Anni Ottanta

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8 gennaio 2010

ANNI ’80 Alberto Abruzzese

Lo dico subito: ritengo che gli anni ’80 siano da celebrare come un grumo di eventi che hanno segnato il definitivo transito dell’umanità verso la crisi irreversibile dei suoi modelli di società. Da allora in poi non c’è novità che non sia ripetizione e non c’è evento che non sia rivelazione del già accaduto. Mi direte: ma questa questione della ripetizione e del già accaduto è proprio una novità? Certo che no! Ma a me pare che con gli anni ’80 si sia spezzata la magica ambiguità con cui i moderni hanno riservato al privilegio di pochi servi-padroni la consapevolezza di un eterno ritorno dell’umano alla propria impossibilità di sopravvivenza. Parole grosse, me ne rendo conto. Ma gli anni ’80 hanno decretato la corruzione progressiva – degenerazione, contaminazione, metamorfosi – dei corpi e del sapere ovvero dei due pilastri dell’umanesimo. Non è poco: e in gioco non c’è soltanto la vocazione imperialista della tradizione giudaico-cristiana, ma l’obiettivo di qualsiasi religione storica e poststorica ovvero di qualsiasi ambizione dell’essere umano a fondare la sua supremazia sulle cose del mondo. Prima però di dare ragione della mia scelta – perché gli anni ’80? – penso che sia utile riflettere un poco sul dispositivo simbolico che attribuisce a un decennio le qualità di un format espressivo di grande presa immaginifica e di sicuro successo pubblico e privato. Un secolo ha dieci rinascite. Ciascuna di esse inizia con uno zero alla fine. Ciascuno di esse ha imposto un suo stile. Ora siamo al 2010. Da questo nuovo zero che siamo si può risalire ai decenni passati. Ce ne è uno che meriti di essere ricordato in modo particolare? E’ vero: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ciascuno di noi ha infatti il proprio decennio elettivo. Magari, è il suo decennio “di formazione”. Magari ne ha più d’uno. Magari ne ha uno diverso dall’altro a seconda dell’indicatore – forse meglio dire sensore – che decide di applicare. Magari uno stesso decennio si moltiplica al suo interno in tanti decenni di diversa natura affettiva o professionale o strumentale. Se mi chiedete quale sia per me il decennio da celebrare,


fatico a rispondervi. Se mi chiedete di ragionare da mediologo, tanto più. E credo di avere le mie ragioni (ma di questo dirò in conclusione). Di certo c’è comunque una relazione tra il significato personale che diamo alla nostra vita trascorsa e la patina che attribuiamo a un decennio piuttosto che a un altro. Chi ha vissuto una guerra vedrà in modo tragico gli anni in cui ne ha patito la tragedia umana. Chi ha nostalgia dell’infanzia troverà qualcosa di attraente nei decenni che più la riguardano. Chi ha vissuto particolari disgrazie non amerà rifarsi alla loro epoca. E via dicendo. Ma anche questa non è una norma generale. C’è chi ricorda con piacere proprio ciò che più gli ha procurato dolore, più lo ha colpito nella carne e nello spirito. Più gli ha fatto sentire la vita. Più lo ha reso vicino a se stesso. Meglio: ciascuno di noi investe su un decennio e su un altro a partire dalla propria immaginazione. Ciascuno concentra la propria capacità creativa – la propria inclinazione a simboleggiare le cose che gli si parano davanti – su un oggetto pre-esistente traducendolo nella propria soggettività. Riportando nella sua cornice una pluralità di mondi e – grazie all’arbitrio di questo suo tagliare una parte per il tutto – legandoli uno all’altro. A questo servono le pratiche di simbolizzazione: legare insieme ciò che resterebbe altrimenti disperso. E i simboli hanno bisogno di materiali d’uso. Da manipolare in proprio. I media ne costituiscono il magazzino vivente. O meglio: la fabbrica e il fornitore. La febbre del sabato sera è un film del 1977: “vuoi per la storia, vuoi per il mitico Travolta, vuoi per le musiche, vuoi per il periodo che rappresenta, secondo me è un film che non diventerà mai obsoleto. L'unico rammarico? Non aver potuto vivere personalmente quei mitici anni che, non so perché, ma mi creano una sorta di nostalgia, anche se avevo solo 1 anno!”. Questo è il commento scritto sul suo blog da Gabriella, che vive a Camogli, vicino Genova, e oggi ha 32 anni. Un film diventa un’epoca, un inizio della storia, un grappolo d’anni che si fanno mondo. A quel mondo il film dona un racconto, un carattere, un’aureola di sacralità. Di culto. Il decennio assume in sé l’immagine del divo, si fa esso stesso star. Incanta al di là del proprio tempo. Accoglie dentro il proprio cerchio magico chi vive il disincanto quotidiano. Chi vive il bisogno di un’altra origine e di un diverso destino. Così i media – quell’intrattenimento insieme pubblico e domestico che la televisione ha elevato a infinito presente, assorbendo in un unico flusso sensoriale ogni spaziatura di tempo e di luogo – sottraggono i sensi della nostalgia al campo dell’esperienza diretta ed anzi


