Sustainability and Social Dynamics

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SostenibilitĂ e dinamiche sociali

Spongebob group Elisabetta Bacconi Fabio Lanza Marcello Tecleme Francesco Tocci Alessia Vidili


Indice 1

Introduzione

pag. 2

2

Cos'è il digital divide

pag. 2

digital divide ed e-government 3

Digital divide: diversi casi di studio diverse forme di divario in occidente

4

Information Technology e terzo mondo

pag. 6 pag. 8 pag. 10 pag. 16

uno squillo per ogni situazione

pag. 16

internet e nuovi media: il riscatto del terzo mondo?

pag. 18

5

Autori sul digital divide

pag. 24

6

E-waste

pag. 29

convenzione di Basilea

pag. 29

dimensione quantitativa del problema in Italia

pag. 32

i rischi per l'ambiente e la salute umana

pag. 32

norme e leggi

pag. 34

politiche a rifiuto zero

pag. 35

7

E-waste nei paesi in via di sviluppo

pag. 37

8

Conclusioni

pag. 41

9

Criteri di sostenibilitĂ

pag. 43

10

Bibliografia

pag. 44

11

Sitografia

pag. 45


INTRODUZIONE Quello che andiamo ad esporre è un lavoro scritto a più mani su due dei principali aspetti critici che hanno accompagnato dall'origine lo sviluppo delle tecnologie elettroniche e digitali: il digital divide e l’e-waste. Per digital divide si intende lo scarto che emerge tra quei soggetti che posseggono prodotti tecnologici di tipo elettronico e digitale, che hanno potenzialmente accesso ad internet e che hanno fatto proprie le competenze minime per farne uso, e quei soggetti che invece si trovano al di fuori di queste possibilità. L' e-waste, definizione anch'essa di origine anglosassone, definisce l'impatto ambientale, assolutamente negativo, causato dai rifiuti elettrici ed elettronici dispersi nell'ambiente, in particolar modo dagli elementi tossici di cui sono composti. Entrambi i temi vengono esaminati all'interno della letteratura esistente in materia, reperendo informazioni utili da autori riconosciuti, riviste scientifiche e fonti di diverso tipo presenti in rete, mantenendo fermo, nel corso delle ricerche, il principio della massima attendibilità. All'interno dei documenti esaminati si è cercato di definire un quadro della situazione a livello locale ed internazionale, con particolare attenzione ai paesi in via di sviluppo ed alle relazioni tra questi ultimi e quelli principalmente produttori di tecnologie. Questi due argomenti apparentemente slegati tra loro hanno al contrario molto in comune: l’aumento sconsiderato dei prodotti elettronici nel mercato non riesce a contrastare il gap del divario digitale e nello stesso tempo pone il problema del loro corretto smaltimento. Da questo empasse si può uscire solo studiando soluzioni che abbiano una sostenibilità cognitiva, economica ed ecologica.

COS'E' IL DIGITAL DIVIDE Il termine digital divide viene utilizzato per la prima volta nel 1995, durante l'amministrazione americana Clinton-Gore, quando la National Telecommunications and Information Administration (NTIA), organo consultivo degli Stati Uniti sulle politiche nel settore delle telecomunicazioni, pubblica la relazione “A Survey of the “Have nots” in Rural and Urban America”, la prima di una serie intitolata “Falling Trought the Net”. (http://www.ntia.doc.gov/ntiahome/fallingthru.html)


Tale termine tecnico viene utilizzato in riferimento alle disuguaglianze nell’accesso e nell’utilizzo delle tecnologie della cosiddetta “società dell’informazione” per indicare la non omogenea fruizione dei servizi telematici tra la popolazione statunitense. Divario, disparità, disuguaglianza digitale sono termini che vogliono spiegare la difficoltà da parte di alcune categorie sociali o di interi paesi di usufruire di tecnologie che utilizzano una codifica dei dati di tipo digitale rispetto ad un altro tipo di codifica precedente, quella analogica. Ma la definizione digital divide racchiude in sé complesse problematiche che coinvolgono tutti gli aspetti della vita di una comunità: economici, culturali, sociali. Nel

1999

viene

pubblicata

una

relazione,

“Defining

the

Digital

Divide”,

(http://www.ntia.doc.gov/ntiahome/net2/falling.html) in cui si sottolinea che la partecipazione di tutti gli americani nella società dell’informazione era strettamente connessa con lo sviluppo della digital economy. Specificatamente, per quel che concerne Internet, si distinguevano cinque livelli di disparità:

tra la minoranza di connessi e la stragrande maggioranza di non connessi;

tra coloro che utilizzano Internet per una vasta gamma di attività, traendone effettivi vantaggi, e coloro che di vantaggi ne traggono pochi o nessuno;

tra coloro che possono permettersi servizi a pagamento offerti da Internet e coloro che si limitano a utilizzare le risorse gratuite;

tra coloro che utilizzano la rete per effettuare operazioni di e-commerce e coloro che non effettuano alcuna transazione on-line;

tra coloro che beneficiano dell’utilizzo della banda larga e coloro che rimangono imbottigliati nella lentezza della rete.

Nello stesso anno si è costituito un “High Level Panel” di esperti di tecnologie dell’informazione e della comunicazione per la redazione del Millennium Report, pubblicato nell’aprile del 2000 (http://www.un.org/millennium/sg/report/) come base di riflessione per il Millennium Summit delle Nazioni Unite del settembre dello stesso anno. Tale rapporto contiene, tra i molti temi trattati, tre proposte riguardanti specificatamente l’ICT (Information Communication Technology):


l’istituzione di un corpo di volontari, denominati cyber troops, incaricati di avviare i paesi in via di sviluppo all’utilizzo di Internet e delle nuove tecnologie;

la costituzione di un Health InterNetwork per costruire e collegare in rete 10 mila siti di ospedali e cliniche nei PVS

la creazione di una rete cellulare e satellitare di pronto intervento - First on the Ground - per affrontare disastri naturali ed altre emergenze.

La disparità digitale è, in realtà, solo uno degli aspetti indotti dalla globalizzazione e molteplici sono le relazioni tra la diffusione di questa e la diffusione delle tecnologie dell’informazione. Il ruolo cruciale della ICT nell'evoluzione dell'economia globale assume due aspetti: da una parte dà la possibilità ai paesi di modernizzare i loro sistemi di produzione ed incrementare la loro competitività tanto quanto mai in passato; dall’altra, per quelle economie che non sono in grado di adattarsi al nuovo sistema tecnologico, ritardi sempre più incolmabili. Ampiamente condivisa tra gli studiosi che hanno analizzato il digital divide è che una delle cause principali del fenomeno sia di carattere economico: i paesi in via di sviluppo non sono in grado di acquisire un’alfabetizzazione informatica che è causa stessa del digital divide, il circolo vizioso che si viene a creare porta i paesi poveri ad impoverirsi ulteriormente dato che sono esclusi dalle nuove forme di produzioni di ricchezza. I dati relativi all’accesso ai flussi di informazione forniti dall’UNDP nel rapporto 2000 (http://www.digital-divide.it) sono in tal senso particolarmente significativi: nel 1998 nei paesi ad alto sviluppo umano, circa 41 persone ogni 1000 avevano una connessione ad internet, mentre nei paesi a medio sviluppo umano meno di 1 persona su 1000; il dato relativo ai paesi a basso sviluppo risultava insignificante. E’ interessante analizzare alcuni dati specifici: negli Stati Uniti nel 1998 esistevano 661 linee telefoniche, 459 personal computer e 847 televisioni ogni 1000 abitanti, in Italia 451 linee telefoniche, 173 personal computer e 451 TV, in Colombia 173 linee telefoniche, 28 personal computer e 217 televisioni, in Pakistan 19 linee telefoniche, 4 personal computer, 88 TV, per concludere, in Mozambico 4 linee telefoniche, 2 personal computer e 3 televisioni. Nel corso degli ultimi anni importanti appuntamenti che si sono tenuti in Italia hanno proposto riflessioni e decisioni operative sul digital divide: dal Forum di Napoli - attraverso il quale organismi internazionali quali le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Banca Mondiale hanno discusso di


“Cooperazione internazionale e Digital Divide” - a Genova, in occasione dell’incontro del G8, all’interno del quale è stato ripreso ancora una volta il tema della disparità digitale già segnalato come prioritario nella Carta di Okinawa del G8 stesso. Al termine del summit venne sottoscritta una "Carta sulla

società

Globale

dell’Informazione"

(http://www.g8.utoronto.ca/summit/2000okinawa/finalcom.htm) in cui si prevede che lo sviluppo e la diffusione dell’ICT coincidano con:

la crescita economica sostenibile, andando di conseguenza ad aumentare il benessere pubblico;

la maggiore coesione sociale;

il potenziamento della trasparenza e della responsabilità dell’azione di governo, quindi lavorare per realizzare compiutamente il potenziale della democrazia;

la promozione dei diritti umani e della diversità.

Con questo documento il G8 si incarica, quindi, di promuovere la creazione di una partnership che si impegni a combattere il divario tecnologico nei paesi interessati. In questo contesto viene prevista l’istituzione di una Digital Opportunity Task Force (DOT Force), finalizzata a preparare un rapporto dettagliato riguardante le azioni da intraprendere per ridurre il divario digitale tra i paesi industrializzati e i paesi in via di sviluppo. Attualmente il dibattito sul digital divide si concentra sugli aspetti geopolitici in relazione sia all’accesso, sia ai contenuti dell’ICT, tenendo presente che la “Rivoluzione Digitale” accelera i processi di globalizzazione e moltiplica esponenzialmente il suo impatto. Una delle argomentazioni sostenute da chi vede la diffusione delle ICT come strumento di sviluppo, è che queste possano favorire la partecipazione, la decisionalità e lo scambio di informazioni, consentendo quindi un reale intervento delle persone sulle decisioni che li riguardano. La ICT può garantire la creazione di networks e quindi di spazi pubblici per dibattiti fra le persone, canali attraverso i quali far circolare conoscenze ed esperienze fra le persone e le istituzioni, siti dove fonti di informazione e conoscenza possono essere consultati. Per quanto riguarda specificatamente l’Europa, il segnale più importante rispetto al tema diffuso dell’ICT parte dalla Commissione Europea che, riunita a Lisbona nel marzo 2000, lancia il Piano d’Azione “e-Europe 2002”, nel quale vengono individuati una serie di obiettivi volti a creare un ambiente favorevole allo sviluppo della e-economy in Europa, ad accelerare la connessione di scuole e


università a Internet, a stimolare la formazione alle nuove tecnologie e a promuovere l’adozione dell’innovazione da parte di tutti. Le linee d’azione previste dal Piano europeo sono finalizzate al raggiungimento di tre obiettivi prioritari:

realizzare un accesso più economico, rapido e sicuro a Internet;

investire nelle risorse umane e nella formazione, favorendo la partecipazione di tutti all’economia basata sulla conoscenza;

promuovere l’utilizzo di Internet, anche nella pubblica amministrazione e nei servizi, accelerando l’e-commerce e sviluppando contenuti digitali per le reti globali.

