Good For Alps 2015 (IT)

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IT

BIODIVERSITY HUMANS

2015

NATURE

ROUTES


INDICE

BIODIVERSITÀ:

LA NOSTRA VERA

PRATI E PASCOLI

RICCHEwwA

DI MONTAGNA, SERBATOI DI

UN “MURETTO

LA COLTIVAwIONE

CONTATTO CULTURALE

IN MONTAGNA

BIODIVERSITÀ

BASSO” PER IL

CON LA GENTE DI

DELLO wAFFERANO

IL CAMBIAMENTO CLIMATICO MINACCIA

CONTRIBUTI

LA SALAMANDRA DI AURORA

LA BIODIVERSITÀ

SFUMATURE

SENWA CONTORNI

THURAUEN:

ISLANDA, DOVE LA BIODIVERSITÀ SI

UOMO E NATURA

LA SUA FORWA

NATURWENTRUM

BELLO E DIFFICILE

CONVIVENwA FRA

IL TREKKING PIÙ D’ITALIA

CARLO BARBANTE

ENRICO ROMANAWWI

Direttore dell’Istituto per la Dinamica dei Processi Ambientali del CNR e Professore Ordinario all’Università di Venezia dove si occupa da anni di ricostruzioni climatiche ed ambientali e dello sviluppo di metodologie analitiche innovative in campo ambientale. Ha partecipato a numerose spedizioni e campagne di prelievo in aree polari e nelle Alpi.

Dottore in Scienze Naturali con master in Conservazione della Biodiversità Animale, collabora con enti pubblici e privati per progetti di ricerca, conservazione, pianificazione ed educazione ambientale con particolare riferimento agli anfibi, ai rettili e alle zone umide.

L’ANELLO

DELL’ANTELAO

MONTAGNA

SELVAGGIO BLU:

CESARE LASEN

Geobotanico, già presidente del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi, membro del Comitato Scientifico della Fondazione Dolomiti Unesco, autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative, impegnato nella conoscenza del territorio e nella conservazione della Natura.

pag. 6 STEFANO SANSON

DAVIDE TORRI

ELISABETTA FELTRIN

Insegnante presso l’Istituto Agrario “A. Della Lucia” di Feltre (BL), come Agrotecnico si occupa di progetti di ricerca per il recupero, conservazione e valorizzazione dell’agro-biodiversità della montagna bellunese.

Insegnante e socio fondatore dell’associazione bergamasca Gente di Montagna (www.gentedimontagna.it), è da anni attento alle dinamiche sociali, positive quanto negative, che si sviluppano sulle Terre Alte.

Antropologa culturale vive a Cesiomaggiore, nel bellunese. Dal 2010 collabora con il Museo etnografico della Provincia di Belluno e del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi e dal 2012 insegna materie letterarie presso scuole secondarie di primo e secondo grado.

ESPRIME IN TUTTA

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pag. 14 INGO IRSARA

ANDREA PASQUALOTTO

Laureato in scienze naturali è guida naturalistica. Lavora nell’ambito della consulenza tecnica nel campo ambientale per gli enti e per le aziende.

Guida alpina e maestro di sci e dal 2009 istruttore nazionale guide alpine. Vive a Badia in Val Badia, nel cuore delle Dolomiti.

Laureato in scienze ambientali è guida naturalistica, si occupa di educazione ambientale ed ecoturismo. Organizza e guida trekking in Dolomiti in collaborazione con Kailas - Viaggi e Trekking (www.kailas.it). Ha vissuto in Islanda e da qualche anno accompagna viaggi in quella che considera la sua seconda patria.

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CREDITS 2

GOOD FOR ALPS

Prodotti da agricoltura di montagna www.cooperativalafiorita.it

Progetto Zafferano di montagna OLG www.gentedimontagna.it

Centro natura Thurauen www.naturzentrumthurauen.ch (partner tecnico AKU)

Progetto editoriale // AKU trekking & outdoor footwear Testi // a cura di Teddy Soppelsa, AKU Marketing dept., con il contributo degli amici di AKU COPERTINA // illustrazione di Alex Della Mea Progetto grafico // Pubblimarket² Stampa // Tipografia Castaldi, Agordo - BL - Italy

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FEDERICO BALWAN

COLLABORAWIONI

Progetto Wanderdorf www.laval-altabadia.com Laboratorio-festival promosso dalla fondazione Dolomiti Unesco www.dolomitesunescolabfest.it

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pag. 24 NATURWENTRUM THURAUEN

La pianura alluvionale Thurauen è una delle più preziose aree umide della Svizzera: una zona naturale e ricreativa unica alla foce del Thur nel fiume Reno. Il Centro Natura Thurauen è il luogo ideale per escursioni a piedi o in bicicletta e per numerose esperienze di educazione ambientale.

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BIODIVERSITÀ: LA NOSTRA VERA RICCHEwwA Durante una escursione nella natura, l’incontro con un prato in fiore o con qualsiasi altro paesaggio di elevato valore naturale, provoca in noi un’emozione di bellezza. Un atteggiamento istintivo e universale che ha radici biologiche. La bellezza della natura è soprattutto diversità o meglio biodiversità. Ma cos’è la biodiversità? Per scoprirlo proviamo a fare un piccolo gioco. Scrivete un elenco di tutti i mammiferi a voi più vicini (uomo, cani, gatti, mucche, pecore, cavalli, ...). Quando avrete fatto una bella lista, sicuramente ve ne mancherà qualcuno. Infatti la classe dei mammiferi conta oltre 4500 specie e per quanto preparati siete vi sarà difficile elencarli tutti. Ora provate a fare lo stesso gioco con gli insetti, oppure con le piante erbacee o con gli alberi. Non ci riusciremo mai. Il numero di specie diverse è così alto che non riusciamo nemmeno ad immaginarle. Questo gioco dà l’idea di cos’è la biodiversità, ovvero l’insieme di tutte le forme viventi e questo implica tutta la variabilità biologica (geni, specie, habitat ed ecosistemi). La biodiversità della Terra ha dei numeri impressionanti. Fino a oggi sono state descritte oltre 1 milione e 700 mila specie, ma si ipotizza che ne possano esistere oltre 12 milioni e moltissime aspettano di essere scoperte. LA BIODIVERSITÀ IN SINTESI È LA DIVERSITÀ DELLA VITA Anche noi facciamo parte della biodiversità e sfruttiamo i servizi che questa ci offre. La biodiversità ci fornisce cibo, acqua, energia e risorse per la nostra vita quotidiana. In che modo? Mantenendo quelle delicate relazioni fra gli organismi e gli ecosistemi che si sono evolute in migliaia di anni. Quando la biodiversità è minacciata si generano una sequenza di reazioni a catena e, oltre alla scomparsa di specie, viene compromessa anche l’integrità di molti

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ecosistemi terrestri su cui si basa la vita di milioni di persone. In particolar modo potremmo rischiare di perdere servizi di cui oggi diamo per scontata l’efficacia, come i processi di purificazione dell’aria e dell’acqua o il controllo della crescita degli insetti nocivi da parte di altre specie. La biodiversità interagisce inoltre con le conoscenze e le tecniche tradizionali e le identità dei popoli, contribuendo così a conservare le diversità culturali, sempre più minacciate dalla globalizzazione imperante. Nonostante gli indubbi benefici derivati dalla biodiversità per la vita sulla Terra, molteplici attività economiche speculative e dissipatrici di risorse stanno compromettendo gli habitat naturali. Secondo le stime ONU il tasso di perdita della biodiversità nella Terra ha registrato negli ultimi anni un incremento vertiginoso e un terzo delle specie animali e vegetali conosciute è minacciato. Le cause sono molteplici: i cambiamenti climatici derivati dalle attività umane, la deforestazione, lo sfruttamento intensivo del suolo, l’inquinamento idrico ed atmosferico, gli incendi, l’aumento dell’urbanizzazione, l’aumento demografico e il turismo di massa, l’introduzione di specie aliene e di OGM, la pesca, la caccia e i traffici illeciti. L’urgenza di tutelare la diversità biologica è da almeno due decenni all’attenzione di molti capi di Stato. In particolare il 2010 venne proclamato Anno Internazionale della Biodiversità con l’impegno, entro quella data, di ridurre la perdita della biodiversità. Purtroppo l’obiettivo non fu raggiunto e così gli Stati membri delle Nazioni Unite, riuniti ad Aichi in Giappone, approvarono per il periodo 2011-2020 un nuovo piano per arrestare e possibilmente invertire la perdita di biodiversità del pianeta. Da quanto emerge da una recente analisi pubblicata su Science, nonostante gli sforzi e qualche progresso della comunità mondiale, gli obiettivi fissati nella Convenzione di Aichi sono ancora lontani e

per alcuni di essi si temono addirittura dei peggioramenti nei prossimi cinque anni. AGIRE IN MODO ETICO E RESPONSABILE Tutti i nostri comportamenti hanno delle conseguenze sulla biodiversità. Spostarsi a piedi, in bicicletta o con mezzi pubblici permette di ridurre l’immissione di inquinanti in atmosfera. Fare la raccolta differenziata, fare acquisti anche in funzione della provenienza dei prodotti, ridurre il consumo di acqua e sostanze chimiche nelle nostre case, sono tutti modi utili per proteggere le specie viventi del nostro pianeta e per un uso responsabile delle risorse. Molte persone, e fortunatamente un numero crescente di aziende, stanno incominciando a capire che quanto facciamo per guadagnarci da vivere minaccia l’ambiente e non sempre riesce a soddisfare i bisogni umani più profondi. Anche noi di AKU siamo consapevoli di questo fatto e cerchiamo di agire in modo etico e responsabile. Come? Impegnandoci nella ricerca di soluzioni progettuali dirette a limitare l’impatto ambientale della nostra organizzazione industriale e a fornire la massima trasparenza sull’origine del prodotto. Sul versante sociale l’impegno è invece rivolto a supportare progetti finalizzati a favorire la riconquista di un rapporto armonico fra l’uomo e l’ambiente naturale inteso come spazio di vita e di lavoro. Siamo consci che è un cammino difficile, non privo di contraddizioni, e per essere una azienda veramente responsabile potremmo e dovremmo fare di più. Tuttavia il nostro impegno è serio e concreto e la strada che abbiamo imboccato ha una sola direzione. Da qui non si torna indietro.

