EstAsia Film Festival - Catalogo 2018

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EstAsia Film Festival

Reggio Emilia - 5 • 18 Giugno 2018

Catalogo Film



EstAsia Film Festival Festival del Cinema d’Oriente

Reggio Emilia - 5 • 18 Giugno 2018


Con la collaborazione di: UFFICIO CINEMA DEL COMUNE DI REGGIO EMILIA


Cinema d’Oriente a Reggio Emilia

A

nche quest’anno torna EstAsia, iniziativa a cura di Cineclub Peyote, Fondazione Palazzo Magnani e Comune di Reggio Emilia che si propone di offrire un momento di riflessione sulla cinematografia asiatica, coinvolgendo e stimolando il dialogo con le comunità straniere presenti nel tessuto provinciale e regionale. Arrivati alla terza edizione abbiamo deciso di strutturarci come un vero e proprio festival cinematografico: avremo un premio assegnato da una giuria, che per quest’anno è composta da Marcello Casarini (regista), Mirca Lazzaretti (fotografa e film-maker) e Maico Morellini (scrittore vincitore del Premio Urania e critico cinematografico), avremo come ospiti internazionali alcuni dei registi dei film in concorso che verranno a presentarci i loro lavori (per conoscere eventuali appuntamenti con gli ospiti al di fuori delle serate del festival vi consigliamo di consultare la nostra pagina Facebook o il nostro sito internet) e proietteremo diversi film in anteprima italiana ed europea. Oltre alle collaborazioni già attive negli scorsi anni (ARCI Reggio Emilia,

Arcigay Gioconda Reggio Emilia, Associazione Accqua; Associazione Bella cultura - Jia wen) quest’anno avremo come nuovo partner l’Ordine degli Architetti di Reggio Emilia: il cinema orientale è sempre molto attento agli ambienti e alle architetture e quindi alcuni dei film del festival (segnalati sul programma) saranno validi come aggiornamento professionale. Per quanto riguarda il programma, d opo il grande numero di film sudcoreani che vi abbiamo proposto lo scorso anno EstAsia quest’anno ospita invece una corposa selezione di film cinesi e giapponesi: la nostra scelta è sempre frutto di un lungo lavoro di selezione, nel quale guardiamo centinaia di film asiatici per proporvi i prodotti migliori. Ogni anno è anche per noi una sorpresa vedere come le cinematografie si evolvono e come, di anno in anno, l’asse dell’autorialità si sposta da un paese all’altro. Speriamo che anche quest’anno, così come in passato, questa commistione unica di film d’autore e popolari, tutti rigorosamente non ancora distribuiti al cinema in Italia, possa incontrare il vostro gradimento. Buona visione Graziano Montanini

Reggio Emilia, Giugno 2018


A taxi driver Taeksi Unjeonsa

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aggio 1980, Corea del Sud. Il generale Chun Doohwan, con un colpo di stato rovescia il governo di transizione di Choi Gyu-nwa nominandosi presidente della Quinta Repubblica. La politica autocratica di Chun porta a una rivolta nella città meridionale di Gwangju, dove i manifestanti, studenti e cittadini comuni, entrano nelle stazioni di polizia per impadronirsi delle armi. La repressione di Chun sfocia in un massacro. Nel fatto storico, che le autorità coreane cercarono di nascondere alla comunità internazionale, s’inserisce la storia di Man-seob, tassista di Seoul che accetta, dietro un compenso irrinunciabile, di accompagnare il giornalista tedesco Peter nella città di Gwangju per documentare la rivolta. Basato sulla storia vera del reporter Tedesco Jürgen Hinzpeter e del tassista Kim Sa-Bok Jürgen Hinzpeter coprì la notizia della rivolta di Gwangju, che si svolse dal 18 al 27 maggio 1980 a Gwangju, Corea del Sud.

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A Taxi Driver, del regista coreano Jang Hun, è stata la pellicola selezionata per la corsa agli Oscar 2018. Il film descrive, con una ricostruzione basata su fatti reali, le vicende di un reporter tedesco e del suo tassista, testimoni della rivolta di Gwangju. Mr Kim (Song Kang-ho, volto noto anche in occidente poiché apprezzato in numerosi film di Bong Joon-ho, come Lady Vendetta, Memories of a murder, The Host e Snowpiercer) è un tassista di Seoul che cerca di sbarcare il lunario non senza difficoltà, dovendo allevare da solo la propria figlia e incontrando sempre maggiori difficoltà sul lavoro. Venuto a sapere che un reporter tedesco di nome Jurgen Hinzpeter (Thomas Kretshmann) è disposto a pagare una somma più che ragguardevole per una corsa fino a Gwangju, salta sul proprio taxi e aggancia il cliente soffiandolo a un collega poco cauto. Tuttavia Kim nella sua indolenza ignora

Regia Hun Jang Sceneggiatura Yu-na Eom Musica Jo Yeong-wook Fotografia Go Nak-seon Montaggio Kim Sang-bum, Kim Jae-bum Cast Song Kang-ho, Thomas Kretschmann Origine Sud Corea, 2017, colore, 134’ Genere Storicocontemporaneo Lingua coreano, inglese, tedesco Distribuzione Tucker tucker@tuckerfilm.com

che per le strade della città coreana si sta consumando uno dei più feroci massacri moderni, infatti a Gwangju nel 1980 furono uccise centinaia di persone dalla dittatura militare. A Taxi Driver si tuffa in questo pezzo di storia mescolando la spensieratezza e le gag di una commedia road movie che scherza sulle differenze culturali tra oriente ed occidente con le rispettive incomprensioni linguistiche, e il dramma della dura e violenta sofferenza della realtà nascosta della rivolta di Gwangju. Per la prima metà il film ricorda per lunghi tratti molti personaggi della commedia italiana: persone semplici, estratte dal popolo, lontane da concetti sociali e politici. Per Kim è importante guadagnare abbastanza denaro per provvedere a sua figlia, mantenere il taxi pulito e in buone condizioni. Nella sua esperienza le rivolte studentesche servono solo a far perdere giorni di lezione agli studenti. Tuttavia al pari dei personaggi della commedia italiana, si ritroverà immerso nella storia del suo paese senza accorgersene e sarà in quel momento che mostrerà tutto il valore e il sentimento di un popolo, quello coreano, di cui si farà totem e rappresentante. Come lo spettatore per metà film pensa di essere di fronte ad una commedia brillante, così l’intera Corea guardava Gwangju ascoltando le false notizie dei telegiornali, mentre una furiosa repressione insanguinava le strade della città e crivellava di colpi i corpi di uomini e donne che lottavano per la libertà. Jang Hun spiazza lo spettatore con la stessa violenza del giorno in cui le immagini di Hinzpeter raggiunsero la stampa internazionale e rivelarono al mondo le atrocità del regime fascista di Chun Doo-hwan. A Taxi Driver mostra un pezzo di storia della Corea da non dimenticare, inserendo con geniali meccanismi la crescita emotiva e coscienziale del protagonista, aggraziata, mai banale e mai artificiosa. Lapo Marenghi – www.lascimmiapensa.com

Hun Jang è un regista e sceneggiatore coreano nato nel 1975 e noto per i film Rough Cut (2008), Secret Reunion (2010), The Front Line (2011) e A Taxi Driver (2017). E’ stato assistente alla regia di Kim Ki Duk per La samaritana e Ferro 3 nel 2004 e Time nel 2006. A Taxi Driver ha avuto grande rilevanza nei più importanti festival del mondo ed è stato scelto come rappresentante della Corea del Sud all’Academy Awards for Best Foreign Language Film, senza però entrare nella short list.


Ashwattama

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shvaku, nove anni, adora la favola dell’eroe Ashwatthama, storia che la madre gli racconta tutte le notti, prima di dormire. Dopo che i banditi hanno fatto irruzione in casa sua uccidendo sua madre, Ishvaku viene mandato nel villaggio dello zio per iniziare una nuova vita con i suoi cugini. Ancora sotto shock, Ishvaku cerca di affrontare la sua perdita entrando in un regno immaginario. Ma le difficoltà e i misteri della realtà non lo lasceranno andare così facilmente. Dramma, fantastico.. Una mosca bianca nel panorama delle produzioni indiane, una pellicola più unica che rara nella sua bicromia essenziale, distensiva, con caratteri fondamentalmente rientranti nelle intenzioni del regista Pushpendra Singh che grazie al suo Ashwatthama tenta di apportarci il gravare di un mito costantemente presente nella cultura religiosa indiana. Quello appunto di Ashwatthama, guerriero ‘marahati’ e figlio del guru di una genia di un ancestrale re leggendario, che fu punito dal dio Krishna, costretto a vagare per millenni con le sue ferite sanguinanti aperte ed ulcere senza ricevere mai ospitalità alcuna. Si può definire un prodotto “art house” per caratteristiche, pure se ormai si tratta di una definizione di produzione sempre più generale, fin troppo applicabile, parola spendibile e pertanto abusata. La scelta del bianco e nero con brevissime sezioni trapiantate a colori per momenti sgargianti all’occasione - comunque ne dimostra gli in-

Regia, soggetto e sceneggiatura Pushpendra Singh Art & Production Design Amrendra Srivastav Montaggio Sanjay Tudu Musica Ajit Singh Rathore Cast Aryan Singh, Lovely Singh, Sangita Kumari, Chitra Sharma, Pushpendra Singh, Anju Singh, Pravendra Singh Origine India, Sud Corea 2017, 120’ B/N e Colore Genere Drammatico International Sales Asian Shadows contact@chineseshadows.com

tenti, lontani mille miglia dalle cromie delle spettacolari super-produzioni bollywoodiane. Anche senza avere dimestichezza della cinematografia indiana ci si può accorgere già in prima battuta che non è la solita frivola storia di formazione, complice la funzione del mito in questione che rimane sospeso al protrarsi dell’immaginario di un bambino che viene strappato alle sue figure genitoriali causa un’incursione violenta di banditi nel suo villaggio. La madre morirà, episodio saliente per le premesse della sua maturazione perché provocherà l’allontanamento dalla famiglia e luogo d’origine con buona pace della loro distruzione e un nuovo inizio, una nuova e difficoltosa situazione, tra persone, usanze, proibizioni, conoscenze e rudimenti. Il film vanta sequenze di suggestione paesaggistica e di costumi del territorio, come quella del rito d’intercessione per la divinità, compiuto attraverso il movimento di una vacca entro una cerchia di paesani riuniti con lo scopo di indicare la prossima “vittima” della sciagura, scena attraverso la quale viene fatta rispondere un’imminente condizione di primo piano dell’orfano. Bisogna dire che alcuni “scatti” grazie all’illuminazione atipica sono senz’altro degni di una mostra fotografica in tutto e per tutto, dalle atmosfere chiaroscurali e validate ancora dal senso di ‘rudere’ dell’ambientazione, in una natura spoglia, smunta, un realismo quotidiano che incrocia la radicata tradizione orale delle storie. Luca Capuano

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Pushpendra Singh ha studiato al Film and Television Institute of India. Ha iniziato la sua carriera come attore sotto il guru del teatro Barry John a Delhi. In seguito ha interpretato come protagonista un ruolo nel film di Amit Dutta, The man’s woman vincitore della menzione speciale al premio Orizzonti del festival di Venezia del 2009. Il suo debutto come regista The Honor Keeper (2014) è stato presentato in anteprima al Berlin Film Festival. Ashwatthama è il suo secondo lungometraggio.


