Alberto Abruzzese. Mutazioni contro il moderno

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I COLÓQUIO BRASIL-ITÁLIA DE CIÊNCIAS DA COMUNICAÇÃO Santos, Brasil, 01 e 02 de setembro de 1997

MUTAZIONI CONTRO IL MODERNO IDENTITÀ E VALORI TRA TELEVISIONE E CIBERNETICA di Alberto Abruzzese

Sommario: I. Radici, reperti e soggetti del nuovo nell'immaginario collettivo (scaletta); II. La qualità comunicativa dei processi innovativi (traccia); III. Le politiche e le strategie tra restaurazione e rivoluzione (traccia).

I. Siamo di fronte ad una grande mutazione. È una mutazione antropologica prima ancora che concettuale. La abbiamo di fronte, questa mutazione epocale, quando vediamo i nostri figli intenti all'esercizio dei videogiochi; quando cogliamo la prestanza fisica ed emotiva con cui familiarizzano con il computer; quando leggiamo di eventi mediali che ci annunciano la rapida ascesa delle reti telematiche, le figure, i comportamenti e costumi che vi emergono; quando la stampa e la tv ci annunciano le nuove conquiste della cibernetica e della bio-tecnologia. Ma ogni giorno viviamo questa stessa mutazione nella vita quotidiana, nei modi in cui abitiamo il mondo e ci intratteniamo con le cose e con gli altri. Siamo noi stessi i protagonisti di un mutamento che si annuncia di intensità pari a quella della scoperta dell'america o dell'invenzione della stampa o della creazione della parola. Siamo nutati. Stiamo mutando. Siamo mutanti: quella sorta di corpi instabili su cui la letteratura fantascientifica ha cominciato a riflettere in modo precoce, sin dall'ottocento, creando vere e proprie figure mitologiche moderne, "mostri" in grado di simbolizzare collettivamente le nostre metamorfosi mentali, sensoriali, percettive, fisiche.

Cerchiamo appunto di ragionare sui mutamenti del presente andando a ripescare immagini sedimentate nella nostra memoria, assorbite nei flussi dell'immaginario collettivo, rubate dai testi dell'industria culturale. Partiamo da un film che ha scandalizzato l'opinione pubblica: Crash.

Crash Le immagini di Crash suggeriscono un mondo terminale, dunque giunto alla fine della sua storia, chiuso nello spazio dei suoi incubi e desideri. In questo mondo senza alcuna dimensione sociale che non sia il corpo e la sua espansività l'immagine dominante è fornita da una fusione traumatica ma desiderata tra l'automobile e l'individuo.


Quale è la storia moderna del corpo e dell'automobile che in questo film sembra concludersi in una sorta di metafora del presente? L'automobile è la macchina industriale che nasce e si sviluppa in parallelo ai linguaggi della comunicazione della società di massa: cinema e tv. L'automobile costituisce l'avventura dell'individuo metropolitano che coniuga stanzialità e nomadismo. L'automobile è ciò che lega sino ad oggi l'esperienza fisica dell'abitare a quella fantasmatica del grande e piccolo schermo: Crash ci suggerisce un punto zero, un punto di non ritorno, in cui né il corpo né la macchina si accontentano di vivere. Ci suggerisce il desiderio di andare oltre. E sappiamo bene come questo tema sia presente nella letteratura dei cybernauti, nella performance virtuale con cui Timothy Leary dopo l'esperienza delle droghe ha voluto vivere l'esperienza della morte.

Dracula di coppola L'automobile è per definizione il motore dell'individuo metropolitano, la possibilità di integrare il suo corpo alla macchina, di viaggiare in modo automatizzato, di vivere artificialmente il territorio fisico. L'automobile contemporaneamente al cinematografo. Ricordate la scena che il regista coppola inventa per dare un luogo emblematico alla seduzione di Dracula? Sullo sfondo si agitano le immagini delle prime sequenze filmiche in pubblico. Dracula recita lo stesso meccanismo autodistruttivo messo in opera in crash: il desiderio si coniuga con un cerimeniale che spinge oltre la vita. Dracula, mito della terra e insieme della incorporeità o instabilità corporea, essere nutante a suo piacimento, introduce alla prima grande smaterializzazione del territorio fisico operata dal cinema.

