Estasia Film Festival
Reggio Emilia - 6 • 18 Giugno 2017
Catalogo Film
Estasia Film Festival Festival del Cinema d’Oriente
Reggio Emilia - 6 • 18 Giugno 2017
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sia è un’iniziativa a cura di Cineclub PeyoAssociazione Bahaghari Associazione Bahaghari Ufficio Cinema Comune di Reggio Emilia ndazione Palazzo Magnani e Comune di Associazione Bahaghari o Emilia che si propone di offrire un moo di riflessione sulla cinematografia asiatiASSOCIAZIONE BAHAGHARI oinvolgendo e stimolando il dialogo con le nità straniere presenti nel tessuto provine regionale.
ue non il solito festival dedicato ai cultori o ddetti ai lavori, bensì molto di più: un’ocne per affrontare con un angolazione dile problematiche legate all’interculturalità coinvolgimento di Istituzioni, Associazioni tà culturali cittadine. In un momento ston cui il tema dell’integrazione è di grande tà, ESTASIA vuole aprire un confronto di o e di approfondimento sulle relazioni tra te e Occidente ed essere un laboratorio di ione sulla diversità culturale.Cinema Rosebud Cinema Rosebud
a Medaglie d'Oro della Resistenza 6, Tel. 0522.555113 Via Medaglie d'Oro della Resistenza 6, Tel. 0522.555113
€ 5,00, Ridotto: €Biglietto: 4,00 € 5,00,compie Ridotto: € 4,00 to alla Biglietto: seconda edizione estAsia lietto consente la visione di tutticonsente i film nella il biglietto la stessa visionegiornata di tutti i film nella stessa giornata eriore passo avanti: grazie all’attenzione Arenadell’Ufficio estiva StalloniCinema Arena estiva disponibilità delStalloni CoCinema Rosebud via Samarotto 10/E, Tel. 522 392137 via Samarotto 10/E, Tel. 522 392137 di Reggio Emilia quest’anno i film propoVia Medaglie d'Oro della Resistenza 6, Tel. 0522.555113 Biglietto: € 4,50 Biglietto: € 4,50 Biglietto: € 5,00, Ridotto: € 4,00 anno 18, il 50% in più dello scorso anno. Staff: Barsotti, Bennicelli, Massimo Bonazzi, Enrico Campovecchi, Gaia Grussu, Alex Isabelle, Abbonamento a tutteCristiano le proiezioni di consente estAsia: €Anna Abbonamento a tutte levisione proiezioni di estAsia: € 15,00 il biglietto la15,00 di tutti i film nella stessa giornata lm scelti con un lungo lavoro di selezioni Federica Losi, Matias Magnani, Faustocon Mazzoni, Graziano lm sono proiettati inTutti lingua con sottotitoli in italiano. i filmoriginale sono proiettati in lingua originale sottotitoli in italiano. Montanini, Dario Sturloni, Davide Tomì Cinema Rosebud Arena estiva Stalloni iuto insieme ad associazioni e comunità Traduzioni: Sara Barbieri, Colloca, Ghirlandi , Alberto Mazzoli Medaglie d'OroRosa della Resistenza 6,Marisa Tel. 0522.555113 Le attività collaterali sonoVia ad attività ingresso gratuito Le collaterali sono10/E, ad ingresso via Samarotto Tel. 522gratuito 392137 migrati Biglietto: € 5,00, Ridotto: € 4,00 Cinema Rosebud
Biglietto: € 4,50 il biglietto consente visione di tutti i film nella stessa giornata Per informazioni Via Medaglie d'Oro della Resistenza 6, Tel. 0522.555113 Perlainformazioni Biglietto: € 5,00, Ridotto: € 4,00 Abbonamento a tutte le proiezioni di estAsia: € 15,00 estasiareggio amoestasiare@gmail.com che anche quest’anno, così come in estasiare@gmail.com estasiareggio Arena estivaoriginale Stalloni il biglietto consente la visione di tutti i film nella stessa giornata Tutti ipalazzomagnani.it filmestasia.altervista.org sono proiettati in lingua con sottotitoli in italiano. estasia.altervista.org palazzomagnani.it
Cinema d’Oriente a Reggio Emilia
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stAsia è un’iniziativa a cura di Cineclub Peyote, Fondazione Palazzo Magnani e Comune di Reggio Emilia che si propone di offrire un momento di riflessione sulla cinematografia asiatica, coinvolgendo e stimolando il dialogo con le comunità straniere presenti nel tessuto provinciale e regionale. Dunque non il solito festival dedicato ai cultori o agli addetti ai lavori, bensì molto di più: un’occasione per affrontare con un’angolazione diversa le problematiche legate all’interculturalità con il coinvolgimento di Istituzioni, Associazioni e realtà culturali cittadine. In un momento storico in cui il tema dell’integrazione è di grande attualità, estAsia vuole aprire un confronto di dialogo e
di approfondimento sulle relazioni tra Oriente e Occidente ed essere un laboratorio di riflessione sulla diversità culturale. Arrivato alla seconda edizione estAsia compie un ulteriore passo avanti: grazie all’attenzione e alla disponibilità dell’Ufficio Cinema del Comune di Reggio Emilia quest’anno i film proposti saranno 18, il 50% in più dello scorso anno. Tutti film scelti con un lungo lavoro di selezioni compiuto insieme ad associazioni e comunità di immigrati. Speriamo che anche quest’anno, così come in passato, questa commistione unica di film d’autore e popolari, tutti rigorosamente non ancora distribuiti al cinema in Italia, possa incontrare il vostro gradimento. Buona visione. Graziano Montanini
Reggio Emilia, Giugno 2017
Baahubali: the conclusion
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marendra Baahubali e Bhalla Deva sono cugini cresciuti dalla stessa madre, Sivagami, che è anche la regina regnante di Mahishmati. Amarendra è orfano e nonostante Bhalla sia il suo unico figlio la regina vuole incoronare Amarendra re di Mahishmati perché sente che solo lui possiede la vera bontà d’animo che deve avere un regnante. Bhalla e suo padre cospirano allora contro Baahubali utilizzando Kattappa e Sivagami come pedine del loro gioco. Per vedere Baahubali 2 the conclusion non è necessario aver visto il primo capitolo: dei brevi flashback e qualche dialogo funzionalmente didascalico vi spiegano subito quello che c’è da sapere e vi danno modo di immergervi nell’atmosfera avvolgente del film. Come nel primo capitolo il mix di azione epica, melodramma e musical bollywoodiano funziona benissimo, portando il cinema indiano a nuove vette artistiche e tecniche (ottima la CGI). Baahubali in fondo è il film che in tanti aspettavamo: un Signore degli anelli più tamarro, un Titanic ancora più romantico, un degno contraltare alle
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Regia: S. S. Rajamouli. Soggetto: K. V. Vijayendra Prasad. Sceneggiatura: K. V. Vijayendra Prasad, S. S. Rajamouli. Fotografia: K. K. Senthil Kumar. Montaggio: Kotagiri Venkateswara Rao. Musica: M. M. Keeravani. Interpreti: Prabhas: Amarendra Baahubali / Mahendra Baahubali; Rana Daggubati: Bhallaladeva; Sathyaraj: Kattappa; Ramya Krishnan: Rajamatha Sivagami; Anushka Shetty: Yuvarani Devasena. Durata: 171’. Origine: India, 2016. Genere: azione, storico, fantasy. Diritti internazionali: Francois Da Silva, francois@da-silva.biz
pellicole ad alto budget americane che si stanno lentamente omologando verso un’innocuità disneyana. Un film che riesce allo stesso tempo a proporre personaggi ben caratterizzati, apparentemente monolitici ma in realtà pieni di sfaccettature e difetti, e a inanellare incredibili scene d’azione, creative come non mai, vere sfide alla fisica e alla logica delle cose dove la coreografia diventa più importante della verosimiglianza. Baahubali, nella sua struttura di base, è un film classico, d’avventura, di quelli che si guardavano nei drive in negli anni ‘50 e ‘60 e che oggi non esistono più. Un’immersione moderna in un passato in cui si andava al cinema per divertirsi. E il divertimento, qui, è assicurato. Graziano Montanini
S.S. Rajamouli è uno sceneggiatore e regista conosciuto per i film Magadheera (2009), Eega (2012), Baahubali: The Beginning (2015) e Baahubali: the conclusion (2017). Nel 2016 è stato onorato con il Padma Shri, la quarta più alta onorificenza civile indiana, per il suo contributo nel campo dell’arte. Baahubali: The Beginning ha vinto 11 International Indian Film Academy Awards. Baahubali the conclusion, a un mese dall’uscita nei cinema, ha già raggiunto il secondo posto della classifica dei film indiani col maggior incasso della storia.