Bad Genius Chalard Games Goeng

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ynn è una geniale studentessa liceale che guadagna vendendo le soluzioni dei compiti d’esame. Il giro si allarga a tal punto da portarla a Sidney, Australia. Per ottenere milioni di baht, Lynn con la sua organizzazione deve terminare l’esame internazionale STIC e sfruttando il fuso orario consegnare le risposte in Thailandia agli acquirenti benestanti, prima che lo stesso esame venga svolto nel paese d’origine.

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Bad Genius è una scatenata, rutilante commedia che innesta la classica struttura dell’heist movie (nel quale vengono messi a segno truffe e “colpi grossi”) su un incubo certamente condiviso dagli studenti di tutto il mondo ma che per le scuole asiatiche ha, notoriamente, un impatto pesantissimo sulle vite e sul futuro: gli esami scolastici. Le battute spumeggianti e le sequenze dal ritmo incalzante sono sorrette da una struttura intelligente (per tutta la prima parte del film il regista ci depista facendoci presupporre un falso finale) che, complice un montaggio eccellente, costruisce una macchinazione per centri concentrici fino alla scena madre, quella del test per il campus americano, che ovviamente sarà condito da imprevisti, pericoli, difficoltà a non finire. Da uno scambio di scarpe in classe – in questo modo avviene la prima “truffa” ai danni dell’insegnante durante un compito – si arriva così a un piano al dettaglio, i cui preparativi fanno il verso allo spolvero hollywoodiano sfoggiato nei vari Ocean’s e ai grandi discorsi di Steve Jobs (come quello di Standford). Il sogno americano s’intreccia con la realtà sociale thailandese con ironia tagliente: la freschezza del racconto, che scivola via regalando soddisfazione e colpi di scena, si accompagna infatti senza appesantirsi neanche un po’ alla tematizzazione che costituisce non solo il senso, ma proprio l’os-

Nattawut “Baz” Poonpiriya classe 1981 è un giovane regista, sceneggiatore e autore di video musicali e commmercial. Il primo film, il thriller Countdown del 2012 ha vinto tre premi al Suphannahong National Film Awards. Bad Genius è il suo secondo lungometraggio.

Regia Nattawut Poonpiriya Sceneggiatura Nattawut Poonpiriya, Tanida Hantaweewatana, Vasudhorn Piyaromna Musica Hualampong Riddim Fotografia Phaklao Jiraungkoonkun Montaggio Chonlasit Upanigkit Cast Chutimon Chuengcharoensukying, Chanon Santinatornkul, Teeradon Supapunpinyo Origine Thailandia 2017, 130’ colore Lingua thai Genere action comedy Distribuzione GDH 559, dd@gdh559.co.th

satura di Bad Genius, quella della differenza tra le classi sociali nella Bangkok contemporanea. I due più intelligenti provengono dalla piccola borghesia (lei) o dalla periferia: sebbene siano i migliori, se fanno qualcosa di storto non gli verrà perdonato, mentre i ricchi o i ricchissimi, dotati di piscine e le cui famiglie fanno shopping a Parigi, saranno anche scemi ma cascano in piedi. A meno che qualcuno, a un certo punto, smetta di accettare i loro favori, scelga di non avere esattamente i loro obiettivi e non stia più al loro gioco. La protagonista è un personaggio molto interessante perché non ha remore morali e mette a disposizione il suo notevole cervello in cambio di soldi, anche se così facendo disseminerà di idioti thailandesi ricchi i campus a stelle e strisce. Ma ognuno tira l’acqua al proprio mulino e Lynn aderisce a lungo alla teoria del “win-win” senza andar troppo per il sottile. Il confronto e poi conflitto con il suo “pari” (ma in realtà assai diverso) cambierà le cose: Bank è l’ultimo anello della catena alimentare, è veramente povero, ha bisogno di soldi e non può star tanto a sottilizzare su questioni di giustizia. Specialmente quando subisce un’ingiustizia compromettente. La dialettica tra loro, che nel finale diventa forse troppo dicotomica distorcendo in negativo il personaggio maschile, è in realtà la linea di sviluppo su cui si muove la protagonista e che ne motiva l’evoluzione poiché i due sono più simili tra loro di quanto potranno mai assomigliare agli altri coetanei agiati. La messa alla berlina dell’alta società senza cervello ma col portafogli pieno è spudorata e lo spettatore non può che fare il tifo per il fallimento dei decerebrati (magari anche accettando di precipitare nel gioco “lose-lose”). Bad Genius è un gioiellino, un film spassoso e fantasioso come non se ne vedono tanti in giro. Elisa Battistini- Quinlan


Blank 13

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l padre di Koji è scomparso, allontanandosi volontariamente dalla famiglia. Dopo tredici anni viene trovato ma è divorato dal cancro e non ha più molto tempo. L’uomo muore nel giro di pochi mesi e solo in seguito la famiglia inizia a capire le motivazioni della fuga dell’uomo e a imparare a conoscerlo realmente.

LaIl titolo Blank 13 si riferisce ai 13 anni di vuoto (blank) nella relazione di Koji (Issei Takahashi) con il padre (Lily Franky). Quest’ultimo, un giocatore d’azzardo impenitente, aveva lasciato la moglie e i due figli bambini, scomparendo nel nulla e se da una parte questa scomparsa li aveva alleviati tutti da una vita tormentata da creditori e da un padre indifferente, dall’altra aveva costretto la madre a lavorare giorno e notte per tirare avanti, lasciando i ragazzi da soli. Tanti motivi quindi di risentimento verso quest’uomo e non sorprende che quando il fratello maggiore (Takumi Saito) di Koji annuncia di aver avuto notizie del padre 13 anni dopo la sua scomparsa, nessuno faccia i salti di gioia. L’uomo è malato e ha tre mesi di vita, ma la moglie e il figlio maggiore non hanno voglia di andarlo a trovare, sono ancora feriti e non l’hanno perdonato per quello che le sue scelte sconsiderate hanno fatto passar loro. Il film in realtà ha uno svolgimento non lineare e inizia con un buffo episodio del funerale dell’uomo, dove i pochi presenti sono comparati a un altro funerale pieno di gente, nella cappella accanto e subito introduce il suo tema del valore di una persona misurato in base all’eredità affettiva lasciata nelle vite degli altri. Seguono una serie di flashback molto intensi e dolorosi che raccontano la storia

Takumi Saitoh è nato nel 1981 a Tokyo, Giappone. Ha iniziato come modello ed è diventato attore, regista e fotografo. E’ stato il primo attore giapponese a vincere l’Asian New Talent Award-Best Director al festival internazionale del cinema di Shanghai 2017 per il suo lavoro Blank13.

Regia Takumi Saitoh Sceneggiatura Mitsutoshi Saijô Soggetto Kôji Hashimoto (original story) Musica Nobuaki Kaneko Cast Cookie, Issei Takahashi, Yoshikazu Ebisu, Lily Franky, Takumi Saito, Misuzu Kanno Origine Giappone 2017, 70’ colore Lingua giapponese Genere commedia grottesca Distribuzione Tokyo Media International midori.inoue@tokyomedia.jp

dietro questa famiglia e quest’uomo e improvvisamente a metà del film appare il titolo e la narrazione cambia registro totalmente. I pochi partecipanti al funerale raccontano di loro e delle loro interazioni (principalmente legate al gioco d’azzardo) con il morto, sciorinando una serie di buffi episodi e ricordi sotto gli occhi attoniti dei figli. Blank 13 è un film desueto nella struttura e fresco, che racconta una storia vera (di un amico del regista), non particolarmente originale ma con grande empatia e attenzione alle sfumature. I flashback hanno una fotografia molto elegante ispirata ai colori saturi di Christopher Doyle e sono vividi, toccanti e molto curati, mentre i personaggi al funerale sono sfruttati come in un documentario, senza preparazione e con solo un accenno di copione, in lunghi piani-sequenza in cui gli attori (alcuni sono attori comici, altri sono stati presi solo per l’aspetto strambo) vanno a ruota libera improvvisando un tributo. L’effetto è sorprendentemente organico e divertente. Molto interessante è anche questo improvviso cambio dal drammatico al comico, soprattutto perché di solito avviene l’opposto, e Saito – intervistato - ha spiegato di essersi ispirato a certi panetti giapponesi che hanno 2 o 3 gusti diversi insieme. Un’ispirazione registica decisamente inusuale, ma visto il risultato non si può che approvarla. Un’altra straordinaria presenza che aleggia in tutto il film è quella della madre (Misuzu Kanno). La vediamo poco, spesso di spalle e ha pochissime battute, ma il film è tutto filtrato attraverso il suo personaggio creando un effetto indiretto di presenza sottile ma molto importante. Adriana Rosati - www.linkinmovies.it

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Columbus

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olumbus prende il nome dall’omonima Columbus nell’Indiana, cittadina neo modernista del Midwest nota per la sua caratteristica architettura urbana. Nel contesto architettonico proprio della città prende corpo la storia di Jin, coreano d’origine, che torna dalla Corea del Sud per assistere il padre, famoso architetto ricoverato in ospedale in stato di coma. Bloccato nella città e non appassionato di architettura, Jin trova un appoggio spirituale in Casey, ragazza intelligente che lavora in biblioteca e che sogna di studiare e lasciare la madre, tossicodipendente in riabilitazione. Tra i due nasce complicità e curiosità reciproca e nell’esplorare la città, le emozioni contrastanti dei due nuovi amici prendono forma negli spazi architettonici che di volta in volta visitano e abitano, seppur per poco tempo.

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Opera prima del “saggista” cinematografico sudcoreano Kogonada, soprannome che proviene dall’omonimo sceneggiatore, assiduo collaboratore del maestro giapponese Ozu. Cinema realista, minimo e compassato nelle situazioni, uno stile del tutto meditativo e contemplativo ma assai pregno sul piano delle sfumature simboliche, tradizionali, personali. Proprio Ozu, regista che si può trovare nelle pagine di storia del cinema, sembra aver ispirato per larghi tratti e in un certo senso da principio e ‘per principio’ questo primo lavoro del giovane scrittore che finora era noto ai più per essere inguaribile cinefilo, esperto e attivo prevalentemente nel campo dello studio delle inquadrature nei film di registi storici e nell’ambito della videoarte, in “chiave minore” per così dire. Si era dato pena di schematizzare queste analisi della prospettiva utilizzata dai grandi tramite il ‘supercut’ e fu infatti lanciato dai cosiddetti “video-sushi” sul tema, pratica ben riconoscibile, in tal

Kogonada è un regista sud coreano noto per Columbus (2017), Linklater: On Cinema & Time (2017) e Días de cine (1991). In realtà il nome è uno pseudonimo che rende omaggio a Kogo Nada, storico sceneggiatore di Yosujiro Ozu. Il regista è anche un famoso videoartista e saggista che con i suoi lavori ha reso omaggio a Ingmar Bergman, Wes Anderson, Robert Bresson, Richard Linklater and Yasujiro Ozu. Columbus è il suo film di maggior successo che ha avuto ottime accoglienze e vari premi nei festival di tutto il mondo.