James dean Torniamo a Crash: assistiamo ad una performance interessante, recitata per pochi adepti, per spettatori dediti al culto delle forme dell'immaginario collettivo. È la celebrazione del mito degli attori, dei grandi divi cinematografici, morti in incidenti automobilistici che ne hanno condensato il senso epocale.


Questa sequenza ha il potere di evocare l'intera storia della società dello spettacolo: le forme di rappresentazione in cui la memoria assume la monumentalit… della rovine. Si pensi alle sequenze di quarto potere in cui Orson Welles mostra le immense fortune accumulate dal suo eroe dei media. Come per il cinema, il falso castello del cittadino Kane espone tutte le opere del mondo, di ogni epoca e luogo, di ogni qualità e verità. Ma l'unico oggetto in grado di dare senso a quelle rovine e' un oggetto segreto, una parola apparentemente inspiegabile, un dono. Si pensi alla dimensione delle grandi esposizioni universali: quando ancora il cinema e l'automobile non sono nati. Grandi spazi metropolitani aperti ai giochi d'intrattenimento e di simulazione. Luoghi di viaggi artigianalmente virtuali. Luoghi per le masse ma studiati in modo da sollecitare la persona e il suo specifico rapporto affettivo con le merci. Luoghi che hanno prodotto le strategie della pubblicita' contemporanea. Solo tornando da questi panorami della civiltà moderna il desolato spettacolo di crash può servirci a individuare la sensibilità del presente, ciò che ci lega e ciò che ci divide dai miti di massa che dal cinema si sono dissolti nei flussi televisivi.

Arbore: non più e non ancora Ricordate indietro tutta? A suo modo è stato un programma definitivo. Raccontava la morte della tv generalista. A suo modo celebrava le rovine del grande spettacolo televisivo: un irrefrenabile spirito nostalgico e al tempo stesso ironico rimetteva in gioco i dispositivi classici della tv come linguaggio delle identità collettive, delle merci di largo consumo. Dopo quell'evento terminale arbore non e' stato piu' in grado di fare tv. Eppure la tv ha continuato a sopravvivere. Anche l'automobile ha continuato a correre. Anche il cinema ha continuato ad esistere tra la dimensione urbana delle strade e delle piazze e la dimensione metaterritoriale, rarefatta, della televisione. Il territorio fisico mostra ancora i suoi più antichi conflitti sociali, le sue ingiuste collocazioni, la sua pesantezza industriale, le sue sacche di disperazione. Mostra i suoi ipermercati televisivi come i suoi deserti, il traffico di automobili sempre più ferme e l'insorgere di fenomeni locali, di piccole comunità, di non luoghi, di graffiti che simulano la distruzione di palazzi e monumenti. Vecchi e nuovi nomadi abitano là dove scelgono di transitare. Il cinema ha esasperato le sue estetiche dell'effetto speciale: pensateci bene, dietro al sublime tecnologico del cinema c'è lo stesso clima di crash. Il pubblico si diverte a vedere continue catastrofi di sé e del proprio corpo, del territorio fisico e della storia in una dimensione erotica generalizzata. Il corpo dello spettatore e' reso sempre piu'


sensibile non tanto dalle immagini quanto dai rumori, dai suoni, dalle pulsazioni dello spazio, dalla violenza delle sensazioni. La tv ha esasperato la contaminazione tra finzione e realtà: ha lavorato sul pubblico trascinandolo nella guerra dei palinsesti; ha mostrato di essere il mondo della stampa e della politica; ma ha dovuto mostrare tutta la sua potenza/gracilità di linguaggio di massa per reggere l'ultima ondata della societa' moderna. Intanto, trasversale a questi mondi, che coabitano nella sensibilità collettiva e individuale del soggetto tardomoderno, crescono strategie espressive diverse, soggettività nuove.