The bacchus lady Jugyeojuneun Yeoja
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o-young, un’anziana prostituita, elargisce i suoi servizi a vecchi clienti soli ed emarginati al Jongno Park di Seoul. A seguito di un litigio tra un dottore e una ragazza filippina la donna accetta di prendersi cura del figlio di questa, rimasto solo, e di far fronte alle richieste di aiuto di persone sole e malate, fino alle estreme conseguenze. Molto spesso, i film drammatici coreani arrivano all’ultima mezz’ora senza essere particolarmente tragici, per poi prendere una svolta nel melodramma e nella disperazione assoluta dell’ultimo minuto. The Bacchus Lady è invece permeato da una disperazione sottile sin dall’inizio e, mentre la storia dell’anziana So-young va in peggiorare, non c’è bisogno di calcare esageratamente la mano perché questo film risulti profondamente toccante e amaro. In Corea del Sud, dove non esiste un vero sistema di welfare per gli anziani, più del 50% dei cittadini oltre l’età pensionabile vive sotto la soglia della povertà. Tra loro c’è Youn So-young, un’anziana che ha iniziato a prostituirsi per poter tirare avanti. I suoi clienti sono altri anziani, che la abbordano con il pretesto di comprare da lei il Bacchus, l’energy drink che dà a queste prostitute della terza età il soprannome di “Bacchus grannies”. Per caso o per fortuna, l’anziana inizia a prendersi cura di un bambino la cui madre filippina è stata arrestata dopo un incidente violento con il padre coreano. Ad aiutarla ci sono i suoi vicini, un giovane uomo disabile e una cantante tran-
Regia e sceneggiatura: E J-yong. Fotografia: Kim Young-ro. Montaggio: Hahm Sung-won. Musica: Jang Young-gyu. Interpreti: Yoon Yeo-jeong: So-young; Choi Hyun-jun: Min-ho; Chon Moon-Song: Jae-woo. Durata: 110’. Origine: Corea del Sud, 2016. Genere: drammatico. Diritti internazionali: M-Line Distribution, www.mline-distribution.com, sales@mline-distribution.com
sessuale. È più o meno allo stesso tempo che le richieste dei suoi clienti passano dall’essere sessuali a qualcosa di molto diverso: aiutarli a morire. The Bacchus Lady si distinguerebbe anche se affrontasse solo uno dei molti temi caldi che interessano la società coreana dei giorni nostri. Ne affronta invece tantissimi: il welfare praticamente inesistente che costringe la protagonista e il suo vicino di casa disabile ad una vita complicata e di disagi; lo stigma che persiste verso le persone multirazziali (che ho sentito con le mie orecchie definire con un potteriano “mixed blood” da coreani); l’omofobia e transfobia ancora presentissime e considerate normali. Senza nulla togliere al resto del cast, The Bacchus Lady ruota completamente attorno alla performance di Youn Yuh-jung nel ruolo di So-young. È lei a determinare il tono di tutto il film con un’interpretazione controllata, che non scivola nella tragedia esagerata e caricaturale. The Bacchus Lady riesce a essere poetico e allo stesso tempo brutale, tirando fuori vari scheletri nell’armadio coreano in maniera talmente capace e articolata da non essere minimamente pesante come potrebbe sembrare su carta. Questa è una visione sincera e prosaica della società coreana di oggi, quella lontana dai riflettori della hallyu (la korean wave, onda anomala della cultura pop coreana che in poco più di un decennio ha conquistato il panorama asiatico) raccontata con un’onestà che non preclude ai protagonisti dei momenti di felicità, nonostante l’esistenza difficile che conducono. Marta Corato – www.mediacritica.it
E J-yong (1966) è un regista e sceneggiatore sudcoreano. Dopo essersi laureato in lingua turca all’università è partito per un giro attorno al mondo con lo zaino e si è innamorato del cinema; si è quindi iscritto nel 1990 alla Korean Academy of Film Arts. Il suo primo lungometraggio, An affair (1998), ha vinto numerosi premi internazionali. A bacchus lady (2016) è il suo ottavo film.
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The beauty inside Byuti Insaideu
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oo-Jin è un giovane imprenditore e artigiano, di circa trent’anni. Egli dà forma alla sua materia prima preferita, il legno, plasmandolo in mobili dal design moderno e contemporaneo. Il suo braccio destro, Sang-Baek, è il suo fido manager e colui che cura i rapporti con fornitori e clienti. Già, perché a Woo-Jin non piace avere molti rapporti con le persone, è piuttosto un tipo solitario. Non solo: nasconde un segreto. Ogni volta che si addormenta, al risveglio il suo fisico muta e prende l’aspetto di una diversa persona: uno straniero, una signora anziana, un uomo sulla quarantina, una bambina, un adolescente. Un giorno, durante una passeggiata in un negozio che vende i suoi prodotti, rimane incantato dalla femminilità di YiSoo e la invita a uscire. Per ben tre giorni, Woo-Jin riesce ad incontrare la bella commessa rinunciando al sonno, ma al quarto cade irrimediabilmente tra le braccia di Morfeo. Ed è proprio il mattino seguente che per Woo-Jin incomincia la sfida: scegliere se superare le proprie paure ed essere amati per ciò che è oppure tornare nel proprio guscio.
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Woo-Jin è un giovane imprenditore e artigiano, di circa trent’anni. Egli dà forma alla sua materia prima preferita, il legno, plasmandolo in mobili dal design moderno e contemporaneo. Il suo braccio destro, Sang-Baek, è il suo fido manager e colui che cura i rapporti con fornitori e clienti. Già, perché a Woo-Jin non piace avere molti rapporti con le persone, è piuttosto un tipo solitario. Non solo: nasconde un segreto. Ogni volta che si addormenta, al risveglio il suo fisico muta e prende l’aspetto di una diversa persona: uno straniero, una signora anziana, un uomo sulla quarantina, una bambina, un adolescente. Un giorno, durante una passeggiata in un negozio che vende i suoi prodotti, rimane incantato dalla femminilità di Yi-Soo e la invita a uscire. Per ben tre giorni, Woo-Jin riesce ad incontrare la bella commessa rinunciando al sonno, ma al quarto cade irrimediabilmente tra le braccia di Morfeo. Ed è proprio il mattino seguente che per Woo-Jin incomincia la sfida: scegliere se superare le proprie paure ed essere amati per ciò che è oppure tornare nel proprio guscio. Questa pellicola è di per sé rivoluzionaria nell’idea che ha adottato, nuova nel panorama cinematografico: il social mo-
Regia: Baik. Soggetto tratto da: The Beauty Inside di Drake Doremus. Sceneggiatura: Kim Sun-jung. Noh Kyung-hee. Fotografia: Kim Tae-gyeong. Montaggio: Yang Jin-mo. Musica: Jo Yeong-wook. Interpreti: Han Hyo-joo: Yi-soo; Kim Dae-myung: Woo-jin; Do Ji-han: Woo-jin; Park Shin-hye: Woo-jin. Durata: 127’. Origine: Corea del sud, 2015. Genere: Commedia. Diritti internazionali: Next Entertainment World, www.its-new.co.kr, sales@ its-new.co.kr
vie. Il concept, originalmente sviluppato da Toshiba e Intel con un film statunitense del 2012 e ripreso da Jong-Yeol Baek per il suo debutto, è basato sulla partecipazione delle persone tramite profili social. In altre parole, ogni volta che il protagonista gira un video-riassunto della giornata per ricordare le sembianze del viso e il timbro della voce, in realtà si assiste al contributo di una persona vera, che ha un profilo Facebook e che “ci mette la faccia”. Ciò significa trasportare il filmmaking su un nuovo livello di interattività, in cui è l’Internet a essere il vero protagonista. Così come la trama è improntata alla contemporaneità, le riprese similmente suggeriscono eleganza, moda e ordine nel ritrarre Seoul e gli spazi. Lo studio di Woo-Jin, per esempio, è un laboratorio che unisce creatività e precisione: il nido di un uomo che vive solo. A livello narrativo, invece, nella prima parte lo spettatore conosce il mondo di Woo-Jin e diviene partecipe della sua quotidianità. L’immedesimazione è pressoché immediata: il disagio psicologico è realmente percepito e condiviso, al punto tale da comprendere anche la sua prematura resa nel realizzare i suoi sogni di amore e famiglia. Nel momento in cui, però, Hong E-soo entra a far parte della vita del designer, la trama si evolve: lo spettatore è guidato ad accogliere la psicologia della ragazza, conoscendo così un ulteriore punto di vista, quello dell’innamorata. Una seconda prospettiva che permette, con garbo e calma, di analizzare la situazione con gli occhi dell’amore e dell’empatia. Si scopre, infatti, la difficoltà - sensoriale e viscerale - di non sapere riconoscere il proprio uomo. A questa si aggiungono i problemi relazionali con la famiglia, desiderosa di conoscere il fidanzato e con i colleghi, che la giudicano una ragazza dalla dubbia moralità dato che ogni giorno, a fine turno, incontra un uomo diverso. La reazione di Hong E-soo è, però, improntata alla maturità e, nonostante i dubbi e le prove, affronta la quanto mai singolare - situazione con saggezza. In sintesi, si tratta di un film per tutti gli inguaribili romantici che, stanchi di vedere pellicole dalla narrazione ripetitiva e scontata, vogliono e possono lasciarsi trasportare da una storia accattivante ed appassionante e indossare le lenti rosa, per una sera. Federica Losi
Baik (1970) è un regista sud-coreano che ha girato diversi corti a tema commerciale, prima di entrare nell’industria cinematografica con il suo lungometraggio di debutto, The Beauty Inside (2015). La bellezza intrinseca al film ha valso al film-maker il premio come Miglior Nuovo Regista alla 52esima edizione degli Grand Bell Awards, nel 2015. Il film sarà oggetto di un’ulteriore remake di stampo statunitense.
Close-knit Karera ga honki de amu toki wa,
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a madre dell’undicenne Tomo vive d’espedienti fino a che decide di rinunciare alla figlia. Tomo, ormai sola, si trasferisce dallo zio Makio. Questo vive con la sua fidanzata Rinko che, nato uomo, è ora un transessuale e lavora come badante. Tomo inizialmente è un po’ confusa dalla situazione ma poi inizierà a vivere con la coppia come fossero una calorosa famiglia.