Regia, soggetto e sceneggiatura Kogonada Montaggio Kogonada Musica Hammock Fotografia Elisha Christian Costumi Emily Moran Interpreti John Cho, Haley Lu Richardson, Parker Posey, Rory Culkin, Michelle Forbes, Jim Dougherty Origine USA, 2017 colore, 104’ Genere Architettura e sentimenti Lingua Inglese Distributore Visit Films jy@visitfilms.com

senso, di sua mano. Venendo al film in questione, presentato al Sundance Film Festival nel 2017, è stato candidato a numerosi premi negli Stati Uniti, a cominciare da quelli per regia, attori e fotografia, che non per niente si configurano come punti di forza dell’opera. Ispirato a Ozu, si diceva, certo con un afflato ben diverso dalla sua “santità” realistica ma imperniato come molte delle sue pellicole sui rapporti familiari e le relazioni. La nitida e ragionata fotografia è da ascrivere a Elisha Christian, che si avvale qui di un certo e innegabile “cospetto” dell’architettura, grazie alla quale impressiona lo sguardo senza bisogno di accattivare. Anche se non si può parlare letteralmente di “squisitezza artistica” degli spazi, cosa che senz’altro può valere invece per Greenaway (in particolare si ricordi Il Ventre dell’Architetto, dove le inquadrature e la “spazialità” degli ambienti vantano una precisione, giustezza acquisita, un’ortogonalità propria di un derivato dal mondo della pittura), in Columbus il circondario degli edifici architettonici modernisti di Meier e dei fratelli Saarinen conferisce ampio respiro alla messa in scena. Al contempo lascia un senso di sintesi, pulizia e primizia d’interpretazione registica e panoramica senza sotterfugi per rendere il tutto più ‘desiderabile’ visivamente. E’ interessante anche l’uso degli specchi “casuali” che compongono una seconda battuta d’inquadramento degli sguardi dei due comprimari, attraverso prospettive di rifrazioni apposite, volute. Columbus ha un tono narrativo molto controllato, accorto, decisamente equilibrato fin nel dissapore delle situazioni psicologiche e le ambizioni dei due bravissimi, naturali protagonisti il cui registro sostanzialmente consta nella loro messa a vicenda. Simmetria che ispira un che di ‘zen’ per un “modernism with a soul”. Luca Capuano


Da’Wah

A

ttraverso la voce di quattro giovani studenti - Rafli, Masduqui, Yazid, Shofi - che sognano un giorno di poter finalmente divenire Ustād, o meglio guide religiose e predicatori dei precetti di Allah, Spinelli ha voluto rivelare una loro tipica giornata di collegio, poco prima del ritorno a casa per la pausa del Ramadan. Da’Wah: così chiamano nella scuola coranica indonesiana di Dalwa la predicazione dell’Islam; una parola che sta per invito. «Il nostro compito è invitare le persone al bene non spaventarle». E ancora: «L’Islam si insegna con gli argomenti e non con le spade». Siamo a Pasuruan, nella provincia orientale di Giava, una zona che conta almeno duecento collegi religiosi, il «Pesantren» in questione è dove Italo Spinelli ha realizzato il suo film, Da’Wah, presentato come evento speciale alla Festa di Roma. Le sue guide sono quattro ragazzi, giovani studenti adolescenti – nella scuola ci sono 2700 alunni tra i sei e i diciotto anni – di cui segue la giornata che inizia a notte fonda, alle 3 del mattino, scandita da preghiere, lettura del Corano, esercizi fisici, lezioni coi maestri, discussioni nel periodo che precede il ritorno al casa per il ramadan. A questo «rituale» si alternano le incursioni nella vita «fuori» di Rafli, Masduqui, Yazid, Shofi, ognuno con una storia e una provenienza diverse accomunati da questa esperienza e dal desiderio di continuare quanto stanno imparando, di poter divenire un «Ustad» ovvero un «grande uomo». C’è chi vorrebbe proseguire gli studi nello Yemen, chi vorrebbe andare in Egitto ma anche in Italia perché adora Valentino Rossi, e in Spagna a vedere giocare il Real Madrid. Chi invece vorrebbe insegnare a studi compiuti l’Islam in Germania per smantellare l’equazione tra musulmani e terrorismo. La scuola è un posto importante, che gli permette di avere amici, di studiare, di confrontarsi con argomenti che altrimenti gli sarebbero preclusi. Spinelli rimane a distanza, filma e ascolta senza forzare la «soglia»

Italo Spinelli (1951) è un regista, sceneggiatore e attore italiano. Tra i suoi film come regista, interprete, sceneggiatore: Da’wah (2017), Gangor (2010), L’odore del sangue (2003), Caro diario (1994), Corsica! (1992), Roma Paris Barcellona (1989), Blue Nude (1977). Il film Gangor, girato dopo una lunga pausa, ha partecipato in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma 2010.

Regia Italo Spinelli Fotografia Eko Nobel Montaggio Silvia Di Domenico Interpreti Wahyu Rafli, Muhammad Hasan Masduqi, Ahmad Yazid, Muhammad Shofi Durata 64’ Origine Indonesia, 2017 Genere documentario Diritti Merlino Distribuzione, www. merlinofilm.com, merlinodistribuzione@ gmail.com

di un universo che lascia invece emergere nelle sue immagini. E in questo senso «dentro» e «fuori» formano lo stesso spazio mentale e culturale rispetto al quale si raccontano gli interlocutori. Ogni conversazione, catturata nei cortili degli edifici scolastici, durante le ore di riflessione o mentre i quattro protagonisti sono a casa, nei campi, insieme ai familiari riguardano la scuola, punto di riferimento centrale per le loro esistenze presenti e future. Non ascoltiamo paure, tentennamenti, dubbi ma tra quello che imparano e quanto esprimono sembra esserci quasi una coincidenza, ed è quella anche la lente con cui si confrontano con il mondo. Al centro il film pone, appunto, la questione della tolleranza, di un insegnamento che respinge con fermezza qualsiasi violenza. Il maestro insiste spesso nelle sue lezioni sulla gentilezza – «evitate di terrorizzare la gente» – e sulla tolleranza, sull’importanza di non cedere mai a un impulso rabbioso anche di fronte alle delusioni. «Jihad è la guerra contro le tentazioni, contro i desideri, contro noi stessi» dice. Spiega che l’Islam onora la donna – «Senza l’approvazione della madre un figlio non può andare in paradiso» – che le circonda di rispetto. La scuola ci insegna a vivere in modo giusto dicono i ragazzi che lì possono parlare solo arabo altrimenti vengono puniti – «Mi tengono d’occhio» scherza uno di loro – anche se la vera difficoltà è proprio seguire questa etica. E le guerre, il terrorismo, quanto accade nella realtà di oggi? I maestri aiutano a trovare le risposte nel segno del rispetto. I ragazzi cercano di tracciare delle linee, parlano di internet che è «un coltello affilato», alcuni non lo hanno neppure, la prospettiva in campagna sembra diversa. Ma nonostante questo le domande che sollevano durante le lezioni lasciano intuire che non è così, che la preoccupazione del presente è forte e costante. E cercare a questi interrogativi le risposte è un obiettivo importante anche per gli insegnanti ma senza mai allontanarsi dalla propria pratica. Cristina Piccino, Il Manifesto

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Dragonfly eyes Qing ting zhi yan

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gnuno di noi viene ripreso in media 300 volte al giorno da telecamere di sorveglianza. Lo stesso accade a una giovane donna di nome Qing Ting (libellula in cinese) quando lascia il tempio buddista che frequentava per diventare suora e torna nel mondo reale cominciando a lavorare in una fabbrica. Ke Fa, un tecnico che lavora nella stessa azienda, s’innamora di lei e infrange la legge nel tentativo di piacerle. Al rilascio dalla prigione Ke Fa cerca nuovamente la giovane, fino a riconoscerla in Xiao Xiao, una celebrità del web.

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“Senza nessun essere umano a farle funzionare, le telecamere di sorveglianza producono filmati affascinanti ventiquattr’ore su ventiquattro. Ineffabilmente silenziose, queste telecamere registrano incessantemente. A volte registrano immagini che vanno oltre ogni possibilità di essere comprese, catturate in un pazzo, volatile, istante. Tutti questi frammenti video sono casuali, eppure sembrano in qualche modo correlati. Riveleranno qualcosa che l’occhio umano non può vedere?”. Con queste parole Xu Bing, uno degli artisti contemporanei cinesi più famosi al mondo, presenta Dragonfly Eyes, la perfetta sintesi tra cinema e videoarte: un film senza attori, composto esclusivamente da spezzoni presi da videocamere di sorveglianza appositamente montati e doppiati per costruire una storia d’amore tra due ragazzi nella Cina contempo-

Xu Bing è un videoartista, regista e produttore cinese noto per Dragonfly eyes (2017) e Above the Drowning Sea (2017). Al Locarno International Film Festival 2017 si è aggiudicato il premio FIPRESCI e il premio della giuria ecumenica – Menzione speciale.

Regia Bing Xu Soggetto e sceneggiatura Yongming Zhai, Hanyi Zhang Montaggio Matthieu Laclau, Zhang Wenchao Musica Yoshihiro Hanno Interpreti (voci) Liu Yongfang, Su Shangqing Origine: Cina 2017 colore; B/N 81’ Genere Sentimentalsperimentale Lingua mandarino Diritti internazionali Movie View International, yangying@movieviewint.com, asia@movieview-int.com

ranea. Esperimenti di cinema “non girato” erano già stati fatti, come ad esempio il bel Final Cut – Ladies & Gentlemen del regista ungherese Gyorgy Palfi che imbastisce una storia montando frammenti di film preesistenti, ma la vera novità qui è che il montaggio si compone di vere e proprie scene che assumono significato solo nel contesto specifico del film. Per fare questo Xu Bing inizia col montaggio di sequenze apparentemente casuali poi man mano fa subentrare l’elemento narrativo tanto che, superata la prima mezz’ora di smarrimento, lo spettatore quasi non fa più caso all’approccio atipico e, complici anche inquadrature spesso in campo lungo, comincia a riconoscere personaggi che pure cambiano fisionomia da una scena all’altra, appassionandosi a questa storia moderna e crudele che quasi meta-cinematograficamente si fa critica sulla pervasività della tecnologia nella società dell’apparenza fino ad arrivare ad un finale sorprendente e toccante nella sua inverosimiglianza. Il fatto che nell’epoca del dibattito sulla privacy centinaia di persone si ritrovino a loro insaputa in un film crea un ulteriore corto circuito narrativo che è probabilmente lo scopo ultimo di Dragonfly Eyes: aprire una stimolante riflessione sul ruolo delle immagini nella società moderna. E per questo Dragonfly Eyes potrà anche non piacere a tutti ma di sicuro non lascerà nessuno indifferente. Graziano Montanini


Free and easy Qīng sōng yú kuài

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Quando un venditore di sapone arriva in una città desolata nelle zone più remote della Cina, un crimine bizzarro scuote la pacifica vita degli abitanti. Un’indagine grottesca porterà a strani esiti tragicomici, con uomini e donne intenti ad accusarsi l’un l’altro in un’escalation di equivoci e situazioni surreali.