Corpi in rete I corpi si sono così tanto intrattenuti con lo schermo televisivo che lo hanno interiorizzato e personalizzato. Rispetto alle dinamiche collettive, si fa spazio una sempre più accentuata diversificazione dei bisogni, dei gusti, del linguaggi: in casa e fuori di casa, a lavoro e in privato, nella societa' e fuori della societa'. È da questa corporeità diffusa e insieme divisa che la politica sarà costretta a ripensare se stessa, a ritrovare un suo fondamento. È in questa corporeita' continuamente negoziabile che possono nascere nuove forme di sapere e nuovi soggetti. I segni di questa mutazione sono dovunque, incardinati nella stanchezza dei vecchi linguaggi e delle vecchie forme di vita. Ma il mercato è inevitabilmente piu' attento a questi segni. La telefonia mobile annuncia la dimensione futura della telematica. Una piccola protesi digitale ci congiunge e separa dall'universo dei legami sociali e degli affetti. Ci dà una dimensione nomadica permanente. Massimo strumento di solidarietà e di isolamento. Veicolo possibile di erotismo, amicizia, lavoro, pericolo.

II. Lo scenario che abbiamo di fronte è sempre più complesso e contraddittorio. In tutti questi anni l'immaginario collettivo ha indugiato su miti e figure che hanno sempre più messo a nudo le zone di frontiera dell'esperienza moderna: una esaltante crescita dei valori espressivi dei consumi e una altrattanto inquietante crisi dei valori tradizionali, delle istituzioni e delle agenzie di socializzazione che hanno fatto la forza dei processi di modernizzazione: scuola, famiglia, stato, grande impresa, lavoro, istituzioni pubbliche, apparati dell'opinione pubblica, industria culturale. La metafora di un tempo nuovo ed insieme di una catastrofe imminente - tipica del transito di fine millennio - domina nella letteratura, nel cinema, nel fumetto, nelle arti. Muore il secolo della modernità Si conclude il lungo ciclo della rivoluzione industriale, della civiltà delle macchine: le sue radici hanno avuto luogo nella metropoli ottocentesca, ma la sua effettiva dimensione sociale si è compiuta pienamente nei sistemi novecenteschi della civiltà di massa.