La traduzione letterale di “Close-Knit” suonerebbe “Compatto”, ma riesce più utile considerare che “knit” è il verbo inglese utilizzato per indicare l’attività dello “sferruzzare”. E lo sferruzzare è il fil rouge che tiene stretti i diversi atti dell’opera, assurto a vera strategia filosofica, attività catartica protettiva da risoluzioni estreme, cui è lecito ricorrere per lasciarsi scivolare addosso la rabbia cocente o piuttosto i momenti di sconforto acuto. La figura che per prima apprende i benefici del lavorare a maglia è contestualmente Rinko, donna che era uomo, compagna fedele di Makio, zio dell’undicenne Tomo, la quale da un giorno all’altro si trova (nuovamente) abbandonata dalla madre, irresponsabile di prima categoria fuggita con un individuo non meglio identificato nella consapevolezza che il fratello si sarebbe occupato della figlia. La giovane così è costretta a convivere con l’insolita fidanzata, inserviente premurosa presso la casa di riposo dove risiede la nonna di Tomo, dolce e comprensiva anche nei confronti di quest’ultima; ella tenta fin da subito un approccio il più possibile sano e onesto, vuoi preparandole dei bentō assai fantasiosi (i tradizionali vassoi per pranzi “al sacco”), vuoi parlandole con circospezione riguardo il proprio orientamento sessuale. Dopo le prime naturali diffidenze la bimba, già molto più matura dei suoi coetanei che tendono a emarginarla a scuola, fatta la debita eccezione di un ragazzino che nutre in nuce la consapevolezza della propria omosessualità, unica persona da cui Tomo si lascia progressivamente avvicinare (ecco delinearsi un incontro-scontro parallelo a quello familiare), comincia ad apprezzare le attenzioni rivoltele da Rinko. C’è anche qualcuno però, come la madre del compagno, che se può accettare l’omofilia di un figlio, arriva a vietargli qualsiasi contatto con l’amica, cresciuta com’è da una coppia inammissibilmen-
Naoko Ogigami (1972) è una regista e sceneggiatrice giapponese. Il suo film di esordio, Barber Yoshino (2003), guadagna una menzione speciale Deutsches Kinderhilfswerk al Festival del Cinema di Berlino. A questo seguono Love Is Five, Seven, Five! (2005), Kamome Diner (2006), Glasses (2007), Toilet (2010) e Rent-a-Cat (2012). Close-Knit è il suo settimo lungometraggio e ha vinto il Gelso d’oro al Far East Film Festival di Udine.
Regia e sceneggiatura: Naoko Ogigami. Fotografia: Kozo Sibasaki. Montaggio: Shinichi Fushima. Musica: Naoko Eto. Interpreti: Toma Ikuta: Rinko; Kenta Kiritani: Makio; Rinka Kakihara: Tomo. Durata: 127’. Origine: Giappone, 2017. Genere: commedia drammatica. Diritti internazionali: Nikkatsu Corporation, intl.nikkatsu.com, international@nikkatsu.co.jp
te “diversa”, insinuando come può in un’anima innocente il germe della diffidenza e dell’odio. La giovane protagonista, a maggior ragione una volta riapparsa la vera genitrice nel cui ritorno non aveva mai smesso di sperare, verrà spinta perciò ad un bivio fondamentale; sarà tuttavia in grado di scegliere in totale autonomia che destino accogliere, se riabbracciare una mal sopportata e malgrado ciò legittima assenteista o rimanere con gli zii e in special modo con l’educatrice putativa colla quale è riuscita, giorno dopo giorno, a costruire un rapporto addirittura più sincero di quanto non lo fosse quello con la madre naturale (emblematica a tal proposito l’affezione al seno artificiale, simbolo per quanto acquisito di una femminilità che la piccola percepisce maggiormente vicina, tangibile, significativa). Naoko Ogigami possiede la capacità di applicare alla narrazione un’impronta delicata, soffermandosi su alcuni soggetti particolarmente lirici (i ciliegi nipponici), lavorando meticolosamente ad una sceneggiatura che, avvalorando la trasparenza dei rapporti e le crisi intime dei diversi personaggi (prima fra tutte la mamma “incompleta”), di minuto in minuto costruisce credibilmente un percorso formativo dall’esito non scontato, lungi dal peccato di buonismo sempre in agguato, sostenuta da un commento musicale che simula purezza. Il risultato complessivo appare quindi tutt’altro che risaputo, sereno nello stile adottato, limpido nell’esposizione (priva di ambizioni magari fuori portata), generoso nel collocare numerosi longtakes statici rivestiti della precisa funzione di evidenziare l’essenza di ciò che viene espresso con i corpi e le voci. Il che permette di puntare i riflettori sulla nostra giovane esordiente, molto ben calata nella parte della ragazzina prossima alla pubertà, sensibilizzata con candore alle tematiche sessuali anche sfruttando lo stesso caratteristico uncinetto, dai cui movimenti nasceranno ben 108 scalda pancia “a forma di pisello”, compimento del “rito funebre” che Rinko è tenuta a celebrare prima di essere riconosciuta femmina a tutti gli effetti, compreso all’anagrafe. Raffaele Lazzaroni, oubliettemagazine.com
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Crosscurrent Chang Jiang Tu
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i giorni nostri il giovane capitano Gao Chun pilota un cargo sul fiume Yangtze e sbarca in ogni porto in cerca di amore. Scopre però che le donne che incontra finiscono con l’essere la stessa, An Lu, che diventa ogni volta più giovane man mano che l’imbarcazione risale la corrente. Affascinato da questa situazione Gao Chun comincia a trovare parti di una raccolta di poesie. Ma, una volta passato lo stretto delle Tre Rocce, le tracce di An Lu sembrano scomparire. Dovrà raggiungere la sorgente del fiume per scoprire la verità.
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E’ stato mediamente maltrattato dalla critica questo Crosscurrent dopo il suo passaggio in concorso al sessantaseiesimo Festival di Berlino, dove però si è portato a casa il meritato premio per la fotografia. Fotografia maestosa e ipnotica, riconoscimento che -almeno questo- ha messo d’accordo tutti. Certo è un cinema ambizioso, finanche pretenzioso, ma come può esserlo quello di Andrei Tarkovsky nell’avvicendare un piccolo soggetto di genere e muoverlo parallelo a riflessioni metafisiche, filosofiche e ad una narrazione sapiente della Cina del presente. E’ una scatola polisemica in cui muoversi spaesati e affascinati di volta in volta da bagliori diversi. Progetto mastodontico Crosscurrent, girato in pellicola 35 millimetri durante sei lunghi mesi di viaggio, in forma cronologica e con tutta la troupe a bordo di un battello, percorrendo per intero -dalla foce alla sorgente- il fiume Yangtze, l’anima, il ventre ctonio acquatico del paese. Un progetto produttivo a basso budget ma monumentale, girato quasi interamente in acqua cercando di gestire la camera posta sui vari mezzi galleggianti. Lo Yangtze è il fiume più lungo dell’Asia, il terzo al mondo e il più lungo a muoversi interamente in un solo paese. Si calcola che un terzo della popolazione cinese viva lungo le sue sponde. Ovvio che un fiume del genere abbia una storia e un significato fondante per la Cina. Il fiume ha la sorgente praticamente nel Tibet e sfo-
Regia e sceneggiatura: Yang Chao. Fotografia: Mark Lee Ping-Bing. Montaggio: Yang Mingming, Kong Jinlei. Musica: An Wei. Interpreti: Hao Qin: Gao Chun; Zhilei Xin: An Lu. Durata: 116’. Origine: Cina, 2016. Genere: drammatico. Diritti internazionali: Ray Produktion, yiranss88@gmail.com
cia nei pressi di Shanghai. E’ da lì che parte il lungo viaggio di 98 giorni di un battello di pescatori con un equipaggio di tre persone e un carico illegale di pesce da portare fino ad Yibin. Ogni tappa è una città, una storia, una poesia e una donna diversa ma sempre uguale. Jiangyin, Nanjing, Digang, Tongling, Pengze, Ezhou, Yichang, l’attraversamento della diga delle tre gole e poi Zigui, Badong, Wushan, Yunyang, Fengdu e Fuling. Ogni città, un approccio fotografico, un’esplorazione, una cartolina, una visione mistica nella ricerca di fede o di un rapporto col prossimo freddo e momentaneo. I fari del battello si muovono come le luci di un teatro nel cuore della notte a illuminare e cercare brandelli di montagne, di acqua, di misteri mentre un oscuro presagio legato alla superstizione si scaglia sul mezzo con conseguenze luttuose e drammatiche. Spiritualità, emotività e calore si contrappongono ad un senso della materia e del materialismo. Film soffocato nella notte, nella nebbia e nello smog, percosso da un apparato sonoro magistrale in parte in presa diretta che prende vita e diviene testimone partecipe del “pellegrinaggio”. E poi l’abbandono di fronte ai fuochi d’artificio nella notte o di giorno, la superstizione, le religioni, città abbandonate e “rilocate” a causa delle costruzione della monumentale diga, templi, montagne, fuoco, elementi, la decadenza del passato che si fonde e talvolta intacca il folgorante balzo in avanti del futuro, dei palazzoni, dei grattacieli perennemente affollati di gru e partiture in costruzione. Crosscurrent è un film complesso ma prezioso, stordente e accecante. I nuovi registi cinesi dimostrano sempre di più di essere abilissimi narratori, visivi e non, del loro paese e come, almeno in questi anni, il migliore cinema d’autore (e non solo) arrivi proprio da qui. Un’esperienza visiva inedita e indimenticabile che fa tornare una grossa nostalgia nei confronti dei poteri della gamma visiva della pellicola. Michele Senesi, Asian Feast
Yang Chao (1974) è un regista cinese diplomato alla Beijing Film Academy. Al suo primo cortometraggio, Run Away (premio giovani registi al Festival di Cannes), segue Passages (Caméra d’or per la migliore opera prima al Festival di Cannes), suo esordio nel lungometraggio. Crosscurrent (Orso d’Argento per la migliore fotografia al Festival di Berlino) è il suo secondo film.
The eagle huntress (La principessa e l’aquila)
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ulle montagne della Mongolia, l’addestramento dell’aquila è una tradizione millenaria esclusivamente maschile che si tramanda di padre in figlio. Ma Aisholpan non ci sta: ha solo tredici anni, eppure ha già deciso di diventare la prima addestratrice di aquile del Paese. Sotto la guida esperta di suo padre la ragazza supererà ogni ostacolo che le si porrà di fronte, imparerà ad accudire la sua aquila e a farla volare, fino a dimostrare tutto il suo talento partecipando al Festival annuale che mette in competizione i più grandi addestratori della Mongolia.