Una costante fondamentale nel cinema cinese contemporaneo è la proposta di storie di fantasia inserite in un contesto realistico di stampo quasi documentaristico. Tra il superblockbuster in grado di dragare gli incassi di una nazione media in un fine settimana e il cinema intimistico degli autori acclamati nei festival, esiste una folta proposta di cinema di genere che svela, sullo sfondo di storie di fantasia, realtà completamente diverse rispetto a quelle ormai comunemente accettate ammiccanti alla Cina come un paese in crescita esponenziale, sempre più aperto alla modernità, proiettato nel futuro. Così è Free and Easy (il titolo è la traduzione di un detto popolare delle regioni del nord della Cina), uno slabbro nella realtà che utilizza la commedia surreale per descrivere un non luogo presidiato da sconfitti, fantasmi-ombra dimenticati dal progresso che si arrabattano per sopravvivere. La cittadina post-industriale teatro della storia è dispersa nel nord est cinese, fatiscente, le case solo parzialmente costruite e abbandonate, adiacenti a impianti industriali ora immobili ma che nel piano di crescita avrebbero dovuto portare l’agognato benessere e invece così non è stato. L’impressione è di una città che ha provato a elevarsi rispetto alle proprie

Jun Geng, nato nel 1976 a Heilongjiang, China è al suo terzo lungometraggio dopo Youth, che è stato presentato al Festival di Roma 2009 e The Hammer and Sickle Are Sleeping. Free and Easy è stato vincitore al Sundance Film Festival 2017 del premio special della giuria World Cinema – Dramatic.

Regia Jun Geng Soggetto e sceneggiatura Jun Geng, Liu Bing Feng Fotografia Weihua Wang Camera (color, widescreen, HD) Wang Weihua Editors Guo Xiadong, Zhong Yijuan Suono Clark Zhao Musica Second Hand Rose Cast: Xu Gang, Xue Baohe, Zhang Zhiyong, Wang Xuxu Genere commedia criminale Origine Cina, 2017 99’ colore Lingua mandarino Distribuzione Stray Dogs lison@stray-dogs.com

ambizioni e non ce l’ha fatta, ricadendo pesantemente al suolo e fermando il tempo all’istante della caduta. I personaggi che abitano questi luoghi continuano ad aderire ottusamente a un ruolo istituzionale e urbano che non esiste più travalicando con questo atteggiamento il limite del dramma per ricadere nel grottesco. Con misura però, senza alcuna esagerazione, adottando quasi il ritmo della commedia algida nordeuropea, l’intreccio di malfattori di mezza tacca e truffatori che si avvicinano ai residenti per spennarli, ispira un senso di divertita compassione per l’ingenuo traccheggio che mettono in atto, sfruttando a loro vantaggio i rituali e le credenze soprattutto religiose che regolano la vita dei cittadini. Il film smuove un sano senso del ridicolo e le risate sono sempre a denti stretti ma questo tipo di commedia, inedita per la cinematografia cinese, è più profonda di quello che appare. Il progresso non solo lascia dietro di sé sacche di umanità sconfitte costrette a fare di necessità virtù ma scardina le certezze etiche e religiose che da sempre regolano la vita dell’uomo, creandone altre. Non a caso è una saponetta, colorata, profumata, il motore della storia: il venditore seduce le sue vittime con l’oggetto che è la base della vanità e del piacersi ma che trasformata in arma diventa una triste metafora del fallimento dell’individualismo, dell’edonismo, del neo liberismo. E’ un film di denuncia in fondo, Free and Easy, che sostituisce il dramma esistenziale con l’ironia e che registra con acume gli sguardi attoniti dei protagonisti sorpresi nell’atto di scomparire. Davide Tomì

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Magic kimono

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eiko è un’artigiana esperta nel ricamo di kimono. È anche una donna di mezza età sola e affranta, che si lascia coinvolgere in un viaggio a Riga, in Lettonia, dove partecipa ad una sfilata di kimono. Qui indossa per la prima volta un kimono da lei ricamato molti anni prima, conservato con grande cura ma mai usato a causa del dolore luttuoso che esso le richiama. Il suo bagaglio viene perduto, e questo la lascia con quel kimono come unico vestito da indossare per alcuni giorni. Durante questo periodo più volte incontrerà il fantasma di una persona a lei familiare, forse richiamato dal kimono stesso. Il fantasma, col suo modo di fare melodrammatico, la aiuterà a prepararsi al ritorno verso casa, quindi verso il suo passato, e a riconciliarsi con esso.

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Quella che potrebbe essere una drammatica ghost-story sceglie di prendere l’insolito percorso della commedia, nel momento in cui alcuni imprevisti, per lo più dovuti ad incomprensioni verbali, portano Keiko a venire considerata un’importante celebrità giapponese, ed in quanto tale ad essere invitata a visite guidate private a Riga, incontri con imprenditori locali e spettacoli televisivi. Si tratta d’incontri segnati da continui fraintendimenti: Keiko parla in giapponese e si sente rispondere in lettone. Ciò porta la conversazione su binari del tutto inaspettati e talvolta surreali. Proprio in questo continuo “parlarsi senza capirsi” si svolge uno dei temi fondamentali di Magic Kimono: il

Maris Martinsons è un regista, sceneggiatore, montatore e produttore premiato a livello internazionale. Dopo essersi diplomato nel 1989 come “regista teatrale”, ha lavorato insieme a musicisti lettoni come regista / produttore indipendente per video musicali. Il suo primo, This Is My Car del gruppo Jumprava, è stato il primo video musicale indipendente della musica lettone e ha vinto il premio per il miglior video musicale nel 1990.

Regia Māris Martinsons Sceneggiatura Māris Martinsons Musica Osamu Kitajima Fotografia Gints Berzins Montaggio Maris Martinsons Costumi Baiba Ladiga Kobayashi Cast Kaori Momoi, Issei Ogata, Toms Liepajnieks, Andris Keiss Origine Lettonia, Giappone 2017, 102’ colore Lingua: giapponese, lettone Genere dramma famigliare, commedia, mistery Distribuzione Ant!pode festivals@antipode-sales.biz

contatto fra le culture lontane, per certi versi antitetiche, sicuramente molto diverse, della Lettonia e del Giappone. Culture la cui distanza è segnata, oltre che da lampanti diversità linguistiche, anche da una storia culinaria e architettonica del tutto opposta. Se da una parte, in cucina, il Giappone sceglie di sviluppare una simbiosi con la natura, che lasci i cibi il più possibile inalterati, le culture occidentali, stando alle parole del fantasma, vedono la cucina come una battaglia tra l’uomo e il cibo; al tempo stesso, le linee incantevoli e oniriche, per quanto rigide, della muratura della Riga semideserta esplorata da Keiko si contrappongono nettamente ai brevi scorci di vita giapponese che intravediamo, e che ci mostrano cittadine immerse nel verde. Ma non è una distanza incolmabile. Come ci ricorda l’evento, più volte richiamato nel film, della Catena Baltica, quell’evento che, nel 1989, portò due milioni di persone a prendersi per mano ed a formare una catena umana lunga 600 chilometri che unisse le capitali degli stati baltici, l’uomo è in grado di costruire un contatto tra le culture a prescindere dalla distanza geografica. E la vicenda di Keiko incoraggia a ricercare questo contatto, mostrandoci una Lettonia animata da una grande, per quanto talvolta imbranata, ricettività culturale, grazie alla quale, nonostante le perenni incomprensioni, la matassa di eventi nei quali la protagonista si ritrova avvolta piano piano si dipana, risolvendosi di pari passo al dramma della protagonista. Alex Isabelle


Malila: the farewell flower

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li ex amanti Shane e Pich cercano di guarire le ferite del loro passato. Shane è perseguitato dalla tragica morte della figlia, mentre Pich, che ha visto la madre fuggire dal villaggio accusata di stregoneria, soffre una grave malattia. Con l’avvicinarsi della morte, Pich dedica il suo tempo residuo a fare di Bai Sri, un ornamento cerimoniale. Shane diventato monaco buddista riceve la visita del suo amante che gli si presenta in un’altra forma. Avvincente e sincero, il potente film di Anucha Boonyawatana, senza mezzi termini ma con calma ci ricorda l’ineluttabile realtà della morte. Dalla sua radice come concetto agghiacciante e complesso, alla sua manifestazione nitida come forza decadente e irrefrenabile dell’universo, Malila: The Farewell Flower guarda alla morte da una varietà d’illuminanti prospettive. Il film intreccia con successo argomenti come la malattia terminale, la filosofia buddista, il potere terapeutico dell’arte e il romanticismo gay. Profondamente colpito dalla morte della figlia e dalla separazione dalla moglie, Shane sta collassando sotto il peso della vita quando al suo amico ed ex amante, Pitch, viene diagnosticato un cancro terminale. Sebbene Shane non sappia come gestire questa notizia, il suo compagno sembra sorprendentemente calmo, accettando la morte imminente. Mentre la malattia dell’uomo progredisce, Shane si riunisce con il suo amante e diventa sempre più determinato a continuare la sua vita come monaco buddista. Le immagini tranquille e rilassanti e le transizioni fluide sono le prime a distinguersi in Malila: The Farewell Flower. Raffigurando il naturalismo con grazia e calore, Boonyawatana porta un tocco delicato e rassicurante al tema torvo e straziante della morte. Le immagini sem-

Regia Anucha Boonyawatana Sceneggiatura Anucha Boonyawatana, Waasuthep Ketpetch Musica Chapavich Temnitikul Fotografia Chaiyapruek Chalermpornpanich Montaggio Lee Chatametikool, Chonlasit Upanigkit Suono Poolpetch Hatthakitkosol Cast Sukollawat Kanarot, Sumret Muengput, Anuchit Sapanpong Origine Thailandia, 2017 94’ colore Lingua thai Genere LGBT spirituale Production company G Village Co-Creation Hub International sales Reel Suspects, info@reelsuspects.com

brano scorrere senza sforzo mentre lo spettatore è immerso sempre più in profondità nella narrazione. La sceneggiatura non si occupa solo della perdita, della natura effimera dell’esistenza e dell’inevitabile dolore che deriva dal dolore. Affronta anche problemi come la malattia cronica, la frustrazione, l’incertezza e la pace trovata nella compagnia. Il film è anche un piacevole manuale di meditazione, nel quale lo spettatore assiste alla trasformazione del protagonista in raccoglimento e si dedica alla pratica meditativa. Gli ornamenti di Thai Bai Sri sono di importanza centrale per il film. Simile a una nota tradizione tibetana (i monaci lavorano per giorni per creare un mandala impeccabile con milioni di pezzi di sabbia che si adattano perfettamente tra loro, dopo di che lo distruggono), il film di Boonyawatana solleva la questione del reale significato della vita. Spesso si trova Pitch che trascorre i suoi ultimi momenti lavorando su un ornamento fatto di fiori di gelsomino intrecciati e foglie di banana. La metafora è la stessa - c’è qualche scopo nella vita o qualsiasi ragione per fare qualcosa visto che alla fine tutto sarà cancellato dalla morte? Ciò che il rituale del monaco dimostra è che, sì, anche se il Mandala (e allo stesso modo la vita) è temporaneo e alla fine distrutto, il processo della creazione, del miglioramento e della paziente composizione del bello ha in sé la ricompensa. Il fatto che alla fine scompaia non ha alcuna rilevanza per la sua delicatezza e importanza. Questa è la lezione che Pitch sembra imparare man mano che la pratica buddista lo assorbe completamente. Può l’ornamentale Mali (la parola thailandese per il fiore di gelsomino e uno stile di vita ascetico alleviare l’ego dai morsi della morte? Alexander Ryll - Gay Essential trad. http://gay-themed-films.com

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Anucha Boonyawatana è una regista indipendente thailandese e fondatrice di G-Motif Production, una delle più grandi società di produzione di video in Thailandia. Nel 2012, il suo cortometraggio Erotic Fragments n. 1, 2, 3 è stato proiettato in concorso al 62 ° Berlin International Film Festival. Il suo primo lungometraggio The Blue Hour è stato presentato per la prima volta al Berlinale Panorama nel 2015. Per Malila: the farewell flower ha vinto il Silver Screen Award come Miglior Regista al Singapore International Film Festival 2017.