Da più punti di vista il bilancio sul novecento risulta negativo: rovescia per più aspetti lo spirito del tempo su cui lo sviluppo moderno si è fondato. I valori del progresso, le strategie di socializzazione, l'emancipazione delle masse, la potenza delle merci, le sovranità nazionali, le grandi ideologie e gli stessi conflitti di classe avevano promesso pace, stabilità, giustizia. Il novecento ha invece prodotto due guerre mondiali, i traumi epocali dei regimi totalitari, la bomba atomica, conflitti permanenti e periodici su scala planetaria e locale. Le straordinarie conquiste della scienza, della tecnologia e dell'economia di mercato non hanno eliminato disuguaglianza sociale, fame, malattia. Sempre più acute sono le reciproche frizioni tra strategie della impresa e strategie della politica; tra strategie dei media di massa tradizionali e strategie dei new media; tra dimensione globale e dimensione locale della vita quotidiana e dei bisogni; tra aree sociali sviluppate ed aree sociale sottosviluppate; tra confini nazionali e migrazioni etniche; tra culture della solidarietà e culture della diversità; tra etiche tradizionali e nuove etiche; tra risorse disponibili e desideri. La modernità ci ha affascinato: ha reso più fortunati e felici i popoli che godono del benessere dei consumi diffusi; ha distrutto le basi degli antichi totalitarismi; ha reso visibile e contemporaneo tutto il pianeta, almeno per chi ne costituisce l'area di dominio. Eppure la modernità ci ha deluso: ci abbandona orfani delle sue originarie speranze; mostra focolai di morte e disperazione; rivela la stanchezza e l'inefficacia dei suoi strumenti di potere e di governo, dei suoi saperi e dei suoi modelli di vita. La caduta del muro di berlino ha simbolizzato la fine di un'epoca e l'inizio di un tempo nuovo delle politiche sociali e delle strategie mondiali: ma la dimensione occidentale dello sviluppo sembra sospesa in una zona morta e da più parti ricorre il tema della fine della storia. Siamo dunque in una fase cruciale di cui bisogna cogliere il senso: sapere leggere la crisi nelle sue componenti negative e positive; sapere valorizzare l'innovazione come via d'uscita dai fallimenti della tradizione; riuscire a trovare nuovi protagonisti della storia. La sociologia e la filosofia si sforzano di individuare e caratterizzare questa fase come transizione verso un mondo anti-moderno. È uno sforzo ostacolato da resistenze e difficoltà di ogni tipo, perché va contro le forme di potere economico e/o politico che gestisce tra transizione tra i vecchi ed i nuovi apparati tecnologici; contro le forme di sapere delle istituzioni; contro le paure del mutamento, vissute tanto ai vertivi come alla base delle gererachie sociali. A seguito dei fenomeni post-fordisti che caratterizzano la società contemporanea come società post-industriale, le culture post-moderne esprimono già da tempo una diffusa tensione verso il superamento delle identità e dei valori che hanno caratterizzato la modernità. In questo quadro ancora sospeso tra vecchi e nuovi rapporti sociali - la cibernetica assume la dimensione di una nuova terra di frontiera. Come sempre non dobbiamo immaginarci che il potere delle tecnologie sia una entità aliena che si impone sulle nostre abitudini e sui nostri bisogni: la qualità delle innovazioni post-industriali della cibernetica ha le sue radici nei punti di frattura del sistema industriale e delle sue forme di esperienza vissuta. Una tecnologia si fa mercato - cioè è desiderata e dunque se ne contratta il valore e l'uso - quando è pronta per soddisfare il processo di artificializzazione di cui l'uomo ha bisogno per costruire la propria realtà sociale. Per abitare il mondo - per costruire identità e conflitti, relazioni e oggetti abbiamo bisogno di protesi adeguate, di adeguate forme di manipolazione della natura e del reale, di linguaggi relazionali in grado di farci comunicare e agire. La cibernetica è la nuova protesi di un corpo sociale ormai sempre più inibito dalla corazza dei linguaggi espressivi della civiltà industriale.


La storia a cui apparteniamo è segnata da vari momenti di passaggio in cui l'abitare assume nuove configurazioni rispetto alle precedenti, esprimendone tuttavia il punto di rottura e insieme l'attesa di superamento. Un primo passaggio fu costituito dalla stampa e dalla dialettica tra vecchio e nuovo mondo, tra europa e america. Lo sviluppo moderno occidentale ha trovato la sua seconda grande forma di artificializzazione nella natura polimorfa, ma ancora territoriale, fisica, delle metropoli. Una terza fase - dalla fotografia alla tv generalista - è stata costituita dalla edificazione dei linguaggi della riproducibilità tecnica, dalla messa in scena simulata dallo schermo, dall'audiovisivo (cinema e tv), dai mass media come territorio immateriale dell'agire sociale. Ora il passaggio epocale consiste nel transito dalle forme analogiche della civiltà dello spettacolo alle forme digitali della cibernetica, dalle dimensioni percettive dell'audiovisivo a quelle degli ipertesti e della virtualità. Per capire questo passaggio bisogna definire la diversa qualità che anima i new media rispetto al linguaggio televisivo, assunto come forma egemone della società di massa. Mentre sul versante dei linguaggi della tarda modernità la qualità delle forme espressive egemoni è misurata sulle funzioni di socializzazione e visibilità di identità collettive, sul versante della sensibilità postmoderna emergono bisogni relativi alla persona, ai piccoli gruppi, alle identità simboliche. È stato notato in più settori - consumi, agire sociale, impresa, immaginario - che una progressiva tribalizzazione dei modi di essere e di fare sta sempre più intaccando la compattezza dei regimi collettivi dei mercati, delle strategie, dei modi di produzione, delle forme estetiche. Di conseguenza, mentre i linguaggi della tv sono forme prevalentemente unidirezionali di comunicazione (uno a molti), al contrario i linguaggi del computer favoriscono forme di intrattenimento interattive (molti a molti). Ma questa non è la sola frattura che si realizza nel conflitto/integrazione tra vecchi e nuovi media. C'è molto di più e di diverso. Anche i media tradizionali realizzano infatti una loro forma di interattività per quanto lenta e limitata. Il salto di qualità ottenuto dalla cibernetica va colto laddove essa non si limita a collaborare con la qualità dei precedenti media di massa, ma entra in una dimensione comunicativa completamente inedita per le regole sociali della cultura moderna. E si apre a nuove soggettività. Abbiamo accennato all'abbandono dell'immagine analogica. La digitalizzazione significa il massimo sviluppo del potere di manipolazione, artificializzazione, simbolizzazione del mondo reale. Significa potere radicalizzare sino all'estremo il proprio modo di produzione della realtà; costruire l'immagine per così dire dal nulla, cioè soltanto a partire dalla propria memoria e dalla propria emotività: dallo spazio della propria mente. Aprire il proprio mondo invece di aprirsi ai mondi altrui. Più di prima ma anche meglio di prima. Pacendosi integralmente l'altro. E per di più significa una straordinaria intensificazione e accelerazione della comunicazione: scrittura e immagini possono correre e intrecciarsi come accade nella conversazione telefonica. Significa assumere il posto di una stazione emittente, mandarsi in onda, abitare non-luoghi mediatici invece che fessure metropolitane. Ogni vincolo con la realtà esterna può essere reciso. Ogni confine superato. Il desiderio del consumatore trova nel dispositivo tecnologico in quanto tale tutti gli oggetti di identificazione e appartenenza necessari alla pluralità e alla versatilità dei suoi bisogni espressivi, alle sue fughe dalle più irriducibili antinomie della modernità o alla loro più radicale conferma. Può riversare sull'interattività delle reti quella limitata esperienza di attore sociale e di protagonista mediatico che è riuscito a vivere nel punto di rottura della tv generalista, quando il contenitore di programmi di genere si è sempre più trasformato in libero accesso, piazza