Alla conclusione del Consiglio europeo di Lisbona, segue l’istituzione di un’iniziativa denominata “elearning, pensare all’istruzione di domani”. I piani d’azione “eEurope 2002” e “eEurope 2005”, fanno dell’elearning una priorità assoluta per la promozione di una “cultura digitale”. In conclusione, tanti sono gli aspetti e gli interrogativi su come affrontare il digital divide. Oggi più che mai sembra improrogabile fermarsi a riflettere, documentarsi e pianificare azioni sia di educazione allo sviluppo, sia di formazione, che ci consentano di non rimanere impreparati e/o in ritardo nella risoluzione delle disuguaglianze digitali e delle problematiche a questo connesse. Se a livello internazionale si cerca di colmare il divario di accesso fisico alle tecnologie e di affermare un diritto di cittadinanza tecnologica tenendo conto di uno sviluppo economico sostenibile e di maggiore coesione sociale, a livello europeo la tendenza è quella di formare una cultura digitale condivisa.

DIGITAL DIVIDE ED E-GOVERNMENT Una problematica di forte rilievo sollevata dall'uso massiccio della tecnologia digitale in quasi ogni settore delle società maggiormente sviluppate è quello del processo di digitalizzazione dell'aministrazione pubblica, comunemente chiamato e-government. Questo processo - unitamente ad azioni di cambiamento organizzativo - consente di trattare la documentazione e di gestire i procedimenti con sistemi digitali, grazie all’uso delle tecnologie dell'informazione e della


comunicazione, allo scopo di ottimizzare il lavoro degli enti e di offrire agli utenti (cittadini ed imprese) sia servizi più rapidi, che nuovi servizi, attraverso - ad esempio - i siti web delle amministrazioni interessate. I prerequisiti indispensabili di questo processo sono l'ascolto del cittadino e l'assunzione del suo punto di vista, al fine di fornire un servizio "Citizen-oriented". Queste pratiche sono definite eAdministration, amministrazione elettronica. Il cambiamento successivo è quello politico. Un governo, sia esso statale, regionale o cittadino, grazie alle nuove tecnologie ha la possibilità di coinvolgere maggiormente i cittadini nei processi decisionali. E' la democrazia elettronica, l'e-Democracy. Se si pensa che le amministrazioni locali si collegano in rete, ad esempio, con ministeri, enti di previdenza, camere di commercio, regioni, province, banche e tesoriere, non risulta difficile immaginare il grado di difficoltà in cui incorrono le persone vittime del divario digitale, nell'accedere a tutta una serie di servizi che via via stanno assumendo una forma esclusivamente virtuale. La sostenibilità dei progetti di e-governance (intesa come piena attuazione della partecipazione delle società alla vita pubblica), nei paesi occidentali è limitata da un divario digitale interno - che esclude coloro che ancora non adottano i nuovi media -, a livello globale invece genera squilibri ben più gravi e pericolosi, dal momento che intere nazioni e stati sono esclusi dai centri decisionali. Ciò non fa altro che allargare la voragine tra paesi sviluppati e non, non solo a livello economico, ma anche a livello di partecipazione alle decisioni della comunità internazionale. Ovviamente gli stati, o i continenti, con minore possibilità di utilizzo degli strumenti attraverso cui passano le decisioni globali, resteranno emarginati proprio per una carenza di tipo infrastrutturale, o comunque verranno inseriti in tali processi in una posizione di assoluta subordinazione. Alcuni esempi di innovazioni da cui resteranno esclusi possono essere ad esempio, all'interno di un quadro di e-governance, la firma digitale in primis, lo scambio di denaro attraverso moneta virtuale, la carta d'identità virtuale, la trasparenza delle operazioni delle pubbliche amministrazioni locali, la sanità, ed altri servizi di tipo globale, fino a giungere ai banali acquisti on-line.


DIGITAL DIVIDE: DIVERSI CASI DI STUDIO Il digital divide non riguarda solamente il gap esistente tra i paesi in via di sviluppo e le nazioni industrializzate. La diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sta ridisegnando le mappe di povertà e ricchezza, come già detto, aumentando il divario già esistente tra Nord e Sud del mondo e creando nuove zone di esclusione, anche all’interno delle nazioni più sviluppate. La questione del divario tecnologico comprende, infatti, due problematiche distinte che si esplicano in due differenti tipi di divario:

un digital divide interno, riguardante le differenze tra individui all’interno dello stesso paese.

un digital divide internazionale, riguardante le differenze riguardo all’accesso alle tecnologie informatiche tra diversi paesi e generalizzabile nel divario tra paesi del nord e del sud del mondo.

Il digital divide interno si manifesta in diversi modi ed è influenzato da diverse variabili. Secondo alcuni autori rappresenta la prima vera frontiera da combattere per i paesi sviluppati. Se non si prende coscienza di questo fatto non si riuscirà ad avere una prospettiva corretta ed equilibrata del divario digitale. (Zocchi, 2003) Il problema, secondo Dutton (2001), è essenzialmente riferito al fatto che esiste una grossa mole di dati che non è possibile filtrare, perciò ogni individuo si trova su di una autostrada informatica tale per cui spazio e tempo non rappresentano fattori determinanti per il divario. Per Castells (2001), invece, questa problematica sembra avere minore rilievo. Le tecnologie si espandono in maniera selettiva, per cui “la velocità di diffusione tecnologica è selettiva sotto il profilo sia sociale sia funzionale. La sequenza differenziale nell’accesso al potere della tecnologia dei popoli, paesi ed aree geografiche, costituisce una causa decisiva dell’ineguaglianza della nostra società.” (ivi). Castells fa notare come in una società dell’informazione come la nostra non siano solo criteri legati a reddito e cultura a determinare l’accesso o meno alle tecnologie, ma anche un criterio di riconoscimento sociale che è proprio di ogni individuo. In poche parole l’appartenenza sociale come


categoria si gioca sempre più su un terreno di inclusione nella società della conoscenza e dell’informazione. Tuttavia l’integrazione all’interno di questo tipo di società dipende da una serie di fattori, tutti egualmente importanti e portatori di caratteristiche proprie che non possono essere slegate tra loro. Per comprendere la reale portata del divario è necessario definire in che modo crescano le disuguaglianze. I fattori che contribuiscono a creare distinzioni all’interno della società dell’informazione possono essere sintetizzati in : •

reddito, poiché i gruppi sociali più ricchi hanno possibilità di accesso alle ICT e di ricambio tecnologico maggiori;

educazione, poiché gli individui con titoli di studio superiori hanno maggiore possibilità di produrre informazioni corrette;

regione geografica, poiché le zone urbane hanno un tasso di penetrazione delle ICT e di sviluppo dei servizi molto più alto che le zone rurali;

genere, in quanto le donne sono svantaggiate nell’uso e sono sottorappresentate ai vertici della net economy;

età, poiché i giovani risultano più competitivi e più predisposti al cambiamento degli anziani.

Alcuni di questi fattori per Zocchi (2003) sono più determinanti di altri. Gli elementi relativi al digital divide interno, pur costituendo un sottoinsieme del divario digitale globale, insistono maggiormente su problematiche di integrazione anagrafica e culturale anziché sull’isolamento geografico, sul reddito e sullo stato di arretratezza strutturale delle comunità. Per quanto riguarda il reddito non è sempre detto che maggior ricchezza significhi maggior accesso alle tecnologie, anche se si può trovare una corrispondenza tra basso reddito disponibile, minore dotazione infrastrutturale e scarsa dotazione di servizi telematici. Comunque, il dato più evidente sottolinea che chi ha un reddito inferiore alla media nazionale, ossia il 35% della popolazione, ha molte meno possibilità di essere on line rispetto al resto del paese. Riguardo al grado di alfabetizzazione informatica e quindi all’educazione in ambito europeo, per esempio, le nuove tecnologie non sono distribuite in maniera uniforme: ad un Nord molto sviluppato si oppone l’arretratezza dei paesi dell’Europa orientale. L’Europa orientale però ha indubbiamente fatto enormi progressi, sia nel campo della digitalizzazione


che dell’alfabetizzazione informatica. Nei paesi baltici alcuni progetti sono stati utili per favorire nel giro di alcuni anni la diffusione di una “cultura del computer” (Zocchi, 2003) verso una parte specifica della popolazione, quella studentesca, realizzando un livello di alfabetizzazione informatica comparabile a quello delle democrazie scandinave.

DIVERSE FORME DI DIVARIO IN OCCIDENTE In riferimento a ciò che sostiene Zocchi si è scelto di analizzare alcune dicotomie che sembrano particolarmente significative per comprendere in che modo si sviluppa il digital divide interno e che fanno riferimento ai fattori sopra citati:

una prima uomo vs donna

una seconda zone rurali vs zone urbane

una terza giovane vs anziano

Per ogni dicotomia saranno presi in esame esempi che fanno riferimento sia a situazioni generali che particolari, sempre nell’ottica di inquadrare il divario digitale interno in riferimento ai paesi sviluppati (quadro europeo e italiano in particolare).

Uomo vs donna Sono pochi gli studi che descrivono il ruolo delle donne nell'accesso, nello sviluppo e nella gestione delle tecnologie ICT. Oggi si parla di “gender divide”, il divario di genere che esprime un disequilibrio tra uomini e donne nell'accesso alle nuove tecnologie. I dati a disposizione sono scarsi, sarebbe più facile sapere quale sia il grado di diffusione della banda larga o dei cellulari nei Paesi in via di sviluppo che valutare il gender divide

informatico

nelle

nazioni

occidentali.

Le principali organizzazioni mondiali hanno attivato solo da qualche tempo programmi per la valutazione globale del gender divide, preferendo sinora lasciare rilevanza a programmi di sviluppo e


studi legati a particolari regioni svantaggiate (Sudamerica, Est Asiatico, Centro Africa...) e a casi-studio significativi. Il divario tra uomini e donne nel recepimento delle tecnologie ICT è molto più diffuso di quanto non si pensi. I dati della Commissione Europa relativi all’ Unione a 15 membri indicano che gli scienziati e gli ingegneri donne rappresentavano nel 2001 l'1,5% della forza lavoro continentale e lo 0,8% di quella italiana. Per gli uomini le percentuali salgono rispettivamente al 3,4% e allo 1,9%. Come conseguenza, le donne europee hanno in generale ancora un ruolo secondario quando si tratta di definire l'agenda della ricerca tecnologica. Ma qui, almeno, registriamo come l’Italia sia in una situazione positiva: il 40% dei membri dei board' scientifici delle università italiane nel 2001 erano donne, una percentuale buona se paragonata, per fare qualche esempio, al 23% della Francia, al 29% del Regno Unito e all'11% della Germania. A influire pesantemente sul quanto le tecnologie ICT vengano adottate dalle donne sono anche la struttura sociale della singola nazione, l'accesso all'istruzione di terzo livello (secondo Eurostat l'Italia ha delle statistiche incoraggianti con un 56,2% di donne tra chi partecipa a formazione di terzo livello rispetto a una media UE del 54,6%), il benessere economico, l'età e la distribuzione geografica delle tecnologie. Si è rilevato che averle sul posto di lavoro ha effetti positivi sul generico digital divide ma è la diffusione nelle case che aiuta a limitare il gender divide. L'evoluzione sembra la stessa un po' per tutti i Paesi: quando una nuova tecnologia viene introdotta il gap di adozione tra i due sessi è elevato,man mano si riduce a pochi punti percentuali, anche se non si colma mai, anzi aumenta quando la tecnologia ha un ulteriore ciclo evolutivo. Da diverse valutazioni, fatte nazione per nazione, si evince come il gender divide non sia strettamente legato al digital divide globale e che si risolva quando quest'ultimo viene colmato. Al contrario, diversi Paesi già evoluti tecnologicamente mostrano differenze marcate tra l'uso delle tecnologie ICT tra uomini e donne, mentre nazioni meno avanzate magari non hanno affatto un gender divide. Alcuni spunti interessanti per una riflessione sulle differenze uomo-donna nel panorama italiano emergono dal Settimo rapporto sulla comunicazione Censis - Ucsi (2008), dedicato in particolare alle diete mediatiche dei giovani italiani ed europei, ma che presenta anche dati relativi alla popolazione in generale. Il Rapporto raggruppa i dati in 4 categorie, separate a metà dall'elemento del digital divide: •

persone con diete solo audiovisive (tv, radio, cellulare)


persone con diete basate anche su mezzi a stampa

digital divide •

persone con diete aperte a internet

persone con diete aperte a internet ma prive di mezzi a stampa (una categoria su cui il Rapporto dell'anno scorso gettava parecchie domande rimaste aperte)