Oh Lucy!

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etsuko Kawashima è un’impiegata sola in piena crisi di mezza età. Dopo aver deciso di prendere delle lezioni d’inglese per rendere meglio sul lavoro, scopre di avere una doppia identità: il suo alter ego americano, “Lucy”, è una donna spregiudicata e dedita all’avventura. Setsuko, forte della sua nuova personalità s’innamora perdutamente del suo insegnante, John. Quando questi scompare improvvisamente, Setsuko si lancia in una missione folle per ritrovarlo, finendo nella periferia desolante della California meridionale.

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L’ottimismo s’intrufola in Oh Lucy!. Un ammaliante racconto al di là delle previsioni sulle le stranezze di una donna, una parrucca tragica e un viaggio improbabile. La scrittrice-regista Atsuko Hirayanagi non spaccia un’idea preconfezionata su cosa significhi essere umano: lei fa qualcosa di più ingannevole e onesto, semplicemente tracciando le assurdità e le agonie ordinarie della vita di una donna in un racconto che attinge a tipologie e temi squishy - l’eccentrico solitario, lo scontro interculturale, il viaggio rivelatore. La regista ha una partner fantastica in Shinobu Terajima, che interpreta Setsuko, la nostra eroina irresistibilmente imperfetta. Per prima cosa si vede Setsuko su una piattaforma ferroviaria, un puntino grigio in un mare calmo di persone, molte delle quali indossano maschere chirurgiche bianche. Sta guardando avanti come se fosse persa nei suoi pensieri quando un uomo le passa accanto e salta da-

Atsuko Hirayanagi è una regista giapponese-americana, nata a Nagano e cresciuta a Chiba, in Giappone. Nel 2012 Ha vinto il Grand Prix al Short Shorts Film Festival in Asia. Il suo cortometraggio di tesi Oh Lucy! ha vinto più di 25 premi in tutto il mondo, inclusi premi al Festival di Cannes (2014), Sundance Film Festival (2015) e Toronto International Film Festival. La sua versione a lungometraggio di Oh Lucy! ha ricevuto il Sundance / NHK Award 2016.

Regia Shinobu Terajima Sceneggiatura Atsuko Hirayanagi, Boris Frumin Soggetto Atsuko Hirayanagi (dal corto omonimo) Fotografia Paula Huidobro Montaggio Kate Hickey Costumi Masae Miyamoto Musica Erik Friedlander Cast Shinobu Terajima, Josh Hartnett, Kaho Minami, Kôji Yakusho, Shioli Kutsuna Origine Giappone, USA. 95’, colore Genere commedia agrodolce Lingua inglese, giapponese Distributore Elle Driver Sales@elledriver.eu

vanti al treno in arrivo. C’è una pausa, gli attesi sospiri e uno scatto discreto della vittima. Poi Setsuko parte per un altro giorno di lavoro, un giorno come tutti gli altri eccetto che ora si trova immersa in una storia di identità, autoannientamento ed esistenza testarda. Questi elementi entrano in gioco in un arrangiamento elaborato e borderline ma che si dispongono in un ritratto piacevole dell’ultima occasione alla felicità una volta che le parti sono state esposte e i personaggi delineati. Tutto inizia quando la nipote di Setsuko persuade la zia riluttante a prendere lezioni di inglese con un americano, John, interpretato da un simpatico, comprensivo Josh Hartnett, mentre il grande Koji Yakusho interpreta un altro studente. John sembra ridicolamente mal equipaggiato per il lavoro: il suo discutibile metodo pedagogico include parrucche e nomi posticci. Ma dopo averle dato una parrucca bionda riccia e un abbraccio prolungato, inavvertitamente trasforma Setsuko in Lucy, accendendo una rivoluzione di sé. Dopo poco John scompare e Setsuko - appesantita con una grande valigia e con la sorella aggressiva, sempre comicamente arrabbiata - lo segue nel sud della California. Lì, tra la luce del sole e le ombre avvolgenti, Setsuko si ritrova e poi si perde mentre si scioglie e si cimenta in un selvaggio sport psicologico. Incespica e cade, interpreta Lucy e scivola di nuovo in una Setsuko radicalmente cambiata in un film nel quale la commedia umana è di volta in volta tenera, lamentosa, sentita e gioiosa. Manohla Dargis - trad. New York Times


Operation Mekong Méigōng Hé Xíngdòng

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ang Gao, il capo del Narcotics Corps, viene incaricato di condurre una squadra speciale sul fiume Mekong, nel Triangolo d’oro, uno dei più grandi cartelli di smercio della droga del mondo, per indagare sul ritrovamento di un carico di metanfetamine dopo che due mercantili cinesi sono stati attaccati e gli equipaggi uccisi. Nel frattempo, Fong, un agente dei servizi segreti, è sulle tracce di un temuto narcotrafficante. Basato su una storia vera, il film tratta di una grave problematica molto attuale in Asia: la produzione di droga nel Triangolo d’Oro, zona tristemente famosa tra il Myanmar, il Laos, la Thailandia ed il Vietnam. In quest’area i criminali esercitano la propria autorità con qualunque mezzo dalla corruzione all’omicidio. A seguito della morte di tredici passeggeri di una nave cinese che incautamente percorreva il delta del Mekong (fiume che attraversa tutti gli stati summenzionati) controllato dal narcotraffico, i governi di Thailandia, Laos e Cina uniranno le forze per catturare i responsabili dell’accaduto. In Operation Mekong viene mostrato un armamentario militare e tecnologico di vastissima gamma comprendente, tra l’altro, elicotteri, microchip per la localizzazione e tan-

Dante Lam classe 1965 è un noto regista e sceneggiatore di cinema d’azione contemporaneo, conosciuto per Unbeatable (2013), Jik zin (2012) Sin yan (2010). Già aiuto regista in alcuni film di John Woo, collabora con il regista Gordon Chan con il quale ha vinto l’Hong Kong Film Award come miglior regista per Beast Cops.

Regia Dante Lam Sceneggiatura Kang Kei Chu, Dante Lam, Siu Kwan Lau Musica Julian Chan, Henry Lai, Kwan Fai Lam Fotografia Yuen Man Fung Montaggio Jordan Dieselberg, David M. Richardson Direzione artistica Kin-Wai Lee Cast Joyce Wenjuan Feng, Baoguo Chen, Xudong Wu Origine China, Hong Kong 2016. 124’ colore Lingua Mandarino, Cantonese, Inglese, Thai, Birmano Genere Action thriller Sales Distribution Workshop dw@distributionworkshop.com Distribution Tucker film tucker@tuckerfilm.com

to altro, come a voler dimostrare la grandiosità e la ricca dotazione in forza all’autorità per la sicurezza cinese (la quale fornisce i principali uomini e mezzi). Sparatorie, esplosioni, guide spericolate, combattimenti a mani nude che richiamano le arti marziali e piani arditi non mancano da buon film d’azione cinese che si rispetti. In questo film non è tanto importante la psicologia dei personaggi, alquanto allineata all’immaginario standardizzato per questo genere, bensì l’immagine del narcotraffico descritto in maniera molto precisa e dettagliata: dalla produzione, alla distribuzione al consumo e agli eccessi che ne derivano. Sono interessanti e inquietanti alcune scene che mostrano la realtà dei bambini soldato assoldati dai narcotrafficanti e il poco valore della loro vita per i criminali. Molto significativo è anche mostrare il connubio fra l’industria “onesta” e criminalità che fa capire quanto questa realtà sia radicata e come potrebbe annidarsi senza destare sospetti. In definitiva Operation Mekong si rivela un buon film sia dal punto di vista dell’intrattenimento puro sia sul mostrare un tema delicato e attuale come il traffico di droga in Asia, problema che spesso in Occidente non è portato a conoscenza delle persone. Dario Sturloni

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Pedicab Pawi’na

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ealizzando la futilità della loro vita in città, Mang Pepe convince la famiglia a tornare nella loro città natale a Bicol. Non avendo abbastanza denaro per il trasporto. Mang Pepe e sua moglie, Remedios, la loro figlia Pina, il loro figlio JP con la moglie incinta e cieca Isabel con il loro cane Kikay e Gesù, decidono di usare un pedicab (taxi a pedali) in modo da poter “pedalare” verso la provincia. Il loro viaggio sarà costellato da incontri, perdite e rivelazioni trasformando il ritorno a casa a pedali in un’epica di vita.

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La periferia fatiscente, le baraccopoli, le famiglie che vivono alla giornata. La fede, come unico lenitivo nella coltre miserabile che attanaglia gli emarginati, i derelitti, gli abbandonati. La speranza, il viaggio. Che il film di Paolo Villaluna sia un road movie anomalo lo si può intuire già dalle prime sequenze, dall’atmosfera stantia che traspira da ogni anfratto, dalla precaria sedentarietà del nucleo famigliare protagonista; inizialmente restio alla decisione di muoversi, se non come ultima spiaggia. Di fatto i cinque un giorno partono, in sella ai pedicab da cui prende il titolo internazionale il film di Villaluna (i pedicab, dei risciò

Paolo Villanova lavora dal 2001 come autore di apprezzati e premiati cortometraggi e documentari. Dal 2005 con la coregista Ellen Ramos ha dato vita ad un trittico di lungometraggi denominato Love Trilogy. Pedicab è il suo quarto film con il quale si è aggiudicato sei premi importanti al Tofarm Film Festival.