a fianco: Selvaggio Blu, Golfo di Orosei (ph. Paola Finali)

GOOD FOR ALPS 2015 ALLA SCOPERTA

DELLA BIODIVERSITÀ La conservazione della biodiversità è una sfida in cui ognuno di noi può impegnarsi. Noi di AKU ci siamo chiesti: “Cosa possiamo fare per accrescere la consapevolezza sul valore e l’importanza della biodiversità?” Abbiamo trovato la risposta dentro e fuori la nostra azienda. In primo luogo impegnandoci ad agire responsabilmente e poi a promuovere azioni d’informazione per far crescere la cultura della biodiversità. Questa edizione di Good For Alps 2015 è concepita proprio con queste finalità: sensibilizzare e promuovere la conoscenza della biodiversità. Abbiamo chiesto a studiosi, ricercatori, guide alpine e naturalistiche, di esprimersi sui “temi caldi” della biodiversità e di illustrare il valore e l’importanza di conservare gli ecosistemi, indicando delle rotte che potranno diventare la meta delle nostre escursioni “alla scoperta della biodiversità”. Anche tu puoi unirti alla nostra ricerca di storie, soluzioni, esempi “alla scoperta delle biodiversità”. Inviaci i tuoi racconti o le tue esperienze all’indirizzo e-mail info@aku.it: daremo voce a tutte queste storie e “buone prassi” sui nostri cataloghi, sui nostri canali web e social. Buona lettura e buon cammino.


PRATI E PASCOLI

Nei prati, sempre da preferire rispetto ai pascoli, almeno fino al limite della foresta (non a caso il primo Labfest delle Dolomiti Patrimonio dell’Umanità è stato dedicato a questo tema, Val Badia 5-7 settembre 2014) le specie a rischio, divenute rare sono in numero rilevante, soprattutto negli ambienti più estremi. La regina delle Alpi, Eryngium alpinum, anche per effetto di eccessive raccolte in passato, è solo uno degli esempi più noti e documentati.

DI MONTAGNA, SERBATOI DI BIODIVERSITÀ

di Cesare Lasen L e formazioni erbacee (prati e pascoli) in ambienti montani rappresentano il connotato fisionomico che, alternato ai boschi, a luoghi umidi, rupi e falde detritiche caratterizza un paesaggio i cui elementi sono profondamente penetrati nella nostra visuale a livello di immaginario collettivo. Ipotizzare scenari alpini e prealpini privi di prati o pascoli fioriti è ancora impensabile. Eppure essi sono in gran parte frutto della natura e, appunto, del lavoro dell’uomo. Le tradizionali attività agrosilvopastorali hanno per secoli mantenuto equilibri straordinari che da qualche decennio percepiamo come sempre più fragili e minacciati. Non è corretto prendersela genericamente con l’avanzata del bosco, che anzi tende a recuperare il suo ruolo e, nel medio-lungo termine, a proteggere meglio i versanti dall’erosione causata dagli agenti meteorici. La pubblicazione di liste rosse sulle specie minacciate a vari livelli, comprese quelle in estinzione, evidenzia che le formazioni erbacee, subito dopo quelle dei biotopi umidi (laghetti, torbiere, sorgenti, paludi, sponde dei torrenti), sono quelle più esposte al rischio e includono il maggior numero di entità vulnerabili e in regresso, subito dopo gli stessi ambienti umidi. In particolare proprio i prati umidi e magri, oltre a quelli arido-steppici, sono gli habitat più rarefatti e con maggiore perdita di biodiversità. Nella tradizione montanara il ruolo svolto per secoli dai prati (ancor più che dai pascoli che, anzi, oggi mostrano segnali di degrado a causa delle modificazioni intercorse nella loro gestione), cioè le formazioni erbose soggette a regolare falciatura, ha alimentato leggende, ispirato artisti, offerto alle nostre coscienze occasioni straordinarie di godere dell’autentica bellezza. Ci si è finalmente accorti che tale patrimonio è a rischio e viene eroso, allo stesso modo delle grandi foreste della fascia equatoriale.

aku è partner di:

tacolo che, in passato era importante ma che era economicamente sostenibile per il valore che aveva il foraggio, oggi molto diminuito a seguito della differente alimentazione dei bovini. Si tratta, da un lato, dell’abbandono delle colture dovuto alla spopolamento delle aree montane, attratte dai fondovalle industrializzati e meglio accessibili; in tali ambiti i servizi vengono sempre più soppressi o limitati, favorendo solo un turismo mordi e fuggi, poco sostenibile. Dall’altro, del fenomeno dell’intensivizzazione delle colture foraggere, attraverso forti concimazioni, soprattutto liquame, che semplificano le comunità vegetali abbassando molto la biodiversità (oltre alla sparizione di alcune specie si ha un dimezzamento del loro numero per unità di superficie) e rendendo i prati meno belli e con scarse fioriture, anche se più produttivi. Si rammenta che i prati magri sono i più ricchi di specie. Questo fenomeno è ancora più grave del precedente, anche se, apparentemente, conserva il paesaggio rispetto allo scenario di abbandono con avanzata di arbusti e alberi.

Servizi ecosistemici e scelte consapevoli per cambiare rotta Pensare in pochi anni di riprendere a falciare come un tempo, su estese superfici, appare anacronistico e poco praticabile senza adeguati incentivi. L’esistenza di aree protette (parchi nazionali, regionali, riserve naturali e biotopi speciali) e di siti natura 2000 (la direttiva europea habitat n. 43 del 1992 riconosce finalmente l’importanza di prati seminaturali, cioè soggetti a gestione) fornisce la possibilità di erogare incentivi e sviluppare buone pratiche. Almeno un campione significativo di queste zone erbacee (in Svizzera sono molto ben censiti i prati aridi, ad esempio, quelli a maggior rischio) potrebbe essere salvato pagando l’agricoltore per i servizi offerti. Non è un caso se si stanno moltiplicando convegni e ricerche che richiamano l’importanza dei cosiddetti “servizi ecosistemici”.

«la perdita di biodiversità può essere contenuta se svilupperemo un rapporto con l’ambiente e le sue componenti sempre più profondo impegnandoci a conoscere di più, per individuare misure organiche e adeguate alla necessità di tutela» Ma senza attendere che siano gli enti e le istituzioni (dopo che l’allarme suonato dalle comunità scientifiche è rimasto a lungo inascoltato), tanto più in periodi di crisi, ad assumere iniziative decise a invertire la rotta, dipende anche da noi contribuire a sviluppare una nuova sensibilità, influenzando le scelte di mercato e scegliendo i luoghi da frequentare secondo criteri ispirati alla naturalità, all’ordine paesaggistico, al valore ecologico-naturalistico, alla qualità dei prati, ciò presuppone educazione, formazione, cultura, e conoscenza del territorio. La montagna offre opportunità escursionistiche variegate e remunerative, ma richiede una chiave di lettura, a volte complessa. Gruppi e associazioni con il loro supporto di volontariato possono aiutare le istituzioni a raggiungere obiettivi ambiziosi ma che sono ormai ineludibili. La perdita di biodiversità, a prescindere da scenari planetari negativi e dai cambiamenti climatici in atto (per i quali possono servire anche le mitigazioni) può essere contenuta se svilupperemo un rapporto con l’ambiente e le sue componenti sempre più profondo impegnandoci a conoscere di più, per individuare misure organiche e adeguate alla necessità di tutela.

Abbandono delle colture e colture foraggere intensive Molti paesi, e al loro interno singole regioni e/o province, hanno censito questo straordinario patrimonio e acquisito consapevolezza del valore di tali ambienti, nell’intento di frenare il degrado. In verità vi sono due opposte tendenze, entrambe negative, che minano alla base la possibilità di continuare a godere di questo spet-

Gli effetti della notevole quantità di azoto che viene sparso sul suolo sono deleteri e come dimostrano ricerche svizzere (che datano dagli anni ’60 del secolo scorso) sono proporzionalmente più dannosi a quote elevate per la riduzione del periodo vegetativo e richiederanno secoli per essere neutralizzate e ripristinate.

