EstAsia Film Festival - Catalogo 2016

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Estasia Film Festival

Reggio Emilia - 14 • 20 Giugno 2016

Catalogo Film



Estasia Film Festival Festival del Cinema d’Oriente

Reggio Emilia - 14 • 20 Giugno 2016


Con il patrocinio di:

Con la collaborazione di: UFFICIO CINEMA DEL COMUNE DI REGGIO EMILIA

ASSOCIAZIONE BAHAGHARI

Staff: Cristiano Barsotti, Anna Bennicelli, Massimo Bonazzi, Enrico Campovecchi, Andrea Ferri, Gaia Grussu, Alex Isabelle, Alessandro Mainini, Fausto Mazzoni, Graziano Montanini, Davide Peterlini, Dario Sturloni, Davide TomĂŹ Traduzioni: Chiara Esposito, Valentina Sorce


Cinema d’Oriente a Reggio Emilia

E

stAsia è un’iniziativa a cura di Cineclub Peyote, Fondazione Palazzo Magnani e Comune di Reggio Emilia che si propone di offrire un momento di riflessione sulla cinematografia asiatica, coinvolgendo e stimolando il dialogo con le comunità straniere presenti nel tessuto provinciale e regionale. Dunque non il solito festival dedicato ai cultori o agli addetti ai lavori, bensì molto di più: un’occasione per affrontare con un’angolazione diversa le problematiche legate all’interculturalità. In un momento storico in cui il tema dell’integrazione è di grande attualità, EstAsia vuole aprire un confronto di dialogo e di approfondimento sulle relazioni tra Oriente e Occidente ed essere un laboratorio di riflessione sulla diversità culturale. EstAsia vede il coinvolgimento di Istituzioni, Associazioni e realtà culturali cittadine, a partire dal Servizio politiche interculturali del Comune di Reggio Emilia, che tramite il Centro Culturale Mondinsieme ha consentito di attivare una sinergia significativa con le Comunità orientali locali, e all’Ufficio Cinema del Comune di Reggio Emilia, che ha partecipato alla progettazione del festival. Grazie all’associazione Accqua e all’associazione Bella Cultura è stato avviato un percorso di collaborazione con la comunità cinese che porterà alla proiezione di un film molto atteso: Ip Man 3, biografia del maestro di arti marziali di Bruce Lee. L’associazione

Bahaghari proporrà uno spettacolo di danze filippine e ha scelto, con la direzione del Festival, di proporre la visione di Blanka, film filippino di produzione italiana presentato al Festival del Cinema di Venezia. Con Arcigay Gioconda è in programma una serata del Festival dedicata alle tematiche LGBT con la presentazione di Irrawaddy mon amour, un documentario su un matrimonio same-sex in Birmania, e di un bellissimo film coreano, A girl at my door. Il CRAL di Reggio Emilia, che quest’anno propone tra le sue attività un viaggio in Mongolia, collaborerà con il Festival per la proiezione e l’incontro con gli autori di Sul 45° parallelo, film sul viaggio del gruppo musicale CSI in Mongolia, di cui quest’anno cade il ventennale. ARCI Reggio Emilia ha inoltre partecipato dedicando una serata della programmazione del cinema estivo alla proiezione di The taking of Tiger Mountain, kolossal cinese di grande successo in patria. Inoltre, la collaborazione con le biblioteche, con l’associazione via Wybicki e con il Centro Sociale Rosta Nuova porterà all’allestimento di vetrine tematiche presso le biblioteche e alla proiezione di due film classici come eventi collaterali. Una fitta rete, dunque, di collaborazioni che consentono di affrontare, attraverso il linguaggio universale del cinema, l’interculturalità nell’ottica di un reciproco arricchimento. Buona visione.

Graziano Montanini

Reggio Emilia, Giugno 2016


A Girl At My Door Dohee-ya

I

n una remota stazione della provincia sudcoreana viene trasferita, da Seoul, Young-nam, ufficiale di polizia. In questo villaggio di pescatori incontra Doo-he piccola solitaria ragazzina emarginata dai compagni , abbandonata dalla madre e maltrattata dalla nonna e dal patrigno. A causa delle ripetute violenze subite, Doo-he cerca e trova rifugio a casa di Young-nam. Tra le due nasce subito un’intenso rapporto d’affetto, ma l’omosessualità della poliziotta fa crescere tra la popolazione il sospetto di una relazione ambigua dovuta, anche, alle morbose attenzioni della piccola verso Young-nam che si ritrova a dover combattere contro i pregiudizi che furono la causa del suo allontanamento dalla capitale.

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A Girl At My Door può essere considerato uno dei film sudcoreani più interessanti degli ultimi anni; oltre ad essere diretto magistralmente è anche magistralmente recitato da entrambe le protagoniste, attrici di prim’ordine del cinema sudcoreano: Doo-na Bae (Mr.Vendetta, Cloud Atlas, The Host) che ha vinto il premio come miglior attrice all’Asian Film Awards e Sae-ron Kim (The Man From Nowhere). Sotto la produzione di Lee Chang Dong, regista di film come Secret Sunshine e Poetry, la trentacinquenne regista July Jung realizza il suo primo lungometraggio, presentato nella sezione Un Certain Regard al 67° Festival di Cannes. A Girl At My Door é un opera coinvolgente ed emozionante un film sulla solitudine. La solitudine della poliziotta Young-nam allontanata da Seoul a causa di un fatto “sca-

Regia e sceneggiatura: July Jung. Fotografia: Hyun-seok Kim. Montaggio: Young-lim Lee. Musica: Young-gyu Jang, Hee-jung Han. Interpreti: Doo-na Bae: Youngnam Lee; Sae-ron Kim: Do-hee Sun; Sae-byeok Song: Yong-ha Park; Hie-jin Jang: Eun-jung. Durata: 119’. Origine: Corea del Sud, 2014. Genere: drammatico. Diritti internazionali: Fil Rouge Media, http://www.filrougemedia. eu, filrougemedia@yahoo.com

broso”nella sua vita privata e la solitudine della ragazzina Doo-he vittima di bullismo e di violenze da parte della nonna e del patrigno alcolizzati. Alcol nel quale si rifugia anche Young-nam, motivando la sua dipendenza al fatto che solo con quello riesce a dormire. Alcol che è anche l’unico vero divertimento per i pochi abitanti del villaggio. In questo scenario, imbruttito ulteriormente dallo sfruttamento dei clandestini da parte dei pescatori ma soprattutto da parte di Park , il patrigno di Doo-he, le due protagoniste si incontrano e la piccola cerca nella poliziotta quella figura che può, forse, regalarle l’amore ed il calore umano che tanto le manca, cercando inoltre protezione dalle violenze subite dal patrigno. Tutto questo scatena le ire di Park, che una volta scoperta l’omosessualità di Youngnam si vendica lasciando la poliziotta a combattere contro un sistema giuridico omofobo e sessista. A Girl At My Door é un film bellissimo dove si affrontano tanti temi: il pregiudizio, l’omosessualitá, il maschilismo, la violenza sui minori, lo sfruttamento dell’immigrazione; un vero atto di denuncia sull’arretratezza della società rurale sudcoreana. Probabilmente il voler affrontare tutti questi argomenti lascia un senso di incompiuto ma la regista ci permette di riflettere su come guardiamo gli altri e su come li giudichiamo in base ai nostri pregiudizi. Enrico Campovecchi

July Jung (1980) è una regista e sceneggiatrice sudcoreana. Dopo aver scritto e diretto numerosi cortometraggi, debutta nei lungometraggi con A Girl At My Door. Presentato al 67° Festival del Cinema Di Cannes, grazie a questo film ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra i quali: miglior regista esordiente al 23° Buil film awards ed al 51° Baek Sang Arts Awards miglior regia al 15° Women in Film Korea Awards e miglior sceneggiatura al 2° Wildflower Awards.