metaterritoriale. Può esercitare con più libertà e consapevolezza, il desiderio di navigazione ipertestuale che ha già rozzanenete sperimentato nell'uso dello zapping. Può adeguare i ritmi di fruizione del film a quelli della lettura, ricorrendo al cinema in cassetta. Può finalmente scorazzare tra parola e suono, immagine video e icona, riportando a portata della propria mano e del proprio occhio i libri delle biblioteche, le enciclopedie del sapere, gli archivi della memoria, gli spazi e le opere dei musei, ma anche i giochi da tavolo, gli eventi di guerra e di piazza. Ed infine le frasi d'amore, gli appunti a margine, i segni privati che un tempo si affidavano alla carta, oppure le collezioni e gli oggetti della propria stanza. Può fare sesso, trovarsi amici, travestirsi per ogni diversa situazione per ogni particolare travestimento. Il testo - che ha la sua radice moderna nella stabilità della scrittura e nel patto sociale tra scrittore e lettore - non può più resistere al consumatore digitale. Già lo spettatore dei flussi televisivi va facendo scempio delle forme testuali, costruendo i suoi percorsi e smentendo ad ogni sguardo le intenzioni originarie degli autori e delle stazioni emittenti. Ma le conversazioni digitali in rete riportano il testo alla instabilità continua dello scambio verbale faccia a faccia. Le grandi strategie divulgative della società di massa vengono meno, proprio consegnandosi ai mercati settoriali che hanno determinato. Lo spettatore post-televisivo può riorganizzarsi in consumi mirati, di nicchia, amatorali, specializzati. Oppure può costruire le proprie isole, le proprie spaziature. Creare l'avventura di nuovi mondi. Il consumatore diviene protagonista di strategie educative che stanno perdendo il proprio centro sociale, la propria originaria storicità. Apprende giocando e allo stesso tempo si gioca un nuovo sapere. Può spingere il pedale dell'immedesimazione dei racconti di finzione. Da spettatore, ha imparato a farlo nel tempo della società di massa, nell'epoca degli effetti speciali, nelle forme di un intrattenimento estremamente coinvolgente grazie alla petenza dei generi narrativi e alla credibilità emotiva delle figure dell'immaginario collettivo. Ma ora può sfondare gli schermi, entrare nello spazio delle storie e nei corpi dei personaggi. I linguaggi della virtualità gli consentono di vivere e non soltanto di vedere il racconto. È in questo punto che viene meno davvero la tradizione della scrittura e di tutti i linguaggi che ne sono derivati (dallo spettacolo cinematografico ai flussi televisivi): la virtualità cibernetica promette una trasmissione del sapere che utilizza soltanto l'esperienza, la vita vissuta, la presenza del corpo. Ecco lo scarto sostanziale tra la tradizione moderna dei linguaggi storici delle comunicazioni di massa e la nuova dimensione cibernetica: nei new media emerge o può emergere qualcosa che lo sviluppo dei processi di alfabetizzazione ha dovuto escludere o inibire. L'estrema complessità della società moderna, come si è accennato, perviene ad una sorta di rovesciamento dei suoi paradigmi: le linee di forza dello sviluppo industriale sembrano essere contrastate da impulsi che premono verso la dimensione premoderna: oralità invece di scrittura; identità singolari invece che identità collettive; insorgenze comunitarie invece che movimenti societari; tribù invece di classi e ceti; cerimoniali simbolici invece che pratiche cognitive razionali. La cibernetica sembra potere dare voce a questa tendenza anti-moderna dei contesti tecnologicamente avanzati. La cibernetica, infatti, è l'ultimo anello di una catena di innovazioni del linguaggio. La comunicazione orale fu una prima grande rivoluzione tecnologica volta a ottimizzare l'efficacia dei linguaggi interattivi grazie alla parola. Le forme di sapere performativo - corporale - che avevano consentito sino a quel momento di comunicare con l'altro si contraggono o depositano ai bordi della parola. La parola si sviluppa e si generalizza attraverso passaggi che è lecito supporre intimamente collegati alle strategie di potere delle prime grandi comunità. L'innovazione della scrittura e dunque dell'aifabeto subentra e vince sul piano dei rapporti sociali:


ma in questo caso abbiamo le prove storiche del suo uso e dei gradi di sviluppo che la vedono progressivamente estendersi sull'oralità secondo strategie di potere connaturate alla sua stessa natura tecnologica e al conflitto/integrazione tra chi domina e chi è dominato. Dai caratteri a stampa di Gutenberg e dalla loro automazione ottocentesca sino alla versione audiovisiva della tradizione letteraria operata nel novecento dal cinema e dalla tv, la scrittura è stato lo strumento di base delle strategie di sviluppo e di potere sociale del processo di modernizzazione. La stabilità dei testi ha costituito un formidabile dispositivo di controllo tra i vertici e la base delle strutture sociali; tra la norma e la trasgressione; tra le leggi e i desideri del corpo; tra soggetti legittimati e soggetti oscurati. Già la fase terminale della tv generalista ha fatto emergere figure mai viste prima, soggetti sociali in grado di rivoluzionare i sistemi di potere e le strategie del consenso della civiltà di massa. Ora i new media sembrano aprire nuove possibilità espressive alla soggettività rimossa dallo sviluppo moderno, dalle sue forme iperscritturali di conoscenza e dalle sue conseguenti strategie politiche e culturali. Il sistema televisivo generalista funziona da metafora ma anche da centrale operativa di una forma di rappresentanza e di controllo sociale che non riesce più a sostenere la complessità del presente, i processi di frantumazione e segmentazione dell'abitare, l'emergere di bisogni che sfuggono alle categorie della modernità.