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dall’alto: Sfalciatore al Dolomites Unesco Labfest (ph. Paola Finali) − La Val, Val Badia − Prealpi Bellunesi, prati magri con narcisi (ph. Cesare Lasen)

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dificato i propri areali di distribuzione, spostandosi verso altitudini maggiori nelle zone montane. è importante considerare comunque che non tutte le specie rispondono allo stesso modo al riscaldamento globale, con la possibilità di uno sfasamento fra le varie componenti delle comunità biologiche, possibile perdita di biodiversità e magari la perdita completa di alcuni ecosistemi. Tutto questo è potenzialmente amplificato dalla frammentazione degli habitat naturali dovuta ad ostacoli di origine antropica, quali le strade o le città, che possono impedire gli spostamenti di animali e piante e produrre anche estinzioni locali o globali di molte specie.

IL CAMBIAMENTO CLIMATICO MINACCIA LA BIODIVERSITÀ di Carlo Barbante L a storia del nostro pianeta è costellata da numerose variazioni climatiche che si sono ripetute ciclicamente nel corso degli ultimi milioni di anni. Tali cambiamenti hanno visto il clima variare da condizioni miti, simili a quelle che stiamo sperimentano da circa diecimila anni, a dei periodi glaciali in cui le temperature medie erano di circa otto, dieci gradi inferiori alle attuali. Queste variazioni si sono succedute con una ciclicità di circa centomila anni ed hanno portato ad enormi cambiamenti, costringendo molte specie animali e vegetali ad adattarsi per poter sopravvivere. Le transizioni tra i periodi più caldi e i periodi freddi sono avvenute molto lentamente; più rapide sono invece state le variazioni tra le ere glaciali ed i periodi caldi in cui la temperatura media è aumentata in alcuni casi anche di dieci gradi centigradi in soli duemila anni. In tempi abbastanza recenti abbiamo anche però registrato delle variazioni climatiche

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improvvise, che si sono manifestate principalmente durante i lunghi periodi glaciali e sotto forma di riscaldamenti repentini, seguiti poi da un lento raffreddamento; l’analisi dei ghiacci della Groenlandia, che sono fonte di importantissime informazioni sul clima del passato, ci dice ad esempio che circa 11.500 anni fa, quando i nostri antenati già cacciavano nelle pianure, la temperatura media si è innalzata di circa 8°C in un periodo di soli 40 anni, provocando degli stravolgimenti significativi nella vita degli uomini primitivi e più in generale all’adattamento delle specie. Siamo i responsabili del riscaldamento climatico L’uomo moderno, grazie alla sua grande intelligenza ed adattabilità ha sempre saputo adeguarsi alle piccole e grandi mutazioni climatiche ed anzi, a seguito dello sviluppo industriale, ha iniziato esso stesso ad avere una forte influenza sul clima e sull’ambien-

te. Dagli studi scientifici più recenti è oramai acclarato che l’uomo è responsabile del riscaldamento climatico in atto e che le cause sono da ricercarsi nella continua emissione di gas serra in atmosfera.

«...e continuate a contaminare il letto dove vivete e una notte, quando i bufali saranno stati tutti massacrati, i cavalli selvaggi tutti domati, i più segreti angoli della foresta saranno appesantiti dal lezzo di molti uomini, e i panorami delle fertili colline sfigurati dalle linee dei fili che portano parole, soffocherete nei vostri rifiuti...» L’incremento delle temperature ha avuto conseguenze importanti su molte specie animali e vegetali, sia acquatiche che terrestri, che negli ultimi decenni hanno mo-

sinistra: Sito di perforazione GV7, Antartide, 2014 (ph. Andrea Spolaor) − destra: Ny Alesund, Isole Svalbard, 2014 (ph. Luisa Poto)

è ormai chiaro che tutte le azioni intraprese per contenere le emissioni di gas serra non hanno fino ad oggi avuto grandi effetti. Basti ad esempio pensare che le emissioni globali di anidride carbonica sono aumentate di oltre il 60% negli ultimi 20 anni. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono evidenti sul nostro Pianeta. Il ritiro dei ghiacciai Alpini e delle zone temperate del Pianeta ed il conseguente innalzamento del livello marino sono sotto gli occhi di noi tutti, così come l’innalzamento delle temperature medie e l’estremizzazione degli eventi atmosferici che portano ad inondazioni che hanno a loro volta effetto sull’erosione del suolo. Altri effetti tangibili del riscaldamento in atto sono quelli legati alla riduzione del ghiaccio marino nell’Artico, dove l’influenza dei cambiamenti globali è ancora più accentuata rispetto alle medie latitudini, oppure all’adattamento delle specie vegetali ed animali che hanno portato ad esempio i gechi nelle città del nord Italia. C’è molto del nostro passato nel nostro futuro Siamo oggi in una situazione che mai si è presentata nel corso della storia del nostro Pianeta e cioè ad un punto nel quale una specie vivente, l’Uomo, sta avendo un’influenza molto importante sulla vita o meglio sulla sopravvivenza stessa della Terra. Stiamo consumando molto di più di quello che la Terra ci mette a disposizione, tanto che occorrono circa un anno e 4 mesi per rigenerare le risorse consumate dall’uomo in un

anno e assorbirne i rifiuti. Di questo passo e senza un cambiamento di rotta la Terra avrà un futuro molto incerto. Le ricerche più accreditate suggeriscono che un aumento di temperatura di circa 2°C rispetto agli inizi del secolo scorso sia il valore limite entro cui il sistema Terra ha ancora un buon margine di risposta. Oltre a tale valore le conseguenze dei cambiamenti climatici saranno molto pesanti. Al ritmo di crescita attuale raggiungeremo probabilmente questi valori entro il 2040. Alla luce degli impatti dei cambiamenti climatici ed ambientali e delle prospettive future delineate, l’essere umano è chiamato ad agire presto e bene cercando anzitutto di porre in essere delle serie strategie di mitigazione che hanno l’obiettivo di agire sulle cause del cambiamento climatico e in particolare sulla stabilizzazione e possibilmente sulla riduzione delle emissioni e della concentrazione di gas serra presenti in atmosfera e provenienti dalle attività antropiche. La capacità di avere successo in questa direzione è strettamente connessa ad un’azione globale e dunque necessariamente internazionale. Parallelamente alle azioni di mitigazione è fondamentale intraprendere delle strategie di adattamento, che si pongano l’obiettivo di agire sugli effetti del cambiamento climatico, attraverso la predisposizione di programmi, piani, azioni e misure per minimizzare le conseguenze negative causate dai cambiamenti stessi. L’attuazione di queste strategie, per la loro natura intrinseca, richiedono il coordinamento di azioni realizzate a livello locale. C’è molto del nostro passato nel nostro futuro ed è per questo che è sempre molto attuale il monito che il capo indiano Sealth, della tribù Duwamish fece in una lettera indirizzata al presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce nel 1855: “...e continuate a contaminare il letto dove vivete e una notte, quando i bufali saranno stati tutti massacrati, i cavalli selvaggi tutti domati, i più segreti angoli della foresta saranno appesantiti dal lezzo di molti uomini, e i panorami delle fertili colline sfigurati dalle linee dei fili che portano parole, soffocherete nei vostri rifiuti...”.

Carotaggio su ghiaccio a Colle Gnifetti, M.te Rosa, 2011 (ph. Jacopo Gabrieli) − Ny Alesund, Isole Svalbard, 2014 − Orso polare in Groenlandia, 2014 (ph. Luisa Poto)

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LA SALAMANDRA DI AURORA di Enrico Romanazzi

G li Anfibi rappresentano una delle classi animali più minacciate a livello globale: attualmente più di un terzo delle oltre 6 mila specie finora descritte risultano minacciate o in pericolo di estinzione. Sull’Altopiano dei Sette Comuni, in meno di 30 chilometri quadrati tra il Veneto e il Trentino, vive un anfibio unico. Descritto per la prima volta nel 1982, il suo nome è salamandra di Aurora (Salamandra atra aurorae), in onore alla moglie del ricercatore che ha reso note alla comunità scientifica le eccezionali caratteristiche di questo piccolo animale. Come le sue “sorelle”, cioè le salamandre alpine che vivono sulle Alpi Centrali e Orientali e sulla Catena dei Dinari, questa salamandra infatti non depone le uova in acqua ma lo sviluppo dei piccoli avviene all’interno del corpo materno. Dopo una gestazione che può durare un paio d’anni, le femmine partoriscono solo una o due piccole salamandre perfettamente formate. A differenza delle salamandre alpine che vivono nel resto delle Alpi, la colorazione della salamandra di Aurora non è però completamente nera: il dorso e la coda di questi animali sono coperti da una estesa macchia di colore giallo crema, più o meno acceso, che talvolta può essere anche di colore grigio o marrone ed estendersi anche a parte delle zampe e del ventre. Molti misteri avvolgono ancora queste salamandre dorate: conducono infatti una vita soprattutto sotterranea, ed escono allo scoperto generalmente di notte o in seguito a forti temporali, tra maggio e settembre-ottobre: questo vuol dire che vivono in letargo per metà dei mesi dell’anno! Inoltre non si conoscono ancora con certezza quali sono le aree dove vivono questi animali, anche se finora le popolazioni più abbondanti sono state trovate in corrispondenza delle foreste mature dove dominano il Faggio e soprattutto l’Abete bianco, ovvero le specie arboree originarie dell’Altopiano dei Sette Comuni. La salamandra di Aurora da proteggere come l’orso bruno e la foca monaca Fin dalla loro scoperta questi animali sono stati minacciati dalla raccolta illegale da parte dei collezionisti di tutta Europa, e sono