Regia Paolo Villaluna Sceneggiatura Paolo Villaluna, Ellen Ramos Musica Pike Ramirez, Veena Ramirez,Paolo Villaluna Fotografia Sasha Palomares Montaggio Ellen Ramos, Paolo Villaluna Production Design Maolen Fadul Suono Andrew Milallos Cast Bembol Roco, Cherry Pie Picache, Meryll Soriano Origine Filippine, 2016 122’ colore Genere Road movie Lingua Filippino Tagalog Distribuzione Paolo Villaluna paolo.villaluna@gmail.com

trainati da biciclette). La meta del viaggio: il ritorno alla campagna. Là vi troveranno altre favelas, altro proletariato, altre difficoltà. Forse allora sarebbe doveroso dimenticare il canovaccio classico del film di formazione quando si parla di Pauwi na e di road movie. Il viaggio c’è - ed anche un progresso formativo - ma è primariamente un viaggio metafisico, astratto; un viaggio le cui tappe sono scandite dal sogno, lungo brevi sequenze oniriche in bianco e nero che paiono specchiare gli animi e le emotività dei membri della famiglia. La resilienza del gruppo in seguito alle avversità e alle perdite è il primo passo verso la destinazione, un riverbero che per riflesso amplia la visione sul circostante dei protagonisti. L’omogeneità contestuale concomitante nelle location riassume il concetto; non è un posto, ma una mentalità a sciogliere definitivamente i nodi comportamentali che condannavano i caratteri. E’ fisico, quasi tangibile, il Gesù con cui Isabel si ferma a interloquire prima dei titoli di coda. E’ netto e determinante l’attimo in cui la fede ribalta lo sguardo della donna, verso un fuori campo sullo sfondo del traguardo: il punto d’arrivo è il paradiso in terra? Tommaso Pagnutti – Shiva produzioni


POP AYE

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hana è un architetto di mezza età di Bangkok in piena crisi umana, professionale e coniugale. Una sera durante il viaggio di ritorno verso casa con la moglie, nota un elefante usato come intrattenimento per bambini in un fatiscente circo ambulante. Nell’elefante riconosce il suo vecchio Popeye, il compagno di giochi battezzato con il nome dell’eroe a fumetti americano con il quale era cresciuto da bambino nel suo villaggio rurale. Decide allora di comprare l’animale e intraprendere con lui un viaggio a ritroso verso la casa della propria infanzia, nella provincia di Loei, Isan alla ricerca delle proprie radici e di un senso alla vita che non riconosce più essere sua. Stralunato road movie con pachiderma. Un road movie lento, a passo d’elefante, ingombrante simbolo di un tempo passato, spensierato e felice. Come un fumetto, come Popeye. Le due figure che si staccano dalla morfologia contemporanea della Bangkok proiettata nel futuro, sono anime gemelle che ripercorrono ognuno la propria strada a ritroso, alla ricerca di un passato ormai rimosso da una società in evoluzione che non ha memoria né rispetto. Non c’è posto per l’elefante nella Thailandia moderna, non c’è posto per Thana, architetto che reagisce all’inevitabile disgregarsi della propria vita aggrappandosi appunto alla memoria. Una memoria d’elefante, vien da dire. O forse no. L’importante è il viaggio, assaporare il gusto della strada, la chimera del ritorno accarezzando gli unici ricordi spensierati e felici appallottolati in un antro nascosto della memoria, in quel povero villaggio dove Popeye era il fedele compagno di giochi.Al viaggio verso le proprie radici corrisponde per il protagonista il viaggio interiore attraverso le paure più intime, all’inseguimento di un flashback della propria vita che sembra sfuggirgli man

Kirsten Tan è una regista nata a Singapore nel 1981. Ha vissuto in Corea del Sud e in Thailandia prima di trasferirsi a New York, dove ha ottenuto un Master in produzione cinematografica alla New York University. Pop Aye è il suo primo lungometraggio che è stato proiettato in anteprima mondiale come film d’apertura al Sundance Film Festival 2017 e ottenendo il Premio speciale della giuria per la miglior sceneggiatura. Prima di Pop Aye la regista ha vinto numerosi premi internazionali con i suoi lungometraggi - 10 minuti dopo, Fonzi, Sink, Cold Noodles e Dahdi - e ha lavorato con Giorgio Armani, TED Talks, Heineken e Credit-Suisse per la creazione di video commerciali. Nel 2015 le è stato conferito il Young Artist Award dal National Arts Council di Singapore.

Regia, soggetto e sceneggiatura Kirsten Tan Interpreti Penpak Sirikul, Thaneth Warakulnukroh, Nattavut Trivisvavet, Bong Musica Matthew James Kelly Fotografia Chananun; Chotrungroj Montaggio Lee Chatametikool Origine Thailandia, Singapore; 2017 durata 104’ colore Lingua Thai Genere Commedia amara Distribuzione Cercamon sebastien@cercamon.biz

mano che avanza (indietreggia) verso di esso. Rimosso senza pietà dalla società rampante, evitato dall’appagata e triste moglie che nello sguardo non ha più anima, Thana da architetto che era distrugge ogni appiglio della propria vita, si aggrega alle anime decretate sconfitte dal mondo che incontra nelle strade facendo tesoro della loro prorompente umanità. La ricostruzione del sé interrotto passa attraverso il riappropriarsi di uno sguardo innocente del mondo, senza giudizio, senza quelle sovrastrutture che impongono una sentenza su ogni aspetto della vita. La strana coppia si muove con sorprendente leggerezza, invade l’orizzonte come una visione mistica, ingombra il quadro con insolenza, condivide il tempo con i comprimari incontrati on the road donando loro un po’ della loro storia. Un po’ comici, un po’ tragici, questi due clown feriti sono gli ultimi ribelli di una società che si è sganciata dall’anima lasciando solo deserto. La lentezza, i silenzi, la pesantezza, la dolcezza degli sguardi, il desiderio di un cambiamento che tenga conto di ogni singolarità (reietto, trans, architetto, elefante che sia) sono i soli strumenti reazionari a disposizione per non arrendersi a un’esistenza che non appartiene più a nessuno dei due. Il registro leggero ed equilibrato che la regista Kirsten Tan tiene in maniera ferrea per tutta la durata del film è una delle componenti di maggior valore dell’opera, riuscendo a stemperare il dramma acido che si dipana tra le strade fuori Bangkok senza scadere nella farsa nei momenti più felici. Complice anche il lavoro di uno straordinario attore come Thaneth Warakulnukroh, capace di condensare in uno sguardo il complesso spettro delle emozioni che vive il suo protagonista, capacità che gli consente di ritagliarsi una nicchia nel cuore dello spettatore, testimone di un’opera realmente emozionante. Davide Tomì

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Silent mist Chen Wu

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el sud della Cina, in una piccola città rurale attraversata da un canale navigabile, uno stupratore si nasconde nell’ombra. Una scolara, una giovane donna e una giovane coppia sembrano non essere in grado di affrontare il pericolo che si cela tra i vicoli e quello che deriva dai loro concittadini moralmente corrotti. Tuttavia, invece di insorgere, il villaggio rimane in silenzio e solo un truffatore promette ai genitori delle vittime di risolvere il caso. Ispirato da una storia vera.

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Al quarto film e ancora con finanziamenti francesi il regista Zhang Miaoyan dirige l’ennesimo progetto radicale e “invisibile”, privo di distribuzione in patria e votato ad una minuscola diffusione festivaliera. Certo, di fruizione complessa si tratta e nel cercare un contesto in cui calarlo si può adottare, con i debiti distinguo, una sorta di comunione con il fiorente filone del noir d’autore cinese contemporaneo. Genere ormai accolto in toto dai Festival (basti citare il Leone d’Oro a Jia Zhangke per Still Life o l’Orso d’Oro a Diao Yinan per Black Coal, Thin Ice), dotato di riconoscibilità e coerenza, ma libero e sperimentale nei temi, nella narrazione, nelle possibilità stilistiche. Il posizionamento geografico il più delle volte provinciale e rurale, lo scavare nel marcio, nei contrasti, nelle contraddizioni non sempre così banali e immediate come vorremmo -e vorrebbero farci- capire; è qui che nasce il migliore cinema cinese contemporaneo, lontano anni luce dai pixel fluorescenti e dal gigantismo capitalista del blockbuster locale. E’ qui che il genere viene adottato magistralmente per realizzare il più rigoglioso cinema d’autore, è qui che si infrangono censure e si sperimentano le strade più

Regia Miaoyan Zhang Sceneggiatura Wang Lianggui, Roelof Jan Minneboo Fotografia Miaoyan Zhang, Xu Zhiyong Montaggio Miaoyan Zhang Cast Wang Gufu, Chulan Hu, Yang Xiaojiang Origine Cina, Francia 2017 101’ colore Lingua cinese Genere dramma d’atmosfera Distributore Pascale Ramonda pascale@pascaleramonda.com

azzardate che poi lentamente (ma in maniera estremamente rapida, se vista in prospettiva) vengono assorbite anche dal cinema più commerciale e popolare. In questo caso una “ancient water town” nei dintorni di Shanghai è percossa da una serie di stupri seriali, ispirati a degli eventi realmente avvenuti. Se nel genere, o meglio, filone di cui stiamo parlando gli esperimenti stilistici arditi sono base comune su cui costruire la narrazione, in Silent Mist siamo di fronte ad uno degli esperimenti più viscerali. Lo spettatore deve infrangere l’essenza primaria del cinema, quella comunicativa, disaffezionarsi alla narrazione e alla storia. La macchina da presa infatti si muove in estenuanti piani sequenza, spesso in soggettiva, che si incollano con piglio quasi feticista ai corpi dei personaggi, figurine trasparenti e intercambiabili, sorta di pedine asettiche su cui scagliare tutti i mali del mondo. E nel farlo striscia, cozza, percorre, sprofonda nelle partiture architettoniche del paese, lungo i suoi canali, nei vicoli labirintici, sotto ai “langpeng” (tipici percorsi porticati che affiancano il canale), nelle corti delle case monopiano. Osserva freddamente i corpi femminili che si muovono tra gli elementi, nell’acqua, tra la nebbia e la polvere, lungo muri seccati dal sole e su cui sono abbandonati a stagionare interminabili file di insaccati. Il vero protagonista ecco essere una materica coppia composta dal paese e dagli elementi che attivano i sensi; lo sciabordio delle acque percorse dalle silenti “gondole”, una fotografia cinerea, un’atmosfera stordente tra echi di Kim Ki-duk frammisti a brandelli di cinema taiwanese e inusitate libertà stilistiche impensabili nel cinema cinese fino ad una manciata di anni fa. Michele Senesi- Asian Feast

Miaoyan Zhang classe 1964, Manciuria, Cina. Cresciuto durante la rivoluzione culturale, per anni non ha potuto vedere film e i suoi libri sulla Cina contemporanea non sono stati pubblicati per via della censura. Nel 2006 ha girato il suo primo film A Corner of Heaven al quale hanno fatto seguito Black Blood, Xiaolin Xiaoli e Silent Mist.


The Great Buddha +

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ickle lavora alle dipendenze del facoltoso Mr. Kevin Huang come guardia si sicurezza notturna in uno stabilimento specializzato nella fabbricazione di statue del Buddha in bronzo. Saltuariamente viene a fargli visita Belly Button, un amico che durante il giorno raccoglie rifiuti da riciclare. Nei loro incontri notturni nel gabbiotto di Pickle, il loro più grande piacere e distrazione dalla noia di vivere è sfogliare le riviste porno che Belly Button raccatta durante il lavoro, fare spuntini e guardare la televisione. Una sera la televisione si guasta e i due amici decidono di spiare i file del computer che registra la telecamera montata sulla macchina di Mr. Huang. Vengono così alla luce i loschi affari del padrone che mettono i due amici in pericolo, cambiando radicalmente la loro vita. The Great Buddha + è il film di debutto del regista Huan Hsin-Yao, documentarista taiwanese. Il nome trae origine da un corto del 2014, The Great Buddha, incentrato sulla corruzione della società di Taipei. Incontrando il favore di due produttori, nel 2017 Huan crea un’extended version, cui attribuisce un simbolico, quanto chiaro, “+”. Con sua stessa sorpresa, The Great Buddha + è stata la rivelazione dell’anno dell’industria cinematografica dell’isola: il film conquista diversi premi al Taipei Film Festival, nonché ai Golden Horse Awards, come “Nuovo Miglior Regista”, “Miglior Colonna Sonora Originale”, “Miglior Cinematografia”. E’ indubbiamente facile intuire perché. La pellicola è basata, fin dalle prime battute della voce fuori

Hsin-yao Huang è un regista e produttore nato a Tainan, Taiwan nel 1973. La prima parte della sua carriera è focalizzata sulla realizzazione di documentari. Dal suo corto del 2014 The Great Buddha ha tratto il suo lungometraggio d’esordio di The Great Buddha + con il quale ha vinto il 19th Taipei Film Festival, il Golden Horse Film Festival come miglior regia e miglior sceneggiatura non originale e il NETPAC Award al Toronto Film Festival del 2017.