III. Questa, in grandi linee, è la nuova dimensione dei linguaggi digitali e delle reti telematiche. Cerchiamo ora di ricavarne alcune conseguenze sul piano dei mutamenti che una adeguata negoziazione delle forme di comunicazione anti-moderne (e quindi sia anti-industriali sia antitelevisive) può favorire. Bisogna prima di tutto individuare nelle nuove tecnologie una doppia natura. La prima è collaborativa. La seconda è catastrofica. Quale dovrà o potrà prevalere? Come si possono intrecciare tra loro qualità così distanti? La componente collaborativa dell'innovazione cibernetica può intervenire per risanare ciò che non funziona nelle precedenti tecnologie, nei precedenti modelli di organizzazione della ricerca scientifica, della scuola, della formazione, dell'impresa, del lavoro, del mercato, dell'amministrazione, dei servizi, della politica. Non è poco. L'impresa affronta oggi una crisi di trapasso dalla dimensione industriale a quella post-industriale di portata eccezionale; tutti i tradizionali confini protettivi stanno cadendo di fronte alla globalizzazione dei mercati. Per alcune imprese la nuova dimensione internazionale dei traffici economici e imprenditoriali significa rischiare di morire. Solo investimenti sull'innovazione possono salvare un comparto della produttività sociale così importante e centrale per la vita di una società civile. La scuola e l'università sono al collasso: ricorrere integralmente all'innovazione del computer è per questi settori l'unico modo per sopravvivere nella sfera pubblica come istituzioni separate dalle dinamiche pure e semplici del mercato. Questo significa non solo acquisizione di nuove tecnologie ma innesto di processi formativi che sino ad oggi non sono stati mai praticati e che tuttavia proprio le strategie del computer potrebbero rendere finalmente realizzabili. I territori della cibernetica stanno assorbendo economia e mercati. Le innovazioni informatiche hanno la capacità di intervenire positivamente sulla qualità delle aziende, sulla trasformazione


del lavoro in modalità più elastiche e più adeguate (il telelavoro), sulla riduzione dell'improduttività e inerzia delle burocrazie impiegatizie, sulla ottimizzazione dei servizi e sul grande settore in crisi della distribuzione. Dunque anche nel campo dell'industria del libro, del cinema, dell'audiovisivo. Nel campo della valorizzazione delle risorse turistiche e ambientali. Nel settore dei beni culturali e delle strategie urbane. Anche sul piano dell'amministrazione e della politica la dimensione delle reti sembra promettere alcune forme di ri-socializzazione atrimenti impraticabili. Esiste una vasta letteratura a questo proposito, che oscilla in modo evidente tra vecchie e nuove culture politiche, tra vecchi e nuovi soggetti dell'abitare, tra vecchi e nuovi poteri, dividendosi proprio tra la tentazione di aderire incondizionatamente alle promesse dell'innovazione e la diffidenza verso la sua specifica natura. Ma a questo punto è giusto porsi una domanda: quanto š compatibile con la complessità della crisi in atto oggi nella società moderna un modello di sviluppo che utilizza l'offerta delle nuove tecnologie riducendola alla propria tradizione tecnica, culturale e politica (la stessa tradizione appunto entrata in crisi irreversibile)? Sarebbe un errore concepire l'innovazione come risorsa da assoggettare alle vecchie strategie e ai vecchi contenuti degli apparati moderni, siano essi quelli dell'impresa o quelli della sfera pubblica o del sapere. Anzi significherebbe dare ragione a quanti vedono nella cibernetica l'estrema propagine delle forme autoritarie e totalitarie dello sviluppo moderno. Conviene dunque ragionare in modo anfibio. Assumere l'innovazione proprio per quanto essa ha di potenzialmente catastrofico e usarla in modo da valorizzare la crisi della modernità e dei suoi strumenti come accesso ad altre forme di vita sociale, a strategie conflittuali più aperte e dinamiche. Anche in questo caso la tv come metafora e sostanza dell'abitare moderno si offre alla verifica di questa ipotesi. La tv costituisce tutt'ora l'unica realtà sociale a cui fanno ossessivamente riferimento i mercati della pubblicità e quelli della politica, i processi culturali e i conflitti. Il sistema nazionale italiano - nelle sue forme di governo e nei suoi dispositivi di legge - è bloccato nel tantativo di preservare dal tracollo la centralità moderna della tv invece di pensare ad un sistema delle telecomunicazioni in cui l'innovazione delle reti determini un radicale ridimensionamento delle funzioni generaliste delle comunicazioni di massa a favore di una dimensione di mercato interattiva e pluralista.


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