ne accentuano la potenza incantatrice quanto più è il vuoto orizzonte del desiderio a fingersi come vita vissuta. I media sono macchine incubatrici in cui le tracce del passato vengono sempre di nuovo rielaborate dai consumi. Che sono atti di significazione. Quando si dice “società dello spettacolo” in prevalenza si pensa all’uso economico-politico di forme della messa in scena tese a manipolare il presente, ma ciò che esse rielaborano è soprattutto il passato. Siamo abituati a credere che lo spettacolo dei media, fondandosi su piattaforme espressive frontali, produca pubblici che si specchiano in uno stesso mondo, ed invece si tratta di dispositivi simbolici che operano alla maniera di un caleidoscopio. Una rifrazioni continua di gesti e sguardi. Gabriella, eleggendo la Febbre del sabato sera ad epoca ricca di particolari significati, fa di questo film un significante aperto ad ogni altro evento. Potrebbe sapere vedere tra le luci della discoteca esperienze sociali in tutto diverse. Potrebbe saperlo senza sapere, solo in virtù dell’intensità con cui da quel frammento di se stessa ricava la certezza di essere ripiena del tutto. Per altri che quegli anni li hanno vissuti o presi in seria considerazione, il ’77 è invece oggetto di tutt’altro sentimento indicando un periodo di innovazioni territoriali esaltanti e insieme di terribili conflitti sociali, di grandi mutazioni culturali e insieme della esplosione del terrorismo italiano. Ecco: per me l’inizio degli anni ’80 comincia con la fine degli anni ’70. Solo quattro anni dopo, il 1981, e siamo dunque davvero agli anni ’80, viene riportata per la prima volta in letteratura la Sindrome da immunodeficienza acquisita, altrimenti nota come Aids, che è lo stadio clinico terminale dell’infezione dovuta al virus dell’immunodeficienza umana (Hiv). Nel 1984 il gruppo Fininvest, creato da Berlusconi già negli anni ’70, conta ormai ben 5.000 dipendenti, il nuovo regime televisivo misto è dunque una realtà affermata e in crescita esponenziale. Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino. La traccia dei miei anni ’80 è questa. Subito due considerazioni. Per un verso, si tratta di eventi tra loro almeno apparentemente incommensurabili: il primo e il secondo (Travolta e gli anni di piombo, uno globale e l’altro locale, o localmente disseminato e autoprodotto nel mondo) sono al culmine degli anni ’70; il terzo (il mortale virus che ha annientato la libertà sessuale, colpendo le sue avanguardie omosessuali, uccidendo la loro stessa carne) apre il decennio successivo; il quarto (la mutazione della vita televisiva degli italiani) occupa tutti gli