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molto sensibili alle trasformazioni ambientali che avvengono nei luoghi dove vivono. In questo senso, le lavorazioni di taglio ed esbosco forestale possono causare dei danni se vengono effettuate durante la stagione estiva, in cui anche le salamandre sono attive. I mezzi forestali pesanti possono infatti schiacciare direttamente le salamandre nei loro rifugi diurni, costituiti da cortecce, tronchi e sassi, oppure compattare il terreno e privarlo del sottobosco umido, ricco di muschi, felci ed erbe, preziosi elementi dove le salamandre trovano riparo, e degli animaletti di cui si nutrono. Per tutti questi motivi la salamandra di Aurora è inserita in varie Liste Rosse e in particolare è presente tra i pochi animali di interesse comunitario a priorità di conservazione sull’intero territorio europeo, alla pari di animali ben più noti come l’orso bruno o la foca monaca. Per comprendere meglio l’effettiva estensione dell’areale, ossia l’intero insieme delle zone in cui vivono questi animali, dal 2012 sono in corso ricerche mirate sul campo ma soprattutto si sta cercando di coinvolgere attivamente gli abitanti (in particolare gli studenti) e gli escursionisti. Escursionisti e alunni, guardiani della salamandra di Aurora Per chi si reca nei boschi per vari motivi, per esempio per cercare funghi, per tagliare legna o anche solo per effettuare delle belle camminate, soprattutto dopo un temporale è infatti possibile avvistare con un po’ di fortuna questi rari animali. Tramite appelli su volantini appesi nei bar, nei rifugi e nei negozi, è stato così possibile aggiungere numerose segnalazioni di presenza delle

salamandre, a volte anche in nuove località situate a diversi chilometri di distanza. In questo si è rivelato di grande aiuto il coinvolgimento dei turisti e in particolare di chi pratica il trekking in montagna: una volta avvistata una salamandra, l’escursionista può effettuare una foto del dorso dell’animale e inviare la segnalazione (con data e località, possibilmente anche con le coordinate geografiche) ai ricercatori che così possono verificare la segnalazione e mappare la distribuzione di queste salamandre. Inoltre è recentemente iniziata una diffusa sensibilizzazione degli studenti delle scuole primarie dell’Altopiano, grazie al progetto austriaco «Alpensalamander». Questo progetto prevede attività di ricerca sulle varie specie di salamandre presenti in particolare sull’Arco alpino e nella Penisola Iberica, effettuate da ricercatori professionisti. A queste attività si affianca anche una massiccia opera di informazione delle popolazioni locali, al fine di coinvolgere attivamente gli abitanti nella ricerca e nella conservazione sul lungo termine di questi delicati animali. E così è avvenuto anche nell’Altopiano dei Sette Comuni: negli ultimi due anni sono state effettuate attività di lezione frontale in aula, integrate da momenti di gioco ed escursioni, coinvolgendo in totale oltre 200 studenti delle scuole di Asiago, Gallio, Roana e Rotzo. L’attività didattica effettuata in classe e nei boschi ha quindi raggiunto e coinvolto anche il personale scolastico, ma soprattutto numerose famiglie dell’Altopiano, rendendoli consapevoli del valore e dell’unicità di questi animali. Ora ci sono molte persone informate e quindi dei potenziali guardiani delle salamandre! A fianco delle attività con gli studenti sono stati realizzati una serie di serate divulgative, due diverse mostre, alcuni articoli sui giornali locali e anche un paio di filmati naturalistici.

Ma non finisce qui. Grazie alla raccolta delle segnalazioni di presenza, l’obiettivo finale è una gestione degli ambienti forestali che sia compatibile con la conservazione di questi piccoli gioielli naturali. Dopo una serie di problematiche legate al prelievo di legname nei boschi abitati dalle salamandre dorate, nel 2014 è quindi partita una nuova ricerca, sostenuta dalla Regione del Veneto con il coinvolgimento degli enti locali e realizzata da ricercatori di due Dipartimenti dell’Università di Padova, quello di Biologia e quello del Territorio e Sistemi Agro-Forestali. L’obiettivo degli studi avviati è quello di testare gli effetti di un taglio ed esbosco realizzati durante l’inverno, quando le salamandre sono in letargo. Vedremo i primi risultati di queste ricerche alla fine di quest’anno, ma di sicuro l’interesse per la conservazione delle salamandre di Aurora è ora elevato e le prospettive per il futuro di questi animali appaiono molto positive.

TRENTINO ALTO-ADIGE

VALLE D’AOSTA

FRIULI VENEZIA GIULIA

Lombardia

Altopiano dei Sette Comuni, Prealpi Venete, Italia VENETO

PIEMONTE

da sinistra: maschio di Salamandra di Aurora (ph. Enrico Romanazzi) − Attività di ricerca sul campo (ph. Giovanni Morao e F. Dartora) − Attività didattica in classe (ph. Enrico Romanazzi)

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aku collabora con:

TRENTINO ALTO-ADIGE

FRIULI VENEZIA GIULIA

VALLE D’AOSTA

Feltrino, Dolomiti Bellunesi, Italia Lombardia

VENETO

PIEMONTE

UN “MURETTO BASSO” PER IL CONTATTO CULTURALE CON LA GENTE DI MONTAGNA di Stefano Sanson Durante un viaggio o un’escursione, la ricerca e l’assaggio del cibo locale, rappresenta la base del contatto culturale con le genti del posto. Il cibo è capace di tracciare confini di gusto e di senso, è come un “muretto basso”, facile da scavalcare in andata e ritorno, attraversabile e modificabile. Consumare nel territorio in cui avviene la produzione, implica riconoscere al territorio capacità comunicativa e attrattività turistica. è questo cambio di prospettiva che permette alle piccole produzioni agroalimentari

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locali di essere esaltate nei propri punti di forza come variabilità, esclusività, stagionalità e genuinità, mentre i punti di debolezza come le piccole quantità e dimensioni delle imprese, la limitata conservazione diventano opportunità, in quanto fortemente differenziati e difficilmente massificabili. Ma un simile approccio non significa solo una delle più interessanti strategie di sviluppo rurale della montagna, capace di coniugare la gestione attiva e sostenibile del territorio in un processo di innovazione culturale ed economica, ma assume anche

risvolti scientificamente interessanti nella conservazione della biodiversità coltivata e allevata, che sta alla base del cibo locale. Infatti se per la biodiversità selvatica naturale, le azioni di conservazione si concentrano nel capire come limitare le pressioni antropiche nell’ecosistema (istituzione di aree protette e parchi naturali), per l’agro-biodiversità diventa invece indispensabile progettare iniziative sostenibili volte ad aumentarne l’utilizzo e il consumo e per quanto possibile elevandole nuovamente a “cibo quotidiano”.

da sinistra: Campo di fagiolo Gialét a Vignui di Feltre (BL) − Vari ecotipi di fagioli bellunesi

La vera scommessa è quella di conferire loro e ai loro agricoltori custodi a “presidio del territorio”, una serie di funzioni riconoscibili non solo nelle implicazioni strettamente produttive, ma anche paesaggistiche, etnobotaniche, didattiche, turistiche, salutistiche e gastronomiche. Agricoltura tradizionale e recupero delle antiche varietà è in questa logica di fondo che si inquadra nel Feltrino, al confine fra le provincie di Belluno e Trento, un esempio di “buona prassi” di riscoperta dell’agricoltura tradizionale, attenta alla valorizzazione delle risorse genetiche locali e al recupero delle antiche varietà e razze del luogo. Non dobbiamo aspettarci grandi visioni di campi, orti, frutteti intensamente coltivati; qui l’agricoltura, fatta eccezione per la zootecnica da latte del fondovalle, è

rappresentata da piccole aziende agricole tradizionali part-time, la cui peculiarità è data dal susseguirsi di prati, campi, siepi e boschi, tra piante sparse di melo, pero, noce e castagni e piccoli appezzamenti di cereali come orzo, farro, grano saraceno, mais da polenta o altre orticole tradizionali locali come zucca, patata e fagiolo.

gna e poi ancora una lunga serie di agro-ecotipi ancora minori e poco caratterizzati. Ma attenzione, sono prodotti tutt’altro che facili da scovare. Sono tante piccole produzioni, limitate, rare, la cui disponibilità si esaurisce nei pochi mesi prossimi alla raccolta.

