L'oblio e il nulla ovvero Achille e la Tartaruga

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agosto 2009

L’oblio e il nulla ovvero Achille e la Tartaruga Alberto Abruzzese

In autunno si vedranno tanti film apocalittici, predizioni funeste sul nostro tempo a venire: 9, cartone animato prodotto da Tim Burton, The Book of Eli, The Road. Insomma, come dice il titolo di un’altra uscita settembrina, Segnali dal futuro. Tra le tante sequenze pubblicizzate: la metropoli diffusa di Los Angeles sprofonda nel mare. Clamorosa metafora, per nulla amica, in tutto nemica, della liquefazione della società moderna. Film, dunque, pieni di immagini che non lasciano alcuna speranza al genere umano. E che noi ci divertiamo un mondo (letteralmente, un mondo) ad onorare al botteghino e poi dentro casa. L’occasione per interpretare il senso riposto in questa nuova stagione cinematografica mi è venuta in verità assai da lontano, rileggendo Michel de Certeau. In un celebre saggio dedicato al ’68 (La presa della parola, Meltemi, Roma 2007), questo grande cattolico (a volte ce ne sono, forse: sicuramente ce ne sono stati) sosteneva quanto un evento straordinario come il maggio parigino, il suo essere emerso come conversazione, imponesse di essere discusso – ricordato, riconsegnato al presente, rifatto parola – nonostante la sua “rivoluzione simbolica” si fosse ridotta a nulla di fatto. Si fosse spento nel silenzio della società. Stavo appunto pensando al continuo ricorrere del cinema di genere catastrofico, più di un secolo, l’intero Novecento, epoca d’oro della cultura di massa e delle sue sventure, quando quel suo pensiero – sottrarre all’oblio il nulla – m’ha suggerito la chiave di lettura che qui intendo proporvi. Per quanto essa vada in una direzione che alla fine risulta assai distante dallo spirito certamente antimoderno ma sostanzialmente religioso con cui De Certeau ha elaborato le sue analisi sulla “vita quotidiana” come sottile, umile, insubordinazione dell’esperienza umana, umanissima, contro le strategie del Potere economico-politico della Società. Da parte mia, infatti, preferisco arrivare ad un tema oggi cruciale: la dimensione post-umana in cui il mondo sta sprofondando. Ma riprendiamo il filo del discorso: ciò che tra poche settimane vedremo nelle sale cinematografiche.


Dei film che preannunciano la fine dell’umanità, i quotidiani parlano nel loro consueto modo tra il superficiale (“ci risiamo”; “le grandi fantasmagorie tecnologiche di un genere banale”) e il superstizioso (“se andiamo avanti così magari è proprio questo il destino che l’Occidente si merita”). E’ il loro modo di sopravvivere nella cultura dei media audiovisivi come certi pesciolini parassiti vivono ai fianchi degli squali. La regola dei quotidiani è quella di rendere semplici i discorsi. Ad ogni costo. Così, ciò che è complesso si fa acqua sporca da buttare via per trattenere nel catino dell’informazione un lettore concepito allo stato elementare, infantile come gli adulti si immaginano debba essere l’infanzia. Anche quelli che si lamentano della Gelmini si rivolgono al loro pubblico ideale rispettando la regola di questa mediocrità fatta istruzione. Eppure, dietro tutti i suoi costosissimi lustrini, questo genere di cinema del sublime (l’essere umano che viene sommerso, annientato, da ciò che lo sovrasta e gli è in tutto alieno) deve pur nascondere qualcosa. Di questo qualcosa vorrei tentare di parlare a prezzo di non riuscire ad essere semplice. Semplice? La questione del parlar facile o difficile richiede un inciso (ma, come vedrete, non è una deviazione dal discorso che mi preme fare, bensì introduce un personaggio chiave, un simbolo, crudele e disumano, della dissipazione senza scopo apparente). Ci sono due gradi di semplificazione: quello che, volendo o dovendo semplificare (o essendo costretto a questo dal committente) promuove e condivide una teoria semplificatrice, conservatrice, tonda, e quello che riesce a dire in modo chiaro qualcosa di inquietante, spezzato, aperto sul vuoto, sull’inspiegabile. Ho a portata di mano un buon esempio, calzante. In un recente paginone del Corriere della Sera dedicato all’eccesso, Remo Bodei scrive in modo realmente facile, attenendosi con massima convinzione al pensiero piatto delle istituzioni create dai ceti medi, e tornando a ripetere tutti i più classici avvertimenti contro gli eccessi del consumismo (inutile puritanesimo di un pensiero dominante inutile). Gli ha fatto da antitesi – secondo le regole di una stampa che non si azzarda a praticare il rischio di scegliere – un articolo apparentemente facile di Eva Cantarella, che, invece dell’uomo medio, e delle virtù del senso comune, celebra gli dei e gli eroi dell’eccesso, della carne e dell’anima. Tra questi la furia di Achille. Ecco il personaggio di cui sostenere lo sguardo per misurare la sua necessità, tutta l’impotenza della sua volontà di potenza. Proprio le intemperanze senza patria e senza stato di Achille ci riportano al cuore del discorso sul senso predittivo del cinema apocalittico. Un cinema che torna sempre a ricordarci il nulla. C’è un libro a cura di Giuseppe Bianco dedicato ad alcune fondamentali letture della filosofia di Bergson (Gilles Deleuze, Georges Ganguilhem, Il significato della vita, Mimesis, Milano 2006) in cui torna utile il celebre paradosso di Zenone che sosteneva l’assoluta impossibilità per Achille, figura della velocità, di raggiungere la Tartaruga, figura della lentezza: l’uno, natura integralmente umana,