anni ’80; infine il quinto (la caduta del muro di Berlino e la ricomposizione della città in un’unica metropoli) chiude il decennio all’insegna di una conclamata liberazione del mondo civile da ogni violenza totalitaria. Per altro verso, questi non sono – tranne forse nel caso della oggettiva supremazia, reale e simbolica, dell’Aids – i soli eventi degni di nota in quel decennio: si pensi ad esempio alla politica neoliberista inaugurata da Margaret Thatcher e alla sua influenza sull’Europa. Ma la considerazione di fondo da fare è un’altra. Si tratta di eventi che, invece del loro tempo, spiegano assai più ciò che sarebbe accaduto nei decenni a venire, con effetti in certi casi di breve periodo e in altri di medio-lungo periodo: il protagonismo solare di Travolta, il suo passo leggero e danzante, si tradurrà nell’orgia di generi dei film di Tarantino, ma al fondo è stato il suo piccolo tribalismo familiare, il suo amor di ginnastica, a fare da base agli orientamenti di consumo di tutti i decenni successivi; il terrorismo italiano – sempre ancora muto e insieme rimosso – resta di fatto bloccato agli anni Settanta (in un certo qual modo a causa dello stesso meccanismo che congelò le avanguardie novecentesche al loro tempo di origine e alla loro consunzione in se stesse); l’Aids – prima evocato come punizione divina, paura millenarista, e infine normalizzato, marginalizzato e ghettizzato dall’informazione – resta tuttavia la malattia post-umana che meglio simboleggia la potenza dei fenomeni virali nel segno insieme della catastrofe e della salvezza (qui è in gioco la reciproca devastazione tra la fluidità dei desideri e la pesantezza dei dispositivi di controllo tradizionali); l’esperienza televisiva degli anni ‘80, portatrice di vissuti metropolitani mai interiorizzati dalla tradizione nazionale italiana, ha prodotto dagli anni ’90 ad oggi la polverizzazione delle sue istituzioni politiche e dei loro linguaggi; la caduta del muro di Berlino ha infine siglato la crisi di ogni autorità avviando la progressiva distruzione dell’Occidente storico-sociale ad opera di processi e pratiche che sono esse stesse il frutto orientale della progressiva, inarrestabile occidentalizzazione economico-politica del mondo. Mi rendo conto, tuttavia, che le considerazioni fatte sino a questo punto non esauriscono la portata dell’argomento in questione. La mia traccia funziona, ma è piena di buchi neri, di margini inesplorati. Ho provato più volte a scorrere su wikipedia le date più memorabili degli anni ‘80: fatti di cronaca, socioeconomici, politici, eventi d’eccezione, a volte banali a volte


sconvolgenti, guerre nel mondo, ma anche consumi, mode, film, musica e via dicendo. Ho cercato di trovare un senso complessivo in tutte quelle notizie divenute memoria. Non ci sono riuscito. Cercavo di individuare il filo conduttore di una grande narrazione. L’emblema di un’epoca. E’ stato impossibile. Ma alla fine, invece di una narrazione, mi è sembrato di cogliere un meccanismo. Infatti, lo sguardo su google mi ha sbattuto in faccia ben altra evidenza. Dietro alla terribile differenza che le teorie darwiniste fanno passare tra evoluzione naturale e evoluzione culturale – causa quest’ultima dell’aberrazione dell’umano, la sua perversione e la sua dannazione ultima, a fronte del mondo delle cose non-umane – mi è apparsa un’altra differenza, non solo grottesca ma lancinante come una lama nell’occhio. Tragica ma proprio per questo affascinante. Clamorosa e rivelatrice, essa passa tra il procedere della società, là dove la cultura ha appunto deviato il corso della natura, e il procedere dell’immaginario, là dove la cultura si autorappresenta rovesciando il senso dell’ordine sociale che ha prodotto. Sconvolgendo la realtà come fanno i sogni rispetto alla veglia (forse per risettare le nostre doti psicofisiche). I fatti pubblici – potrei dire quelli socialmente determinati e storicamente rubricati – si mostrano, a rileggerli ora, sotto le insegne della più desolante vanitas e cioè rivelano la loro tragica inutilità ovvero la loro irrazionale equivalenza con ciò che oggi più continua ad affliggere l’essere umano. Al contrario, i prodotti dell’immaginario sono la dimostrazione vivente di una evoluzione culturale che procede per proprio conto e – attenzione, qui sta il punto! – secondo modalità assai vicine a quelle regole darwiniane con cui il mondo fisico avanza senza altro intoppo che gli errori e le catastrofi che ne turbano l’ordinaria logica evolutiva. La ripetizione della storia non sta producendo nulla più di memorabile, sta anzi distruggendo ogni contenuto socialmente tributato al passato, ogni suo valore. Ogni sua possibilità di variazione. Di fronte agli eventi politici e economici degli anni Ottanta si resta inorriditi per quanto somigliano al prima e al dopo della civiltà industriale. La tela delle azioni – vogliamo dirle materiali? – intessute dalla civilizzazione moderna è stata disfatta e di nuovo intessuta e poi di nuovo disfatta dal suo inizio ad oggi. Senza fine. E questa sua infinitezza denuncia una società senza più scopi realmente possibili. La tela delle forme di comunicazione in quanto mondi – vogliamo dirli immateriali? – risulta invece una trama sempre in costruzione. Gli anni Ottanta sono fatti da realtà che franano una sull’altra, e all’opposto da finzioni che crescono una dentro l’altra. La selezione naturale, le leggi del