Fra le scoperte più interessanti e le esperienze agricole e gastronomiche più originali che si possono provare in questa terra di montagna ci sono i fagioli. Uno dei prodotti tradizionali di maggior importanza, sia per la particolare vocazione pedo-climatica del territorio, sia per il primato storico che il bellunese può vantare in Italia rispetto all’introduzione e coltivazione. Il risultato è oggi un panorama di decine di varietà, ecotipi e popolazioni: Spagnolet, Spagnol, Calonega e Canalino, Gialèt, Bonèl, Mame, Bala Rossa, Bianchi di Spa-

Raccolta del fagiolo Gialét a Cesiomaggiore − Essicazione e cernita del fagiolo Gialét (ph. Stefano Sanson)

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LA COLTIVAwIONE DELLO WAFFERANO IN MONTAGNA di Davide Torri

L ’Alta Valle Brembana è, tra le terre alte bergamasche, la più sofferente per la mancanza del lavoro e per le alte percentuali di spopolamento. è per questo che, più di un anno fa, un gruppo di lavoro, guidato dal parroco di Piazza Brembana, don Alessandro Beghini, hanno provato a costruire un percorso di crescita umana, sociale ed economica per gli abitanti di questi luoghi. Ed è per questo che si è individuata una “buona prassi”: la coltivazione dello zafferano. L’idea di sperimentare la produzione dello zafferano in valle Brembana nasce circa tre anni fa dall’incontro di due giovani agricoltori locali con coltivatori di zafferano abruzzesi. Ad oggi la produzione di zafferano in Valle Brembana è di poche centinaia di grammi e per ora non è ipotizzabile pensare che possa essere l’attività prevalente di una famiglia o di una azienda, ma solo un’attività complementare. Considerando però che con le produzioni delle stagioni 2013 e 2014 non è stato possibile soddisfare tutta la domanda, vi è una potenzialità di sviluppo interessante. Attorno allo Zafferano OLG (il nome significa Oltre La Goggia, ad indicare il territorio di coltivazione) si è creato un gruppo di famiglie che sta programmando il futuro di questa buona prassi, attraverso la creazione di consorzi, reti di produttori e di un Gruppo di Acquisto Solidale. Ma sono le piccole azioni che rendono prezioso questo percorso: gli incontri serali che vedono partecipare contadini e giovani, mamme e nonne, aziende agricole famigliari e semplici appassionati. Un gruppo di quindici/venti persone che si confronta sul modo di coltivare e da questi incontri nascono piccole azioni solidali, come raccogliere i fiori maturi al posto di un altro che è impegnato al lavoro.

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Birra, pane e cracker allo zafferano Via via, sono nate idee, piccole collaborazioni e lo zafferano è diventato prezioso oltremodo: è nata così la birra Safrà, artigianale, prodotta da un birrificio di valle, il pane allo zafferano e i cracker biodinamici cotti in un antico forno di pietra, presente in una delle più belle frazioni (disabitate) della valle. Poco alla volta i bulbi che sono stati raccolti in parte nelle aree tipiche italiane di produzione, come Abruzzo e Toscana, e in parte dall’autoproduzione, stanno crescendo, garantendo migliori rese e produzioni, nonché la maggior biodiversità specifica. Tale variabilità consentirà a breve un miglior adattamento della specie alle caratteristiche pedoclimatiche della Valle Brembana, ai diversi microclimi presenti ed ai cambiamenti climatici in atto. Non va dimenticato poi che la coltivazione avviene anche con il recupero di terreni marginali altrimenti abbandonati. Ha anche valore sociale aggregativo la fase di raccolta e sfioratura, con reciproche collaborazioni e il coinvolgimento di soggetti particolari come gli alunni della locale scuola primaria e ragazzi diversamente abili. Ora, mentre i bulbi riposano sotto la neve, il progetto Zafferano OLG continua, nuove famiglie si sono aggiunte al gruppo e anche altre aree della montagna bergamasca guardano a questa piccola azione come possibile buon esempio da imitare.

TRENTINO ALTO-ADIGE

VALLE D’AOSTA

Alta Valle Brembana, Alpi Orobiche, Italia Lombardia

AKU sostiene attivamente, insieme a tanti altri enti ed associazioni, lo Zafferano OLG.

sopra: Zafferano OLG − Etichetta del pane allo Zafferano OLG − Impianto dei bulbi dello Zafferano OLG

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a fianco: Asciugatura degli stimmi di Zafferano OLG (ph. Davide Torri)

FRIULI VENEZIA GIULIA

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AKU è partner di:


SFUMATURE

sitari di tecniche e saperi ecologici relativi ad alberi e legni (1). Queste persone conservano ancora oggi un prezioso patrimonio, costruito all’interno di una fitta rete che da centinaia di anni mantengono con il proprio ambiente. Non sono conoscenze da manuale ma saperi più profondi, legati ai vissuti quotidiani, personali e collettivi, plasmati nel tempo all’interno di un particolare rapporto uomo-bosco, uomo-natura.

SENwA CONTORNI di Elisabetta Feltrin

Ho tentato io stessa di immergermi in questo spazio relazionale e sensoriale, facendomi insegnare alcune pratiche, saperi e tecniche riguardanti la fienagione e il lavoro nei boschi, affrontando e descrivendo il gesto tecnico attraverso la realizzazione di due attrezzi tradizionali ricavati dal nocciolo: la brinzia usata per il trasporto di fieno, foglie ed erba e la gerla, una sorta di zaino intrecciato, anch’essa molto utilizzata, specialmente nelle zone di pendio, per il trasporto di fieno, foglie e materiali leggeri.

Il termine diversità è da sempre caro all’antropologia culturale che deve la sua nascita proprio dall’osservazione, curiosità e analisi della diversità tra culture; accostando la parola BIO, prefisso tanto di moda, si colloca il termine diversità in una cornice più biologica, riguardante le diversità di vita, o meglio di diverse forme di vita; per dirla con le parole di un famoso antropologo, parlare di biodiversità tra culture significa “saper cogliere le sfumature e lo stile attraverso l’individuazione di tratti pertinenti e delle relazioni che rendono unica una determinata collettività nel tempo e nello spazio” (Leroi-Gourhan, 1968). Ecco quindi le parole chiave utili per chiarire il concetto di biodiversità culturale: relazioni, collettività, sfumature, tempo e spazio, ovvero il rapporto di reciprocità che si viene a realizzare in un certo momento storico tra l’ambiente e le persone che lo vivono e che coinvolge ogni sfera dell’attività e dell’esistenza umana: quella delle relazioni, quella materiale, quella linguistica e quella simbolica. Prima di illustrare alcuni esempi di biodiversità culturale è utile precisare alcune questioni sempre aperte e spesso delicate. I concetti di diversità culturale, stile e unicità hanno a che fare con il concetto di etnicità ed identità, altra parola molto inflazionata. Oggi che l’altro e lo straniero non sono più nelle remote foreste e in paradisi perduti ma abitano le nostre città, si sente maggiormente il bisogno di affermare l’appartenenza ad un gruppo, di esibire le proprie radici, spesso giocando molto sugli stereotipi e slogan; stereotipi che, però, come afferma l’etnologo alpino Gianpaolo Gri: “dicono molto su chi li crea e li utilizza, ma dicono poco o nulla su chi ne è l’oggetto”. L’etnicità non si colora né con il bianco né con il nero Contrariamente a quanto si possa comunemente pensare, tra i popoli di montagna la mobilità è stata fortissima: da sempre gli uomini dei monti sono grandi camminatori e viaggiatori, subito la nostra mente corre ai famosi Sherpa della valle del Khumbu, in Nepal, ma anche ai seggiolai dell’agordino (careghéta) che percorrevano mezza Italia a piedi e in bicicletta o agli acciugai della Val Maira che vendevano acciughe e pesce conservato nella pianura dopo averlo acquistato in Liguria, a tutta la moltitudine di migranti che tra la fine dell’Ottocento ha lasciato l’Italia in cerca di fortuna. E le molte badanti straniere che oggi si occupano dei nostri anziani? I ragazzi dell’Est Europa che seguono oggi le mandrie di pecore?

Se la diversità culturale è un valore lo è per il passato, per il presente ma anche per il futuro, innanzitutto perché essa non è un dato naturale, netto e definito: le culture non vanno mai intese come delle entità (i Saami della Lapponia, i Nuer dell’Africa orientale, i Tobrandesi della Nuova Guinea) ma, come sostiene l’antropologo Tim Ingold, esse sono una un aspetto emergente e processuale di un insieme di abilità e pratiche (anche linguistiche e culturali) apprese attraverso la partecipazione ad una comunità e poi in vario modo usate, modificate, trasmesse nel tempo e nello spazio. L’etnicità quindi non si colora né con il bianco né con il nero; bisogna saperla dipingere attraverso sfumature senza contorni, che mutano aspetto al variare della luce e del punto di vista.

Ricordo quella fresca mattina d’autunno quando, scarponi ai piedi, io e Agostino De Gasperin, bravo costruttore di gerle e brinzie, siamo andati in un boschetto a cercare i rami di nocciolo, le sache; per realizzare la brinzia bisognava trovare rami che fossero verdi, mentre per la gerla bisognava andare a scovare più in alto, in Val Canzoi, in terreni più magri dove i noccioli crescono più lentamente. Agostino guardava e accarezzava gli alberi, pesava e annusava i rami e i tronchi tagliati, mi diceva la loro età guardandone la corteccia, poi me li dava in mano, me li mostrava, quasi in silenzio. Leggeva e capiva il bosco e la sua era una percezione sensoriale degli alberi e soprattutto del legno che diventava una conoscenza che abbracciava tutti e cinque i sensi. Secondo Italo Calvino viviamo in un mondo colonizzato dalle parole, che porta su di sé una pesante crosta di discorsi. L’uomo è diventato Homo legens, che ha perso l’uso dei suoi cinque sensi: “l’uomo che non leggeva sapeva vedere e udire tante cose che noi non percepiamo più: le tracce delle belve che cacciava, i segni”. Per gli anziani abitanti di questi luoghi che ho avuto la fortuna di conoscere, i tronchi degli alberi sono per loro sono come libri aperti: hanno imparato dai loro nonni a leggerli giocando, lavorando e vivendo tra i boschi: osservandoli, toccandoli, ascoltandoli.

