Dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO Facoltà di Economia Corso di Laurea in Economia e Management

Dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

Relatore Prof. Roberto Tamborini

Laureando Alberto Trivelli

Anno Accademico 2011/2012 1


Sommario Introduzione Capitolo I: la stesura originale del PSC Le ragioni per un Patto di Stabilità e Crescita .................................................................................................... 5 Come funziona il PSC? ............................................................................................................................................... 12 Critiche e proposte di riforma al PSC .................................................................................................................. 20 Capitolo II: la riforma del 2005 Le ragioni della riforma del 2005 ......................................................................................................................... 35 In cosa consiste la riforma del 2005 ................................................................................................................... 41 Valutazioni sul PSC riformato ................................................................................................................................ 46 Capitolo III: le riforme del Six Pack e del Fiscal Compact Perché la riforma del 2011? .................................................................................................................................... 49 I contenuti della riforma della governance europea .................................................................................... 50 Alcune considerazioni sulle più recenti riforme ............................................................................................ 59 Conclusioni Bibliografia

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Introduzione Per chi è nato in Europa dopo la seconda guerra mondiale ed è sempre vissuto in un continente nel quale pace e prosperità si accompagnavano alla progressiva integrazione economica e politica degli Stati nazionali, l’evoluzione che ha portato all’introduzione della moneta unica può sembrare la conclusione di un percorso naturale. Tuttavia, al lettore che sfogli un manuale di storia economica, appare facilmente chiaro come mai prima d’ora ci sia stato una così decisa cessione di sovranità monetaria da parte di Stati nazionali a favore di un organismo sovranazionale. Qualora il nostro lettore, appassionatosi all’argomento, prosegua nella lettura di un manuale di macroeconomia si accorgerà tuttavia, come gli avrebbero potuto confermare empiricamente le sue precedenti letture, che la decisa scissione (a tratti idiosincrasia, come si avrà occasione di argomentare nel prosieguo di questa tesi) tra politica monetaria e politica fiscale, oltre a non avere precedenti nella storia economica, porta con sé grandi difficoltà e grandi rischi, per ripararsi dai quali si rende necessario un forte coordinamento tra le politiche fiscali ed economiche delle diverse entità territoriali unite sotto un’unica valuta. È proprio questo coordinamento, questo forte legame -­‐oggettivo e reale, ma plasmato dagli uomini-­‐ tra le economie nazionali che condividono l’euro, il cuore di quanto scrivo. Come si avrà occasione di leggere, dal 1997 si è provato a raggiungere questa armonizzazione attraverso le regole, i limiti, le procedure, i richiami e le sanzioni che costituiscono l’oggetto principale di questa tesi. Nel primo capitolo, infatti, è trattata la stesura originale del Patto di Stabilità e Crescita. Partendo dalle motivazioni macroeconomiche per le quali si rende necessaria ed imprescindibile una qualche forma di coordinamento tra le politiche fiscali, con particolare riferimento alle esternalità negative che si avrebbero con una gestione totalmente autonoma della politica fiscale da parte degli Stati, si prosegue con l’esposizione puntuale delle disposizioni del Patto, delle sue regole e delle sanzioni in cui chi tra i contraenti lo violi, incorre. Particolare attenzione, nell’ultima parte del capitolo, è dedicata all’esame delle proposte alternative alla stesura originale. Con intento dialettico, ho cercato di comprendere al meglio la prima versione del PSC concentrandomi su quanto i suoi detrattori proponevano di diverso. 3


Nel secondo capitolo si tratta la prima riforma del PSC, conseguente un palese fallimento delle regole della prima stesura e datata 2005. Dopo il necessario inquadramento storico-­‐ economico della crisi del PSC e del consenso raccoltosi attorno all’ipotesi di una sua riforma, vengono esposti i punti qualificanti della stessa. Il capitolo si conclude con una breve raccolta delle valutazioni che, all’epoca della riforma, si ebbero a tal proposito nel dibattito economico accademico e non solo. Il terzo capitolo si concentra sulle riforme ai meccanismi del PSC adottate (ma non ancora completamente entrate in vigore) in occorrenza, oltre che di un ulteriore fallimento delle regole riformate nel 2005 (Samuel Beckett avrebbe detto “Prova ancora. Sbaglia ancora. Sbaglia meglio.”), delle turbolenze che negli anni più recenti hanno attanagliato le economie di tutto il mondo, portando in particolare ad una crisi dei debiti sovrani (e non solo, come si vedrà) nella zona euro. Dopo un breve inquadramento del contesto in cui tali riforme vanno inquadrate ed una esposizione dei loro punti qualificanti, il capitolo si conclude con una rassegna delle opinioni, accademiche e personali, in merito. Forse però, e mi sento di invitare il lettore ad indossare questo “occhiale” nel proseguire, le regole, i limiti, le procedure, i richiami e le sanzioni, pur costituendo imprescindibili strumenti per il coordinamento delle economie, non bastano ed è forse questa la ragione dei reiterati fallimenti che caratterizzano il PSC fin dalla sua genesi originale. Un’armonizzazione, quella che esaminerò, ottenuta tramite strumenti tecnici e burocratici, ma a cui “manca l’anima”, ovvero il riconoscimento diretto da parte di coloro i quali, i cittadini dell’Unione, sono i destinatari ultimi dei provvedimenti qui trattati. Dopo la consultazione di numerosi manuali di storia economica, macroeconomia e non solo, spero che questa tesi serva al lettore, come è servita all’autore, da sunto ed approfondimento a proposito di una tematica complessa ed attuale, ma che ci riguarda e ci riguarderà sempre di più, tutti. Buona lettura.