Regia, soggetto e sceneggiatura Hsinyao Huang Interpreti Cres Chuang, Bamboo Chu-Sheng Chen, Leon Dai Musica Sheng-Xiang Lin Fotografia Mong-Hong Chung Montaggio Hsiuhsiung Lai Origine Taiwan 2017, b/n e colore, 102’ Lingua Min Nan Genere black comedy Distribuzione Mandarin Vision junyu.shi@mandarinvision.com

campo - quella del regista stesso - su radici oniriche, di racconto e di realismo. Le riprese in bianco e nero donano un senso di leggerezza, in netto contrasto con le vite di Pickle e Belly Button, che si dipanano nella loro quotidianità difficile. La dash-cam dell’automobile del datore di lavoro di Pickle, Kevin Huang, ritrae invece scene colorate, ma spesso notturne. E’ qui che il realismo s’insinua e si collega perfettamente alla dimensione precedente, dipingendo una vita privata fatta sì di ricchezza, ma che eccede in privilegi e lascivia, fino a culminare in un finale quanto mai sorprendente, sebbene climax logico della “vita sopra le righe”. Nonostante la voce narrante, il film è silenzioso: i lunghi primi piani su i visi dei personaggi, le riprese del loro profilo o dei luoghi che abitano, definiscono la loro condizione di vita. Lo spettatore è partecipe nei confronti dei due protagonisti; assiste ai momenti di misticismo che il Buddha dona, fornendo una pausa narrativa, circondato da un fascio di luce; intuisce lo scorrere del tempo, che l’assemblaggio della statua testimonia. Il boss Huang, al contrario, conduce un’esistenza “estetica”: lusso, potere e libertà - poter vivere la notte senza regole – s’intersecano, in una dinamica dalle conseguenze negative, di frustrazione ed annientamento dei sentimenti. Traendo spunto dalla Sunflower Revolution (2014) e dall’incredibile seguito del movimento studentesco taiwanese, il regista riflette sul contributo che le persone al limite dell’indipendenza economica possono offrire alla società, senza mai scadere in una sensazione di pietà. Federica Losi

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The night i swam Takara - La nuit où j’ai nagé

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ella regione più fredda del Giapponse, Aomori, la neve ha coperto le montagne. Tutte le notti un pescatore si alza per andare al mercato del pesce in città, esce che ancora la famiglia sta dormento e ritorna la sera tardi. Il figlio di sei anni tutte le notti sente il padre uscire di casa e un giorno, incamminatosi per andare a scuola, decide di allontanarsi dalla strada per raggiungere il padre al lavoro affrontando la distesa di neve che lo separa dal genitore.

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I registi Damien Manivel e Kihei Igarashi si sono conosciuti in occasione del festival di Locarno nel quale presentavano le loro rispettive opere. Insieme decisero che avrebbero girato un film insieme e la ricerca di idee li ha portati nel nord del Giappone, a Aomori (che significa “la foresta verde”) in una delle zone più fredde e innevate del paese. Qui hanno fatto la conoscenza con un pescatore e con suo figlio, Takara, di sei anni. Il padre lavora in città, esce presto e ritorna tardi. Il tempo da trascorrere con la famiglia e il figlio è pochissimo. Padre e figlio recitano nel film interpretando loro stessi aderendo in maniera mimetica alle loro vite. Su questa realtà i due registi hanno montato una storia esemplare di grande impatto emotivo che supera l’aspetto biografico, comunque esistente, per diventare specchio della società giapponese contemporanea, così comune ormai ad altre realtà sociali: l’aspetto della sussistenza, del sacrificio quotidiano, porta a rimuovere gli aspetti più profondi della vita lasciando al tempo la responsabilità delle conseguenze di quella scelta obbli-

Regia, soggetto e sceneggiatura Kohei Igarashi; Damien Manivel Musica Jérôme Petit Fotografia Wataru Takahashi Montaggio William Laboury Interpreti Chisato Kogawa; Keiki Kogawa; Takara Kogawa; Takashi Kogawa; Yûji Kudô Origine Jappone, Francia. 79’ colore Genere delicato Lingua senza dialoghi Distributore Shellac felicie@shellac-altern.org

gata. E’ un loop senza fine, la vita del bambino, inscritta in una bolla temporale nella quale la presenza genitoriale è un ricordo di un sogno sfumato tra sonno e veglia, il sapore dimenticato di una carezza mattutina, una voce in lontananza al ritorno. Diviso nei tre capitoli Il disegno; Il mercato del pesce; Un lungo sonno, The Night i Swam è un’abbacinante fiaba intessuta di poesia sull’amore e il desiderio. Il desiderio di vedere il padre da parte del piccolo Takara che come Cappuccetto Rosso abbandona il sentiero inoltrandosi nella coltre bianca che divide lui dal genitore, diventa un viaggio di formazione nel quale il contesto si rivela fondamentale e significativo nel momento in cui il bambino lo attraversa e lo plasma con i suoi occhi innocenti. Non ci sono lupi, in questo film, non ci sono pericoli se non quello instillato dalla percezione universale di un bimbo solo in viaggio, ma è appunto solo una percezione. Il mondo non è ostile, solo indifferente. Non ci sono parole perché non c’è bisogno di spiegare nulla, le pazienti riprese a camera fissa e il sonoro diegetico ambientale esaltano la naturalezza della presenza del bimbo sullo schermo. Takara sullo schermo è una presenza quasi chapliniana, esterrefatta di fronte al mondo ma per nulla spaventato, naturalmente buffo, colorato, capace di trovare poesia dove un adulto neppure guarderebbe. La cattura di ogni sguardo velato d’impalpabile tristezza e di ogni sorriso, è un sincero inno alla bellezza dell’essere bambino alla ricerca della propria strada e all’endemico stimolo all’auto realizzazione della propria vita. Davide Tomì

Kohei Igarashi e Damien Manivel sono una coppia di registi, il primo giapponese e il secondo francese alla loro prima collaborazione. Damian Manivel ha vinto nel 2012 Discovery Award al festival di Cannes per Un dimanche matin (2012) e Locarno International Film Festival ha ottenuto una menzione speciale - Filmmakers of the Present - per Un jeune poète (2014).


The seen and unseen Sekala Niskala

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antra e Tantri sono fratello e sorella inseparabili . Quando rubano le uova dall’offerta sacrificale della famiglia, Tantri vuole sempre l’albume e Tantra prende il tuorlo. Un giorno, però, il tuorlo viene a mancare, così come Tantra viene trasportato in ospedale gravemente malato. Afflitta dalla situazione, Tantri inizia a scivolare in magici mondi paralleli, preparandosi all’inevitabile addio attraverso costumi, body paint e danza. The seen and the unseen è un’apologia della contraddizione fin dall’inizio. Il visto (seen) e il non visto (unseen) non solo si completano e si assimilano (come i due gemelli protagonisti) ma mai come in questa sede l’uno contraddice il senso dell’altro. Da un lato c’è chi si prepara a scomparire, a lasciare il mondo materiale per avvicinarsi alla dimensione misteriosa della morte, che non si può raccontare se non attraverso i simboli, perché presente nell’inconscio ma allo stesso tempo “Terra sconosciuta dalla quale nessun viaggiatore ritorna” (Shakespeare, Amleto). Dall’altro c’è chi si rassegna a restare, ad essere visto e ad osservare a sua volta, protetto dalla sicurezza della materialità ma non dal dolore della perdita. E’ così che anche un tema scottante come quello del lutto infantile, affrontato in Occidente spesso attraverso la drammatizzazione e la demonizzazione della morte, in questa produzione di Kamila Andini viene percepito anche nella sua dimensione salvifica: la morte è allo stesso tempo violenta e magica nei confronti dei bambini, un tradimento agli occhi della genitorialità e un sollievo perché pone fine alla sofferenza del proprio figlio. Soprattutto nella madre e in generale nel femminile (il simbolo della

Kamila Andini è nata a Giacarta, Indonesia nel 1986, ha studiato sociologia e arti multimediali alla Deakin University di Melbourne, in Australia. I suoi film si concentrano su argomenti socio-culturali, uguaglianza di genere e questioni ambientali. Il suo debutto alla regia, The Mirror Never Lies, sulle vite dei nomadi del mare indonesiano è stato proiettato nella Berlinale Generation del 2012. The seen and unseen è il suo secondo lungometraggio.

Regia Kamila Andini Sceneggiatura Kamila Andini Fotografia Anggi Frisca Montaggio Dinda Amanda, Dwi Agus Musica Yasuhiro Morinaga Costumi Retno Ratih Damayanti Cast Ni Kadek Thaly Titi Kasih, Ida Bagus Putu Radithya Mahijasena, Ayu Laksmi, I Ketut Rina Origine Indonesia, Olanda, Australia, Quatar 2017, 83’ colore Lingua indonesiano, balinese Genere dramma spirituale Venditore internazionale Cercamon, Dubai, United Arab Emirates hello@cercamon.biz Distribuzione Cercamon, sebastien@cercamon.biz

generazione per eccellenza) emerge, attraverso un’analisi psicologica molto fine, il senso di lacerazione e la tendenza, tutta umana, al vedere e al prestare attenzione al dolore e alle disgrazie (il bambino malato) ma contemporaneamente nel trascurare la gioia, la vita, ciò che resta (il bambino sano). La perdita dell’equilibrio fra la gioia e il dolore è il leitmotiv che nel buddismo sancisce l’origine della sofferenza umana. A ciò, il film, la vita e la religione pongono un solo rimedio: l’accettazione. Il concetto di accettazione, indissolubilmente legato a quello di elaborazione del lutto, qui è un contemporaneamente processo e illuminazione, attesa e repentinità. Ogni personaggio del film elabora la perdita a suo modo: con il canto, con la danza, con il travestimento e lo storytelling. Qualsiasi mezzo viene usato, tranne la parola (quando non evocativa o melodiosa), che è portatrice di significati per la mente (l’adulto), ma che per l’anima (il bambino) non può fare molto. Nel dolore e nella gioia più profonda non si può trovare il logos; qui la volgarità della parola e del buonsenso vengono sommersi dalla dimensione spirituale. Il film esteticamente è fresco e sussurrato. Si snoda serpentino su vuoti pienissimi, facendo affidamento nient’altro che su una cornice poetica come le risaie dell’Indonesia e sull’assenza di trama per spaesare ulteriormente l’osservatore, già sufficientemente colpito dall’accostamento disturbante di infanzia e morte. Eppure, dove l’occhio dello spettatore si perde, il suo inconscio si ritrova e la contraddizione si rivela: nel dolore c’è anche la gioia, nella semplicità dei giochi infantili risiede la complessità del simbolo, nella morte può trovarsi la vita. Laura Beltrami

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The Way Station Đảo của dân ngụ cư

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l proprietario del ristorante White Night è un padre padrone spaventoso. La figlia Chu, paralizzata alle gambe, vive reclusa nell’alloggio sopra il ristorante, nascosta al mondo dalla vergogna del padre. Phuong è un vagabondo che trova lavoro nel ristorante e stringe amicizia con il giovane Mien, ragazzo selvaggio e libero. La vita dei tre ragazzi viene stravolta quando la passione si insinua nel loro rapporto trasformandolo in un pericoloso triangolo amoroso.

