settimana, mentre il sabato sera è dedicato a riunioni e riflessioni di gruppo- ma che il successo dell’iniziativa dipenda dalla capacità di mettere in comune maestranze e competenze”. Tra i sogni, anche l’apertura di un agri-asilo.

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luca martinelli

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Capitolo 8 Una tenuta ben custodita

A Caicocci c’è l’Umbria come se la immagina ogni italiano. Chi si affaccia dal belvedere della proprietà, circa 190 ettari nel territorio del Comune di Umbertide (PG), vede colline, boschi e pascoli, e qualche casale sparso. TripAdvisor, invece, riporta i commenti entusiasti di chi ha dormito nella “tenuta”, ospite della società I Casali, cui la Regione Umbria, che è la proprietaria di Caicocci, ne aveva affidato la gestione: “Il contesto paesaggistico è meraviglioso, gli appartamenti sono caratteristici e confortevoli, la piscina è davvero bella e sempre molto pulita, il ristorante (in una stupenda torre) è ottimo, il personale è molto gentile... insomma un posto da consigliare!”. L’ultima recensione sul social network dedicato alle attività ricettive, però, è di gennaio 2012. Oggi chi arriva all’ingresso della tenuta, a una decina di chilometri da Umbertide, lungo una strada di montagna che collega l’Umbria a Cortona, in Toscana, trova un lenzuolo con su scritto “Caicocci terra sociale”. È appeso lì da febbraio 2014: in mezzo c’è una storia di abbandono, che ha fatto seguito alla decisione della Regione di mettere in vendita l’intera proprietà e all’allontanamento del concessionario. “Eravamo in nove, a settembre del 2013, quando facemmo la prima passeggiata a Caicocci. Siamo tornati ogni settimana, ed erano sempre di più le persone che partecipavano alle nostre ‘gite’ quassù. Con il numero delle persone cresceva anche il senso d’indignazione” racconta Fabio Santori, contadino e tra i referenti di “Terra fuori mercato”, il nodo umbro della rete Genuino Clandestino 59


(http://genuinoclandestino.noblogs.org), che in tutta Italia riunisce comunità in lotta per l’autodeterminazione alimentare, e porta avanti campagne per l’accesso alla terra e contro le colture geneticamente modificate. Fabio, che ha scelto di fare il contadino dopo una laurea in Scienze della comunicazione all’Università di Perugia e numerose esperienze nelle comunità indigene zapatiste del Chiapas, vive con la famiglia e altre due coppie in una colonica, e coltiva e alleva animali da latte e da carne in una proprietà presa in affitto. Sa bene, così, quanto sia difficile avviare un’azienda agricola in una condizione d’incertezza rispetto all’unica risorsa fondamentale, che è la terra: “Con alcuni amici avevamo fondato una cooperativa, nella zona del Monte Subasio, e avremmo voluto avviare un percorso per ottenere in concessione terre demaniali”. Quell’esperienza è franata, ma non il desiderio di rendere produttive le terra della Regione Umbria. Da fine febbraio, anche Fabio -insieme al gruppo “Caicocci terra sociale”- partecipa alla custodia di Caicocci. “Non abbiamo occupato, non siamo entrati nei casali, anche perché quassù non c’è né acqua né corrente elettrica” racconta Massimo Montinaro, che è il presidente dell’associazione Colibrì, che gestisce la piccola bottega del commercio equo e solidale di Umbertide e ospita il locale gruppo d’acquisto solidale. È Massimo che ci accompagna a visitare la tenuta: i casali sparsi nell’immensa proprietà, una dozzina, erano affittati ai turisti, che avevano a disposizione anche un’area con attrezzature sportive -la piscina, i campi da tennis e quello da calcetto- e un ristorante. La strada interna, che unisce tutti gli immobili della proprietà è asfaltata: qui nessuno ha mai pensato alla terra, ma solo ai guadagni del turismo. Allo stesso tempo, oggi la Regione Umbria punta a “valorizzare” l’area. “Ma questa terra è di prima qualità” racconta Massimo, che mostra un piccolo appezzamento dove crescono, rigogliosi, dei ceci. È sotto la piscina e l’area degli spogliatoi, che è recintata: “Qualcuno ha cam60