«saper cogliere le sfumature e lo stile attraverso l’individuazione di tratti pertinenti e delle relazioni che rendono unica una determinata collettività nel tempo e nello spazio» Il fare abile di boscaioli, falegnami e anziani Come esempio di sfumature di unicità posso illustrare quanto ho raccolto in una valle dolomitica del bellunese, nel comune di Cesiomaggiore, ho ritrovato alcuni esempi di biodiversità culturale nel fare abile di boscaioli, carbonai ed anziani depoPerduti Sentieri, saperi ecologici e pratiche locali in una valle prealpina: pubblicazione frutto di un lavoro di ricerca di Elisabetta Feltrin, per una tesi di laurea specialistica in Antropologia culturale per l’università Ca’ Foscari, 2013

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dall’alto: Le abili mani di Agostino De Gasperin − Gerla (ph. Elisabetta Feltrin) − Abitato di Montagne, Val Canzoi (BL) (ph. Ivan Mazzon)

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L’ANELLO DELL’ANTELAO Tre giorni di escursioni in ambienti grandiosi, attorno al Re delle Dolomiti di Federico Balzan Il concetto di biodiversità non include solo il numero di specie presente in un certo ambiente, ma anche aspetti più generali e d’interazione quali la diversità genetica all’interno di una popolazione, il numero e la distribuzione delle specie in un’area, la diversità di gruppi funzionali presenti (produttori, consumatori, decompositori) all’interno di un ecosistema ecc. Le stime del numero totale delle diverse specie di organismi viventi sulla Terra sono basate su criteri molto diversi tra loro, che vanno dalle proiezioni nel futuro dei tassi di scoperta di nuove specie che si sono verificati nel passato, oppure su deduzioni relative al numero di artropodi presenti sulla chioma degli alberi tropicali, oppure sull’esame delle relazioni esistenti tra il numero di specie conosciute e le loro dimensioni corporee ecc. I differenti approcci hanno portato a stime molto diverse del numero totale di specie esistenti sulla Terra. In ogni caso, l’ordine di grandezza di questo dato è di alcuni milioni di specie, le quali mediamente sopravvivono circa un milione di anni prima di estinguersi.

non è molto frequentato; gli escursionisti preferiscono in genere la cima del “Re delle Dolomiti”. È un peccato, perché il periplo di questa montagna consente tre giorni di entusiasmante avventura in ambienti grandiosi. Si tratta di un percorso adatto ad escursionisti di buon livello, con dislivelli giornalieri che possono arrivare al migliaio di metri, con alcuni brevi tratti esposti dotati di cavi metallici.

Dal punto di vista dei tipi forestali, le differenti esposizioni, altitudini e pedologie del suolo consentono una notevole variabilità: si va dalle pinete di pino silvestre frammiste a peccete sui versanti sud occidentali, faggete e piceo-faggete a sud, abieteti sui lembi più ombrosi del versante sud est, lariceti e larici-cembreti ad est. Alle quote più elevate e sul versante nord vi sono continue ed estese mughete.

L’Antelao (3264 m) è la seconda cima per altitudine delle Dolomiti e domina la confluenza tra il fiume Boite e il fiume Piave, punto di riferimento ed icona del Cadore, in provincia di Belluno. L’intero massiccio è compreso in un’area SIC/ZPS della Rete Natura 2000 (IT3230081 Gruppo Antelao - Marmarole - Sorapis) e conseguentemente tutelato. Le unità geologiche presenti sono costituite prevalentemente da Dolomia Principale (Norico) e Calcare di Dachstein (Retico). Particolarmente interessante sarà inoltre l’osservazione della morfologia glaciale: l’Antelao infatti ha due ghiacciai, il Superiore e l’Inferiore, il cui fronte viene lambito dal percorso qui proposto.

E infine la fauna, con la presenza di colubro liscio, marasso e vipera dal corno tra i rettili, gallo cedrone, pernice bianca e fagiano di monte tra gli uccelli, stambecco, camoscio e cervo tra i mammiferi artiodattili.

Un numero così grande non deve farci dimenticare che il tasso di estinzione causato dalle attività antropiche (soprattutto distruzione di habitat) è di decine di volte superiore rispetto a quello precedente la comparsa dell’uomo. Pertanto, dove ricercare la biodiversità e perché ricercarla? La biodiversità (o diversità biologica) è ovunque ed è abbondante, ma non per questo è meno preziosa. Bisogna però allenarsi a riconoscerla. Qualunque piccolo habitat, perfino quelli urbani, possono talvolta riservarci delle piccole sorprese, se si è attenti ed appassionati. Tuttavia, è indubbio che vi sono alcune regioni dove la biodiversità si manifesta in maniera potente ed eclatante. Tutte le Alpi, ad esempio, come buona parte delle catene montuose di fascia temperata, presentano un’interessante successione di piani altitudinali della vegetazione che consentono di osservare, in una semplice escursione a piedi in salita di poche ore, l’equivalente di un viaggio attraverso molti gradi di latitudine in direzione nord (quindi migliaia di chilometri), ossia dai 45° latitudine nord dei fondovalle alpini delle nostre regioni fino ai 60° latitudine nord delle regioni scandinave. Sulle Dolomiti, un’escursione che massimizza una notevole varietà di ambienti e conseguenti osservazioni naturalistiche è l’anello dell’Antelao. Stranamente, a differenza di altri anelli,

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Le tappe possono essere così suddivise: - 1° giorno: San Vito di Cadore - rifugio Scottèr - rifugio San Marco - forcella Piccola - rifugio Galassi (sentieri CAI 226 e 227) - 2° giorno: rifugio Galassi - forcella del Ghiacciaio - alta val Antelao - forcella Pìria - rifugio Antelao (sentiero CAI 250) - 3° giorno: rifugio Antelao - forcella Pìria - forcella Cadìn - La Glòries - Greànes - San Vito di Cadore (sentieri CAI 250 e 230)

TERREALTE GTX “Terrealte”, come lo spazio di utilizzo di questo nuovo modello della linea mountaineering. Una scarpa leggera e precisa, per le attività di alpinismo classico e di trekking impegnativo fino a quote elevate. Compatibile con un rampone semi-automatico, Terrealte GTX si rivela un modello ideale anche per lavoro in ambiente montano, grazie a un comfort di calzata immediato e duraturo.

Tutta questa biodiversità, tutta questa ricchezza è a disposizione con un gesto semplice: un paio di scarponi, uno zaino, un po’ di attrezzatura e vestiario, un passo dietro l’altro. Liberi per davvero, senza retorica. Certo, la natura incontaminata dei dépliant turistici non esiste qui, ma l’importante è saperlo. Abbandonando le magniloquenze e le avventure preconfezionate, sarà una gioia procedere con lentezza e riconoscere i campi carreggiati del carsismo, le rocce montonate, le doline, i massi erratici; e poi, su quel prato, il fiore bianco del camedrio alpino, proprio accanto alla Sesleria varia; e dire a se stessi “ecco un fiore, ecco un’erba”... e invece no, che anche “l’erba” ha le sue infiorescenze, solo che poco appariscenti perché i semi sono dispersi dal vento e non dagli insetti, e non c’è nulla di più bello in botanica dell’anatomia comparata, per apprezzare davvero i fiori non solo per la loro estetica, ma piuttosto per la loro funzionalità. E scoprire così un mondo. Non abbiamo bisogno di nulla o quasi, se non di alcune conoscenze di base: tutto il resto è lì ad aspettarci, pronto per essere scoperto poco alla volta.

TRENTINO ALTO-ADIGE

Antelao, Dolomiti del Cadore, Italia VALLE D’AOSTA Lombardia

TOMAIA Scamosciato + air 8000® 1.8 mm | FODERA GORE -TEX ® Insulated Comfort | BATTISTRADA Vibram® Mulaz | INTERSUOLA PU a due densità | PESO 810 g

sfondo: L’Antelao dalla Croda Marcora (ph. Sabrina Meneguz)

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a fianco: L’incontro con lo stambecco (ph. Federico Balzan)

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FRIULI VENEZIA GIULIA

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SELVAGGIO BLU: IL TREKKING

PIÙ BELLO E DIFFICILE D’ITALIA di Ingo Irsara

L a scorsa estate un gruppo di ragazzi di Bologna, che avevo accompagnato in escursione nel Parco Naturale Puez-Odle, mi confidarono il loro desiderio di andare in Sardegna a fare il Selvaggio Blu, precisando: “è il trekking più difficile d’Italia con tratti alpinistici, trovare il sentiero non è facile e vorremmo farlo con una guida alpina”. La proposta mi sembrò subito interessante anche se mi colse impreparato, infatti il Selvaggio Blu non lo avevo mai percorso e le mie informazioni si limitavano al ricordo di qualche frettolosa lettura. Terminata la stagione estiva nelle Dolomiti decido di andare a vedere com’è il Selvaggio Blu. Acquisto un paio di guide e una cartina, scarico un po’ d’informazioni dal web e poi parto. Sul traghetto che mi porta a Olbia mi dedico alla lettura. Le mie carte mi dicono che il Selvaggio Blu è stato ideato, ancora nel 1987, da Peppino Cicalò (Presidente del Cai Sardegna) e da Mario Verin (fotografo e alpinista) e ha assunto di anno in anno un interesse sempre maggiore. L’intento originale era la ricerca di un sentiero che partendo dalla guglia di Pedra Longa e 20