In base a questi dati è risultato che la maggioranza delle donne italiane resta ancora legata ad un modello basato sulla lettura tradizionale (libri e settimanali). “Il contatto con i media, almeno a livello giovanile, sta diventando dunque sempre più simile tra uomini e donne, ma il piacere che ne ricavano rimane abbastanza differenziato. La centralità dell'esperienza della narrazione (siano le storie pubbliche della televisione, quelle universali della letteratura o quelle personali della conversazione telefonica) non è messa in discussione tra le donne, anche tra le più giovani, mentre la composizione a mosaico dell'esperienza del mondo (la giustapposizione delle informazioni nei quotidiani che si trasferisce in internet, ma che si trova anche nella saggistica) risulta sempre preferita tra gli uomini.” Tuttavia la generale tendenza a livello europeo, per quanto riguarda le nuove generazioni, denota come "i consumi maschili e femminili tendono ad uniformarsi"

Zone rurali vs zone urbane Molti organismi come Amnesty International, hanno messo in luce la tendenza di un "virus della repressione su internet" (Tim Hancock), per cui in diversi stati si stiano adottando misure volte a limitare il libero accesso alla rete. Nel caso dell’Italia, soprattutto attraverso la rete, sono nate polemiche contro le istituzioni italiane che, secondo alcuni, mettono in atto delle vere e proprie campagne contro Internet per limitare il libero accesso alle informazioni. Per quanto riguarda il livello delle nostre infrastrutture tecnologiche, invece, alcune delle problematiche più sentite dipendono dalla gestione delle reti telematiche e dal fatto che si siano utilizzate tecnologie vecchie per adattarle a nuovi servizi. Tenendo conto di tutti questi aspetti sembra che il divario che si crea tra zone urbane e zone rurali dipenda, non solo dalla più ovvia diffusione dei computer all'intyerno di un paese, ma anche dalle condizioni delle infrastrutture, dall'esistenza di accessi alternativi, che si collega ad una maggiore o


minore sensibilità da parte dei governi a regolamentare in materia. A partire dal 2005 in Italia è stato possibile cominciare a realizzare delle reti di connessione ad Internet in modalità wireless. Ma mentre si autorizzava questo tipo di servizio, nel 2006 una legge (Pisanu) impediva ai cittadini la libera connessione ai servizi wireless. Dal sito dell’Aduc la disamina dello stato dell’arte (la penetrazione di banda larga in Italia è al 18%), rileva anche le differenti reti in fibra che oggi esistono (Telecom, Fastweb, Infratel, e alcune società regionali) e ciò che emerge è che, a differenza di altri paesii, l'utilizzo della fibra ottica è scarso. Negli ultimi anni sono stati conclusi degli accordi con alcune regioni nei quali le regioni hanno concesso soldi pubblici a Telecom Italia per allargare la copertura adsl. Secondo le ultime statistiche, infatti, la copertura adsl è aumentata. Nonostante questo, nel nostro paese, il 25% circa dei comuni, quasi tutti piccoli ,anche se non tutti, è ancora limitato ad una connettività parziale a 56k. A livello generale emerge che la disponibilità di infrastrutture di base e i costi necessari per accedervi sono indicatori essenziali per garantire la possibilità ad un paese di usufruire dei vantaggi della rivoluzione digitale. Quello che si nota e che c’è un deficit di informazione, derivante anche dalle differenze tra zone rurali e zone urbane, e che il libero pensiero ormai si trova spesso “ghettizzato” in siti e blog. Anche questo può essere un fattore importante che contribuisce ad aumentare il divario all’interno di un paese.

Giovane vs anziano

Sempre sulla scia del Settimo rapporto sulla comunicazione Censis-Ucsi, un'analisi annuale del consumo di media intesi come sistema unico e interconnesso, si analizzano i giovani e il loro rapporto con i media (classe d'età 14-29 anni). Il confronto è in questo caso fra il 2003 e il 2007. Se dati come l'uso del cellulare non si sono quasi modificati, dal punto di vista quantitativo spicca l'aumento nell'uso della rete. Una delle interpretazioni possibili di questi dati è che sia proprio internet a trascinare tutti gli altri media. Muta il funzionamento complessivo del sistema: “I giovani si trovano a loro agio in questo contesto e hanno elaborato strategie di adattamento all'ambiente mediatico all'interno del quale sono nati. La molteplicità dei media li spinge a


passare da uno all'altro, favorendo in loro la nascita di un vero e proprio nomadismo mediatico, che si accompagna a una forma di disincanto, prodotta dall'integrazione e cioè dall'assenza di una prospettiva gerarchica tra i media.” La parte qualitativa dell'analisi arriva ad un'altra interessante conclusione: “... considerati dal punto di vista della gratificazione personale che si ricava dal contatto con i media, questi dati ci suggeriscono che si sta passando da una situazione in cui si collocavano in alto nella scala dei valori i media orientati verso la passività audiovisiva (tv e radio) ad una realtà in cui si preferiscono i media di tipo alfabetico interattivo (internet e libri).”

Si segnala anche una tendenza comune rispetto agli altri paesi analizzati (Italia, Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna): “I giovani europei stanno convergendo verso un modello uniforme di impiego dei media. In tutte le principali nazioni europee i giovani entrano in contatto con un elevato numero di media, internet ha conosciuto un elevatissimo indice di penetrazione, i consumi maschili e femminili tendono ad uniformarsi, ovunque ai primi posti nell'uso abituale dei media si trovano televisione, cellulare e internet, seguiti da radio, libri e quotidiani, sempre a livelli più alti di quanto registrato per le fasce d'età più elevate e tra i giovanissimi queste tendenze risultano ancora più accentuate.”

Per quanto riguarda la situazione italiana, lo studio del Censis fa riferimento al problema del "divario generazionale": “... in Italia sembra che i giovani vivano in un altro pianeta rispetto agli adulti, per non parlare della distanza che li separa dagli anziani. L'Italia è il paese in cui, a tutti i livelli, risulta più difficile il ricambio generazionale, ne risulta un quadro in cui ad avere un ruolo dirigente in tutte le realtà operative ... è una generazione estranea ai processi di rapida trasformazione in atto su scala planetaria, che non ne comprende il senso e la portata, che non è in grado di confrontarsi con le classi dirigenti degli altri paesi e che al massimo ha imparato a usare un vocabolario attraverso il quale impiega parole nuove per parlare di cose che non esistono più.”

I risultati del rapporto sembrano confermare quello che già parecchi anni fa gli studi sociologici sui giovani e le loro modalità di rapportarsi alle nuove tecnologie, e anche alcuni degli assunti di


sociologici come Karl Mannheim (Il problema delle generazioni 1927) avevano portato alla luce. Per Mannheim, per esempio, era importante il ruolo svolto dalla "stratificazione delle esperienze" e ancor di più dalle "prime impressioni", che vanno a fissarsi come concezione naturale del mondo e fungono da base e da metro di giudizio per quelle esperienze che verranno in seguito. In questo modo, un evento qualsiasi sarà interpretato in modo radicalmente differente dai giovani e dagli anziani che vivono nello stesso tempo. La sociologia ci dice che il rapporto che c’è tra i giovani e le ICT, percepite come qualcosa di naturale dai giovani che sono cresciuti nel periodo della sua prima affermazione è estremamente differente da quello degli anziani. Quando le differenze di utilizzo di alcuni media si trasformano in disuguaglianze, diventa cruciale lo studio dei motivi per cui alcuni soggetti abbiano accesso ad una tecnologia oppure la utilizzino in maniera più o meno efficace. Da uno studio fatto all’Università Bicocca di Milano (2006/2007) emerge come il divario generazionale sia così forte ed ampio nella realtà italiana. In riferimento ad alcuni media digitali si nota che mentre l’adozione del cellulare è largamente diffusa (anche se la preferenza d’uso è orientata sulle funzioni base), il divario all’accesso nei confronti dei due artefatti più complessi (computer e Internet) rimane evidente. E’ stato verificato che l’anziano che abbia utilizzato prima del pensionamento un medium come il computer, non ne fa necessariamente un uso anche da pensionato. L’adozione nella propria vita di un nuovo medium sembra essere legata, per coloro che hanno superato le barriere mentali del divario digitale, ai benefici percepiti a miglioramento della qualità di vita. Per tutti coloro che non sono a conoscenza delle potenzialità derivanti dall’uso di questi strumenti, non ne percepiscono l’utilità. Michael Levy, nel 1997 , scriveva che “ogni nuovo sistema di comunicazione fabbrica i propri esclusi” e che “le politiche volontaristiche di lotta contro le disuguaglianze e l’esclusione devono puntare a un guadagno in termini di autonomia delle persone o dei gruppi coinvolti”.


Information technology e terzo mondo Se il digital divide in Occidente, e nei paesi industrializzati in generale, pone il problema dell'esclusione di parte della società civile dalla vita pubblica e dal sapere condiviso (si pone cioè sempre più l'accesso all'ICT come un diritto di cittadinanza), nei paesi emergenti e in via di sviluppo esso è chiaramente il risultato di una generale arretratezza economica ed il suo superamento è spesso considerato come una possibilità di recupero del terzo mondo nei confronti del primo. Come vedremo nel corso di questo capitolo, molteplici sono gli argomenti di discussione a proposito dei media digitali nei paesi in via di sviluppo, dalla copertura e l'utilizzo della rete telefonica cellulare, alla diffusione di PC connessi ad Internet, al problema dell'alfabetizzazione informatica.

Uno squillo per ogni situazione

Il medium digitale il cui uso è maggiormente diffuso ad oggi in Africa, un continente largamente escluso dalla rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni, è il cellulare. Se risulta più che evidente l'importanza di questo mezzo di comunicazione, che ha rivoluzionato senza dubbio i rapporti sociali e lavorativi a livello globale, ancora oggetto di studio sono le sue dinamiche di propagazione e di impiego nel contesto del continente africano. Secondo uno studio realizzato dalla Vodafone, si calcola che circa il 97% della popolazione della Tanzania (uno dei paesi africani più poveri, la cui economia è quasi totalmente incentrata sull'agricoltura) abbia accesso alla telefonia mobile, questo nonostante si calcoli che la penetrazione delle utenze cellulari sia di circa il 2,5%. Questi dati ci indicano chiaramente come nonostante la stragrande maggioranza della popolazione non possieda le risorse economiche per acquistare un cellulare, il suo utilizzo sia estremamente diffuso grazie alla condivisione familiare, ma non solo, dello stesso dispositivo (in tale studio sono considerati utenti di telefonia mobile coloro che utilizzano un cellulare almeno una volta ogni tre mesi). Uno studio sulle utenze del Botswana, ad esempio, afferma che il 62% dei possessori di un cellulare lo condivide con la propria famiglia, il 44% lo condivide con i propri amici, che il 20% lo condivide anche con i propri vicini: tra questi solo il 2% dei possessori di cellulare chiede un compenso in cambio.