Con la Principessa e L’Aquila Otto Bell ci porta nelle desolate lande della Mongolia, ai piedi della catena montuosa degli Altai in un vero e proprio viaggio nella tradizione millenaria di un paese in bilico tra innovazione e storia. Una fotografia stupenda fa da sfondo alla storia di Aisholpan, giovane nomade che coltiva il sogno di diventare una Eagle Hunter – cacciatori con l’aquila – una millenaria stirpe di cacciatori che utilizzano le aquile nelle loro battute di caccia. Una stirpe prevalentemente maschile e dove l’ingresso di una donna viene visto con diffidenza e pregiudizio principalmente dagli anziani. Ed è proprio per le difficoltà che affronta con un sorriso sicuro che Aisholpan riesce ad entrare in empatia con il pubblico: dopotutto è la sua caparbietà quella che incanta per tutti gli ottantasette minuti della pellicola. La sua storia è quella di una ragazza contro una tradizione, e sarà proprio la sua forza a renderla
Regia: Otto Bell. Fotografia: Simon Niblett. Montaggio: Pierre Takal. Musica: Jeff Peters. Interpreti: Aisholpan Nurgaiv: se stessa; Rys Nurgaiv: se stesso; Daisy Ridley: voce narrante. Durata: 87’. Origine: GB, Mongolia, USA, 2016. Genere: documentario. Diritti: I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection, www. iwonderpictures.it, distribution@ iwonderpictures.it
la prima della sua stirpe. The Eagle Huntress è un piccolo gioiello che riesce ad incollare lo spettatore allo schermo non solo per la piccola protagonista ma principalmente per la capacità di trasmettere le emozioni e sensazioni di un paese ricco. con alle spalle una storia millenaria. Sono proprio proprio il montaggio e la mano del regista a trasformare il documentario in una storia da cui è difficile staccarsi, un viaggio intenso fatto di sacrifici e imprese titaniche per una giovane adolescente che insegue un sogno forse molto più grande di lei. Aisholpan nasconde dietro il suo timido sorriso una forza che stupisce e non smette di incantare nemmeno nei momenti in cui tutti sembrano darle addosso. Sarà principalmente la sua famiglia a supportarla nel difficile cammino che l’attende. Ma forse la forza maggiore arriva dall’aquilotto che la ragazza addestra, un legame che buca lo schermo e colpisce chiunque abbia la fortuna di vedere The Eagle Huntress, un unione non solo fisica ma principalmente spirituale fatta di piccoli gesti e amore incondizionato. In un paese in cui la natura può essere crudele e la tradizione è un punto cardine Aisholpan spezza le catene del pregiudizio trasformando la sua debolezza in forza e ricordandoci che anche quando tutti ci remano contro nulla è impossibile. La principessa e l’aquila trascende il documentario e ci trascina in una terra desolata dove la bellezza si trova in luoghi impensabili e dove nonostante le tradizioni si può ancora scrivere un capitolo diverso di una storia che dura da millenni. Lorenzo Colapietro, cinematographe.it
Otto Bell (1981) è un regista inglese alla sua opera prima.
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Hamog - Haze
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uattro ragazzi di strada nella Manila contemporanea vivono di furti per campare. La sopravvivenza ai soprusi degli adulti e all’indifferenza del mondo è la priorità. Violenza e sopraffazione sono la normalità e la morte una probabilità molto ricorrente.
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Nelle Filippine il problema dei bambini di strada, orfani o abbandonati al loro destino, è una costante drammatica. Una definizione ipocritamente poetica li definisce “figli della rugiada” quando l’indifferenza verso la loro condizione è la normalità e i soprusi soprattutto di natura sessuale sono frequenti. La sopravvivenza giorno per giorno nelle strade caotiche della città è l’obiettivo di ogni bambino che il mattino, con la rugiada, cerca di affrontare la propria vita cercando di non morire. Lo sguardo di Ralston Jover si focalizza su quattro bambini il cui mondo sta per essere stravolto e gli ultimi barlumi d’innocenza saranno definitivamente spazzati via. E’ una speciale miscela di realismo magico che vede Rashid, Jinky, Tisoy e Momoy alle prese con i piccoli furti a danno di automobilisti o chiunque capiti loro a tiro. Nel cinema filippino è quasi impossibile scindere i personaggi dal contesto sociale nel quale vengono ritratti, poiché il corpo-città è di fatto un personaggio vivente e pulsante. Questo neorealismo filippino per la prima parte del film incornicia i bambini nella città, ambiente che diventa palco naturale della loro storia. Quando Jinky scompare durante un tentativo di furto, gli altri ragazzi nella più quotidiana delle probabilità pensano che la vittima, un tassista, l’ab-
Regia, soggetto e sceneggiatura: Ralston Jover. Fotografia: Pipo Domagas. Montaggio: Charliebebs Gohetia. Musica: Bryan Dumaguina. Interpreti: Zaijian Jaranilla: Rashid. Therese Malvar: Jinky; Sam Quintana: Tisoy; Bon Lentejas: Momoy. Durata: 100’. Origine: Filippine, 2016. Genere: drammatico/thriller. Diritti internazionali: Cinema One Originals, cinemaoneorigs@gmail. com
bia prelevata per avere una prestazione sessuale. Intanto uno di loro, Moy, investito da una macchina, muore. La storia si spezza in due e il realismo documentaristico della prima parte si trasforma in qualcosa che sembra generato dai vapori malsani della società filippina. Mentre Rashid s’incarica di seppellire Moy, Tisoy nel cercare Jingky s’imbatte in una supereroina volante e Jinky è costretta a servire come domestica il tassista in casa con la moglie e l’amante di sua moglie, in un delirante triangolo amorale, squallido e destinato alla tragedia. Film fulminante nel suo sviluppo per quella virata thriller inaspettata – l’ispirazione più che palese è il Brillante Mendoza di Kinatay - ma che il regista inserisce come una delle possibili situazioni di degrado sociale nel quale ci si può imbattere nelle Filippine. L’abitudine alla sopravvivenza della ragazzina nella giungla urbana sarà l’arma che porrà fine alla storia ma che non mette fine alle altre storie di altri bambini “figli della rugiada” per i quali Rashid, Jinky, Tisoy e Momoy rappresentano solo un campione scelto a caso tra tanti. Davide Tomì Ralston G. Jover è un apprezzato e pluripremiato regista e sceneggiatore filippino, classe 1965, autore di cortometraggi e documentari. Dopo aver sceneggiato due film di Brillante Mendoza si è messo in luce con il film Bendor (2013), seguito da Da Dog Show (2015), Hamog (2016) e Hiblang abo (2016).
Inside the chinese closet
I
l padre di Andy sa che suo figlio è gay ma, determinato a conformarsi alle convenzioni sociali, lo spinge a trovare una lesbica disposta a sposarlo. Cherry è già reduce da un finto matrimonio e i suoi genitori aspettano impazienti l’arrivo di un nipote dalla loro unica figlia per mettere a tacere le chiacchiere dei vicini. Come tanti altri gay e lesbiche in Cina, Andy e Cherry vivono sulla loro pelle l’enorme pressione generata dal voler risparmiare ai genitori la vergogna di un figlio non sposato e senza figli.
Raccontare questa storia è costato alla giovane regista sei anni di lavoro. Ore ed ore di girato in cui la cineasta ha vissuto insieme ai protagonisti, lasciando parlare le loro vite, senza ingerenze, né protagonismo. Attraverso sequenze selezionate minuziosamente, Sophia Luvarà riporta nel docufilm “Inside the Chinese Closet” immagini di una società, quella cinese, (apparentemente) lontana dall’occidente moderno ed emancipato. È un racconto fatto con discrezione, senza “parteggiare” nella ricerca di una giusta interpretazione degli avvenimenti. Una narrazione in punta di piedi che ricorda la cifra stilistica di “The Great Mafia Orange Squeeze”, bellissimo documentario del 2011 in cui la Luvarà narra dell’ingerenza della ‘ndrangheta nella raccolta delle arance nella Piana di Gioia Tauro e della conseguente ribellione del 2010 da parte dei lavoratori nordafricani. Le storie di “Inside the Chinese Closet”, film ancora in attesa di distribuzione in Italia, sono servite all’autrice come spunto per raccontare l’odierna realtà cinese, un paese ateo, quindi vittima di pregiudizi culturali e non religiosi, dove però persistono ignoranza e repressione (non sempre velata) verso l’omosessualità. Solo grazie alle battaglie culturali della comunità LGBTQ cinese, l’omosessualità non è più inclusa tra i disturbi mentali dal 2001, anche se – come sottolinea all’interno del do-
Regia: Sophia Luvarà. Fotografia: Ton Peters. Montaggio: Diego Gutierrez, Stefan Kamp, Patrick Schonewille. Musica: Alex Simu. Interpreti: Andy: se stesso; Cherry: se stessa. Durata: 72’. Origine: Olanda, Cina, 2015. Genere: documentario. Diritti internazionali: Witfilm, www. witfilm.nl, jantien@witfilm.nl
cumentario la regista- esistono ancora psichiatri pronti a convertire questo genere di sessualità “fuori norma”, che, in alcuni ospedali cinesi, si cura ancora con l’elettroshock. Nella storia del giovane omosessuale Andy e della lesbica Cherry è racchiuso l’enorme gap generazionale della Cina attuale, in cui i figli si sono aperti all’esterno, alla modernità, mentre i genitori sono rimasti ancorati alle vecchie tradizioni. Così, le vicende particolari dei due protagonisti, servono ancora una volta come spunto per investigare su valori universali come il rapporto tra genitori e figli e la necessità di quest’ultimi di rendere i propri genitori felici e orgogliosi. Per “proteggere le proprie famiglie dalla verità” Andy e Cherry trascorrono molte ore al telefono cercando il partner ideale per i loro finti matrimoni etero. Unioni di facciata che servono a soddisfare la volontà dei genitori tradizionalisti e li spingono, al fine di garantire alla famiglia un erede, a scelte estreme, come il ricorso a figli in provetta ed al mercato nero dei bambini. Il rispetto verso le tradizioni e l’importanza del nucleo familiare emergono anche nei momenti di convivialità. Sono tantissime le scene dove i protagonisti condividono il pasto con le famiglie, poiché in Cina (come nel Sud Italia) mangiare insieme non ha solo lo scopo di cibarsi, ma è un vero e proprio rito, che sancisce il rapporto profondo tra i partecipanti. Un legame di sangue, ma anche un legame morale. Quest’affresco globale dell’attuale Cina, tra campagne brulle ed immense metropoli, non lascia alcuna risposta. Allo spettatore non è dato sapere cosa ne sarà dei due protagonisti, se porteranno a termine i propri progetti. Le loro storie, uniche, ed allo stesso tempo universali, sono – come già detto- un pretesto, un grimaldello per aprire uno squarcio dentro “l’armadio dei segreti” di queste famiglie cinesi. Lavinia Romeo, www.circolozavattini.it
Sophia Luvarà, nata a Reggio Calabria nel 1982, ha studiato biotecnologie mediche all’Università di Torino e nel 2007 si è trasferita a Londra per frequentare il Documentary Filmmaking Course presso la London Film Academy. “Inside the China Closet” è il suo primo lungometraggio.