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seguendo le tracce lasciate dai carbonai, che tra queste balze di roccia vissero e operarono fino agli anni ‘60, e percorrendo un itinerario il più possibile a picco sul mare, raggiungesse la spiaggia di Cala Sisine. Cicalò e Verin riuscirono nel loro intento che richiese però diversi mesi di esplorazione. Oggi a chi percorre l’itinerario completo (ci vogliono dai 5 ai 7 giorni) è richiesto un buon allenamento, capacità di orientamento, adattamento (si bivacca sempre all’aperto) ed esperienza alpinistica. Il solo carattere comune di tutta l’isola è la sua diversità Ma la cosa che mi porta già a pregustare questo trekking la leggo sulla retrocopertina di uno dei mie libri: “Dal momento in cui lascerete Pedra Longa, farete qualche passo oltre la strada asfaltata, sarete immediatamente travolti dalla natura selvaggia. Da quel momento il vostro punto di riferimento sarà il blu del Mediterraneo alla vostra destra.” Non ho idea di cosa significhi entrare nella natura selvaggia di questo angolo di Sardegna, penso ai luoghi più selvaggi che ho visto in giro per il mondo e immagino

una possibile somiglianza. Ben presto mi accorgerò che non è possibile fare dei paragoni: nel Selvaggio Blu tutto è diverso e per muoversi dentro queste montagne è necessario ragionare in modo diverso. A proposito di diversità, leggo che il solo carattere comune a tutta l’isola, dal punto di vista ambientale è proprio la sua diversità e ci sono almeno tre elementi che caratterizzano la biodiversità della Sardegna. Innanzitutto la sua posizione geografica nel Mediterraneo, uno dei “punti caldi” della biodiversità del Pianeta, con una straordinaria varietà di rocce e formazioni geologiche. Alla diversità geomorfologica si accompagna quella ambientale con differenti habitat e specie animali e vegetali. Il terzo elemento, il più evidente, è l’insularità. Questa determina l’impossibilità di scambi genetici tra le popolazioni vegetali e animali sarde con quelli di altri territori e ne fa un luogo unico e prezioso, ricco di specie endemiche esclusive. Ma per apprezzare la molteplicità di habitat e forme di vita occorre immergersi nella sua natura ed è quello che farò nei prossimi giorni.

Selvaggio Blu (ph. Paola Finali)

Da Santa Maria Navarrese a Cala Sisine Il mio cammino inizia a Santa Maria Navarrese, una frazione costiera del Comune di Baunei, nella parte meridionale del Golfo di Orosei che forma un’ampia insenatura di circa 40 km caratterizzata ovunque da falesie e da pareti calcaree verticali. Ho appreso dalle mie letture che il Golfo di Orosei è un sito di grande interesse naturalistico per la presenza di un elevato numero di specie endemiche e rare, vegetali e animali, sia lungo la fascia litoranea e nelle falesie, sia nelle aree interne elevate. Ad esempio, la costa compresa tra Cala Luna e Cala Sisine, fino agli anni ’70, è stata uno degli ultimi luoghi di riproduzione in Italia per la foca monaca. Nello stesso braccio di mare, da alcuni anni invece sono arrivate le balene che confermano l’elevata biodiversità del Golfo. Lungo un facile sentiero raggiungo la guglia di Pedra Longa, salgo verso la grotta S’erriu Mortu, percorro la bella e panoramica cengia Giradili fino all’ovile Duspiggius (+760 m dislivello, 8 km). Dal Monte Ginnircu al Bacu Tenadili (bacu sta per valle), tra ovili e iscal’e e fustes (scale di ginepro attrezzate dai pastori) proseguo fino alla stupenda insenatura di Portu Pedrosu e poi su un facile sentiero raggiungo Porto Cuau (+210 m dislivello, 7 km). Nella seconda tappa osservo profondi valloni dirupati e magnifici panorami nella Serra D’argius e dalla Punta Salinas. Seguo la sterrata che scende fino alla spiaggia di bianchi ciottoli di Cala Golortizè (+570 m dislivello, 7 km). Le profonde gole che incontro sono state scavate da antichi fiumi ora scomparsi o inghiottiti dall’altopiano carsico sovrastante. Questa sequenza di bastioni torreggianti sul mare è interrotta da numerose calette, che si affacciano su un mare color smeraldo. La costa che in molti tratti risulta inaccessibile, presenta un aspetto particolare, quello delle codule, torrenti che hanno inciso profondi canyon nella roccia.

Con la terza tappa il trekking si fa più impegnativo. Salgo sulla ripida pietraia di Boladina, fino alla Serra Lattone, dove vedo tutto l’itinerario verso nord. Scendo quindi in direzione del Bacu Mudaloru che raggiungo dopo la prima discesa in corda doppia. Il paesaggio vegetale è una successione di boscaglie di piante sempreverdi, soprattutto ginepri e lecci, e lungo le codule da oleandri (+600 m dislivello, 5 km). Dal Bruncu Urele fino a Bacu Su Feilau e tramite la Scala Oggiastru fino all’ovile Mancosu. Da qui posso ammirare dall’alto Cala Biriola a conclusione della quarta tappa (+400 m dislivello, 3 km circa, con due calate in corda doppia e diversi tratti di arrampicata di III e IV grado). Attraverso una singolare spaccatura nella roccia, detta Sa Nurca, e poi con altre due calate in doppia arrivo al bosco di Biriola e dopo al bosco di Orrònnoro. Supero il panoramico passaggio di Su strumpu, alcuni tratti di arrampicata e quattro discese in doppia fino all’incantevole spiaggia bianca di Cala Sisine, dove termina la mia quinta tappa (+100 m dislivello, 4 km). Con un’altra giornata di facile cammino potrei raggiungere il paese di Cala Gonone, passando per Cala Luna e Cala Fuili. Ma per quest’anno il mio Selvaggio Blu termina qui. è fatta. Il trekking più difficile d’Italia è alle mie spalle. Spero che la bellezza di questo percorso, così nascosto e impervio, conservi per sempre i suoi sentieri incerti, le difficoltà tecniche, le notti da trascorrere in una grotta accanto al fuoco, la sua natura unica e selvaggia. Io ritornerò quanto prima.

VIAZ GTX Precisione e comfort di calzata, sono le qualità principali di Viaz GTX. Una scarpa pensata per un’attività escursionistica intensa fino alle medie quote, ma soprattutto per vie ferrate e vie normali di stampo alpino. La protezione sulle zone di maggior sfregamento, l’adozione di IMS1, regalano precisione e sicurezza anche nei sentieri più impervi, senza rinunciare al comfort di calzata immediato, prerogativa di ogni scarpa AKU. TOMAIA scamosciato + AIR 8000® 1.8 mm | FODERA GORE -TEX ® Performance Comfort | BATTISTRADA Vibram® Nepal | INTERSUOLA EVA micro porosa a 3 densità | PESO 660 g

SARDEGNA

Selvaggio Blu, Golfo di Orosei, Italia

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NATURwENTRUM THURAUEN:

CONVIVENwA FRA UOMO E NATURA Escursioni, educazione ambientale e relax nel paesaggio fluviale della Thur di Naturzentrum Thurauen L a pianura alluvionale Eggrank-Thurspitz è una delle più preziose aree alluvionali della Svizzera: una zona naturale e ricreativa unica alla foce del Thur. Per la sua elevata biodiversità, l’area è stata riconosciuta nel 1992 come una della zone umide d’importanza nazionale. Dal 2008 una parte del fiume è stata rinaturalizzata e questo ha permesso la creazione di nuovi e preziosi habitat per la flora e la fauna. Una ordinanza cantonale definisce le zone di protezione e le norme per la fruizione turistica di questa area naturale. Qui il servizio dei Rangers vigila sulla convivenza tra uomo e natura e i Rangers sono i responsabili del servizio d’informazione e del controllo delle aree golenali del fiume. «Il nostro lavoro inizia la mattina presto nell’ufficio Ranger dove controlliamo i valori di deflusso della corrente della Thur verso il fiume Reno» racconta Annemarie Brennwald, agente del servizio Rangers, «e poi rispondiamo alle email che abbiamo ricevuto il giorno prima. Successivamente prepariamo la nostra attrezzatura per il tour nella pianura alluvionale: binocolo, opuscoli informativi, testi di identificazione, foglio report e piano di protezione, utensili e sacchi per i rifiuti. Come incaricati del servizio di vigilanza e informazione indossiamo una uniforme e abbiamo un badge di riconoscimento. Con la bicicletta ci spostiamo su tutta l’area naturale e controlliamo le diverse infrastrutture. Le zone della pianura alluvionale ecologicamente più preziose sono proibite all’accesso, in quanto sono gli habitat più sensibili dove vivono molte specie animali e vegetali, anche rare. In queste aree durante il periodo riproduttivo, soprattutto in primavera e d’estete, dobbiamo tenere sotto controllo alcune specie, per evitare che vengano disturbate dalla presenza dell’uomo. Le persone che si trovano illegalmente dentro queste zone di protezione, vengono informate e gli viene ordinato di allontanarsi. Ciò rappresenta un grande impegno e ci vogliono buone capacità di comunicazione e sensibilità. Nella maggior parte dei casi si sviluppa un dialogo positivo e siamo in grado di educare i visitatori al rispetto della natura e alla consapevolezza ambientale.