Rilevanti inoltre sono alcuni progetti di noleggio condiviso di cellulari portati avanti dalla Grameen Bank, esperienza partita dal Bangladesh ed approdata in Africa. Se nella prospettiva di un paese occidentale chi non possiede un cellulare non ha possibilità di comunicare efficacemente, altrettanto non si può dire delle aree rurali dei paesi più poveri, dove informazioni sui mercati agricoli e i trasporti sono essenziali e anche pochi cellulari per centro abitato possono fare la differenza. Altri dati interessanti sono emersi da alcuni studi sull'utilizzo efficiente (cioè economizzando) dei telefoni cellulari. In primo luogo è degna di nota la netta prevalenza di utenze prepagate che non necessitano di rischiosi, economicamente parlando, costi mensili: gli utenti africani infatti (e presumibilmente dei paesi poveri nell'insieme) sono propensi ad acquistare una sim prepagata spesso senza neanche possedere un cellulare. Ancora più importante è l'utilizzo creativo che in molte circostanze viene fatto con i cellulari. Non disponendo di risorse economiche sufficienti, si effettuano chiamate vere e proprie solo quando è assolutamente necessario, utilizzando in tutti gli altri casi un codice comunicativo basato sugli squilli di cellulare. Quest'ultimo comportamento, come recenti studi dimostrano, è globalmente diffuso. Ma se comunicare attraverso uno squillo di cellulare, per un utente occidentale, è solo un divertimento o una soluzione rapida e semplice alla mancanza di credito, nei paesi in via di sviluppo e sottosviluppati può costituire, in alcuni casi, una grande risorsa. Questo fenomeno di “beeping creativo” è diffuso praticamente in tutto il mondo in via di sviluppo, dagli stati africani, a India e Bangladesh, fino alle Filippine e all'America latina. È interessante notare come ogni paese abbia adattato alle proprie tradizioni e culture questa pratica; le norme sociali già presenti in una comunità influenzano le regole di utilizzo degli squilli: così le regole non scritte “il più ricco paga ” e “le donne non apprezzano squilli dai propri pretendenti” riflettono norme di gerarchia economica e di genere fortemente radicate nel tempo in un determinato paese. In uno studio del 2007 (J.James e M. Versteeg), si ipotizza che le considerazioni sul digital divide africano in relazione all'utilizzo di telefoni cellulari sia notevolmente sovrastimato e che i dati sull'utilizzo (riportati in questo lavoro) siano maggiormente indicativi rispetto a quelli sulle utenze. A supporto di questa considerazione si sottolinea come non tutti coloro che hanno fisicamente accesso alla telefonia mobile ne facciano uso, costretti dalle proprie condizioni di vita a confrontarsi con problemi cui le tecnologie di comunicazione non possono rispondere.


Internet e nuovi media, il riscatto del terzo mondo? La maggior parte degli studiosi riassume, identifica, il problema del digital divide come il divario tra chi ha e chi non ha accesso alla tecnologia dei computer e di Internet (Van Dijk, 2006). Nel momento in cui anche i paesi in via di sviluppo iniziano a confrontarsi con Internet e i nuovi media in generale, è importante andare ad osservare come questi ultimi influiscano nel riscatto dei paesi più poveri della terra, e di come le diseguaglianze già presenti tra terzo e primo mondo, e tra gli stessi abitanti dei paesi poveri, si perpetuino o modifichino. Van Dijk e Hacker (2003) suddividono quattro diversi tipi di digital divide che possono essere isolati:

la mancanza di “accesso mentale”: cioè la mancanza di una elementare esperienza digitale;

la mancanza di “accesso materiale”: cioè la mancanza concreta di PC e connessioni internet;

la mancanza di “accesso alle abilità”: la mancanza di abilità tecniche digitali;

la mancanza di “accesso di uso”: la mancanza di opportunità di utilizzo sensato;

Nonostante questa suddivisione renda l'idea di una molteplicità di requisiti indispensabili per poter trarre frutto pienamente dalle nuove tecnologie, esse non descrivono esaurientemente il problema. P. Norris e J. James affermano che il problema non è altro che un aspetto della grande diseguaglianza economica tra paesi ricchi e paesi poveri, ma che i paesi in via di sviluppo non soffrono solo l'esclusione economica, ma anche la privazione di peso politico e delle pratiche culturali indispensabili per far parte della società dell'informazione. A dimostrazione di quest'ultima affermazione gli autori hanno dimostrato come l'indice HDI (human development index) sia fortemente correlato alla penetrazione di connessioni internet negli stati africani: gli stati con un reddito pro-capite più basso, un'istruzione media scarsa, e un aspettativa di vita media più bassa, hanno gli indici di penetrazione più bassi. Hardt e Negri (2000) si sono spinti oltre, sfruttando la metafora dell'impero nel descrivere un assetto decisionale globale le cui regole economiche e politiche sono appannaggio esclusivo dei paesi industrializzati (Usa, Europa e Giappone) a scapito del mondo in via di sviluppo. L'elaborazione di una strategia per il superamento del digital divide, secondo questi autori , non può prescindere dal superamento di questo assetto globale. Un esempio di politica dettata dal mondo occidentale e almeno


in parte fallimentare sono gli Structural Adjustment Loans (piani di aggiustamento strutturale), un sistema di prestiti gestito dalla Banca Mondiale per lo sviluppo dei paesi poveri, vincolato, tra le altre cose, alla liberalizzazione e privatizzazione delle telecomunicazioni degli stati beneficiari. Gli autori definiscono questa imposizione della Banca Mondiale come parte di un più ampio “cultural colonialism”, una critica più che legittima considerando la struttura organizzativa dell'organismo internazionale citato, il cui controllo è nelle mani dei paesi occidentali1. Importante da questo punto di vista è l'esperienza del Sud Africa, paese che a partire dal 1995 ha liberalizzato e privatizzato il proprio sistema di telecomunicazioni per permettere investimenti privati nel settore, ponendo l'obbligo agli investitori di espandere la copertura territoriale di telefonia e connessione ad internet. I dati rilevati mostrano chiaramente come non vi sia una significativa correlazione tra l'entità degli investimenti effettuati di anno in anno e l'incremento degli utenti di PC ed Internet. Più precisamente, da tali dati si è registrato un aumento lento e progressivo degli utenti rispetto ad un andamento degli investimenti inizialmente in forte crescita e poi in drastico calo: se le possibilità di accesso alle nuove tecnologie e la copertura di telefonia ed internet sono significativamente migliorate con i nuovi capitali, molte delle cause del divario digitale (tra cui in primo luogo i costi di accesso ai servizi) sono rimaste pressoché invariate. Cade quindi l'ipotesi che il superamento di questo divario possa essere raggiunto principalmente grazie alla concorrenza di più operatori: questa soluzione non tiene assolutamente conto delle diseguaglianze di reddito, istruzione e abilità informatica, che caratterizzano fortemente le popolazioni di questi paesi. Uno studio più specifico sul tema del digital divide (Stale Angen Rye, 2008), esamina i fattori ambientali che influiscono sull'utilizzo dei nuovi media. Il caso presentato analizza due gruppi di studenti indonesiani che seguono corsi universitari a distanza: il primo proveniente da un'area metropolitana, il secondo da un'area rurale. Nel rilevare ed analizzare le due diverse esperienze, lo studio presta attenzione a quattro tipi di accesso indispensabili: la motivazione, la proprietà materiale di PC, le abilità necessarie ad utilizzare PC connessi ad internet e la possibilità di fare di questa tecnologia un uso proficuo. L'autore dimostra che gli studi quantitativi relativi alla connettività dei paesi del terzo mondo non sono sufficienti a spiegare le diseguaglianze tra regione e regione di uno stesso paese: in effetti, anche tra studenti fortemente motivati a seguire corsi a distanza che si appoggiano alla rete, vi sono fattori puramente qualitativi che compromettono la possibilità di un uso proficuo di certi 1 The World Bank is run like a cooperative, with member countries as shareholders. The number of shares a country has is based roughly on the size of its economy. The United States is the largest single shareholder, with 16.41 percent of the votes, followed by Japan (7.87 percent), Germany (4.49 percent), the United Kingdom (4.31 percent) and France (4.31 percent). The rest of the shares are divided among the other member countries.


strumenti. Nell'area rurale oggetto di studio, gli studenti sono penalizzati da connessioni internet di bassa qualità e, pur avendo la possibilità di studiare anche nei propri posti di lavoro (la maggior parte dei soggetti lavora ed ha un'età tra i 30 e i 50 anni), essi non sono in grado di sfruttare i vantaggi che una comunicazione in rete tra studenti e con i docenti darebbe loro. Viceversa, gli studenti dell'area urbana, pur gravati da ritmi di vita più opprimenti e non potendo studiare nelle ore di lavoro, beneficiano di un maggiore scambio di informazioni dovuto al maggior numero di PC connessi alla rete e connessioni migliori. Si ritiene generalmente che i problemi di accesso passino inizialmente da problemi motivazionali e di accesso fisico, a problemi di capacità informatiche e opportunità di utilizzo delle stesse. Lo studio empirico effettuato sugli studenti a distanza indonesiani, mostra come la realtà sia più complessa: le analisi mostrano come gli studenti delle aree periferiche fossero fortemente motivati ad utilizzare internet, ma che questa motivazione fosse frenata dalla difficoltà di accedere alla tecnologia; che gli studenti metropolitani avessero buone capacità informatiche ma che pressioni maggiori in ambito lavorativo e familiare, frenassero il pieno sfruttamento della tecnologia. Questo va a dimostrazione che le aree rurali di un paese in via di sviluppo non andrebbero considerate semplicemente come zone “un passo addietro” rispetto alle aree metropolitane. Lo studio dell'accesso informatico nelle due aree, piuttosto, andrebbe affrontato considerando le due diverse situazioni come contesti dove le “condizioni di accesso” sono in relazione tra loro in modi diversi. Nello studio proposto da Fucks e Horak (2008) sono riassunte alcune delle strategie proposte negli anni per il superamento del divario digitale. Gli autori le riportano una ad una criticandone l'approccio e proponendo una propria strategia più ampia:

1. aspettare ed osservare: lo sviluppo tecnologico e il mercato garantiranno un accesso alle tecnologie più economico; I fatti hanno mostrato come attendere non abbia prodotto risultati: il divario di ricchezza ed accesso alla tecnologia tra primo mondo e terzo mondo, nei fatti, si va ampliando.

2. entrando nel mercato e competendo, i paesi del terzo mondo saranno capaci di entrare nella società dell'informazione scavalcando alcune tappe; lo “scavalcare tappe” avviene in una certa misura nelle economie africane che hanno liberalizzato la


propria economia, questa innovazione però è chiaramente riservata alla classe agiata dei paesi in via di sviluppo piuttosto che alla popolazione nel suo complesso.

3. attrarre capitali stranieri aumenterà il benessere e l'accesso alle nuove tecnologie; l'ingresso di capitali stranieri, aiuti e prestiti dalla banca mondiale, di fatto, non ha portato ad una redistribuzione di ricchezza dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo: le transazioni in entrata rispetto a quelle in uscita (sotto forma di debito estero) rimangono a sfavore dei paesi del terzo mondo (Fuchs 2002, pag. 370).