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Miss Hokusai Sarusuberi
O
-Ei è la figlia della seconda moglie del grande interprete dell’ukiyo-e, il Maestro Hokusai, il folle per la pittura. O-Ei è una personalità geniale, tecnicamente dotata, insofferente alla convenzioni del suo tempo, uno spirito libero, che vuole costruire la sua strada fra inevitabili resistenze ed errori.
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Per la seconda volta, con Miss Hokusai, il cinema nipponico si occupa del grande pittore di epoca Edo Katsushika Hokusai (1760-1849), dopo il film di Kaneto Shindō del 1981 Hokusai manga; mentre dell’altro grande pittore coevo, Kitagawa Utamaro (citato anche in Miss Hokusai quale rivale del protagonista) sono stati fatti biopic da Kenji Mizoguchi e Akio Jissoji. Innumerevoli invece, come ovvio, i documentari sul tema tra cui va comunque ricordato quello di Hiroshi Teshigahara in cui le immagini di Hokusai si muovono magicamente nella metropolitana di Tokyo. La staffetta a raccontare l’arte del mondo fluttuante, e i suoi protagonisti, passa quindi ora all’autore di anime Keiichi Hara, molto apprezzato per i suoi precedenti lavori Un’estate con Coo e Colorful. E le grandi attese che si avevano per Miss Hokusai non sono state deluse: Hara ha sfornato un’altra pietra miliare nel cinema d’animazione nipponico. L’interesse per il mondo dell’arte era già forte nel precedente Colorful, protagonisti dei liceali che si riunivano in un gruppo di pittura della scuola. Ora Keiichi Hara arriva alla bottega del grande autore di ukiyo-e che ci mostra subito per i suoi leggendari virtuosismi, d’altronde già messi in scena da Kaneto Shindō: il sensei si esibisce prima a dipingere una figura gigantesca, con un enorme pennello, apprezzabile solo se visto dall’alto, e poi una minuscola su un chicco di riso. Il ritratto che Hara fa del grande pittore è quello di un uomo sfatto, disordinato, che vive nell’estremo caos. E il punto di vista che viene preso è quello, inedito, della figlia O-Ei. Quello che interessa all’animatore è rappresentare una stratificazione di epoche diverse, Edo e Tokyo, la loro società e soprattutto la loro arte. Se il protagonista di Colorful si faceva guidare dall’amico nell’evocazione dei trenini e tram di epoche passate, che si materializzavano nella loro immaginazione sostituendosi al paesaggio urbano contemporaneo, qui abbiamo il percorso inverso con la pietra tombale finale della moderna Tokyo, con il suo skyline, con i suoi ponti moderni, che si sostituisce all’antica Edo, con le sue casette, con i suoi tipici ponti curvi di legno. Una Edo che è palesemente ricalcata sulle vedute di Hokusai e dei suoi colleghi dell’epo-
Regia: Keiichi Hara. Soggetto: tratto dal manga Sarusuberi di Hinako Sugiura. Sceneggiatura: Miho Maruo. Fotografia: Kôji Tanaka. Montaggio: Shigeru Nishiyama. Musica: Harumi Fuumi, Yo Tsuji. Interpreti: Anne Watanabe: O-Ei (voce); Yutaka Matsushige: Katsushika Hokusai (voce); Gaku Hamada: Ikeda Zenjirô (voce). Durata: 90’. Origine: Giappone, 2015. Genere: animazione, storico. Diritti internazionali: Production I.G, www.productionig.com, info@ production-ig.co.jp
ca. Keiichi Hara mette in scena quindi, nella sua rievocazione dell’epoca Edo, una stratificazione tra l’illustrazione dell’epoca e la sua, i disegni dei moderni anime e manga. Oltre a usare le opere d’arte del mondo fluttuante per ricostruire l’epoca, Hara mette in scena un tripudio di tutte le possibili rappresentazioni figurative di quel movimento artistico: le illustrazioni della natura, fiori, libellule, mantidi, farfalle, quelle degli yōkai, demoni e mostriciattoli del folklore, gli shunga, le illustrazioni erotiche, le stampe nishiki-e, i bijin-ga, i ritratti femminili come quelli delle cortigiane, i paraventi, i manga, le xilografie. E la farfalla che entra in una lanterna, proiettando la sua sagoma ingrandita, funge da lanterna magica e da teatro delle ombre, i precursori del cinema e del cinema d’animazione, peraltro molto diffusi nel Giappone di epoca Edo. Quando il Maestro umilia l’allievo, denigrandolo per la sua scarsa bravura, questi perde il colore e diventa egli stesso un disegno di contorni, in bianco e nero, un manga, per poi afflosciarsi. La dimostrazione della propria consistenza di esseri disegnati rientra in una tensione e in un’oscillazione tra colore e non colore che Hara segue per tutto il film: le camelie che spuntano, chiazze di colore, dal bianco della neve; tutti gli schizzi, disegni che vengono fatti dai personaggi, e poi la calligrafia del sutra dipinta sulle mani. E il colore, ancora come in Colorful, rappresenta il tripudio, il trionfo e la celebrazione della vita. Miss Hokusai inizia ancora con i fiori cremisi della pianta sarusuberi (la lagerstroemia), già nel titolo originale del film e del manga da cui è stato tratto; quando O-Ei, già con il viso sporco di inchiostro, viene accarezzata, sul ponte, da un uomo, arrossisce, si colora nell’imbarazzo adolescenziale, nel pieno della vita. E all’opposto il fiore della magnolia bianca, sotto una grande luna altrettanto algida, rappresenta la morte. E un ritratto, coloratissimo, della piccola Onao ne sublimerà la vita. In un film, ancora come il precedente, dove continui sono i richiami a un aldilà, qui pittorici di un inferno con i suoi demoni e diavoletti. Se Colorful si giocava narrativamente sul quadro in progress del protagonista, che solo al suo completamento rivelava il suo vero significato, qui abbiamo la raffigurazione di un mondo di dannati che, solo al completamento della visione del quadro, svela la presenza di un grande Buddha. Nell’estetica del mondo fluttuante, Keiichi Hara rappresenta la transitorietà della vita ma la permanenza dell’arte. Giampiero Raganelli – quinlan.it
Keiichi Hara (1949) è un regista giapponese di film di animazione tra i più apprezzati. Ha diretto Un’estate con Coo, Colorful, Hajimari no Michi e Miss Hokusai, il suo ultimo lavoro, che ha vinto il Premio della giuria al Festival del cinema di animazione di Annecy e numerosi altri premi internazionali.
Ned’s Project
H
enedina De Asis detta “Ned” è una ragazza omosessuale, tatuatrice itinerante. Quando la sua ragazza la lascia, decide di realizzare un suo sogno: diventare madre. I tentativi di rimanere incinta di un suo amico sono però fallimentari e frustranti. L’unico mezzo per realizzare il suo desiderio è l’inseminazione artificiale, troppo costosa però per la sua condizione. Ned decide quindi di partecipare a un reality show che mette in palio una considerevole somma di denaro, aiutata dalla nuova amica Ashley. Il cinema filippino sta conoscendo una nuova primavera visto il numero di titoli interessanti usciti al traino di grandi autori come Brillante Mendoza e Lav Diaz già premiati e omaggiati nei più importanti festival del mondo. Il trait d’union di questi film è la condizione sociale dei personaggi, ritratti nel loro ambiente di vita che forma un palco naturale per le loro storie. In questo caso il film si discosta dal ritratto antropologico neorealista che connota le produzioni contemporanee in favore di una favola di riscatto e realizzazione personale. Anche l’ambientazione si sposta dal set della tentacolare Manila, città-corpo del cinema contemporaneo filippino, nella cittadina di Sampaloc, vicino ai luoghi natali del regista. In essi Lemuel Lorca adatta un mondo rurale di classe inferiore, non particolarmente istruito e costantemente alterato dall’alcool. Ambientazione cinematograficamente molto azzeccata per fungere da set alla storia di Ned tomboy alla ricerca di una propria collocazione nel mondo. Ned’s project è una
Lemuel Lorca è un regista filippino conosciuto per I film Intoy Shokoy ng Kalye Marino (2012), Water Lemon (2015) e Ned’s Project (2016).