Alone Hon-ja

U

n uomo, che vive in un monolocale in una zona degradata alla periferica della città, è testimone di un delitto. Alcuni uomini mascherati aggrediscono una donna sul tetto della palazzina di fronte. Visto dagli assassini viene inseguito fino a casa e ucciso a martellate. Inspiegabilmente si risveglia nudo per strada senza ricordare cosa sia successo, abbandonato a se stesso. Si imbatte in un bambino che piange e di nuovo viene inseguito da un uomo mascherato e armato di coltello. Si accorge di star vivendo un incubo dal quale non riesce a fuggire. Alone è un film indipendente girato in uno dei quartieri meno sviluppati di Seul il cui sviluppo verticale e ammassato di vicoli e case fatiscenti lo fanno assomigliare più a uno slum di una qualsiasi metropoli sudamericana piuttosto che di un quartiere di una delle città più progredite e moderne della Corea del Sud. Alone rievoca questa contraddizione nello spaesamento del protagonista imprigionato in un incubo dal quale non riesce sottrarsi. La continua morte e rinascita che aggiungono sempre qualche tassello alla vicenda sono di fatto un intreccio di sogni e ricordi che si accavallano nella testa del protagonista che sembra fare incontri con personaggi legati alla propria vita personale, come la fidanzata Ji-Yeon e la madre. Bloccato dentro il dedalo di vicoli, il quartiere è una metafora della trappola mentale nella quale Su-min si trova. Il proprio cervello è identificato nel quartiere dal quale non riesce a fuggire e quindi svegliarsi e da un sentimento di

Regia: Hong-min Park. Soggetto e sceneggiatura: Hye-jin Cha; Hong-min Park. Fotografia: Byeong-jung Kim. Montaggio: Hong-min Park. Musica: Su-jin Oh. Interpreti: Ju-won Lee; You-hyun Song; Young-min Yoon; Donghyun Kim; Sung-uk Lee; Younghwan Kwon. Durata: 90’. Origine: Corea del Sud, 2015. Genere: thriller, drammatico. Diritti internazionali: M-line distribution, http://www.mlinedistribution.com, jamie@mlinedistribution.com

solitudine che si sviluppa in un discorso di elaborazione di un senso di colpa irrisolto legato al proprio trascorso. Più che per lo sviluppo dell’intreccio, Alone è interessante per la sperimentazione visiva che propone, alternando riprese in POV a lunghi piani sequenza con camera a mano che animano una storia di per sé molto semplice. Il film consta in tutto solo 37 tagli di montaggio che se da un lato fanno coincidere il tempo reale con quello filmico delle scene, diluiscono l’intervallo che le separa in un onirismo dilatato, atemporale. Il film è la riproposizione visiva e ansiogena di un incubo, dove la statura del sogno si sostituisce completamente alla realtà: metafora della condizione spersonalizzante della società sud coreana contemporanea dalla quale, evidentemente, non esiste via di fuga. Davide Tomì

Hong-min Park è un regista sud coreano che si è messo in luce nel 2011 con il film A fish che ha ricevuto il Citizen Reviewers’ Award al festival di Busan. Alone è la sua opera seconda, anch’essa premiata al festival di Busan con il Citizen Reviewers’ Award.

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Baahubali: the beginning S

ivudu, salvato da piccolo dalle acque di un fiume, cresce con la sua famiglia adottiva, determinato a raggiungere il regno in cima a un’ altissima montagna. Quando finalmente riuscirà nell’impresa, scoprirà di essere predestinato a salvare la principessa Devasena, tenuta prigioniera per 25 anni.

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Bahubali: The Beginning è il primo episodio di un dittico epico che si concluderà nel 2017 con l’uscita di Bahubali: The Conclusion. Il film è diventato un caso per essere sia il kolossal più costoso e il terzo incasso di sempre in India nonché il film campione di incassi di tutti i tempi per un film girato in lingua Telegu. La storia si adagia su un archetipo classico della narrazione fantasy – il bambino ignaro del proprio potere che è destinato alla grandezza e ha il compito di sconfiggere il male – ma al contempo fonde la tradizione iconografica indiana in un action movie spettacolare nel quale convivono in pieno accordo una pluralità di stilemi derivanti da diversi generi cinematografici occidentali: sono estremamente chiari rimandi a Il signore degli anelli nelle scene di battaglia, al peplum e ai film storici anni 50-60 il tutto mischiando romanticismo, amore e tradimento, valore e viltà in un sovraccumulo narrativo, estetico e visivo che scavalca il kitsch per diventare, come in tutto il grande cinema popolare indiano, vera e propria cifra stilistica.

Regia e sceneggiatura: S. S. Rajamouli. Fotografia: K. K. Senthil Kumar. Montaggio: Vincent Tabaillon. Musica: M. M. Keeravani. Interpreti: Prabhas: Sivudu/ Bahubali; Rana Daggubati: Bhallala deva; Anushka Shetty: Devasena; Tamannaah: Avanthika; Ramya Krishnan: Sivagami. Durata: 137’. Origine: India, 2015. Genere: azione, storico, fantasy. Diritti internazionali: Novo films, francois@da-silva.biz

Nonostante sia puro intrattenimento di facile accessibilità, Bahubali è sicuramente prodotto ad un livello tecnico che non sfigura rispetto agli omologhi blockbuster occidentali, riuscendo ad assolvere in pieno alla missione a cui è destinato: divertire. Ritmo e coreografie come da tradizione del cinema indiano sono i punti di forza di un film che rinuncia talvolta alla rigorosa coerenza narrativa per rendersi fascinoso e trascinante nella sua forza visiva. Gigantismo nelle scenografie supportate da massicce dosi di computer grafica; un uso pressoché costante del ralenti; pose enfatiche in inquadrature estatiche, sono i segni indelebili di uno spettacolo che va oltre l’immaginazione e schianta la cultura della sottrazione con l’ingenua freschezza dell’entusiasmo. I quarantacinque minuti finali della battaglia che spianano il terreno alla seconda parte della storia, rappresentano un climax esaltante contestualizzato in un affascinante scenario selvaggio. La musica del film è composta da M.M. Keeravani, cugino del regista S.S. Rajamouli e come da tradizione è un commento sonoro situazionale, le cui parole e l’impatto sonoro descrivono il momento del film nel quale il brano è posizionato.. Davide Tomì

S.S. Rajamouli è uno sceneggiatore e regista conosciuto soprattutto per i film Magadheera (2009), Eega (2012) e Bahubali: The Beginning (2015). Nel 2016 è stato onorato con il Padma Shri, la quarta più alta onorificenza civile indiana, per il suo contributo verso il campo dell’arte. Bahubali: The Beginning ha vinto 11 International Indian Film Academy Awards.