più forte, la volontà di potenza implodono socialmente ma trionfano simbolicamente. C’è da riflettere su questo ribaltamento, anche se al momento mi confonde non poco l’idea che sia l’immaginario a marciare compatto e implacabile – scientificamente armato – contro una realtà inerme e svuotata di senso. Resta un’altra considerazione da fare. Doverosa. In grado di mettere in discussione la domanda su qualsiasi decennio da premiare, compiangere o denigrare. Eccola: pensare il nostro passato chiuso nella bolla trasparente di un decennio è una costrizioni sociale. Certo che le costrizioni sociali sono il solo mezzo di cui l’umanità possa disporre per sopravvivere! Tuttavia è importante non dimenticarcelo. In particolare, è importante ricordarlo se si vuole ragionare su una abitudine così apparentemente libera, spontanea – e di fatto pubblicamente condivisa – come quella di rappresentare lo scorrere del tempo ripartendolo in decenni. Operazione divenuta non a caso di sempre più straordinario rilievo proprio nel nostro Novecento, secolo che, precocemente postumo, ha fatto della patina di ciascun suo decennio un dispositivo ri-ordinatore, essenziale per strategie di mercato fondate sul revival di epoche trascorse, ovvero delle loro stesse rovine. Usare il dispositivo mentale e insieme emotivo del decennio – il suo scrigno delle meraviglie: scatola che dis-chiude il suo tempo, scatola fatata, navicella per viaggi fantascientifici – è frutto di un arbitrio trasformato in norma, legge, violenza di diritto. Se accettiamo – se accogliamo, se riceviamo in noi – questa arbitraria scansione cronologica, è per obbligo (che è tra le parole chiave di qualsiasi filosofia e economia politica della modernità). Obbligo a disincarnarci dal nostro tempo interiore, intimo. Vale a dire che il decennio scandisce il tempo per dividere la nostra persona e ricomporla socialmente. E’ insieme una forma di spaesamento e di appaesamento, di oblio e di riconoscimento. A questo tipo di mappatura territoriale della nostra memoria siamo educati e dunque trascinati sin dall’inizio, dall’infanzia, dal primo apprendimento scolastico. Da genitori e maestri. Veniamo dunque civilmente obbligati ad adattarci a questa misura artificiale. E l’adattamento è di sicuro una forma di connessione guidata: significa adattarsi all’impronta del potere, adagiarci in essa. Partecipare alle strategie di dominio del tempo. Assecondare il tempo dominato.


Cosa accade allora in un decennio? Cosa ci trasmette o meglio cosa viene tramandato attraverso la sua icona? Ciascuno – abbiamo detto – ha anche il suo proprio personalissimo decennio. Certamente. Ma la sua memoria è costretta alla biografia: a una vita scritta sugli eventi pubblici e privati che il tempo sociale le ha fatto trascorrere. I conflitti sociali – istituzioni, movimenti, media – costruiscono calendari in grado di garantire narrazioni collettive. I decenni in realtà non esistono, è vero: c’è soltanto uno scorrere frastagliatissimo ma continuo del tempo fisico, oggettivo, e del tempo interiore. Le moltitudini di esseri umani si sperderebbero in se stesse se non venisse loro in soccorso un calendario di riferimento in cui i numeri e gli alfabeti possano fare da cornice a ciò che invece i sensi – non orologi quotidiani e agende annuali ma continua presenza tra passato e futuro – non riescono a fissare. E così il potere, convogliando la forza dei nostri sensi dentro i propri decennali cancelli, continua a godere di questa nostra debolezza.


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