Durante il nostro tour a piedi diamo informazioni sulle attività in corso e sugli eventi in programma e rispondiamo a diversi tipi di domande, come ad esempio: qual è il valore di una pianura alluvionale? Quali sono i benefici del controllo delle inondazioni e i progetti di recupero? Dove si possono vedere i castori? Come si chiama quell’uccello che canta sulla cima di quell’albero? Come esperti della natura, durante le escursioni, possiamo descrivere le relazioni che esistono fra il paesaggio, la valorizzazione degli habitat e la protezione dalle inondazioni. Inoltre illustriamo le diverse forme di vita presenti nelle zone umide che, con un po’ di fortuna, possiamo osservare insieme.» Un partner affidabile Uno dei nostri strumenti più importanti sono le scarpe che, a causa del lavoro quotidiano nella pianura alluvionale, sono messe a dura prova. Considerato che le indossiamo per molte ore al giorno, i requisiti di comfort, durata e peso sono assolutamente fondamentali. Inoltre è importante che siano dotate di una suola con un buon profilo e siano idrorepellenti. Questo perché spesso dobbiamo allontanarci dalle piste battute e attraversare terreni bagnati, oppure raggiungere le rive del fiume per recuperare qualche vecchio gommone incagliato. Con i nostri scarponi AKU abbiamo trovato in questo senso un partner molto affidabile. AKU è partner di:

TRANSALPINA GTX Naturzentrum Thurauen Steubisallmend 3, 8416 Flaach (CH) Tel. +41 52 355 15 55 info@naturzentrum-thurauen.ch www.naturzentrumthurauen.ch

Pianura alluvionale Eggrank-Thurspitz, Svizzera

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Scarpa dedicata all’attività escursionistica moderna, Transalpina GTX è un mix tra i valori della tradizione manifatturiera e le nuove soluzioni tecniche. La tomaia in scamosciato e AIR 8000®, dal design moderno e funzionale è accoppiata a una suola innovativa, IMS³ a tripla densità con sistema Exoskeleton, per un’ammortizzazione ottimale su tutto l’arco plantare. TOMAIA Scamosciato / AIR 8000® 1.8 mm | FODERA GORE-TEX® Performance Comfort | BATTISTRADA Vibram® Cloud | INTERSUOLA EVA/PU | PESO 600 g

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Lavoro dei Rangers e attività didattiche (ph. Naturzentrum Thurauen)

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ISLANDA, DOVE

LA BIODIVERSITÀ SI ESPRIME IN TUTTA LA SUA FORWA Escursione nella riserva naturale di Skaftafell, Parco Nazionale Vatnajokull di Andrea Pasqualotto L o spettacolo che mi attende sulla collina di Skafatfell è magnifico. Ad oriente la cresta dell’Oraefajokull, il ghiacciaio della terra desolata, che con i suoi 2110 metri è il punto più alto di tutta l’isola. La calotta glaciale, in questa splendida giornata estiva, irradia la sua luce contro uno sfondo cobalto. Colossali lingue di ghiaccio precipitano lungo i ripidi fianchi del massiccio. A meridione la piatta e grigia piana alluvionale dello Skeidarsandur è un deserto africano. In fondo, tenue miraggio, brilla la superficie dell’Oceano Atlantico.

Oggi, ovunque, è luce. È la sintesi dell’Islanda, la terra dove gli elementi primordiali giocano tra loro e dominano il paesaggio, dove acqua, terra, aria e fuoco dettano il ritmo, e tutte le forme di vita, persone comprese, si aggrappano con fatica alla superficie ruvida, sperando di non venire travolti. È nelle condizioni estreme che la biodiversità esprime tutta la propria forza e capacità di adattamento. La terrazza di Sjonarnipa, dove il ghiacciaio di Skaftafell sembra così vicino da poterlo toccare, è la meta di una splendida escursione nella riserva naturale di Skaftafell,

area protetta dal 1967, e dal 2008 inclusa nei quasi 14.000 kmq del Parco Nazionale del Vatnajokull, il più grande d’Europa. Partendo dal centro visitatori alla base della collina si sale per un facile sentiero in direzione di Svartifoss, la Cascata Nera che si abbatte fragorosamente in un grandioso anfiteatro di basalti colonnari. Una patina umida ricopre ogni superficie, facendo risaltare il nero dei basalti, il verde della vegetazione e le sgargianti giacche impermeabili degli escursionisti. Da qui, si prosegue decisi verso nord, seguendo le indicazioni per Sjonarnipa. Salendo ora sul dorso esposto della collina, la vegetazione prima rigogliosa si fa ora più rada, acquisendo il carattere tipico della tundra artica, in cui dominano piccoli e contorti arbusti di salice e betulla, tappeti di mirtillo ora carichi di frutti e soffici muschi. L’inesorabile lotta contro la perdita di suolo fertile Il sentiero, in questo punto, come in molte riserve naturali del paese, è delimitato da centinaia di metri di corda, e negli avvallamenti, dove il ristagno delle acque piovane alimenta piccole torbiere, si procede su passerelle di legno. Piccoli segnali posti a distanze regolari mostrano una scarpa da montagna sbarrata da una linea diagonale rossa. Non è permesso uscire dai percorsi. Negli ultimi cinque anni, in seguito ad un incremento turistico annuale a doppia

cifra, ho notato un fiorire di queste infrastrutture, un po’ per rendere più confortevoli e sicuri gli itinerari naturalistici più frequentati, ma soprattutto per proteggere il delicato equilibrio ecologico di questi ambienti dall’erosione. Da oltre mille anni, da quando i primi coloni scandinavi sbarcarono in Islanda, insieme al loro famelico bestiame, per sfruttare gli immensi pascoli praticamente vergini, gli islandesi lottano contro l’inesorabile e permanente perdita di suolo fertile. La fame di legno e il pascolo intensivo hanno portato prima ad una quasi completa deforestazione, e quindi al consumo del sottile strato di suolo, formatosi lentamente dopo l’ultima glaciazione, che ricopre la roccia, le tenere ceneri vulcaniche, i sedimenti fluviali e glaciali. Il 75% della superficie dell’isola è soggetto all’erosione, il resto sono ghiacci, rocce e una minima parte di superficie urbanizzata. Anche il calpestio incontrollato dei turisti genera un impatto negativo che va mitigato. Dalla pietraia che delimita la morena laterale del ghiacciaio, costellata di licheni crostosi saldamente ancorati al basalto, osservo il paesaggio nudo. Pochi organismi riescono a resistere quassù, completamente esposti alle severe condizioni climatiche.

Scendo dalla collina seguendo un altro itinerario, più breve, con una vista eccezionale verso la valle sottostante, lungo il ripido versante meridionale dell’Austurbrekkur. Protetti dai freddi e secchi venti artici, che disidratano anche le piante più coriacee, la vegetazione in questo punto prende vigore. Betulle, salici e sorbi raggiungono anche i quattro metri di altezza, creando le condizioni per lo sviluppo di un vero bosco. Dopo l’esperienza della tundra, l’impressione è quella di esplorare una foresta tropicale primordiale. Bellezza di fiume artica, il fiore più bello d’Islanda Siamo quasi alla fine della breve estate nordica, nel momento di massimo sviluppo vegetativo. Grossi cespugli di Angelica arricchiscono il sottobosco lussureggiante con i loro candidi ombrelli, mentre qualche tordo curioso saltella rapido tra i rami. Raggiungo le nere morene frontali dello Skaftafelljokull, dove la vegetazione pioniera fatica a colonizzare le ghiaiose e instabili superfici. Osservo il fronte del ghiacciaio lordo di detriti che si immerge nella laguna fangosa, da cui sgorga il fiume che giungerà, dopo appena trenta chilometri, nell’Oceano Atlantico. In alto, oltre la cresta, gli 8000 kmq del Vatnajokull lottano strenuamente contro l’implacabile scioglimento.

ISLANDA

Riserva naturale di Skaftafell, Parco Nazionale Vatnajokull

Sto per imboccare la traccia di sentiero che conduce al centro visitatori quando la vedo. Un’insolita macchia di colore, fucsia intenso, acquattata dietro un cordone di ghiaia, attira la mia attenzione. Il fiore forse più bello e straordinario di tutta l’Islanda, il Chamerion latifolium, o Bellezza di fiume artica, fa capolino temerario in un ambiente ostile. Pianta nazionale della Groenlandia, dove viene chiamata niviarsiaq, letteralmente piccola ragazza, è molto importante per le popolazioni Inuit perché ogni parte della pianta è commestibile, una risorsa fondamentale nelle terre estreme. Pianta perenne, si ancora coraggiosamente alle ghiaie, esplodendo in tutta la sua bellezza durante l’estate con dei magnifici fiori che risaltano contro le ghiaie scure. Le risorse della Biodiversità per resistere ai cambiamenti ambientali sono infinite, e vanno oltre ogni nostra conoscenza e comprensione. In qualche modo, anche sotto il Circolo Polare Artico, la tenacia di questa splendida macchia fucsia all’ombra di immensi ghiacciai mi ricorda che la vita, nonostante tutto, troverà il modo per adattarsi al cambiamento.

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da sinistra: Chamerion latifolium o Bellezza di fiume artica − Svartifoss, la Cascata Nera − Riserva naturale di Skaftafell (ph. Andrea Pasqualotto)

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