Blanka

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anila. Blanka ha undici anni e vive in una baraccopoli, dopo essere stata abbandonata dalla madre. Sopravvive grazie all’elemosina e a piccoli furti ai danni dei turisti. Il suo sogno è quello di risparmiare abbastanza per potersi “comprare” una mamma. L’incontro inaspettato con Peter, un musicista di strada non vedente, la porterà a scoprire nuove possibilità e a capire che, anche in un mondo di abbandono e mercificazione, una famiglia si può costruire grazie all’affetto e alla solidarietà.

Presentato all’ultimo Festival di Venezia, Blanka si è aggiudicato il Premio di critica sociale, destinato all’opera che meglio valorizza i temi dell’integrazione e dell’inclusione, e il Premio Lanterna Magica, assegnato al film ritenuto più vicino al mondo giovanile. Blanka è frutto di un’eccezionale combinazione di culture: regista giapponese, ambientazione e attori filippini, ma produzione prettamente italiana (Dorje Film in collaborazione con la Biennale College Cinema). Il film è ambientato nelle Filippine, siamo nella periferia di Manila e vediamo la dura vita di una baraccopoli. Blanka è una bambina, che come tanti se la deve cavare da sola, in mezzo alle vie affollate e al caos metropolitano. La prima parte del film è una tavolozza di colori, che si contrappongono ai grigi muri scrostati e alle ferite di un’esistenza fatta di lotta e abbandono. La regia è di derivazione documentaristica, la macchina da presa sembra insinuar-

Regia e sceneggiatura: Kohki Hasei. Fotografia: Takeyuki Onishi. Montaggio: Ben Tolentino. Musica: Aska Matsumiya, Alberto Bof and Francis de Veyra. Interpreti: Cydel Gabutero: Blanka; Peter Millari: Peter; Jomar Bisuyo: Sebastian; Raymond Camacho: Raul. Durata: 75’. Origine: Italia, Filippine, Giappone, 2015. Genere: drammatico. Diritti internazionali: m-appeal, http://www.m-appeal.com, berlinoffice@m-appeal.com

si nei vicoli per seguire con rispetto la piccola protagonista. Un solo primo piano ci mostra (e ricorda) la fragilità di Blanka, in lacrime, che non si arrende alla sua condizione di orfana o abbandonata (poco cambia), obbligata dalla sorte a ogni tipo di espediente per cavarsela. Tutto cambia quando, grazie a una tv che trasmette spot e servizi di gossip, il desiderio inconscio della bambina prende forma: avere una mamma. Ovvero, comprarla. Perché quello che il mondo le ha insegnato è che tutto, prima ancora che un valore, ha un prezzo. Il desiderio la sprona alla ricerca, ed è così che Blanka incontra Peter, un chitarrista non vedente che le insegna, giorno dopo giorno, a guardare le cose da un’altra prospettiva. Lui, che sente il mondo attraverso suoni e rumori, fa scoprire a Blanka un senso di protezione, di amore e di solidarietà mai provato prima. I due, una volta giunti in città, si separano, circondati da un mondo ostile, fatto di persone sempre pronte ad approfittarsi dei più deboli. Solo la loro caparbietà e la fiducia nell’altro riuscirà a salvarli, facendoli ritrovare. Blanka è un film di strada, sulla strada, un viaggio di formazione pieno di pericoli e ostacoli. È un film duro e commovente, che ci ricorda che si può (e deve) esistere, anche senza essere in possesso di un certificato di nascita. In un mondo pronto a farti perdere tutto, in cui si può essere venduti per pochi pesos, dove l’unico modo per non sentirsi (ed essere) in gabbia sembra sia quello di avere soldi (“your ticket to heaven”, come dice Raul a Blanka e Sebastian), ecco che la piccola protagonista, una volta al sicuro in orfanotrofio, avverte una profonda mancanza. È in quel momento che Blanka decide di andarsene, di tornare a “casa” fuggendo da quel luogo consolatorio. Perché la casa non sempre è un luogo fisico, ma può essere una persona (o due) capace di riconoscerti e farti sentire al sicuro. Proprio come il piccolo Sebastian, che la chiama sorella e il vecchio Peter, che dai suoi occhi bianchi la ‘vede’, indirizzandole un dolce sguardo di riconoscimento. Uno sguardo profondo e commovente, che finalmente ci fa sentire a casa. Andrea Ferri Kohki Hasei (1975) è un regista giapponese autore di due documentari, W/O (2001) e Godog (2008). Fotografo di scena per Mongol (2007) del regista russo e premio Oscar Sergei Bodrov, con Blanka è al suo primo lungometraggio di finzione.

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Cemetery of splendour Rak Ti Khon Kaen

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ei soldati affetti da una misteriosa malattia del sonno sono trasferiti in una clinica temporanea situata dentro una ex scuola. La volontaria casalinga Jenjira (Jen) mentre veglia su Itt, un soldato molto bello che non ha visite da parte della sua famiglia scopre un mondo pieno di rivelazioni. Fa amicizia e instaura una relazione con il medico Keng che usa poteri psichici per aiutare i parenti a comunicare con gli uomini in coma. I medici esplorano strane terapie, tra cui quella della luce colorata. Ci potrebbe essere un legame tra l’enigmatica sindrome che ha colpito i soldati e l’antico sito mistico che si trova sotto la clinica. Magia, romanticismo e sogni fanno parte del percorso di vita di Jen che la condurrà a una più profonda consapevolezza di se stessa e del mondo che la circonda.