Regia: Lemuel Lorca. Sceneggiatura: John Bedia. Fotografia: Tey Clamor; Montaggio: Lawrence Fajardo. Musica: Jonathan Ong. Interpreti: Angeli Bayani: Henedina “Ned” De Asis; Ana Abad-Santos: Ashley; Max Eigenmann; Biboy Ramirez. Durata: 90’. Origine: Filippine, 2016. Genere: commedia drammatica. Diritti internazionali: Lemuel Lorca, Lord.lemuelcL@ gmail.com
storia potente e originale capace di ritrarre una storia d’amore omosessuale senza il giudizio della telecamera che non indugia mai sui luoghi comuni o sugli stereotipi della commedia. Il ventaglio di emozioni che il film propone è però molto ampio e sempre accordato alla natura tormentata della protagonista. Il dramma della morte del suo amico e l’allontanamento dell’amata, prefigura in Ned un futuro solitario e triste. La decisione di partecipare a un concorso regionale per tomboy è ispirata a un’ondata recente di spettacoli a tema sulle televisioni nazionali della Manila benestante e porta la narrazione sui temi delicati della commedia ironica con brevi divagazioni tragicomiche. Ogni registro emotivo è tenuto in splendido equilibrio grazie anche alla performance semplicemente eccezionale dell’attrice principale, Angeli Bayani, capace di sfumature recitative emotivamente complesse di grandissimo valore. Maschiaccio dallo sguardo tenero, capace di atteggiamenti da uomo e tenerezze da giovane ragazza incerta, goffa e sensuale insieme, la prova di Angeli Bayani commuove ed emoziona genuinamente. La scoperta di un’attrice del genere è forse la cosa più gratificante di un film perfetto per tempi e drammatizzazione. Ned’s Project ha vinto il premio Miglior Production Design, Miglior Attrice, Miglior Sceneggiatura, Miglior Film , Miglior attrice non protagonista e la Migliore fotografia al festival 2016 Cinefilipino. Davide Tomì
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The net Geumul
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am Chul-woo è un povero pescatore che vive una vita semplice in Corea del Nord con la moglie e la figlia. Un giorno la sua rete rimane impigliata nel motore della barca e finisce allla deriva in Corea del Sud, dove subisce una serie di interrogatori anche brutali perché sospettato di essere una spia. Nam Chul-woo vuole solo tornare dalla sua famiglia, anche se si rende conto che la sua vita non sarà mai più la stessa.
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Chi si ricorda di Valdrada una delle città invisibili nate dalla immaginazione razionale di Italo Calvino ne potrà adattare il senso del racconto a Geumul ultimo film di Kim Ki Duk. Le ultime prove del regista coreano hanno confermato l’imprevedibilità delle sterzate che egli impone al suo cinema. Soprattutto, di volta in volta, gli ultimi film sembrano nascere dall’esigenza di stringere il proprio obiettivo su delle storie che pur perdendo quel margine di astrazione di cui era denso il suo primo cinema, hanno un respiro più strettamente legato alla contingenza dei fatti, alla immediatezza di una concezione umanistica. In questo detour autoriale è riconoscibile un’altra imprevedibilità del cinema di Ki-Duk che per questa ragione resta un autore sempre difficilmente classificabile. Anche quest’ultimo film, come già era accaduto con Stop si avvale di un impianto assai scarno così come scarna è la storia. Un pescatore della Corea del Nord che abita al confine con la Corea del Sud a causa di un guasto al motore finisce in Corea del Sud. Qui viene creduto una spia e sottoposto ad interminabili ed estenuanti interrogatori, nonostante egli dimostri di non essere un agente segreto. Finalmente arriva il giorno della liberazione e al suo ritorno in patria verrà creduto una spia mandata dal Sud. Verrà sottoposto ad interminabili ed estenuanti interrogatori e gli verrà impedito di tornare a pescare. Ma il suo bisogno di sfamare la famiglia sarà più forte dell’ordine dello Stato. Un cinema semplice e non semplificato, immediato ed efficace al quale non servono,
Kim Ki-duk (1960) è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico sudcoreano, vincitore in carriera del Leone d’oro e del Leone d’Argento al Festival di Venezia e del premio Un Certain Regard al Festival di Cannes. The net è il suo ventiduesimo lungometraggio.
Regia, sceneggiatura e fotografia: Kim Ki-duk. Montaggio: Park Min-sun. Musica: Park Youngmin. Interpreti: Ryoo Seung-bum: Nam Chul-woo; Lee Won-gun: Oh Jin-woo; Kim Young-min: agente dell’interrogatorio; Choi Guy-hwa: agente capo della Sicurezza Nazionale. Durata: 114’. Origine: Corea del sud, 2016. Genere: drammatico. Diritti: Tucker film, www.tuckerfilm.com, tucker@ tuckerfilm.com
proprio perché sarebbero fuori contesto, le rarefazioni alle quali il cinema di Ki Duk ci aveva abituato. Un film che si materializza attorno ad una volontà di essere immediatamente compreso e ad ogni latitudine. Era l’intento che sembrava già manifestarsi in Stop, storia giapponese, ma di respiro globale, che ritroviamo anche in questo film che pur raccontando una storia strettamente coreana, innesca quell’effetto di riconoscimento universale che prescinde da ogni contingenza territoriale e politica. La sua riflessione parte indubbiamente dalla divisione artificiosa tra le due nazioni che però risultano unite per lingua e tradizioni. I personaggi, nonostante siano politicamente stranieri, l’uno con l’altro, condividono le radici culturali. Da qui le affinità calviniane di cui si diceva, in questo riflettersi, rispecchiarsi delle due nazioni separate da un confine immaginario. Un rispecchiarsi nello sviluppo simmetrico della vicenda del povero pescatore maltrattato per ragioni uguali e differenti al di là di ogni confine. Kim Ki-Duk con questo suo cinema didattico, così difficile da classificare, come è difficile classificare i testi scolastici, resta sempre lucido nelle analisi e nella essenzialità del racconto. La rete impigliata nel motore della barca ne ingripperà i meccanismi, ma si avverte il senso del restare intrappolato per chi la sventura di avere a che fare con l’ideologia e con una cecità assoluta del potere. Il film è affidato per gran parte al suo protagonista il giovane Ryoo Seung-bum che si destreggia con credibilità tra le strette maglie di un potere invasivo e mai cristallino, anche quando ritiene e sostiene di applicare la legge. Un cinema che forse farà rimpiangere il Kim Ki Duk che avevamo conosciuto all’inizio del millennio con L’isola, ma che suscita lo stesso interesse, filtrato da altre e diverse sensibilità e nei confronti del quale nutriamo sempre la curiosità di conoscere che piega prenderà la sua vicenda artistica, così mutabile e sempre così imprevedibile. Tonino De Pace, http://www.sentieriselvaggi.it
Poolsideman Pûrusaido man
I
n un sobborgo di Tokyo apparentemente lontano dalla caotica vita della metropoli giapponese, lavora Yusuke Mizuhara come bagnino in una piscina. Le giornate sono monotone e l’attività di governo del luogo si svolge scandita da una metodicità quotidiana immutabile. Senza famiglia amici o amore, la vita di Yusuke è solitaria. Un giorno va in un’altra piscina come guardia di sostituzione con il suo collaboratore Koji Shirasaki ... Girato in uno straordinario bianco e nero, l’ultimo film di Hirobumi (autore) e Yuji (produttore esecutivo) Watanabe condivide più di un’assonanza stilistica con i lavori di Tsai Ming-liang. L’oggetto dell’introspezione è come sempre l’essere umano, qui un bagnino apparentemente innocuo che compie gesti quotidiani immutabili e noiosi. Lentamente questa superficie inizia ad essere incrinata da eventi che lateralmente deviano e alterano l’ordine costituito: sono le notizie della guerra in Siria o degli atti terroristici di Daesh. Così notizie di cronaca di inaudita violenza si alternano ai momenti di nulla totale esistenziale
Regia, sceneggiatura e montaggio: Hirobumi Watanabe. Fotografia: Bang Woo-hyun. Musica: Yuji Watanabe. Interpreti: Gaku Imamura: Yusuke Mizuhara; Hirobumi Watanabe: Koji Shirasaki. Durata: 117’. Origine: Giappone, 2016. Genere: drammatico. Diritti internazionali: Foolish Piggies Films, foolishpiggiesfilms.jimdo.com, uninstructeur@yahoo.co.jp
del personaggio e contribuiscono a costruire una sorta di proiezione, uno scarto narrativo inizialmente incomprensibile per poi diventare in un insieme onirico di aspettative, di volontà di potenza inespressa, a simboleggiare un atto di rottura che il protagonista si aspetta di compiere ma che gli spettatori scopriranno non riuscirà ad attuare mai. Il film non è sicuramente facile ed esige dallo spettatore una pazienza inusuale. Chi coraggiosamente resisterà sarà premiato, poiché questo ulteriore piano linguistico di ingaggio con chi guarda costituisce un intento voluto e meticolosamente pianificato dell’autore: parlare alla testa e alla pancia degli spettatori per raccontare le profonde contraddizioni della società giapponese e più in generale della società contemporanea, abitata da un essere umano ormai incapace di trovare un equilibrio virtuoso tra interiorità ed esteriorità, tra il dionisiaco costituito dalle aspirazioni individuali e l’apollineo fondato dal senso della collettività. Diodoro Delfico
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Hirobumi Watanabe (1982) è un regista giapponese diplomato al Japan Institute of the Moving Image, dove ha avuto come insegnante Daisuke Tengan, figlio del leggendario regista Shohei Imamura. Con suo fratello, il compositore Yuji Watanabe, ha fondato la casa di produzione Foolish Piggies Films nel 2013 a Tochigi, loro città natale. Il suo film di esordio è And the Mud Ship Sails Away… (2013) a cui è seguito 7 Days (2015), film senza dialoghi proiettato con enorme successo al Tokyo International Film Festival.
Psycho Raman Raman Raghav 2.0
M
umbai è scossa dalle gesta di Ramanna, un feroce serial killer che si muove ispirandosi a un assassino seriale degli anni ‘60. A contrastarlo c’è Raghavan, un giovane poliziotto per il quale il killer nutre un’ossessione crescente. Arriverà il momento nel quale si troveranno faccia a faccia.