4. tecnologie per il terzo mondo (PC usati e OLPC); progetti come One Laptop Per Child(http://laptop.org/en/) riescono effettivamente ad introdurre un maggior numero di PC nei paesi in via di sviluppo, così come la grande quantità di hardware informatico obsoleto o difettoso “donato” dai paesi industrializzati. Il problema di questo approccio al digital divide è che oltre a produrre un nuovo flusso di ricchezza dai paesi sottosviluppati a quelli industrializzati (l'OLPC non viene prodotto in Africa per intendersi), dà in dotazione a queste società PC dall'hardware inferiore al livello di quello utilizzato nei paesi industrializzati, perpetrando una forma (pur meno grave) di diseguaglianza, e lascia nei paesi del sud del mondo grandi quantità di materiale tecnologico obsoleto (generando quell'e-waste di cui ci occuperemo più avanti). Ciò di cui hanno bisogno i paesi in via di sviluppo sono PC competitivi, la cui diffusione non gravi sulla bilancia commerciale (non sia un “affare” per le industrie occidentali a scapito dei mercati del sud del mondo) e che adottino la filosofia dell'open source. Il software open source dà all'utente quattro libertà molto importanti: •

la possibilità di utilizzare il software senza limitazioni;

la possibilità di studiare come funziona il software, di disporre cioè del codice sorgente;

la possibilità di redistribuire lo stesso software ad altri;

la possibilità di migliorare il software e diffonderlo nuovamente agli altri utenti.


5. il terzo mondo non ha bisogno di tecnologia; alcuni studiosi hanno affermato che i paesi in via di sviluppo non hanno bisogno di tecnologia, ma che i loro problemi veri sono povertà, mancanza di copertura sanitaria adeguata ed istruzione, ad esempio. Si può rispondere a queste affermazioni ricordando che l'informazione e la comunicazione sono diritti primari al pari della sicurezza sociale, così come sancito dall'Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.” Nella società attuale Internet e i nuovi media sono sicuramente veicolo dell'opinione pubblica, ecco perché l'esclusione da essi provoca diseguaglianza.

6. una strategia integrata che combini: redistribuzione globale della ricchezza, programmi per il sostegno alla salute e all'educazione, programmi per l'alfabetizzazione digitale, accesso gratuito e pubblico alle nuove tecnologie, tecnologia open source e computer per il terzo mondo (prospettiva degli autori dello studio); “Tutte e cinque le strategie discusse in precedenza sono riduttive e unidimensionali, non considerano le interconnessioni tra le condizioni minime di accesso, i fattori sociali, le ineguaglianze dello sviluppo, i diritti umani e il capitalismo globale. Per combattere il digital divide una ridistribuzione delle risorse è fondamentale come precondizione. Se si tratta di una possibilità concreta la cosa migliore da fare è realizzarla. Ma questo richiede un ripensamento generale della società globale, perché il digital divide non è solamente un problema tecnologico, ma anche un problema economico, sociale e politico. Il digital divide non è solamente un divario nell'accesso e beneficio della tecnologia, ma anche un'espressione di un più generale divario di ricchezza e potere (cit. Fuchs e Horak, 2008) .


AUTORI SUL DIGITAL DIVIDE Numerosi autori si sono interessati alle mutazioni che intervengono all'interno di una società con l'introduzione di sempre nuove ICT. In particolar modo il sociologo spagnolo Manuel Castells in un suo testo del 2001, Galassia Internet, dedica un intero capitolo al digital divide, affrontandolo da una prospettiva globale. Il digital divide cui fa riferimento riguarda, oltre che la presenza o meno di tecnologie fisiche, infrastrutture, soprattutto la possibilità di accesso ad internet, che varia in maniera considerevole in base all'età, alla residenza, al reddito, all'etnia di appartenenza, alla professione ed accesso al lavoro. Castells definisce il digital divide come “diseguaglianza nell'accesso ad internet [...] L'accesso da solo non risolve il problema, ma è un prerequisito per superare la disuguaglianza in una società le cui funzioni e gruppi sociali dominanti sono sempre più organizzati intorno ad Internet”. Nella sua analisi Castells si è affidato ai dati americani, poichè, nel momento della sua indagine, negli Stati Uniti si trovava una valida fonte statistica che ha analizzato l'accesso differenziato a Internet a partire dal 1995: l'indagine su un campione rappresentativo della popolazione statunitense condotta dal National Telecommunications and Information Administrator (NTIA) del Dipartimento del commercio americano. In termini di reddito, prendendo come estremi un guadagno dai 75.000 dollari annui in su e dai 15.000 in giù, dei primi il 70,1 per cento godeva di un accesso ad internet, dei secondi soltanto il 18,9 per cento. Anche per quanto riguarda l'istruzione il gap è molto evidente: tra le persone con un diploma universitario superiore, il 74,5 per cento aveva accesso ad internet, tra quelle senza diploma soltanto il 21,7 per cento. Un'altra divisione fortemente interessata dal divario digitale era, nella ricerca di Castells, l'età: solo il 29 per cento delle persone sopra i 50 anni aveva accesso ad internet, in contrasto con il 55,4 per cento del gruppo di età 25-49, il 56,8 per cento del gruppo 18-24 e il 53,4 del gruppo 9-17. Se si pensa poi che l'appartenenza alla forza lavoro fornisca un 56,7 per cento di utenti connessi contro il 29 per cento di coloro che non avevano un impiego, risulta anche più semplice capire come l'età dell'informazione non sia cieca neanche al colore. Difatti il 50,3 per cento di bianchi e il 49,4 per cento degli asiatico-americani aveva accesso a internet, ma solo il 29,3 per cento degli afro-americani e il 23,7 per cento degli ispanici. Tale fenomeno è spiegabile appunto prendendo in considerazione il fatto


che gli afro-americani hanno un grado inferiore di accesso al lavoro. Analogamente accade col divario generazionale, che si ipotizzava derivare dall'incapacità delle fasce più anziane della popolazione di apprendere il funzionamento delle nuove ICT ed adattarvisi. Se questi facessero parte della forza lavoro, afferma Castells, avrebbero una probabilità circa tre volte superiore di essere utenti di internet. Per quanto riguarda il divario di genere, nell'agosto 2000 era quasi scomparso in America in termini di accesso: tra gli individui, il 44,6 per cento degli uomini e il 44,2 per cento delle donne erano utenti di internet. Risulta evidente, dunque, che ciò che conta sempre di più nel determinare l'accesso ad internet, oltre alle caratteristiche sociografiche, è il rapporto dei singoli col lavoro, dato che internet diventa uno strumento professionale indispensabile. Inoltre, essendo internet una tecnologia formata dagli stessi utenti in misura molto maggiore di qualunque altra, sostiene Castells, questa finisce per rispecchiare la condizione di disuguaglianza sociale in cui essa stessa ha avuto luogo. L'autore pone poi all'attenzione una nuova problematica, ovvero, qualora una fonte di disuguaglianza sembra attenuarsi, ne emerge subito un'altra: si tratta ora dell'accesso differenziato al servizio ad alta velocità a banda larga. Difatti l'evoluzione dei programmi informatici, dei siti web, e di tutti i progetti e servizi disponibili in rete, si basa sempre di più sull'alta velocità di connessione. Diretta conseguenza di tale tendenza è il passaggio da comodità a vera e propria necessità della banda larga, per evitare di cadere nel vortice dell'esclusione. Un'altra dimensione degna di riflessione sul digital divide sta in quello che Castells definisce Gap Cognitivo. Egli afferma nel proprio testo che se esiste un consenso intorno alle conseguenze sociali dell'incrementato accesso all'informazione è che l'istruzione e l'apprendimento continuo diventino risorse essenziali per il successo professionale e lo sviluppo personale. Nella sua previsione il sociologo spagnolo aveva indovinato la rapida inclusione di internet come strumento educativo in tutto il sistema scolastico, supponendo che nelle società avanzate sarebbe stato presente nelle classi come il computer. Ciò comporta però che l'uso di internet e la tecnologia educativa non possano e non debbano prescindere dalla buona qualità degli insegnanti. Tale concezione però si scontra con un considerevole ritardo tra l'investimento in hardware tecnologico e connettività online da un lato, e investimento nella


formazione degli insegnanti e assunzione di personale esperto in tecnologia, dall'altro (Bolt e Crawford , 2000). Un tipo di apprendimento basato su internet però non richiede soltanto delle competenze pratiche in fatto di tecnologia, bensì cambia proprio il genere di istruzione richiesta sia per lavorare su internet, sia per sviluppare la capacità di apprendimento in un'economia e in una società basate su internet. Il cambio di prospettiva da adottare, secondo Castells, è dunque da apprendimento all'apprendimento-adapprendere, date appunto l'immensa mole di informazioni presenti online e la necessità/capacità di decidere cosa cercare, come rintracciare le notizie utili e come usarle per lo scopo prefissatosi in origine alla ricerca. La domanda che si pone l'autore è dunque: come si relazione questo squilibrio educativo al divario digitale? Egli propone quattro livelli:

Primo livello: la differenza tra scuole pubbliche e private porta con sé automaticamente anche una differenza di classi ed etnie nonché una sostanziale spaccatura in termini di tecnologie disponibili.

Secondo livello: l'educazione all'utilizzo delle tecnologie richiede insegnanti competenti, tuttavia la qualità di insegnamento è distribuita irregolarmente tra le scuole.

Terzo livello: c'è una sostanziale differenza nei metodi d'insegnamento che vedono da una parte l'attenzione allo sviluppo intellettuale e personale dei bambini, dall'altra una preoccupazione alla capacità di mantenere la disciplina e tenere a bada i bambini facendoli crescere attraverso i vari livelli di studio. Nel complesso le scuole delle classi alte e medie tendono a essere più attente all'apertura mentale rispetto a quelle delle aree a basso reddito.

Quarto livello: in assenza di un'adeguata formazione e disponibilità di risorse materiali all'interno delle scuole in fatto di educazione all'utilizzo di internet, saranno i genitori a dover fornire insegnamenti in materia ai propri figli, insegnamenti spesso carenti ed effettuati mentre sono i genitori stessi in fase di apprendimento.