biato il lucchetto. Negli ultimi mesi, la Regione s’è accorta di Caicocci”. Quando è iniziata la custodia sociale, invece, la proprietà era in stato di degrado: le porte d’ingresso ai casali erano state forzate, e rubata tutta la mobilia. “Abbiamo raccolto centinaia di firme per chiedere di non privatizzare Caicocci. Abbiamo portato qua, a metà aprile, oltre 350 persone, aprendo la tenuta a tutti, ma stiamo ancora cercando una interlocuzione con le istituzioni” spiega Massimo, che fa parte del direttivo di Umbria Equosolidale, l’associazione che ogni anno organizza Altrocioccolato (www.altrocioccolato.it). “La nostra idea è trasformare Caicocci in un’azienda agricola sociale, collaborando anche con le Asl. Questa terra potrebbe dar da vivere almeno a 10 famiglie, che avrebbero a disposizioni anche i casali -aggiunge-. C’è una stalla per 150 bovini e box pronti ad ospitare fino a 20 cavalli. È perfetta per diventare un’azienda agricola sociale”. Ecco il progetto di riconversione. Altreconomia è stata a Caicocci in un sabato mattina di maggio. Un “volontario” stava tagliando l’erba con il frullino. Fabio Santori e altre tre persone stavano invece lavorando nell’orto, biologico: “È solo a partire dai prodotti che potremmo costruire un ‘rapporto’ con Umbertide, facendo vedere ai nostri concittadini che dall’abbandono può nascere una ricchezza per tutto il territorio” racconta Fabio. “Il sindaco di Umbertide è già venuto quassù, e appoggia il nostro percorso” sottolinea Massimo Montinaro. C’è l’idea di portare in paese ortaggi e verdure, e chiedere uno spazio per distribuirle in cambio di offerte, per ricavare risorse a favore del progetto “Caicocci terra sociale”. Le spese da affrontare sono molte, dai serbatoi per l’acqua (al momento Massimo ne ha portato uno da mille litri) alle sementi, ma aumenteranno se il comitato -che si è dotato di una carta dei principi in 10 punti, frutto di un percorso partecipativo- riuscisse ad ottenere quanto richiesto alla Regione Umbria, organizzando -il 20 maggio 2014- anche 61


un presidio sotto gli uffici dell’amministrazione regionale: l’assemblea del Comitato vuole l’affidamento della custodia sociale della tenuta di Caicocci. L’assessore regionale (uscente) al Patrimonio -e all’Urbanistica- Fabio Paparelli ha un’altra prospettiva, e punta “ad operazioni di alienazione che si rivolgano anche al mercato internazionale”, aprendo una vetrina immobiliare tramite la società in house Sviluppumbria: l’obiettivo è quello di “vendere nel prossimo triennio almeno il 10% del patrimonio regionale”. Nel frattempo, però, il consiglio regionale ha approvato -a fine marzo- delle “Norme per favorire l’insediamento produttivo ed occupazionale in agricoltura, per promuovere l’agricoltura sostenibile”, una legge regionale per l’accesso alla terra che prevede la creazione di un “Banco della terra”, che -come è descritto nell’articolato- “consiste nell’elenco dei terreni agricoli e a vocazione agricola, dei terreni agro-forestali, delle aziende agricole e dei fabbricati rurali, di proprietà pubblica o privata, idonei e disponibili per operazioni di locazione o di concessione”. “Nell’ipotesi di beni di proprietà pubblica -aggiunge il comma 4 dell’articolo 7-, la locazione o la concessione dei beni del Banco della Terra ha una durata non inferiore, di norma, a venti anni e comunque non superiore a cinquanta anni”. Il testo del provvedimento è frutto dei laboratori di progettazione partecipata promosso dalla Rete “Umbria terra sociale”, che ha coinvolto -tra gli altri- Legambiente Umbria, Slow Food, Umbria equosolidale, i gruppi di acquisto solidale e biologici, piccoli agricoltori e contadini del movimento Genuino Clandestino e cittadini. “Il provvedimento pare pennellato sulle opportunità che offre Caicocci -commenta Massimo Montinaro-, perché prevede che il demanio agricolo regionale sia destinato ai giovani che vogliono fare i contadini”. “Restiamo però in attesa dei decreti attuativi” spiega Fabio Santori, perché “è da quelli che dipende l’efficacia della legge”. E anche il futuro di Caicocci, che nel frattempo è terra da raccolto, non incolta. 62


I libri di Altreconomia L’analisi dettagliata del provvedimento legislativo più “impattante” (dal punto di vista ambientale) del governo Renzi “Rottama Italia. Perché lo Sblocca-Italia è una minaccia per la democrazie e per il nostro futuro”, a cura di Tomaso Montanari, 144 pagine, 12 euro

25 storie di comitati e tutte le risorse -pratiche e giuridiche- per fare valore i diritti del paesaggio “Salviamo il paesaggio. Manuale per cittadini e comitati: come difendere il nostro territorio da cemento e grandi opere inutili”, di Luca Martinelli, 96 pp., 5,90 euro

In vendita in libreria, nelle botteghe del commercio equo e su www.altreconomia.it Info: segreteria@altreconomia.it - Tel. 02 89919890


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