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Realtà e sogno. Nel cinema di Weerasethakul i due regni si slabbrano fondendosi in una terra di mezzo percepibile e comprensibile. È così anche Cemetery of Splendour nel quale i soldati adagiati in un sonno profondo ma sorretti nell’oblio dalla materia labile dei sogni, combattono battaglie per conto degli spiriti dei Re, sepolti sotto la scuola. Un cimitero antichissimo violato dalla modernità della ruspa che scava le guide per i cablaggio telefonico. Il sonno catatonico nel quale cadono i soldati è una fuga dalla con-

Regia e sceneggiatura: Apichatpong Weerasethakul. Fotografia: Diego Garcia. Montaggio: Lee Chatametikool. Interpreti: Jenjira Pongpas: Jenjira; Banlop Lomnoi: Itt; Petcharat Chaiburi: infermiera Tet; Jarinpattra Rueangram: Keng. Durata: 122’. Origine: Thailandia, Regno Unito, Germania, Francia, Malesia, Corea del Sud, Messico, USA, Norvegia, 2015. Genere: drammatico, fantastico. Diritti internazionali: The Match Factory, http://www.the-match-factory.com, festivals@matchfactory.de

sapevolezza del reale per abbracciare l’intimo frammento della propria anima più pura e libera. Dietro le palpebre non c’è il buio ma un mondo ricco di forme e colori, una storia e una tradizione. Sospeso tra il dramma e il film fantastico, Weerasethakul diluisce sempre di più i due stati di sonno e veglia mischiandoli in una soluzione unica. E’ quello che succede alla protagonista che desiderosa di scoprire cosa “veda” Itt, il degente con il quale ha stretto amicizia, comincia ad avere allucinazioni, squarci dell’altra dimensione. Fedele alla sua lirica, il regista rimane distaccato rispetto a ciò che racconta. La camera quasi sempre fissa non si accosta mai agli attori utilizzando il primo piano, piuttosto indaga il contesto nel quale il realismo onirico della storia sublima in immagini. Lo spazio dell’inquadratura è un pezzo di realtà, una quotidianità tranquilla e ordinaria nella quale si può manifestare una dea benevola lusingata da un’offerta a lei gradita e nella quale i sogni si manifestano attraverso le capacità della sensitiva che indaga sul mistero della narcolessia che imprigiona i soldati nel sonno. Il film è un prisma di cultura thailadese, culto animista, riflessioni sulla vita e sulla morte e realismo della vita del villaggio. Un racconto morbido di un mistero che si vorrebbe essere vero, trattato con la delicatezza della speranza. Davide Tomì

Apichatpong Weerasethakul (1970, Bangkok) è un autore thailandese cresciuto a Khon Kaen, una città nel nordest della Thailandia. Si è laureato in Architettura presso la Khon Kaen University e ha conseguito un Master of Fine Arts in Filmmaking presso la Scuola di Art Institute of Chicago. Autore di numerosi corti e documentari è divenuto famoso nei più importanti festiva internazionali per il film Tropical Malady (2004) e per aver vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes nel 2010 con il film Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010).


Ip man 3 Yè Wèn Sān

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tabilitosi a Hong Kong con la moglie e il figlio nel 1959, Ip Man cerca di tenere un profilo basso e allontana anche un giovane dal grande talento, di nome Bruce Lee, che chiede di diventare suo studente. Ma quando un corrotto agente immobiliare americano e la sua banda di violenti gangster si lanciano alla conquista della metropoli, Ip Man sarà costretto ad uscire dall’anonimato e a mettere in secondo piano il dramma personale della moglie morente per intervenire e salvare la sua città. Il terzo film della saga di Wilson Yip su Ip Man presenta le stesse connotazioni stilistiche dei due precedenti: nazionalismo sì ma in giusta dose, senza farlo palesare troppo ma facendolo percepire attraverso i cambiamenti della città dovuti agli eventi storici e il mutamento del carattere del maestro. Il personaggio di Ip Man assume sempre di più i connotati che caratterizzano la saggezza dell’insegnante di arti marziali secondo il classico stereotipo. Anche le arti marziali però mutano dove, con sconforto di Ip Man, ci si rende conto che la modernizzazione della città ha anche portato ad una corruzione delle tecniche di combattimento, che diventano sempre più distanti dalla tradizione originale. In questo film, a differenza degli altri due, il prota-

Regia: Wilson Yip. Sceneggiatura: Edmond Wong, Chan Tai-lee, Jil Leung. Fotografia: Kenny Tse. Montaggio: Cheung Ka-fai. Musica: Kenji Kawai. Interpreti: Donnie Yen: Ip man; Zhang Jin: Cheung Tin-chi; Lynn Hung: Cheung Wing-Sing; Patrick Tam: Ma King-sang; Mike Tyson: Frank. Durata: 119’. Origine: Hong Kong, 2015 Genere: Azione. Diritti: Tucker film, http://www. tuckerfilm.com

gonista mostra di più il suo volto umano oltre che quello di paladino dei deboli contro corrotti, nemici o criminali. La moglie, infatti, soffre di cancro e questo farà sì che Ip cerchi, dopo averla trascurata per i suoi obiettivi, di darle conforto facendo trasparire un aspetto più intimista e sentimentale (a suo modo) anche se senza mai trascendere troppo: un elemento insolito in un classico film di arti marziali. Divertente la scena in cui Ip Man chiederà a Bruce Lee lezioni di ballo per poter regalare una danza alla moglie. La figura di Mike Tyson è quella di un piccolo cameo di brevissima durata. Ad ogni modo Ip Man 3 si conferma come un film godibile, che continua il filone già collaudato sulla vita di Ip Man, in questo caso in un periodo di transizione fra la tradizione e la modernità. Dario Sturloni

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Wilson Yip (1963) è un attore, regista e sceneggiatore di Hong Kong. Autore di vari film di azione con arti marziali che spaziano in vari generi di ambientazione, è salito alla ribalta con il film “Bio Zombie” del 1998 e ora è famoso per la saga di Ip Man.


Irrawaddy Mon Amour N

el piccolo villaggio di Kyauk Myaung, sul fiume Irrawaddy in Birmania, il venditore ambulante Soe Ko ed il muratore Saing Ko decidono di sposarsi. É il primo matrimonio gay in un paese dove la libertà é ancora un sogno, Una scelta coraggiosa sostenuta dall’attivista per i diritti civili Myo Nyunt. Aiutati da alcuni monaci buddisti, un maestro, uno sciamano, un truccatore ed altri abitanti del villaggio cercheranno di coronare il loro sogno.