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Già dal titolo si capisce come questo film sia l’upgrade dei fatti avvenuti realmente negli anni ‘60 nel degrado della periferia di Mumbai. A quel tempo, Raman Raghav colpiva senza pietà e quando fu preso confessò 41 omicidi. In realtà la storia doveva aderire alla verità storica, la scelta di ambientare il film ai tempi moderni è stata dettata dalla difficoltà economica di ricreare la Mumbai degli anni ‘60. A smentire però il titolo stesso in un cortocircuito metanarrativo, una didascalia iniziale afferma: “This film is NOT about him”. Cioè esiste il killer Raman ma non lo vedrete mai. Esistenza e invisibilità sono le due condizioni che per tutto il film sanciranno il rapporto tra Ramanna e la sua nemesi Raghavan, poliziotto tossicomane, altra faccia della stessa medaglia. Ramanna è un killer che non fa nulla per nascondersi, caratterizzato da una vistosissima cicatrice in volto è iper-visibile e al contempo mimetizzato tra la folla. Nel gesto del binocolo con il quale osserva le sue vittime sta la sua caratteristica di veggente, dio della morte che tutto vede e conosce, in pieno contrasto con la metaforica cecità del poliziotto Raghavan, ritratto sempre con gli occhiali scuri
Anurag Kashyap è un regista, sceneggiatore e produttore indiano. Per i suoi contributi al cinema il governo francese gli ha conferito l’Ordre des Arts et des Lettres nel 2013 al Festival di Cannes , quando l’India era il paese ospite del festival per commemorare i 100 anni di cinema indiano. E’ noto per il film Venerdì nero (2007) basato sul libro di Hussain Zaidi sugli attentati a Bombay del 1993 che ha ispirato il regista Danny Boyle per il proprio film The millionaire. Seguono il dramma politico Gulaal (2009) e i thriller That Girl in Yellow Boots (2011) e Gangs of Wasseypur (2012). I suoi film più recenti sono Bombay Talkies (2013), Ugly (2014), Bombay Velvet (2015) e Psycho Raman (2016).
Regia: Anurag Kashyap. Sceneggiatura: Vasan Bala, Anurag Kashyap. Fotografia: Jay Oza. Montaggio: Aarti Bajaj. Musica: Ram Sampath. Interpreti: Nawazuddin Siddiqui: Ramanna (Raman); Vicky Kaushal: Raghavan (Raghav); Sobhita Dhulipala: Simmy; Anuschka Sawhney: Ankita; Vipin Sharma: padre di Raghav. Durata: 133’. Origine: India, 2016. Genere: Thriller. Diritti internazionali: Stray Dogs, www.stray-dogs.biz, sales@stray-dogs.com
a celarne lo sguardo. La cicatrice di Ramanna che potrebbe incastrarlo poiché riconoscibile è negata dalla cecità di fronte al male della legge, rappresentata dal poliziotto, ossessione dello stesso killer. Il regista Anurag Kashyap, giocando ancora sul concetto di realtà e invisibilità, utilizza il dispositivo cinema nel discorso filmico. Le uccisioni di Ramanna sono tutte fuori campo, pochi centimetri dalla cornice dello schermo ma negate allo spettatore se non per i disturbanti effetti sonori. Ramanna, dio della morte, è il solo testimone di ciò che fa, il resto è negato – celato – per chi non può vedere. Il pretesto di mitizzazione del folle Raghav da parte di Ramanna assume contorni quasi metafisici, muovendosi in una realtà sociale tanto degradata da sembrare un incubo incarnato, senza speranza di redenzione. Questa coerenza tra narrazione e messa in scena giova al film elevando la potenza drammatica in un’iperbole criminale sospesa tra la truce ironia e la smodata violenza nel teatro del reale degrado delle zone più malfamate della città di Mumbai nella quale la troupe, attrezzata per gli shot urbani come una squadra di guerriglieri, ha dovuto girare. La storia di finzione quindi si dipana seguendo a grandi linee la storia di Raghav ma con sfondo un realismo documentaristico contemporaneo tale da divenire documento antropologico e sociale delle condizioni di vita delle periferie della megalopoli indiana. Davide Tomì
A quiet dream Chunmong
Y
an Heri è una ragazza di sangue coreano e cinese che vive insieme al padre, paralizzato sulla sedia a rotelle ed incapace di parlare. Nel cortile della loro casa, vi è un piccolo bar, aperto anni or sono dal genitore. Yan Heri lo gestisce, affiancata da tre uomini che le fanno visita ogni giorno - Ik-June, Jung-Bum, Jong-Bin - e che sono innamorati di lei. A Quiet Dream è un film, come suggerisce il titolo, onirico. Diversi fattori concorrono a creare quest’atmosfera sognante: le riprese in bianco e nero, la lettura dei poemi di Li Bai, le passeggiate fra le strade della periferia di Seoul. In questa fiaba tranquilla, sono le chiacchiere a rivelare i segreti che ogni personaggio custodisce. La protagonista
Zhang Lu (1962) è un regista che, similmente alla protagonista del film, è metà coreano e cinese, nato nella regione del Yanbian in Cina. La sua carriera cinematografica inizia all’età di trentotto anni, grazie ad una chiacchierata con un amico. Precedentemente professore universitario di letteratura cinese, decide nel 2000 di affiancare l’immagine alla scrittura, nella sua missione di condividere emozioni. I suoi film più famosi - Grain in Air (2006), Desert Dream (2007), Dooman River (2011), Scenery (2013), Gyeongju (2014) - pitturano ritratti di persone comuni, appartenenti a minoranze, che convivono con le sfide più differenti.
Regia, soggetto e sceneggiatura: Lu Zhang. Fotografia: Cho Young-jik. Montaggio: Lee Hak-min. Musica: Bek Hyun-jin. Interpreti: Han Ye-ri: Ye-ri; Yang Ik-june: Ik-june; Park Jung-bum: Jung-bum; Yoon Jong-bin: Jong-bin. Durata: 100’. Origine: Corea del sud, 2016. Genere: Commedia drammatica. Diritti internazionali: M-Line Distribution, www.mline-distribution. com , sales@mline-distribution.com
è figlia di una donna cinese che, comperata dal marito coreano ma rimasta in Cina, suggerisce a Yan Heri di trasferirsi dal padre per migliorare la qualità della propria vita. Jung-Bum invece, combatte contro i fantasmi della sua mente dopo una devastante esperienza nel gulag in Corea del Nord; Ik-June è legato al mondo del crimine, sebbene cerchi di ricostruirsi una vita nuova libera dall’illegalità; infine Jong-Bin, dagli atteggiamenti infantili, è epilettico. Come la vita di Yan Heri e Jung-Bum esemplificano, il tema centrale si snoda nella riflessione di un aspetto importante della psicologia umana: la reazione allo sradicamento sociale e geografico dell’individuo e il suo ricollocamento in una società altra. Come suggerisce la trama, non sempre cambiare realtà è sinonimo di evoluzione positiva delle proprie prospettive: le scene che ritraggono le prove quotidiane (fare il bagno al padre in sedia a rotelle, per citarne una) ne sono un chiaro esempio. Le angosce dei personaggi sono però stemperate da un’atmosfera definita da alcuni commentatori come “indie”, che fa immergere lo spettatore in una Seoul alternativa e lo fa passeggiare in una “fantasticheria”. Senza dimenticare le dediche al mondo dell’arte e del cinema, racchiuse in un libro letto con interesse da Ya Heri sullo sgabello del bar e la scelta di scritturare tre registi che, come attori, modellano i loro ruoli sulla base dei personaggi delle loro opere. Federica Losi
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Revelations
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alcutta. Shoba, casalinga e moglie, vive al primo piano di un palazzo in periferia. In capo a pochi giorni, un nuovo vicino, dal passato misterioso, si trasferisce in un appartamento in cima all’edificio. Fra i due, entrambi provenienti dalla regione del Chennai, si sviluppa una relazione complicata che si andrà fortificando sempre più, generando conseguenze inaspettate e cambiando la vita dei personaggi per sempre. Parallelamente Shekar, il marito di Shoba, giornalista presso la Gazzetta locale, è affiancato da una stagista affascinante e giovane nel suo lavoro di reportage della scena rock della città.
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Il “set” impalpabile di Revelations è lo stesso del matrimonio indiano: la vita quotidiana. L’unione coniugale, vero e proprio pilastro della tradizione, è messa in discussione dalla vita dei quattro personaggi - nonché protagonisti - che animano questo film debutto del regista Vijay Jayapal. Infatti, le dinamiche psicologiche e i segreti che si insinuano nelle relazioni umane, di cui il matrimonio è l’istituzione per antonomasia, sono indagate nelle direttrici della sessualità femminile, del senso di colpa e della redenzione. Tuttavia, ciò è compiuto senza clamore, senza colpi di scena o dramma, poiché i lati oscuri o nascosti di ogni storia personale non fanno rumore, coesistono assieme a tutto il resto; e spesso, nei rumori si confondono e si mescolano. Visivamente, Calcutta si costituisce come fondale perfetto e duplice per realizzare
Regia, soggetto e sceneggiatura: Vijay Jayapal. Fotografia: Jayanth Mathavan, Montaggio: Sai Arun. Musica: Shamanth Nag. Interpreti: Chetan: Manohar; Lakshmi Priyaa Chandramouli: Shobha; Anantharaman Karthik: Shekar; Arpita Banerjee: Divya. Durata: 118’. Origine: India,2016. Genere: drammatico. Diritti internazionali: Vijay Jayapal, vijay. jayapal2003@gmail.com
questo pensiero. A livello più esteso, la periferia tutta, con i suoi colori e i suoi suoni, brulicante di vita, ospita i tentennamenti di Shekar, marito di Shoba, per la giovane ed affascinante stagista che lo affianca nel suo lavoro. L’energia dell’età verde si rispecchia nelle scene dinamiche dell’urbe, che lentamente si mostra, ripresa dopo ripresa, nei suoi dedali di strade che accolgono ogni anima solitaria in cerca di connessioni. Contrariamente il palazzo, culla dell’attrazione fra Shoba e il suo vicino - uomo di mezz’età - sembra racchiudere all’interno delle sue mura una calma raccolta, quasi decadente (sottolineata anche dalla vernice scrostata che richiama a fasti antichi) e nostalgica, come i cuori pieni di sentimenti contrastanti dei due personaggi. Questo è, dunque, il primo lungometraggio di Vijay Jayapal, regista autodidatta votato alla cinematografia: una riflessione visiva sulla psicologia umana delle relazioni che trae spunto da uno dei suoi corti - Matrimony (2015) - e che ha avuto l’onore di aprire il Festival Internazionale del Kerala, nel 2016, a rappresentanza della scena indipendente Tamil. Una prospettiva realista che si apprezza proprio per la scelta del tema e per il finale sorprendente, come sintetizza l’opinione dell’attrice principale, Lakshmi Priyaa Chandramouli: “Il soggetto era molto realistico e il contenuto potente. Sono rimasta impressionata dal mio ruolo nella sceneggiatura e conquistata dalla convinzione del regista verso questo film.” Federica Losi
Vijay Jayapal è regista, produttore e scrittore. Ha recentemente deciso di dare una svolta alla sua vita, lasciando una carriera di successo nel settore finanziario, per dedicarsi a tempo pieno al cinema. Tutto ciò che ha appreso e realizzato è stato fatto in totale autonomia e Revelations è il suo primo lungometraggio. I suoi corti precedenti - Kurukkezhuthu (2013), The Surreal (2014), Meelpaarvai (2015), Matrimony (2015) - sviluppano tematiche simili, il cui fulcro sono le emozioni umane. E’ un artista emergente che - per sua stessa ammissione - si rivolge al pubblico dei festival e non è interessato al cinema commerciale Tamil.