tanto è divina: l’altra, un essere vivente eppure così lento nella sua determinazione da somigliare alla sostanza inanimata della pietra. Figura dunque aerea, figura dello spirito, l’uno; della materia, l’altra. Appunto nella filosofia di Bergson – le cui teorie sono state ampiamente usate anche per comprendere il dispositivo del montaggio cinematografico come riorganizzazione spazio-temporale del mondo vissuto nello schermo ovvero dello schermo vissuto nel mondo – al rapporto tra durata e natura corrisponde quello tra spirito e materia. Il paradosso di Zanone avvertiva che Achille – il tempo, lo spirito, la massima tensione dell’essere umano – non avrebbe mai potuto raggiungere la Tartaruga, perché la distanza tra la estrema velocità dell’uno e la estrema lentezza dell’altra sarebbe stata sempre suddivisibile in una ulteriore frazione infinitesimale. Così, per lo spirito, per il soggetto del tempo, la tensione lineare verso l’obiettivo di toccare e superare la materia, la natura, lo spazio, si trasforma sempre più in una tensione istantanea verso il baratro di uno spazio infinito, senza più tempo, uno spazio che ha la densità estrema della materia e non più la dinamica spirituale della durata. Ecco il cinema apocalittico rinnova di continuo questo precipitare del tempo nel nulla di se stesso e nell’immane rimanente costituito dallo spazio umanamente intangibile della materia. Le immagini apocalittiche prodotte dall’industria culturale sono la continua rivelazione di ciò che non può essere dimenticato: Los Angeles che affonda nel mare e le acque che si richiudono su di essa; il precipitare abissale delle città e delle isole per mezzo delle quali le utopie e contro-utopie umane hanno potuto credere di vincere la lentezza incommensurabile e inarrestabile della materia animata eppure inumana – preumana e postumana – delle cose, La Tartaruga ha iniziato a muoversi prima di Achille. E’ su questa verità celata che si fonda il senso del suo essere irraggiungibile. A dettare questa necessità continua di ridare parola al nulla, di sottrarlo all’oblio, di dargli la forma viva del presente, è la paura, il pensiero umano in quanto tale: una paura duplice. La paura per lo sprofondare dello spirito nella ignota sensibilità del mondo, e la paura per lo sprofondare del mondo nel nostro sentimento della vita. Una duplicità molto bergsoniana, in quanto tempo e spazio si incastrano l’uno nella durata dell’altro. Nelle rappresentazioni post-atomiche (è questa la matrice concettuale e esperienziale dell’industria culturale come tecnologia del mondo) si aggirano figure disperate che dei nuovi barbari hanno la sembianza ma che sono invece la versione, ultima e irreversibile, del terrorista, cioè dell’imbarbarito. Le isole e le città dell’uomo non si sono fatte mondo. Invase dallo spirito delle nazioni, sono venute meno all’epocale appuntamento con la salvezza che la loro civilizzazione si era imposta trascurando, dimenticando, obliando la infinitesimale distanza che le separa dalla Tartaruga. Là dove né la scrittura, né le merci, né i


movimenti (quella specifica forma di intelligenza collettiva senza patria ma concepita per avere una patria – operai, giovani, donne, omosessuali, senza patria) sono riusciti a farsi mondo, ecco che si torna alla terra: l’imbarbarito è una fiamma di ritorno verso le catastrofi naturali. Terremoti che non vengono da futuro ma dall’Origine.


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