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Irrawaddy mon amour porta su di sé i tratti del bel documentario derivato da un’esperienza di vita. La nota estetica dominante è quella del pedinamento, con un uso molto più contenuto dell’intervento da “para-intervista” in primo piano. La macchina da presa si pone a fianco dei suoi soggetti (o in lontananza per un campo medio, o dietro in un letterale pedinamento: in ogni caso con l’atteggiamento della “compagna di strada”), e solo qua e là si percepiscono vaghe tracce di reenactment per alcune inquadrature fisse su cavalletto. I filmmaker vivono insomma la realtà del luogo nei suoi ritmi e nelle sue giornate, restituendone tramite il cinema la loro esperienza diretta, tanto partecipe quanto discreta e per nulla invadente. Così facendo Irrawaddy mon amour evita i limiti del pamphlet diretto, del cinema militante per dare conto sì di un movimento civile, ma tramite gli strumenti del quotidiano. In questo modo il film acquista meriti anche strettamente informativi ma per mezzo di una narrazione accorta e profonda, molto centrata sul racconto dell’umano. Si apprende infatti che in quel villaggio birmano i gay sono accolti con un sorridente margine di tolleranza (e ovviamente anche con qualche sguardo perplesso, registrato in totale cattura di realtà), che raccolgono sostegno da monaci buddisti e che tuttavia continuano ad avere enormi problemi in famiglia e

Regia e sceneggiatura: Nicola Grignani, Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli. Fotografia: Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli. Montaggio: Luca Gasparini. Musica: Giulio Ciccia, Marco Offredi. Interpreti: Soe Ko, Saing Ko. Durata: 57’. Origine: Italia, 2015. Genere: documentario. Produzione e diritti internazionali: Alkermes, http://www. alkermesfilms.com, info@ alkermesfilms.com

con l’esercito. Parallelamente Irrawaddy mon amour documenta l’organizzazione di un pionieristico matrimonio gay (uno dei primi in Birmania), a testimonianza di una sensibilità per i diritti civili che con maggiore o minore impatto ormai avvolge il pianeta a tutte le sue latitudini. La macchina da presa “sparisce” sulle tracce della realtà che racconta, ma al tempo stesso continuiamo a sentire il respiro dei filmmaker, il loro desiderio di esserci e l’entusiasmo di partecipare alla realtà di un luogo. Oltre all’attenzione per l’umano e per il paesaggio, risulta molto interessante anche la messa in luce di una dimensione popolare estremamente sincretica, capace di coniugare un approccio spontaneo all’esistente (perché rifiutare i gay, se esistono?) con una dimensione mistico-rituale. Così il villaggio lontano dalle metropoli finisce per profilarsi come avamposto civile, non per sovrastruttura culturale, ma per semplice e diretta adesione alla realtà. Irrawaddy mon amour non è cinema dei buoni esempi e buone intenzioni a tutti i costi, rifiuta l’evidenza del messaggio edificante e rimane invece addosso ai suoi personaggi e alle sue storie, traendo da esse, eventualmente, qualche messaggio da inviare. Vedremo dunque Aung San Suu Kyi che cosa riuscirà a fare adesso per il suo paese e il suo popolo, ivi compresi i cittadini LGBT. Vista la lunga permanenza della Birmania lontana da lidi democratici, forse è fantapolitica pensare che in tempi brevi tali diritti possano essere unanimemente riconosciuti. Ma c’è chi la democrazia l’ha scoperta da 70 anni, e tuttavia questo coraggio civile ancora non lo trova. Al confronto, la Birmania di oggi è già futuro. Massimiliano Schiavoni, quinlan.it

Nicola Grignani, Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli hanno studiato cinema al DAMS di Bologna. Fanno parte del collettivo Teleimmagini, con cui hanno co-diretto Striplife (2013), e sono co-fondatori dell’associazione culturale Metavisioni.


Ryuzo and the Seven Henchmen Hon-ja

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yuzo è un gangster della Yakuza in pensione che vive il resto della sua vita tranquillo con il figlio Ryuhei. Un giorno il vecchio gangster riceve una telefonata da un impostore che si spaccia per suo figlio e gli chiede 5 milioni di Yen. Ma Ryuzo scopre il trucco e tramite il detective della polizia Murakami viene a sapere che il responsabile della tentata truffa è un membro della banda Keihin Rengo. Insieme al suo amico fraterno Masa riunisce i suoi ex sette scagnozzi per dare una lezione alla banda ma li ritrova tutti indeboliti dalla vecchiaia. I sette dovranno imparare a superare le loro debolezze se vorranno dimostrare di essere ancora in grado di tenere testa alle nuove generazioni di criminali come la più giovane banda Keihin Rengo. È un Kitano nostalgico quello di Ryuzo and the Seven Henchmen. Un film che leggendo la sinossi potrebbe sembrare un ulteriore capitolo della fertile messe di storie di yakuza che Kitano ha portato sullo schermo durante la sua carriera. E in effetti è così, la storia è quella, la yakuza c’è, Kitano pure anche se si ritaglia solo la piccola parte di un ispettore di polizia. Solo che a essere protagonisti del film sembrano essere i superstiti dei suoi film di yakuza precedenti. Invecchiati e bolsi, tremolanti, tragicomicamente inadeguati al nuovo che è già avanzato soverchiando ogni regola, ogni rituale estetico e formale, ogni baluardo morale e etico che muoveva le azioni dei vecchi gangster tornati in attività per punire uno sgarro.

Takeshi “Beat” Kitano (1947) è un comico, sceneggiatore, attore, regista giapponese. Noto in Giappone soprattutto come comico televisivo, all’estero è conosciuto per il suo lavoro da regista. Diviene famoso nei maggiori festival internazionali con Sonatine (1993) e vince il Leone d’Oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 1997 con Hana-bi. È autore tra gli altri di Violent Cop(1989), Brother (2000); L’estate di Kikujiro (1999); Dolls (2002) e Zatôichi (2003) che a tutt’oggi rappresenta il suo film di maggiore incasso in Giappone.

Regia e sceneggiatura: Takeshi “Beat” Kitano. Fotografia: Katsumi Yanagijima. Montaggio: Takeshi Kitano, Yoshinori Ota. Musica: Kazuko Kurosawa. Interpreti: Tatsuya Fuji: Boss Ryuzo; Ben Hiura: Ichizo; Kôjun Itô: Hide; Masanobu Katsumura: Ryuhei; Takeshi Kitano: Murakami; Masaomi Kondô: Mas. Durata: 125’. Origine: Giappone, 2015. Genere: commedia, azione. Diritti internazionali: Celluloid Dreams, http://www.celluloiddreams.com, info@celluloiddreams.com

Di fatto Ryuzo and the Seven Henchmen è un film comico travestito da film yakuza che spesso esonda nella farsa. I sette pensionati dell’apocalisse, scossi dal tranquillo torpore delle case di riposo dalla chiamata del loro boss, Ryuzo, sembrano alieni calati in ritardo sul pianeta da conquistare. Sono ridicoli nel loro pretendere un posto in un universo che ha rimosso i gangster di strada in favore di altrettanto letali e legali multinazionali; ottusamente legati ad un passato che li ricorda come guitti dell’archeologia criminale; ammorbidita la risolutezza delle loro azioni dall’età e fisicamente si ritrovano imbolsiti dalla meritata pensione nella quale galleggiavano. Kitano gioca facile sulla dicotomia vecchi valori VS nuova amoralità mostrando una parte di Giappone rionale, anonimo, globalizzato e molto lontano dalla sua idealizzazione ipertecnologica pregna di contraddizioni. Questo anonimato architettonico e sociale riflette in pieno l’appiattimento etico del mondo che i protagonisti (re)imparano a conoscere facendoli figurare come guitti di strada, picchiatelli e tutto sommato teneri dal cuore indurito. La modernità non ha rispetto dei vecchi. La nostalgia è quella del tempo che passa, del corpo che non risponde come dovrebbe e la mente a onor del vero non è che impartisca ordini sempre così puntuali mentre i giovani non hanno il senso del giusto e dello sbagliato. La nostalgia è per un film che più di così non può proprio fare perché la yakuza di Kitano non fa più paura a nessuno. Si è arresa al tempo che scorre come si arrende agli americani il kamikaze volontario fregato dalla fine della guerra proprio mentre stava per immolarsi e rifiuta di schiantarsi contro un palazzo atterrando sulla portaerei yankee. Non accetta la guerra moderna, quella del terrorismo senza valore. Tanto vale buttarla in farsa, senile e sommessa, nostalgica, ma sempre farsa è. Davide Tomì