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Continuiamo a sapere poco del cinema vietnamita. Difficile ricordarsi titoli di film oltre a quelli di Tran Anh Hung che hanno raggiunto visibilità internazionale a metà degli anni Novanta conquistando premi a Cannes e Venezia. E qualcosa dello stile del noto regista, forse rischiando di fare un paragone improprio, sembra ritrovarsi in The Way Station (Dao cua dan ngu cu) di Anh Hong. In particolare nella composizione di alcune inquadrature, nei lenti movimenti di macchina, nell’attenzione allo spazio architettonico all’interno del quale si svolge la scena. Aspetti formali sicuramente interessanti, capaci di catturare l’occhio dello spettatore e di valorizzare quella che è un’opera prima. All’esordio dietro la macchina da presa, ma con alle spalle diverse esperienze come attrice, Anh Hong adatta un racconto dello scrittore Do Phuoc Tien ambientato, come si capisce dalle prime immagini, in un villaggio vicino al mare. La storia però si sviluppa quasi completamente in un ambiente circoscritto: un edificio che ospita un ristorante e gli alloggi della famiglia del titolare oltre allo spazio

Hong Anh è Pham Thi Hong Anh nata nel 1977. E’ una famosa attrice vietnamita che ha vinto numerosi premi in festival nazionali e internazionali. The Way Station è il film di debutto da regista, film al quale pensava da 10 anni. Con The Way Station Hong Anh ha vinto i premi come Miglior Film, Miglior Attore e Miglior Fotografia all’Asean International Film Festival.

Regia Anh Hong Sceneggiatura Do Phuoc Tien Cast Hoang Phuc Nguyen, Ngoc Hiep Nguyen, Hong Phuoc Pha Effetti visivi David Guibal Fotografia Ly Thai Dzung Montaggio Julie Béziau Origine Vietnam 2017, 93’ colore Lingua Vietnamita Genere Dramma sentimentale Distribuzione Blu Production tuananh.vu@bluevietnam.vn

dove vivono il cuoco e i suoi aiutanti. Uno di questi, appena arrivato, è il giovane Phuoc che in breve tempo fa amicizia con Mien il quale si occupa delle capre, specialità di carne del ristorante guidato da un uomo di origini cinesi. Un uomo duro, di poche parole, che mostra anche un lato amorevole nella cura della figlia costretta sulla sedia a rotelle causa disabilità alle gambe. Chu, questo il suo nome, vive però quasi segregata nella sua stanza al piano di sopra del locale. Phuoc, attirato dalla sua bellezza, comincia a interessarsi alla ragazza e scopre un modo di intrufolarsi nella sua camera dalla finestra. Ovviamente a insaputa del padre. Fulcro della narrazione risulta essere proprio l’avvicinamento romantico tra i due giovani, almeno fino a un momento di svolta che aggiunge alla storia un carattere anche torbido abbastanza inaspettato. Il punto di vista è quello di Phuoc, l’assunto generale del film sembra essere invece una riflessione su come il destino di ognuno sia segnato dalle persone che incontriamo nel corso della vita. Incontri magari anche brevi, ma non per questo meno decisivi, come una sosta a una stazione. Lo suggerisce anche a inizio film una voce fuori campo, quella del protagonista. Personaggio delineato in modo quasi sfuggente, tanto che risultano ancora più efficaci e conquistano maggiore attenzione i ruoli secondari come quello del padrone del ristorante e della moglie. A farsi apprezzare è soprattutto il racconto dell’ambiente, come fosse un personaggio, con una bella fotografia che sfrutta gli spazi del locale dove si svolge la storia. Fabio Canessa - AsianWorld.it


Giuria EstAsia 2018

Marcello Cesarini: è nato nel 1957 a Correggio, dove vive e lavora. In trent’anni di attività ha realizzato video di ogni tipo, documentari, videoclip musicali, lavori per il teatro, ecc., quasi tutti in coppia con Maria Rosa Davolio. La ruota spezzata (1995) è stato uno dei primi documentari realizzati sui Sinti in Italia. L’acqua e il vino (2004) è stato premiato da Morando Morandini al Festival di Brescello. Alcuni degli ultimi lavori li ha girati in pellicola superotto. Il passaggio sulla terra (2014), di Marcello Casarini con Maria Rosa Davolio è passato nella rassegna You Make me film di Correggio (RE). Mirca Lazzaretti: nasce a Reggio Emilia nel 1971, vive a Montecchio Emilia (RE) laureata in Scienze Biologiche e lavora presso il Dipartimento di Bioscienze dell’Università di Parma. Da lungo tempo alla attività didattica e di ricerca scientifica affianca quella di fotografa e film-maker, esponendo le proprie opere durante eventi nazionali ed internazionali. La sua personale ricerca artistica risulta fortemente influenzata dal percorso scientifico conseguito e dalla elaborazione di un peculiare vissuto personale. - Attività Espositiva Recente: • Okulation auf das schlafende Auge (Innesto a gemma dormiente) (2017) • messa in forma ART MADRID 2016, Madrid, Spagna - Videoart: • Aiutaci a stare in piedi Spot televisivo - Pubblicità Progresso, in proiezione sulle reti nazionali (RAI per il Sociale, Mediaset, Sky, La7), 2017 • Shimamoto: bottle crash Cortometraggio, in “Shozo Shimamoto Oriente ed Occidente”, Fondazione Palazzo Magnani, Reggio Emilia • Via Bligny 52 Film Documentario, “Scuola di Cinema Popolare” Maico Morellini: classe 1977, vive in provincia di Reggio Emilia e lavora nel settore informatico.

Con il suo primo romanzo di fantascienza, Il Re Nero, ha vinto il Premio Urania 2010, pubblicato nel novembre del 2011 da Mondadori. Ha pubblicato racconti su diverse antologie tra cui “365 Racconti sulla fine del mondo”, “50 sfumature di sci-fi”, “D-Doomsday”, “I Sogni di Cartesio”, “Ma gli androidi mangiano spaghetti elettrici”,”Propulsioni d’improbabilità” oltre che sulla rivista “Robot” e sulla “Writers Magazine Italia”. Nel 2014 ha creato per Delos Digital la serie hard science fiction I Necronauti e ha pubblicato sempre per Delos Digital diversi racconti horror, weird e di fantascienza. Il suo secondo romanzo di fantascienza. Collabora con la rivista di cinema Nocturno e scrive sul portale italiano di FOX.

STAFF EstAsia

Cristiano Barsotti, Sara Barbieri, Laura Beltrami, Anna Bennicelli, Massimo Bonazzi, Enrico Campovecchi, Luca Capuano, Filippo Ferrari, Alex Isabelle, Federica Losi, Matias Magnani, Fausto Mazzoni, Graziano Montanini, Dario Sturloni, Davide Tomì

TRADUZIONI

Melissa Franceschini, Francesco Luccarda, Sara Pettinelli, Michela Sgarbi, Teresa Fama, Ludovica Consorte, Giulia Antonielli, Francesca Moschella


Programma EstAsia 2018 Martedì 5 giugno - Arena Stalloni Anteprima EstAsia Ore 21,45 - A Taxi Driver Regia: Hun Jang (Sud Corea 2017 134’) In collaborazione con Arci Reggio Emilia

Lunedì 11 giugno - Cinema Rosebud Cina Criminale Ore 20.15 - Operation Mekong Regia: Dante Lam (China, Hong Kong 2016 124’) Anteprima italiana In collaborazione con Associazione Accqua; Associazione Bella cultura - Jia wen 22.30 - Free and easy Regia: Jun Geng (Cina 2017 97')

Mercoledì 13 giugno - Cinema Rosebud Architetture Ore 20.30 - Columbus Regia: Kogonada (Corea del Sud, USA 2017 104’) Il film sarà preceduto da una breve introduzione. In collaborazione con Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della Provincia di Reggio Emilia. Ore 22.30 - Silent mist Regia: Miaoyan Zhang (Cina, Francia 2017 101’) Anteprima italiana In collaborazione con Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della Provincia di Reggio Emilia

Ore 22.30 - Dragonfly eyes Regia: Bing Xu (Cina 2017 81')

Sabato 16 giugno - Cinema Rosebud Tra oriente e occidente Ore 17.30 - Bad Genius Regia: Nattawut Poonpiriya (Thailandia 2017 130') Ore 20,15 - Incontro con il regista Māris Martinsons A seguire Magic Kimono Regia: Māris Martinsons (Giappone, Lettonia 2017 102') Anteprima italiana Ore 22.30 – Oh Lucy! Regia: Shinobu Terajima (Giappone, USA 2017 95’)

Domenica 17 giugno - Cinema Rosebud Children Ore 17.00 - The seen and unseen Regia: Kamila Andini (Indonesia/Ned/Aus/Quatar, 2017, 86') Ore 18.30 - The night I swam Regia: Kohei Igarashi; Damien Manivel (Giappone, Francia 2017 79') Ore 20.15 - Incontro con il regista Paolo Villaluna A seguire Pedicab Regia: Paolo Villaluna (Filippine 2016 122') Ore 22.30 - Ashwatthama Regia: Pushpendra Singh (India 2017 120') Anteprima europea

Giovedì 14 giugno - Cinema Rosebud Amori diversi

Lunedì 18 giugno - Cinema Rosebud The end

Ore 20.30 - Malila: the farewell flower Regia: Anucha Boonyawatana (Thailandia 2017 97') In collaborazione con ArciGay Gioconda Reggio Emilia

Ore 20.15 – Cerimonia di premiazione del film vincitore

Ore 22.30 - The way station Regia: Anh Hong (Vietnam 2017 93’) Anteprima italiana In collaborazione con Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della Provincia di Reggio Emilia.

Venerdì 15 giugno - Cinema Rosebud Rivoluzione dello sguardo Ore 20.30 - The great Buddha+ Regia: Hsin-yao Huang (Taiwan 2017 104’) Anteprima italiana

Ore 20.30 - Pop Aye Regia: Kirsten Tan (Thailandia, Singapore 2017 104') Ore 22.30 - Blank 13 Regia: Takumi Saitoh (Giappone 2017 70') Anteprima italiana



GRAPHICS: anna.bennicelli@gmail.com

Cinema Rosebud

Via Medaglie d’Oro della Resistenza 6, Tel. 0522.555113 Biglietto: € 5,00, Ridotto: € 4,00

(il biglietto consente la visione di tutti i film nella stessa giornata)

Arena estiva Stalloni

via Samarotto 10/E Tel. 0522 392137 Biglietto: € 5,50, Ridotto: € 4,50

Abbonamento a tutte le proiezioni di estAsia: € 15,00

• * Tutti i film sono proiettati in lingua originale con sottotitoli in italiano * * Le attività collaterali sono ad ingresso gratuito * * Nelle serate in collaborazione con le associazioni l’ingresso è gratuito per gli iscritti muniti di tessera associativa o altro documento equivalente *

Per info:

Email: estasiare@gmail.com - Facebook: estasiareggio http://www.estasia.org - http://www.palazzomagnani.it


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