Tali condizioni delineano un panorama che vede i bambini delle famiglie svantaggiate in posizioni assai più arretrate rispetto ai loro coetanei con maggiori capacità di trattamento delle informazioni derivate dalla loro esposizione a un ambiente domestico meglio istruito. Le capacità di apprendimento differenziate, in condizioni intellettuali ed emozionali simili, sono


correlate al livello culturale e d'istruzione della famiglia. Se queste tendenze fossero confermate, afferma Castells, in assenza di misure correttive l'uso di internet, a scuola come nella vita professionale, potrebbe amplificare le differenze sociali radicate in classe, istruzione, genere ed etnicità. Un'altro degli autori in materia di tecnologia digitale che hanno preso a cuore la questione del digital divide, tentando in qualche modo di limitare il problema è stato Nicholas Negroponte, informatico statunitense celebre per i suoi studi innovativi nel campo delle interfacce tra l'uomo e il computer, nonché autore del best-seller “Being digital” del 1995. Insieme alla moglie Elaine si è profondamente interessato al divario digitale e informativo dei paesi del terzo mondo. Entrambi hanno già avviato con successo ben tre scuole in Cambogia, fornendole di computer e connessione a banda larga. A seguito di questa esperienza, Negroponte ha cominciato a portare avanti un progetto ambizioso: portare l'informatizzazione e i dispositivi informativi come i computer là dove a malapena giunge la corrente elettrica. L'annuncio è stato dato il 28 gennaio 2005 a Davos (Svizzera), durante il Forum Economico Mondiale di quell'anno. In quella sede Negroponte ha anche affermato di avere già importanti partner commerciali pronti a fornire tecnologie, cervelli e fondi, per comparire nella lista dei finanziatori, tra cui AMD, Google, Motorola, Samsung e News Corporation (facente parte del gruppo di Rupert Murdoch). Il progetto viene destinato, per il momento, ad alcuni paesi ben precisi come la Thailandia, l'India e la Cina. E proprio quest'ultima ha dimostrato molto interesse sia per la tecnologia molto semplice e a basso costo che potrà essere portata facilmente in tutto il vasto Paese, sia per la già espressa voglia di indipendenza da prodotti costosi e proprietari. L'idea di fondo è quella di un computer, portatile, tecnologicamente non costoso (intorno ai 100 dollari), elettricamente non troppo oneroso, con una suite completa di programmi non proprietari, orientato alla connessione ed indirizzato principalmente alle nuove generazioni. Oltre a ciò bisogna considerare il fatto che i paesi citati non offrono situazioni meteorologiche ottimali per i computer, fuori dagli uffici climatizzati e ben aerati, quindi il grande test tecnologico che questi computer dovranno superare sarà la loro funzionalità e adattabilità a polvere, umidità, scossoni, cadute e bagnato. Un ulteriore problema che i ricercatori dovranno risolvere è la facilità di riparazione, visto che i luoghi da immaginare per questi pc sono zone rurali contadine in cui la città più vicina si trova a cento chilometri di distanza e un viaggio sino ad essa è un'avventura. La distribuzione di questi 'gioiellini', poco potenti e scarsamente attraenti davanti alle tecnologie informatiche a cui l'occidente è abituato, ma vitali in quelle aree, seguirà un progetto ancor più ampio che non è solo di informatizzazione, bensì di istruzione. Il fine principale infatti sarà quello di sostituire i libri di testo con delle poco costose copie in formato digitale.


Una risposta, in qualche modo critica, a Negroponte, proviene da Derrick De Kerckhove, direttore del Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia a Toronto, il quale, in un'intervista al Corriere Economia dell'aprile 2007 afferma: «Credo poco al superamento del digital divide grazie a computer da 100 dollari. Semmai, vedo dispositivi più simili al telefonino e comunque legati a tecnologie Wi-fi e WiMax: purchè siano disponibili gratuitamente. Il problema dunque è politico, non tecnologico. È legato alla volontà di superare le barriere monopolistiche di chi pone paletti al f ree-wireless, alle comunicazioni globali a bassocosto».


E-WASTE

Negli ultimi anni la grande diffusione delle tecnologie ha portato con sé problematiche relative allo smaltimento, al riciclo e al recupero dei prodotti. I rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), in inglese "Waste of Electric and Electronic Equipment" (WEEE) o "e-waste", sono rifiuti che consistono in qualunque prodotto elettronico in disuso di cui il possessore si vuole liberare. Questo tipo di spazzatura è molto inquinante per l’ambiente e contiene diverse sostanze chimiche tossiche e materiali nocivi pericolosi per l’uomo, che se non vengono smaltite nel modo corretto possono avere un forte impatto la salute delle persone.

Convenzione di Basilea La Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro


eliminazione (UN, 1989) è un trattato che regola e cerca di ridurre il trasporto di rifiuti pericolosi da un paese all'altro, occupandosi nello specifico di importazione in paesi in via di sviluppo. La Convenzione è stata redatta nel 1989, ed è entrata pienamente in attività nel 1992. Al marzo 2009 gli unici paesi a non aver ratificato la convenzione erano l'Afghanistan, Haiti e gli Stati Uniti d'America. I tre stati hanno però già firmato il trattato, si avvicina quindi la ratifica che porterà nei prossimi anni tutti i paesi aderenti alle Nazioni Unite ad aver aderito ufficialmente alla Convenzione. La Convenzione di Basilea definisce quali sono i rifiuti considerati pericolosi e cerca di limitare fortemente il trasporto di questi da paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo. In caso di trasporti di rifiuti prevede comunque che questi vengano schedati e che il loro intero percorso sia tracciato dalle Nazioni Unite. Nel 1995 il trattato è stato implementato dal Basel Ban Amendment!!!, che vieta il trasporto di qualunque rifiuto da un paese all'altro, neanche per riciclaggio. Questo divieto ha visto l'opposizione dura di USA e Canada, insieme ad alcune industrie multinazionali. L'Emendamento non è ancora stato rettificato da molti paesi; in ogni caso le nazioni ad averlo firmato sono 63 sulle 62 richieste perchè il trattato venisse accolto dalle Nazioni Unite!!!. Questo divieto è diventato pienamente operativo nell'Unione Europea, che lo ha accolto con il Wastment Shipment Regoulation (EWSR)!!!. In seguito alla nascita della Convenzione è stato creato un ente di controllo: il Basel Action Network (BAN), il quale si occupa del controllo del traffico di e-waste, oltre ad essere responsabile per le ispezioni nei siti di stoccaggio, smaltimento e riciclaggio dei rifiuti.

I RAEE

Secondo il decreto attuativo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, che definisce la gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, gli AEE sono le apparecchiature che dipendono per un corretto funzionamento da correnti elettriche o campi elettromagnetici e le apparecchiature di generazione, trasferimento e misura di queste correnti e campi, progettate per essere usate con una tensione non superiore a 1000 Volt per la corrente alternata e a 1500 Volt per la corrente continua (Ministero dell'ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, 2007) Sono AEE:


Grandi elettrodomestici

Piccoli elettrodomestici

Apparecchiature informatiche per telecomunicazioni

Apparecchiature di consumo

Apparecchiature di illuminazione

Strumenti elettrici ed elettronici (ad eccezione degli utensili industriali fissi di grandi dimensioni)

Giocattoli ed apparecchiature per lo sport e per il tempo libero

Dispositivi medici (ad eccezione di tutti i prodotti impiantati ed infettati)

Strumenti di monitoraggio e controllo

Distributori automatici

Non sono AEE (quindi non rientrano nella direttiva RAEE): •

I dispositivi medici impiantabili ed infettati

Gli utensili industriali fissi di grandi dimensioni

Le apparecchiature connesse alla tutela di interessi essenziali della sicurezza nazionale

Le armi, le munizioni ed il materiale bellico purché destinati a fini specificatamente militari

Sistemi centralizzati non funzionanti autonomamente (citofonia, video citofonia, sistemi di allarme, antincendio, rilevazione fumo e gas)

I RAEE sono le apparecchiature elettriche ed elettroniche giunte a fine vita. La norma divide i RAEE in 3 categorie: •

RAEE provenienti dai nuclei domestici

RAEE professionali

RAEE storici: RAEE derivanti da apparecchiature elettriche ed elettroniche immesse sul mercato prima del 13 agosto 2005

RAEE sono le apparecchiature intere, e non parti di esse. Questa suddivisione è utile per fini burocratici allo scopo di regolamentare la tassazione e il corretto smaltimento.


DIMENSIONE QUANTITATIVA DEL PROBLEMA IN ITALIA In Italia si stima che ogni abitante ha prodotto nel 2006 circa 14 chili di rifiuti elettronici con un totale di circa 800.000 tonnellate, di cui 108.000 sono stati raccolti in maniera separata. Questo significa che sono stati raccolti un po’ meno di 2 chili di rifiuti pro capite a dispetto dei 4 chili imposti dalla Comunità Europea e i 6 della media europea. Come si evince da queste stime in Italia siamo ben lontani dal target della direttiva europea e gli enormi volumi di rifiuti elettronici generati hanno imposto la necessità di modificare l’approccio verso questi prodotti adottando politiche di riuso, riciclo e smaltimento corretto dei RAEE. Dal sito istituzionale del Centro di Coordinamento dei RAEE oggi si contano in Italia 2.893 Centri di Raccolta che secondo gli esperti del settore non sono sufficienti per la migliore gestione dei rifiuti e non sono distribuiti in maniera uniforme nel territorio. Secondo un’inchiesta di Greenpeace sui rifiuti tecnologici infatti, le 8 regioni del nord (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) contano addirittura 2.172 aree di raccolta rifiuti, contro le 325 del Centro (Toscana, Umbria, Molise e Lazio) e le 302 delle rimanenti sei regioni del sud. Sardegna e Sicilia si trovano con soli rispettivamente 62 e 32 centri di raccolta. Questo significa che se nel Settentrione esiste un Centro di Raccolta ogni 12.500 abitanti, scendendo lungo la penisola si nota un aumento del numero di persone servite da una singola aree di raccolta. Nel Centro si ha un CdR per ogni 36.000 persone, contro le 46.000 del Sud e le oltre 71.000 delle isole. Questi dati ci danno un’idea della dimensione del problema, che, nonostante le preoccupazioni dei governi, è in rapida crescita per l’aumento spropositato del numero di prodotti elettronici in tutto il mondo.

I RISCHI PER L’AMBIENTE E LA SALUTE UMANA La contaminazione ambientale derivante da uno scorretto smaltimento di tecno-spazzatura riguarda l’ambiente in tutte le sue forme: l’acqua, l’aria e il suolo. Questo chiaramente si ripercuote nella salute umana. Per smaltimento non corretto s’intende la messa in discarica o la termodistruzione dei RAEE, interi o parti di essi che contengano ancora sostanze utili o nocive.


Un trattamento non appropriato e uno smaltimento non corretto dei RAEE comporta: •

La diffusione nell’ambiente di sostanze pericolose per la salute pubblica;

La distruzione o comunque lo spreco di materiali che possono essere reimpiegati nel ciclo produttivo, con conseguente impoverimento di risorse presenti in quantità limitata sul nostro pianeta.

In generale negli apparecchi elettrici ed elettronici si trovano diverse sostanze dannose come piombo, mercurio, cadmio, cromo esavalente, oli minerali e sintetici, PCB (policlorobifenili) e altri idrocarburi. Molti di questi elementi si accumulano nell’ambiente provocando effetti acuti e cronici sugli organismi viventi, spesso con danni irreversibili alla salute. Secondo l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo dell’Ambiente (ARPA) le sostanze nocive contenute nei rifiuti elettrici e elettronici sono:

CFC/HCFC: I clorofluorocarburi e gli idroclorofluorocarburi sono presenti nei circuiti di refrigerazione di frigoriferi/congelatori e condizionatori nonché nelle schiume poliuretaniche del rivestimento esterno degli stessi. Essi sono in grado di raggiungere intatti la stratosfera e di reagire con le molecole di ozono formando ossigeno semplice. Questo provoca l’assottigliamento della fascia di ozono, il quale determina un aumento delle radiazioni ultraviolette che sono causa di tumori alla pelle, malattie agli occhi, indebolimento del sistema immunitario; negli ultimi anni i casi di melanoma sono raddoppiati. PIOMBO: È contenuto nelle batterie e nelle saldature degli apparecchi. Si accumula nell’ambiente provocando effetti tossici acuti e cronici alle piante, agli animali e ai microorganismi. Nell’uomo può causare gravi danni al sistema nervoso centrale e periferico, a livello vascolare. CADMIO: Si trova in componenti, semiconduttori e tubi catodici di vecchio tipo. Può provocare danni irreversibili ai reni e al sistema osseo, causa di disturbi alla crescita. È considerato cancerogeno. MERCURIO: Si trova in termostati, sensori, interruttori, attrezzature medicali, apparecchi di telecomunicazioni e cellulari. Viene assorbito facilmente dagli organismi e trasferito, tramite i pesci, nella catena alimentare. Nell’uomo provoca danni al cervello, al coordinamento, al bilanciamento. CROMO ESAVALENTE: Usato per ridurre l’infiammabilità di componenti ed apparecchi elettrici ed elettronici, è presente in ritardanti di fiamma bromurati. Solubile in acqua, anch’esso entra nella catena


alimentare tramite i pesci. È tossico per l’ecosistema marino e nell’uomo provoca reazioni allergiche e bronchiti asmatiche ed è in grado di attraversare la membrana cellulare e danneggiare il DNA. È ritenuto cancerogeno. POLICLOROBIFENILI (PCB): Allo stesso modo del cromo esavalente, questi sono usati per ridurre l’infiammabilità di componenti elettronici. Tossico per l’ecosistema marino, entra nella catena alimentare tramite i pesci. Causa di reazioni allergiche e bronchiti asmatiche nell’uomo può danneggiare il DNA. È riconosciuto cancerogeno