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Sul 45° parallelo

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997. Mentre Giovanni Ferretti e Massimo Zamboni dei CSI viaggiano in Mongolia, Ferrario, dall’altra parte del medesimo parallelo (“metà strada tra il Polo Nord e l’Equatore), viaggia nella pianura padana con l’occhio del mongolo. Un film senza storia ma non senza un senso precisissimo, con immagini e atmosfere straordinarie, sottolineate dalla musica dell’ultimo album dei CSI che sarebbe diventato di lì a poco un successo clamoroso.

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Uno dei momenti più toccanti del film di Ferrario è quello in cui Gianni Celati racconta di un gruppo di mongoli che si ritrovano, alla fine della Seconda Guerra Mondiale in riva al Po, senza nessun modo di tornare a casa, e dopo una gran festa salgono su un camion e si buttano dentro il fiume. In questo racconto c’è tutto il senso di “Sul 45° parallelo”, un percorso che ci porta tra pianura padana e Mongolia, alla ricerca di un filo d’unione tra due popoli e due paesi così diversi. Quello che manca a livello narrativo viene compensato nella dimensione emotiva: “Sul 45° parallelo” non è un documentario che vuole raccontare qualcosa; cerca invece di trasportarci in un mondo alternativo fatto di parallelismi e sensazioni. E quindi ecco che un cantante della Mongolia dalla voce metallica si incontra virtualmente con un chioccolatore capace di imitare i versi di tutti gli uccelli, dei lottatori di

Regia: Davide Ferrario. Testi: Gianni Celati, Davide Ferrario, Giovanni Lindo Ferretti. Fotografia: Marco Preti, Massimiliano Trevis. Montaggio: Claudio Cormio e Valentina Girodo. Musica: tratta da “Tabula Rasa Elettrificata” dei C.S.I.. Interpreti: Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Gianni Celati. Durata: 50’. Origine: Italia, 1997. Genere: documentario. Diritti internazionali: Rossofuoco, http://www.rossofuocofilm.it, info@rossofuocofilm.it

Bökh vengono contrappuntati da un sollevatore di pesi emiliano e un contadino di Campegine racconta come ha imparato a leggere oltre cento lingue asiatiche. A vent’anni dalla sua realizzazione, “Sul 45° parallelo” non ha perso un grammo della sua freschezza e ci racconta, oggi come allora, la straordinaria ricchezza della diversità. Da questo viaggio nasceranno gli spunti anche per un album (Tabula rasa elettrificata) e un libro (In mongolia in retromarcia), tre opere ugualmente bellissime e totalmente complementari che utilizzando tre diversi media ci raccontano la stessa storia. Graziano Montanini.

Davide Ferrario nasce il 26 Giugno 1956, a Casalmaggiore. Si laurea in letteratura americana all’Università di Milano. Vive a Torino. Inizia a lavorare nel campo del cinema negli anni ‘70 come critico cinematografico e saggista, avviando al contempo una piccola società di distribuzione. Il suo debutto alla regia è del 1989 con La fine della notte, giudicato “Miglior film indipendente” della stagione. Dirige poi sia opere di finzione che documentari, che gli procurano una grande considerazione in Italia e che sono stati presentati in numerosi festival internazionali, da Berlino al Sundance, a Venezia, Toronto, Locarno. Tra gli altri: Tutti giù per terra, Figli di Annibale, Guardami e i lavori realizzati con Marco Paolini. È anche autore di romanzi: Dissolvenza al nero è stato tradotto in molte lingue ed adattato per lo schermo da Oliver Parker. A settembre è uscito per Feltrinelli Sangue mio. È collaboratore di testate giornalistiche e radiofoniche; e, recentemente, fotografo.


Sunrise Arunoday

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ispettore Joshi è un padre sofferente in cerca della figlia Aruna, rapita anni prima all’età di sei anni. La sua disperazione lo porta a fare un sogno ricorrente, nel quale insegue una figura misteriosa che lo guida al Paradise, un night-club dove delle giovani ragazze intrattengono una folla di uomini. Joshi si convince che troverà Aruna e promette a sua moglie Leela, ugualmente disperata, che la riporterà a casa. Sunrise si inserisce nel filone dei neo-noir indiani inaugurato nel 1998 da Satya e, in particolare, sembra avere chiari rimandi a Moonsoon Shootout, in particolar modo per gli inseguimenti incessanti sotto una pioggia torrenziale virata in colori irreali. Sunrise però è molto di più: alle tematiche noir si accosta il viaggio in una mente disturbata che in alcuni punti si avvicina agli incubi di David Lynch. L’India di Bollywood qui è una realtà più che mai lontana: i dialoghi sono quasi assenti e lo sviluppo della trama viene affidato al contrasto tra le parole pronunciate e il significato portato dagli sguardi dei personaggi.

Regia e sceneggiatura: Partho Sen-Gupta. Fotografia: Jean-Marc Ferrière. Montaggio: Annick Raoul. Musica: Eryck Abecassis. Interpreti: Adil Hussain: Joshi; Tannishtha Chatterjee: Leela; Ashalata Wabgaonkar: Radhabai; Gulnaaz Ansari: Komal; Esha Amlani: Naina. Durata: 85’. Origine: India, Francia, 2014. Genere: drammatico, noir. Diritti internazionali: Stray Dogs, http://straydogsinternational. tumblr.com, nathan@stray-dogs. com

In questo il regista è aiutato dalle straordinarie performance degli attori: Adil Hussain (Vita di Pi) e Tannishtha Chatterjee riescono ad aggiungere sfumature inedite a ruoli che potrebbero facilmente sfociare nel cliché. Un’imponente lavoro di fotografia, del francese Jean-Marc Ferriere, e di sonoro (sia negli effetti che nella colonna sonora vera e propria) completano ogni tassello di questo film che si presenta come un vero e proprio gioiello dal punto di vista tecnico. Sunrise è uno di quei film in cui è necessario lasciarsi rapire e ipnotizzare, il cui senso più profondo risiede nella complessità dei colori e dei suoni e dove la parte narrativa, volutamente ambigua, non va afferrata e compresa ma lasciata scorrere nel suo incedere vorticoso. Graziano Montanini

Partho Sen-Gupta (1965) è un regista e sceneggiatore indiano. Lavora nel mondo del cinema da quando aveva 17 anni: prima come art director poi, a seguito di una borsa di studio al Fémis di Parigi, come regista e sceneggiatore di cortometraggi e poi di lungometraggi. Il suo primo film, Let the Wind Blow, è stato presentato al Festival del Cinema di Berlino nel 2004 e ha vinto diversi premi nei festival internazionali. Sunrise è il suo secondo film.