Seoul Station Seoulyeok
P
requel del film Train to Busan, dello stesso Yeon Sang-Ho, mostra l’inizio della pandemia che colpisce la Corea del Sud partendo proprio dalla stazione di Seoul quando un senzatetto aggredisce un passante dando inizio al propagarsi dell’infezione. La storia ruota attorno a due personaggi principali: Suk-gyu, un padre che cerca la figlia Hye-sun in fuga. Seoul Station è il prequel di Train To Busan, uscito un mese dopo il film d’esordio di Yeon Sang-ho e diretto e sceneggiato dallo stesso regista. Yeon è autore di anime acclamato in patria e reso famoso dal primo lungometraggio animato The King of Pigs (2011), una storia di denuncia rivolta contro il sistema contemporaneo fatto di rigide gerarchie e di nessuna attenzione per l’individuo. La scelta di adottare il disegno animato per il prequel di Train To Busan è determinata allo scopo di descrivere un’astrazione sociale, antinaturalistica e quindi metafora dell’universalità della condizione che affligge il mondo odierno. La stazione di Seoul – da cui partirà il treno per Busan oggetto primo film - crocevia di destini in viaggio e centro nevralgico della Corea del Sud, diventa ombelico di un malessere globale pronto a esplodere. Ed esplode. La rivolta degli ultimi è iniziata da un barbone, fantasma del futuro
Regia, soggetto e sceneggiatura: Yeon Sang-ho. Montaggio: Yeon Sang-ho, Lee Yeon-jung. Musica: Jang Younggyu. Interpreti: Ryu Seung-Ryong: Suk-gyu (voce); Shim Eun-Kyun: Hye-Sun (voce); Lee Joon: Ki-woong (voce). Durata: 92’. Origine: Corea del Sud, 2016. Genere: Animazione, horror. Diritti: Tucker film, www.tuckerfilm. com, tucker@tuckerfilm.com
di un mondo al tracollo, segnale di un’apocalisse globale rimasta ad aleggiare nel tempo fin troppo a lungo. Un’aggressione e poi un’altra e un’altra ancora in un processo logaritmico destinato a coinvolgere la quasi totalità della popolazione che fa da sfondo delle storie dei personaggi protagonisti, la giovane prostituta in fuga Hye-sole e il padre che si è messo alla sua ricerca. Lo sguardo di Yeon Sang-ho si posa sugli ultimi, i derelitti e dimenticati dal sistema, gli homless dai quali parte l’infezione. Da qui la metafora sociale che è alla base del film: i nuovi mostri non sono gli zombi ma i poveri che devono fare affidamento sugli altri per sopravvivere e che nell’iperbole della narrazione diventano furiosi cannibali. E’ lo spaventoso miraggio della fine di una società. L’animazione minimale dona all’opera un senso di cupo realismo nel quale spesso ci si dimentica di assistere a un cartone animato favorendo l’empatia con i personaggi ritratti in situazioni realmente dolenti e drammatiche. La dimensione orrorifica tuttavia si concentra più sul contesto globale che sugli stilemi del genere – il sangue scorre con parsimonia - creando un’opera altamente drammatica capace di mettere in scena una lacerante metafora horror dei mali della società contemporanea coreana. Davide Tomì
Sang Yeon-ho, nato a Seoul nel 1978 è un regista e sceneggiatore sudcoreano. Laureato presso la Sangmyung Università con una laurea in pittura occidentale ha scritto e diretto i film animati The King of Pigs (2011) premiato ai 16 ° Film Festival Internazionale di Busan per la miglior regia e The Fake (2013). Ha esordito nel lungometraggio con il film Train to Busan (2016) ricevendo ai Baeksang Arts Awards il premio come Miglior Regista Esordiente. E’ in post produzione il prossimo film Psychokinesis in uscita nel 2018.
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Train to Busan Busanhaeng
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n disastroso virus colpisce la Corea del Sud trasformando in breve tempo la popolazione in un’orda di ferocissimi zombi. Seok-woo è un giovane gestore di fondi finanziari, divorziato e padre disattento della sua piccola figlia Soo-an. Per il compleanno della figlia che vuole andare dalla madre, entrambi si mettono in viaggio sul treno che da Seoul porta a Busan proprio mentre l’epidemia comincia a mietere vittime. Padre e figlia, come tutti i passeggeri del treno, cercano di sopravvivere all’improvvisa pandemia.
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Fin dalla nascita, nel 1968, su geniale intuizione di George Romero, lo zombi ha assunto un’aderenza mimetica al contesto politico nel quale è stato rappresentato. Non fa eccezione l’adrenalinico Train To Busan nel quale l’immediata, virulenta apocalisse zombi sembra assumere i contorni di una fin troppo attesa rivolta sociale. Nella Corea del Sud contemporanea affossata dalla crisi economica, la distanza tra classi si è globalizzata in una massa in costante discesa verso l’indigenza e una sparuta élite di agiati. Non a caso l’epidemia parte dal grado zero, l’immagine fisica del tracollo economico verso il quale la società sta scivolando: un barbone. Parte dalla stazione di Seoul, crocevia di destini come ben descritto nel prequel animato Seoul Station, diretto dello stesso regista Yeon Sang-ho. Non è un caso che il protagonista sia un rampante agente finanziario sradicato dagli affetti più viscerali in nome del profitto, imbarcato su un treno ad alta velocità che senza controllo è destinato a schiantarsi. Busan è il capolinea immaginario di un mondo sbagliato condannato da un virus all’estinzione. O a un nuovo ordine sociale connotato
Soggetto, sceneggiatura e regia: Yeon Sang-ho. Fotografia: Lee Hyung-deok. Montaggio: Yang Jin-mo. Musica: Jang Young-gyu. Interpreti: Gong Yoo: Seok-Woo; Jung Yu-mi: Sung-Gyeong; Ma Dong-seok: Sang-Hwa; Kim Soo-Ahn: Soo-An. Durata: 118’. Origine: Corea del Sud. Genere: Horror. Diritti: Tucker film, www.tuckerfilm.com, tucker@ tuckerfilm.com
da una massa di non morti privati da qualsiasi fine dell’esistenza che non sia divorare. Nel treno la mutazione arriva presto, contagia i passeggeri e divide in sottoclassi in lotta tra loro. Zombi che si allontanano dall’immagine intontita del 1968 per assomigliare più agli infetti di 28 giorni dopo di Danny Boyle, velocissimi e feroci, finalmente riuniti in un delirante disegno comune: divorare o infettare i superstiti per riunirli sotto un’unica bandiera di distruzione e morte. Yeon Sang-ho, acclamato regista di anime che ha già raggiunto il successo con il cartone King of Pigs, è qui al suo esordio nel lungometraggio. Sfrutta tutto il potenziale claustrofobico dell’ambientazione del treno in corsa per allestire una baraonda visiva di grande impatto emotivo e spettacolare. Se il focus è sul processo di redenzione del protagonista e sul ritrovato senso di responsabilità che deriva dal proteggere a tutti costi la piccola figlia, non mancano le sotto trame con personaggi minori ma abilmente caratterizzati da un puntuale tratteggio, alle prese con il terrore dell’essere fagocitati dalla massa informe che vagone dopo vagone preme per annichilirli. Train to Busan, presentato al Midnight Screening di Cannes 2016, è un horror action dal grande ritmo, ricco di trovate sorprendenti e girato con un grande senso degli spazi. Sono presenti tutti gli stilemi del cinema coreano: la famiglia, il rapporto stato/individuo, il senso di sacrificio, la rivalsa verso un destino avverso. Un film che non si arena quindi nel genere ma si eleva a metafora del mondo contemporaneo. Davide Tomì
GRAPHICS: anna.bennicelli@gmail.com
Cinema Rosebud
Via Medaglie d’Oro della Resistenza 6, Tel. 0522.555113 Biglietto: € 5,00, Ridotto: € 4,00
(il biglietto consente la visione di tutti i film nella stessa giornata)
Arena estiva stalloni via Samarotto 10/E Tel. 0522 392137 Biglietto: € 4,50
Abbonamento a tutte le proiezioni di estAsia: € 15,00
• *Tutti i film sono proiettati in lingua originale con sottotitoli in italiano* *Le attività collaterali sono ad ingresso gratuito*
Per info:
Email: estasiare@gmail.com - Facebook: estasiareggio http://estasia.altervista.org - http://www.palazzomagnani.it