NORME E LEGGI Negli ultimi anni, la gestione del fine vita delle apparecchiature elettriche ed elettroniche è diventata un problema a livello mondiale da affrontare in modo puntuale per difendere l’ambiente e sostenere lo sviluppo. Un incremento significante nella generazione delle apparecchiature elettriche e elettroniche (AEE) ha indotto molti stati a implementare politiche a occuparsi delle ragioni e delle conseguenze di questo sviluppo. Nonostante i politici di tutto il mondo stiano reagendo alla rapida crescita dei rifiuti elettrici e elettronici, questa reazione è strutturata da azioni prese dai singoli stati configurando un mosaico di politiche diverse. In Europa il tema dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche è regolamentato dalle direttive europee 2002/95/CE, 2002/96/CE e 2003/108/CE sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze pericolose nelle Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche e sulla gestione del fine vita della medesima tipologia di apparecchiature. Tale direttiva è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 25 luglio 2005 n. 151 attuata solo a partire dal 1° Gennaio 2008. Il decreto ha l’obbiettivo di arrivare alla raccolta media pro-capite di 4 Kg l’anno per abitante (circa 240 mila tonnellate) di rifiuti che dovranno essere recuperati (con percentuali che vanno dal 70 all’ 80 % in base alla categoria di rifiuto) o reimpiegati e riciclati (con percentuali che vanno dal 50 all’ 80 %). Il Consiglio dei Ministri europeo ha insistito sulla necessità di promuovere il recupero dei rifiuti al fine di ridurne la quantità da smaltire e di preservare le risorse naturali, in particolare mediante il reimpiego, il riciclaggio, il compostaggio e il recupero dell'energia dai rifiuti ed ha riconosciuto che la scelta delle


opzioni nei casi specifici deve tener conto delle conseguenze ambientali ed economiche, ma che fino a quando non interverranno progressi scientifici e tecnici al riguardo e non saranno ulteriormente sviluppate le analisi del ciclo biologico, bisognerà optare per il reimpiego e per il recupero dei materiali se e nella misura in cui essi rappresentano le migliori opzioni ambientali. La presente direttiva in Italia impone la responsabilità a produttori e distributori di creare consorzi ad hoc che provvedono allo smaltimento e al riciclo e di ritirare gli apparecchi elettrici o elettronici dati dai consumatori a patto che essi comprino un’apparecchiatura equivalente (una apparecchiatura adibita alle stesse funzioni della vecchia il cui peso non sia superiore al doppio di quella appena acquistata). Purtroppo questo non succede sistematicamente. Un’altra novità apportata dal decreto è la tassa sui RAEE: ogni volta che compriamo un apparecchio nuovo paghiamo una tassa (per legge non direttamente visibile, ma già calcolata nel prezzo dell’oggetto) in dipendenza dal peso e delle caratteristiche del prodotto. Per un frigorifero paghiamo 16 euro, 5 per una lavatrice, 3 e mezzo per un televisore fino ai 25 centesimi per l'iPod e i 28 per le lampadine a basso consumo. Il principio ha la sua logica: per smaltire questo tipo di rifiuto non pagano più indistintamente tutti i cittadini attraverso la TARSU, la tassa comunale sui rifiuti ma solo quelli che li producono, e cioè chi compra una tv nuova e quindi ne deve buttare via una vecchia.

POLITICHE A RIFIUTO ZERO Nella seconda metà del ‘900, il boom economico ha portato ad un enorme incremento della quantità di prodotti e quindi rifiuti con conseguente consumo di energia e inquinamento. La più ovvia soluzione al problema è stata la costruzione di discariche, che si sono rivelate inquinanti e indecorose. La risposta alle polemiche è stata l’invenzione degli inceneritori, che sono sembrate per un decennio (almeno fino all’arrivo dei primi incidenti e ai dati sulle patologie) la soluzione definitiva: da un’enorme massa di rifiuti si riduce ad una relativamente piccola fatta di ceneri tossiche. Tale innovazione sembrava anche relativamente economica e gestibile dal punto di vista della sicurezza, ma dopo qualche anno cominciarono a sorgere comitati contrari e proteste. A partire dagli anni ’90 la prospettiva cominciò a cambiare dando progressivamente corpo alla strategia di Zero Waste, oggi attuata dal 50% delle città in Nuova Zelanda, dall’Australia, dal Canada, dalla California, dallo Stato dell’Oregon, da alcune cittadine Giapponesi, e da molte aziende multinazionali (tra cui: Toyota, Bell Canada, Xerox, Hewlett Packard).


I risultati sono straordinari: la Xerox Usa stima che le propria politica Zero Waste, grazie a riduzione, riuso e riciclo, abbia prodotto in soli nove anni (dal 1990 al 1999) un risparmio di quasi 47 milioni di dollari. La stessa politica alle Olimpiadi di Atlanta ha permesso di fare la raccolta differenziata dell’85% dei rifiuti; lo stabilimento Epson nell’Oregon ha eliminato del 90% la quantità di rifiuti; la catena canadese Beer Store recupera il 98% delle bottiglie immesse sul mercato, con un risparmio di circa 160 milioni di dollari e ricicla il 97% degli imballaggi in plastica. Zero Waste è un metodo di lavoro il cui scopo è ridurre i rifiuti, l’impiego di energia e di materia, lo spreco e l’inefficienza, partendo dalla considerazione che l’esistenza dei rifiuti è sintomo della inefficienza del sistema economico e che è possibile porvi rimedio con la tecnica e l’organizzazione. In particolare si studia la comunità dove agire, analizzando il flusso della materia, e si trovano le soluzioni tecniche e organizzative insieme ai produttori e ai cittadini. In seguito attuando le soluzioni trovate, si ottiene la riduzione dei rifiuti nella produzione, distribuzione e nel consumo sia per quantità sia per tossicità, per quanto possibile a livello locale. Così si riutilizzano le cose dismesse, creando aziende che le commercializzano dopo averle aggiustate, creando Parchi del riuso e della rivendita e un mercato vero e proprio, con un adeguato supporto finanziario e legislativo. Tutto ciò, naturalmente, va supportato con azioni educative e formazione sul riuso e compostaggio. Il successivo passaggio consiste nel riciclare e inserire correttamente sul mercato i prodotti del riciclo, supportare la ricerca tecnica e logistica, creare conoscenza attraverso studi specifici, con corsi universitari, Accademie Zero Waste, ecc., diffondendo insomma un clima creativo, una cultura tra i cittadini e nell’economia. Così i rifiuti diventano risorse economiche e non costi. Robin Murray (famoso economista della London School of Economics) è il più celebre promotore di questa “filosofia”, che grazie alla combinazione “riduzione, riuso, riciclo” ed educazione al tema assicura una rivoluzione nel campo economico, energetico e ambientale.


E-WASTE NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO Quando si tratta questo argomento vanno fatte delle importanti premesse. Il problema dei rifiuti tossici è infatti rilevante in molti paesi in via di sviluppo, ma lo è anche in potenze economiche mondiali come Cina ed India, per ovvi motivi si parla quindi di situazioni completamente diverse. E' chiaro come vadano ben distinti paesi in cui l'informatizzazione è in crescita ed in cui si sviluppa anche l'industria del riciclaggio da quei paesi africani, che vengono invece sfruttati come semplici discariche. Non a caso c'è anche un livello di consapevolezza diversa fra diversi importatori di e-waste. In Asia chi riceve i rifiuti conosce esattamente la loro natura e sa valutare ogni singolo pezzo ricevuto, potendosi così permettere una precisa selezione iniziale. Nei paesi africani invece questa perizia non esiste, si accettano carichi di rifiuti tossici senza aver la minima consapevolezza di quello che può essere il loro contenuto(C.Schmidt, 2006). Sembra riflettersi anche in questo caso una sorta di “divide”, stavolta tecnologico, che vede svantaggiati i soggetti più poveri della filiera. Se a questo aggiungiamo che il paese più informatizzato al mondo, gli Stati Uniti d'America, non ha ancora ratificato la Convenzione di Basilea, si può intuire quanto questo mercato sia nebuloso e difficile da controllare.

ASIA Come già detto una classificazione di e-waste unica e condivisa a livello internazionale non esiste, è quindi impossibile controllare completamente i traffici di rifiuti nell'area asiatica, in cui si ritrovano nazioni con legislazioni molto severe e precise come il Giappone, ma anche enormi colossi come l'India in cui una regolamentazione non esiste o la Cina, in cui le regole ci sono ma spesso non vengono rispettate. Il traffico di prodotti nocivi è ovviamente facilitato da questo caos legislativo esistente; la mancanza di definizioni precise che specifichino la differenza fra prodotti di seconda mano, e-waste e semplici rifiuti metallici (mixed metal scrap) fa sì che questi possano essere importati od esportati senza grosse difficoltà (Japan’s National Institute for Environmental Studies, 2006). Abbiamo visto quindi che paesi come Cina, Giappone, Corea e Taiwan hanno regole ben definite per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti “interni”. In alcuni casi sono i produttori ad esser responsabili anche economicamente per lo smaltimento, in altri i consumatori. Il problema nasce però quando ci si concentra su quelle che sono le regole per l'esportazione dei rifiuti nazionali, per il già citato problema


delle classificazioni ed anche perché non tutti I paesi del sud-est asiatico mettono in atto i principi della Convenzione di Basilea. In Corea, del Sud per esempio, non viene applicato nessun limite all'esportazione di rifiuti tecnologici, né esiste un obbligo di un trattamento preliminare di questi, ecco quindi che in questa maniera si riescono a trasportare enormi quantità di prodotti contenenti sostanze nocive senza problemi burocratici. Il costo per la nazione, per i produttori, per i consumatori e per i trasportatori è ridotto, ma a farne le spese sono le popolazioni che devono poi venire a contatto con questi rifiuti.