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The taking of tiger mountain Zhì qu weihu shan

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ew York. Degli amici si ritrovano in un locale da karaoke per festeggiare la partenza di uno di loro, Jimmy, in procinto di recarsi a lavorare alla Silicon Valley ma prima dovrà tornare in patria per passare il capodanno in famiglia. Durante i festeggiamenti in televisione trasmettono uno spezzone dell’Opera di Pechino che riporta alla mente al festeggiato eventi passati. Cina, 1946. Dopo l’abbandono della Cina da parte dei giapponesi imperversa nel paese una guerra civile fra il Partito Nazionalista (Guomingdang) e il Partito Comunista. A ciò si aggiunge la presenza di vari signori della guerra che razziano campagne e villaggi. Il capitano 203 dell’Esercito Popolare di Liberazione si trova in Manciuria insieme alla sua piccola truppa di circa 30 soldati, cercando di liberare i contadini dalle scorrerie dei briganti guidati dal crudele Lord Hawk. Costoro stanno cercando di impadronirsi di una mappa appartenuta ad un precedente signore della guerra che porterebbe al suo inestimabile tesoro. I soldati dell’EPL inferiori numericamente, si affideranno alle capacità dell’esploratore Yang Zhirong, il quale dovrà infiltrarsi nella banda di Lord Hawk e trovare il modo di far breccia nella apparentemente inespugnabile fortezza, situata nell’impervia Montagna della Tigre. Il film è tratto dal romanzo parzialmente autobiografico Tracks in the Snowy Forest (lín hǎi xuě yuán) di Qǔ Bō del 1957 che fu una delle otto opere modello autorizzate da Jian Qing, l’ultima moglie di Mao, durante la Rivoluzione

Tsui Hark (1950) è un regista e produttore cinese nato e cresciuto in Vietnam. Autore di numerosi film di culto, fra cui la trilogia Once Upon a Time in China, ha prodotto e diretto The taking of tiger mountain nel 2014: il film ha incassato in Cina 150 milioni di dollari portandosi al 10° posto dei film coi maggiori incassi complessivi del cinema cinese. Il suo nuovo film, Journey to the West: Conquering the Demons 2, uscirà in Cina nel 2017.

Regia: Tsui Hark. Sceneggiatura: Huang Xin, Li Yang, Tsui Hark, Wu Bing, Dong Zhe, Lin Chi-an. Fotografia: Choi Sung-fai. Montaggio: Yu Baiyang. Musica: Wu Wai-lap. Interpreti: Zhang Hanyu: Yang Zirong; Tony Leung Ka-fai: Lord Hawk; Lin Gengxin: 203; Yu Nan: Ma Qinglian; Tong Liya: Bai Ru. Durata: 141’. Origine: Cina, Hong Kong, 2014. Genere: azione. Diritti: Tucker film, http://www. tuckerfilm.com

culturale. In realtà è un remake del precedente Taking Tiger Mountain by Strategy di Xie Tieli, del 1970. Il film presenta un misto di scene d’azione moderne, come l’assalto dei banditi a Leather Creek e la conquista della fortezza che utilizzano effetti al rallentatore per esplosioni e spari, ad alcuni elementi che richiamano la tradizionale Opera di Pechino, come il trucco di Yang Zhirong imbellettato come la figura dell’eroe nell’Opera. Aspetti teatrali si vedono anche nel combattimento di Yang contro la tigre che definisce il suo ruolo di “eroe” secondo i canoni classici. Anche il suo modo di rapportarsi con Hawk e Qingliang hanno il sapore di battute impostate secondo i dettami del teatro tradizionale cinese. Il tutto viene condito con l’aspetto patriottico-maoista in quanto gli eroi sono, ovviamente, dell’Esercito Popolare di Liberazione. La stessa infermiera Bai ha i tratti della donna moderna che auspicava Mao negli anni Cinquanta. Un elemento particolare del film è la presenza di due finali diversi: il primo che è la conclusione effettiva degli eventi passati come realmente sono avvenuti, il secondo è come il protagonista iniziale, il giovane Jimmy, immagina come sarebbe stato meglio fosse finita la storia presentando un aspetto più epico di stampo hollywoodiano. I personaggi sono caratterizzati in modo da far capire, senza ombra di dubbio, chi sono i buoni e chi sono i cattivi. I militari dell’EPL sono solidali, collaborativi e altruisti, i banditi sono brutti, dediti a vizi ed eccessi e violenti. Un buon mix fra realismo e fantastico per passare due ore in compagnia del nuovo cinema popolare cinese. Dario Sturloni


The teacher’s diary

Khid thueng withay

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n giovane ed inesperto insegnante, Song, viene inviato nella scuola galleggiante di un piccolo villaggio di pescatori, nei pressi di un fiume. Qui, per caso, trova il diario dell’insegnante precedente, Ann, contenente le annotazioni della giovane donna sulla vita all’interno della scuola, nonché riflessioni sulla propria vita privata. Song si ritrova quindi ad affrontare la quotidianità e le sfide dell’insegnamento nella scuola galleggiante, guidato dai racconti di Ann, arrivando ad affezionarsi alla figura della collega, che spera un giorno di poter incontrare. Il regista thailandese, Nithiwat Tharatorn, ci propone una commedia romantica e vivace ambientata in una scuola galleggiante che ospita per cinque giorni la settimana, una manciata di bambini, figli di pescatori locali. I protagonisti sono due giovani insegnanti (Ann e Song) che, nell’arco di tre anni, si avvicendano alla guida di questa piccola scuola, trascurata, isolata e priva di qualsiasi comodità. I due si trovano quindi a fare i conti, seppure in modo differito nel tempo, con le stesse difficoltà: isolamento, tradimento, solitudine; che riescono ad affrontare grazie all’aiuto di un diario. Il quale, scritto da Ann, viene letto e commentato da Song l’anno successivo, per poi tornare nelle mani di Ann. Le pagine del diario uniscono i due e li fanno innamorare a discapito della loro distanza sia spaziale che temporale. Oltre all’amore, in queste condizioni misere ed estreme i due riescono a trovare la vera essenza dell’insegnamento che li spinge a lottare per non far chiudere la scuola, ma

Regia: Nithiwat Tharathorn. Sceneggiatura: Sopana Chaowwiwatkul, Supalerk Ningsanond, Nithiwat Tharatorn, Thodsapon Thiptinnakorn. Fotografia: Naruphol Chokanapitak. Montaggio: Pongsakorn Charnchalermchal, Thammarat Sumetsupachok. Musica: Hualampong Riddim, Vichaya Vatanasapt. Interpreti: Laila Boonyasak: Ann; Sukrit Wisetkaew: Song; Sukollawat Kanaros: Nui; Chutima Teepanat: Nam. Durata: 90’. Origine: Thailandia, 2014. Genere: commedia. Diritti internazionali: GDH 559 Co., Ltd., dd@gdh559.co.th

soprattutto li porta a migliorarsi come insegnanti. Lo stile è leggero, frizzante. Le numerose situazioni divertenti lo rendono quasi comico. Non mancano però scene drammatiche e momenti di riflessione su povertà e analfabetismo nelle zone rurali. I dialoghi sono vivaci e spiritosi. Molto valida è la recitazione degli attori principali e dei bambini che interpretano gli studenti della scuola. Le musiche sono calzanti e accompagnano il racconto senza mai essere fastidiose o inopportune. Mozzafiato sono le inquadrature del fiume: l’acqua e il verde della vegetazione fungono da sfondo alla storia per tutta la durata del film. Ottimo è quindi il lavoro fatto da sceneggiatori, regista e montatori che sono riusciti a rendere unica e speciale questa storia d’amore, di per sé non necessariamente originale (a tratti ricorda altre pellicole come Scrivimi fermo posta) facendoci divertire, emozionare e riflettere. Cosa non da poco per una piccola e semplice commedia romantica. Gaia Grussu

Nithiwat Tharathorn (1974) è un regista thailandese che ha debuttato insieme ad altri 5 registi col film corale Fan Chan nel 2003. In seguito ha diretto Seasons Change (2006) e Nee Dtaam Galileo (2009).

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The big road Dà Lù

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ei giovani lavoratori, connotati tutti da un forte altruismo, partono dal loro villaggio natio per andare a collaborare alla costruzione di una strada, che servirà all’esercito cinese allo scopo di favorire gli spostamenti necessari al raggiungimento del campo di battaglia per la lotta al nemico al nord. Il lavoro è anche allietato dalla presenza di due ragazze che intrattengono gli operai con canti, risate e cucinano per loro nella locanda di famiglia. Nonostante l’impegno dei giovani e degli altri operai, tuttavia, il lavoro di costruzione è sabotato indirettamente da un ricco latifondista proprietario di quelle terre che si rivela un collaborazionista del nemico. Saranno le due ragazze a dover risolvere questa situazione divenuta molto pesante.

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The big road è considerato il film capolavoro di Sun Yu e include tutte le tematiche care al regista, in primo luogo il patriottismo che coniuga senza cadere nella trappola della politicizzazione. I soldati infatti appartengono all’esercito cinese ma le loro divise sono anonime, non hanno nessun riferimento alle due fazioni che erano a quel tempo in conflitto fra loro: il partito Nazionalista (Guomingdang) e quello Comunista. Anche il nemico si può intuire che sia giapponese, visto che nel 1935 era in corso la seconda guerra sino-giapponese, ma nel film non viene mai detto che si tratta di loro riferendosi genericamente ad esso come al nemico. Questo non per codardia ma perché incarna il secondo principio cardine dei film di Sun Yu ovvero mostrare i problemi della società del tempo ma senza darne precisi contorni; il tutto per educare la gente alle criticità del tempo ma evitando ogni possibile indottrinamento. In The big road si evidenziano anche la rappresentazione

Sun Yu (21 marzo 1900 - 11 luglio 1990) fu un regista e sceneggiatore cinese appartenente alla cosiddetta “Seconda generazione dei registi cinesi”. Considerato come il regista poetico e il regista romantico, fu autore e sceneggiatore di numerosi film di stampo idealistico oltre che pioniere dell’innovazione tecnica e contenutistica del cinema cinese del tempo.

Regia e sceneggiatura: Sun Yu. Fotografia: Hong Weilie. Musica: Nie Erh. Interpreti: Jin Yan: Jin Ge; Li Lili: Jasmine; Zheng Junli: Zheng Jun; Chen Yanyan: Ding Xiang; Luo Peng: piccolo Luo; Shang Guanwu: Yian Hu. Durata: 104’. Origine: Cina, 1935. Genere: drammatico, guerra.

dell’amore sensuale fra uomo e donna e il giudizio positivo sul ruolo etico, e di rilievo sociale, del lavoro per faticoso che sia. Attraverso la ripetizione del lavoro degli operai, della loro fatica, viene lanciato un messaggio patriottico di impegno al cambiamento e alla costruzione della nuova Cina, ma sempre senza colore politico. I veri rappresentanti del popolo cinese, in questo film sono gli operai, che mostrano di aver maggior patriottismo e senso di responsabilità nazionale. Inoltre nella pellicola emerge come siano i più deboli e i più poveri che agiscono in prima persona contro il nemico, impegnandosi come possono. Anche qui, come in tutti i suoi film, sono centrali le figure femminili che, oltre alla bellezza fisica, si svelano più generose e maggiormente libere rispetto all’immagine tradizionale della donna cinese. Un particolare esempio di forza ed energia si rivela nelle scene in cui, utilizzando le proprie abilità femminili, le ragazze riescono a liberare gli operai prigionieri. Una dimostrazione ulteriore della loro maggiore libertà si vede nel fatto che possono addirittura permettersi di deridere i giovani lavoratori, mentre fanno il bagno nudi nel torrente. The big road, da un punto di vista più propriamente tecnico, presenta anche una parziale sonorizzazione. I dialoghi sono sempre sostituiti da didascalie ma i rumori di sottofondo, come quello dei lavori, sono presenti. Inoltre le canzoni sono per la prima volta cantate direttamente dagli interpreti sebbene il tutto fatto in post-produzione. Questo costituisce un punto di svolta per il cinema cinese dell’epoca: è il primo film non completamente muto. The big road figura nell’elenco dei migliori film della storia del cinema cinese stilato durante gli Hong Kong Film Awards nel 2004. Dario Sturloni



GRAPHICS: anna.bennicelli@gmail.com

Cinema Rosebud

Via Medaglie d’Oro della Resistenza 6, Tel. 0522.555113 Biglietto: € 7,00, Ridotto: € 5,50

(il biglietto consente la visione di due film nella stessa serata)

Arena estiva stalloni

via Samarotto 10/E Tel. 0522 392137 Biglietto: € 5,50, Ridotto: € 4,50

Abbonamento a tutte le proiezioni di estAsia: € 20,00

• *Tutti i film sono proiettati in lingua originale con sottotitoli in italiano* *La proiezione di mercoledì 15 giugno e tutti gli eventi collaterali sono ad ingresso gratuito*

Per info:

Email: estasiare@gmail.com - Facebook: estasiareggio http://estasia.altervista.org - http://www.palazzomagnani.it


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