CINA La Cina è il nodo cruciale dell'e-waste a livello globale. In questo paese infatti arrivano la maggior parte dei rifiuti tecnologici planetari, sempre qui si trovano inoltre alcune fra le più grandi centrali di riciclaggio specializzate, come quella di Guiyu, nella regione del Guandong (Takayoshi Shinkuma , Nguyen Thi Minh Huong, 2008) In questa discarica, la più grande esistente al mondo, si ammassano tonnellate di rifiuti tecnologici provenienti dalla Cina stessa, dagli Usa, dal Giappone, dalla Corea del Sud e dall'Europa. Questo va di fatto a cozzare con la legislazione cinese, che vieta categoricamente l'importazione di WEEE (i RAEE internazionali) di seconda mano. Emerge di nuovo quello che è il maggior problema legato all'e-waste: la cronica mancanza di controlli e classificazioni ben definite dei materiali dannosi. Spesso infatti prodotti che dovrebbero essere classificati come WEEE vengono invece immessi come semplice spazzatura (scrap). Il governo cinese in questo caso ha ignorato volutamente il fatto che nelle discariche le leggi non venissero rispettate, a patto che il 4% dei guadagni (grazie all'assemblamento di nuovi prodotti da materiali riciclati) venisse versato come imposta (value added tax). (Japan’s National Institute for Environmental Studies, 2006). Questo stato di cose è potuto andare avanti fino ad oggi vista la grandissima richiesta cinese di prodotti realizzati con materiali usati. Ora che però il mercato è in crisi, a favore di quello dei prodotti di nuova fattura, si prevede quindi dei cambiamenti nel mercato tecnologico cinese dei prossimi anni. Il governo cinese ha cercato di regolamentare, almeno formalmente, questo flusso di materiali. Fino ad una decina di anni fa infatti, le fabbriche che si occupavano di riciclaggio erano piuttosto piccole e di proprietà di poche aziende; ogni sito lavorava così qualunque tipo di materiale senza rispettare standard qualitativi e di sicurezza adeguati. Questa situazione rendeva ovviamente difficili i controlli da parte


delle istituzioni, che non potevano fare altro che chiudere le fabbriche in cui venivano rilevate delle irregolarità. A quel punto però bastava spostare i materiali illeciti da un sito all'altro e continuare nelle attività illecite che erano la prassi. Si è deciso quindi di attuare una nuova strategia: non più combattere semplicemente il riciclaggio “sporco”, ma parallelamente favorire la nascita di impianti a norma.(Japan’s National Institute for Environmental Studies, 2006) Guiyu nasce proprio così, pur con le sue mille contraddizioni. L'accentramento di gran parte del materiale in arrivo ha infatti aiutato il controllo dei rifiuti in entrata (senza debellare ancora l'afflusso di rifiuti illegali), ma si è trascinata dietro una delle tante contraddizioni del gigante economico cinese. La situazione per quel che riguarda le condizioni di lavoro dei dipendenti è infatti disastrosa e spesso a lavorare sui materiali dannosi vengono posti dei bambini(Greenpeace, 2005). La Cina però, visto il suo boom economico, ha dovuto contemporaneamente fronteggiare l'enorme incremento di produzione locale di rifiuti tecnologici, dato che un numero sempre maggiore di persone ha iniziato a potersi permettere televisori, elettrodomestici e cellulari. Nel 2004 ha quindi ufficialmente definito quali fossero i rifiuti da considerare come e-waste: tv, frigoriferi, lavatrici, condizionatori d'aria e personal computers. I distributori hanno il ruolo di raccolta dei rifiuti tecnologici dai consumatori, dovranno poi inviarli ad impianti di riciclaggio certificati che si occuperanno dello smantellamento, riutilizzo o smaltimento. Per incoraggiare questo processo sono stati rilasciati dei contributi da parte dei produttori.

AFRICA La situazione africana è ancora più selvaggia di quella asiatica, ma non è affatto legata alla produzione interna di e-waste. Alcuni paesi (soprattutto la Nigeria) sono infatti delle semplici discariche di rifiuti tecnologici occidentali. Le stime non ufficiali dicono che per il porto di Lagos passino ogni mese più di 500 cargo contenenti rifiuti tecnologici non classificati (C.Schmidt, 2006). Dato che per l'importazione di WEEE esistono precise e costose tariffe, si preferisce classificare illegalmente tutti i rifiuti come semplice scrap, il reale contenuto di questi cargo rimane quindi, fondamentalmente, un mistero. Di certo c'è il prezzo per un singolo trasporto: 5000$, davvero esiguo rispetto ai regolari costi di smaltimento. Dal punto di vista degli importatori il guadagno è quasi assicurato, dato che bastano 40 buoni computer in mezzo


all'immondizia inutilizzabile per avere un lauto guadagno. In Nigeria l'industria del riutilizzo è sviluppatissima, I rifiuti vengono riparati o riassemblati in loco, quindi venduti in quantità industriali. Il problema sta nel 75% di rifiuti che però non sono in nessuna maniera riutilizzabili, che quindi si accumulano nelle discariche nigeriane, con il loro carico letale di metalli e sostanze chimiche dannose. Dato che il confine fra discarica e zona abitativa è estremamente labile, questi rifiuti vanno ad avere un impatto ancora più forte sulla vita della popolazione. Inviati del BAN si sono trovati davanti ad enormi discariche in cui i bambini giocavano con materiali per loro tossici. In queste aree vagano pure animali come capre o polli, che rappresentano una grossa fetta della nutrizione di queste popolazioni, che si ritrovano quindi completamente immerse nella tossicità prodotta dai rifiuti tecnologici occidentali.


Conclusioni Si è visto nel corso di questa relazione come le tecnologie, in particolar modo quelle dell'informazione e della comunicazione, non siano strumenti neutri o ininfluenti all'interno della società in cui si sviluppano o vengono importati. Le ICT, essendo essenzialmente delle psico-tecnologie, come le definisce D. De Kerckhove, ridefiniscono i sistemi relazionali e le dinamiche sociali, permettono, in base al tipo di governo, un certo grado di libertà informativa, diffusione dei saperi, modellano la pische e si trasformano continuamente per soddisfare bisogni, spesso indotti, di interazione e continuo aggiornamento informazionale. Ovviamente la tecnologia ha un prezzo, necessita di competenze ed infrastrutture per essere prodotta, di una certa qualità d'insegnamento per permetterne l'utilizzo ed ovviamente una predisposizione infrastrutturale e sociale dell'ambiente in cui viene sfruttata. Accanto a queste prime problematiche di livello generale, se ne affiancano altre più specifiche come età, sesso, etnia, luogo di residenza, accesso al lavoro, professione. Ognuno di questi status è un potenziale motivo di esclusione dall'utilizzo delle ICT, motivi che associati e combinati insieme danno vita a quello che viene definito digital divide, ovvero la diseguaglianza di accesso e di utilizzo delle tecnologie della cosiddetta “società dell’informazione”. Pensando inoltre alla velocità con cui nascono e muoiono le tecnologie dell'informazione come telefoni cellulari, computer ed hardware di ogni tipo, è venuto spontaneo porsi due domande fondamentali. La prima sulle conseguenze che questa continua e rapida produzione ha all'interno dei paesi sviluppati, all'interno di quelli in via di sviluppo e tra “nord” e “sud” del mondo. La seconda è sul dove vanno a finire i “cadaveri elettronici”, come vengono smaltiti, se vengono smaltiti, e quali normative e accordi stanno dietro il traffico di questi rifiuti. Dalle ricerche effettuate nel corso della stesura di questa relazione è emerso come questo progresso tecnologico e comunicativo sia in realtà fonte di arricchimento dei principali paesi produttori a discapito di quelli in via di sviluppo. Questo svantaggio si spiega prendendo in considerazione, oltre alle importanti problematiche di ordine economico e politico, anche quelle di tipo amministrativo come il progressivo processo di virtualizzazione delle burocrazie nazionali e locali. Se si prendono a titolo d'esempio carta d'identità e tessera sanitaria digitali, come potranno interagire quelle società o quegli stati che hanno alla base elementi che poggiano su sistemi di produzione, controllo, ed utilizzo


diametricalmente diversi? E ancora: quanto verrano ulteriormente esclusi dalle decisioni di ordine globale i paesi che non hanno un pieno controllo dei mezzi che trasmettono informazione sulla loro propria nazione e società? Su questo Castells si trova in accordo con le frange meno estremiste e non violente degli attivisti antiglobalizzazione, che trovano un eco nell'opinione pubblica preoccupata degli effetti di questa nuova società in termini di occupazione, istruzione, protezione sociale e stili di vita. Castells introduce inoltre anche il problema del rischio di perdita di controllo dello strumento internet, proprio a causa della sua natura interattiva. Tale considerazione meriterebbe un discorso a parte sui rischi che porta con sè un utilizzo estremamente libero della tecnologia digitale, nondimeno sul rischio di cadere, per preservare la privacy e la sicurezza delle persone, nella trappola del controllo sociale che parte proprio dal controllo delle informazioni personali. Di questo si è deciso di non trattare nel corso di questa relazione, sebbene se ne riconosca un'estrema importanza, proprio per evitare di dilungarsi oltremodo e perdere di vista gli obiettivi prefissati in origine. Oltre questo va considerata la grande quantità di rifiuti elettronici che, in violazione ai trattati e alle legislazioni internazionali, vengono riversati nei paesi in via di sviluppo sfruttando cinicamente il canale delle donazioni. Per citare ancora una volta il validissimo testo di Castells "l'economia potenziata dalle reti esplora incessantemente il pianeta alla ricerca di opportunità di profitto, c'è un processo di sfruttamento accelerato delle risorse naturali, nonchè di crescita economica dannosa per l'ambiente [...] se includiamo nello stesso modello di crescita la metà della popolazione planetaria che è attualmente esclusa, il modello di produzione e consumo industriali che abbiamo creato non è ecologicamente sostenibile. La soluzione per le enormi quantità di e-waste prodotte dal nostro modello di sviluppo non è una sola, ma va trovata per ogni passaggio che fanno questi prodotti. Vanno innanzitutto applicate su scala globale tecniche di eco-design che già esistono, e permettono una separazione più semplice ed economica dei vari materiali presenti nei circuiti elettronici. Il passaggio successivo è quello di sensibilizzare le aziende distributrici di prodotti elettronici nel ruolo fondamentale che devono avere per quanto riguarda il recupero di prodotti usati. A questo punto sarà la catena di smaltimento a dover applicare le corrette tecniche, in modo da ridurre al minimo l'impatto inquinante dell'e-waste, oltre a


recuperare i prodotti quando possibile. La funzione di controllo dovrà essere svolta da istituzioni nazionali ed internazionali (come il BAN), in modo che le regole che ora esistono vengano finalmente applicate in ogni situazione.

CRITERI DI SOSTENIBILITÀ Il nostro lavoro vuole portare a riflettere sul tema più generale della sostenibilità economico-sociale. Si è visto quali siano le potenzialità delle nuove teconologie dell'informazione e quali problematiche derivino dal loro utilizzo. Queste teconologie rappresentano in qualche modo degli artefatti cognitivi che, progettati e pensati in maniera sostenibile, potrebbero risolvere alcune problematiche su diversa scala, partendo dal locale per arrivare al globale. Pertanto si è ritenuto utile formulare alcune linee guida su come gli artefatti dovrebbero essere concepiti.

1° La produzione dell'artefatto non deve generare forme di "neo-colonialismo" e gravare sull'economia dei paesi in via di sviluppo. Prodotti realizzati in occidente per risolvere il digital divide farebbero solo crescere l'economia dei paesi più ricchi senza trasferire competenze e ricchezza ai paesi che si vogliono aiutare.

2° L'artefatto deve avere un costo sostenibile per essere accessibile al maggior numero di fasce sociali.

3° Adozione della filosofia open source, sia per quanto riguarda le componenti hardware che per il software, e unificazione degli standard inteso in senso di compatibilità e componibilità

4° Gli artefatti devono essere realizzati con materiali riciclabili grazie alle nuove tecniche di ecodesign, in modo da favorire il riutilizzo dei materiali usati o il loro corretto smaltimento.


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