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Capitolo I: la stesura originale del PSC Le ragioni per un Patto di Stabilità e Crescita Fin dalla sua ratifica, avvenuta ad Amsterdam nel 1997, il Patto di Stabilità e Crescita (Stability and Growth Pact, d’ora in poi PSC), rappresentò una significativa novità nel panorama economico e politico del vecchio continente. Mai prima d’allora, infatti, si era assistito all’adozione, da parte di un grande numero di nazioni sovrane, di comuni regole fiscali e di un complesso sistema di sorveglianza multilaterale. Vale la pena, dunque, di interrogarsi sul perché di questa importante cessione di sovranità e di inserirla nell’imprescindibile contesto dell’Unione Monetaria Europea (European Monetary Union, d’ora in poi UME) nata sulla scorta da un lato degli eventi storici –primo fra tutti la riunificazione delle due Germanie-­‐ e dall’altro dell’attivismo politico della Commissione Europea presieduta da Jacques Delors, che si concretizzò nel Rapporto sull’unione economica e monetaria nella Comunità europea (detto anche Rapporto Delors) del 1989, il primo gradino della scala della successiva unione monetaria. Nel Trattato di Maastricht del 1991, che pose le basi dell’UME, in particolare grazie alle pressioni dei Paesi che, come la Germania, erano più legati ad una tradizione di stabilità dei prezzi, si vollero inserire dei criteri di ammissione (i cosiddetti criteri di convergenza) che gli Stati aderenti dovevano rispettare, pena l’esclusione dall’UME. Mentre il processo di unificazione monetaria non poteva in alcun modo nuocere agli interessi della principale aderente, ovvero la Germania, vi era anche una profonda diffidenza dei governi dei Paesi “virtuosi” -­‐Germania, Francia ed Olanda-­‐ rispetto al “Club Med” dei Paesi mediterranei e più “indisciplinati” (si veda, oggi, ciò che richiama alla mente l’acronimo PIIGS). Secondo Wyplosz (2006, p. 216) “l’intenzione dichiarata [dei criteri di convergenza] era restringere l’ammissione all’unione monetaria ai Paesi che avevano dimostrato il loro impegno ad una cultura della stabilità dei prezzi, […] ignorando la stabilità della produzione e dell’occupazione”. A questo si aggiunga, negli anni della stesura della “Costituzione Economica” dell’Unione, l’affermarsi della dottrina, in ambito economico accademico, della New Political Economics di Friedman e Buchanan che, sulla scorta di una certa diffidenza nei confronti della politica 5


democraticamente  legittimata  e  del  suo  perseguire  l’interesse  comune,  proponeva  la  sottoposizione  delle  politiche  economiche  dei  Governi  da  un  lato  a  stringenti  regole  di  rilevanza  costituzionale,  dall’altro  al  giudizio  dei  mercati,  depositari  e  strenui  difensori  dell’efficienza  economica1  (Tamborini  e  Targetti,  2004).  Tale  diffidenza  si  ritrova,  inoltre,  nella  costruzione  della  Banca  Centrale  Europea  (European  Central  Bank,  d’ora  in  poi  BCE),  istituita  con  il  medesimo  Trattato  di  Maastricht,  nella  quale  si  è  data  moltissima  attenzione  all’indipendenza,  con  l’espresso  divieto  di  finanziamento  dei  disavanzi  pubblici  prodotti  dai  Governi  nazionali.  Se  le  motivazioni  erano  molteplici,  l’idea  di  fondo  era  comune:  si  riteneva  che  l’ammissione  all’UME  dovesse  avvenire  sulla  base  di  un  progressivo  processo  di  convergenza  fino  a  quando,  data  l’indistinguibilitĂ Â delle  diverse  politiche  monetarie  e  delle  diverse  divise  nazionali,  i  mercati  avrebbero  spontaneamente  allineato  i  tassi  d’interesse  e  l’unione  monetaria,  di  fatto,  non  sarebbe  stata  altro  che  la  ratifica  di  ciò  che  giĂ Â esisteva.  Questi  criteri,  che  si  applicano  ad  ogni  Stato  candidato  ad  entrale  nell’UME  come  precondizione  per  l’ammissione,  sono  in  sintesi:  â€˘

Inflazione:  il  tasso  d’inflazione  del  Paese  non  deve  eccedere  di  oltre  l’1.5%  la  media  dei  tassi  d’inflazione  dei  tre  paesi  piĂš  â€œvirtuosiâ€?  (ovvero  i  tre  tassi  d’inflazione  piĂš  bassi,  misurati  sull’Indice  Generale  dei  Prezzi)  nell’anno  precedente  l’esame  della  situazione  dello  Stato  candidato. Â

•

Tasso  d’interesse  nominale  a  lungo  termine:  poichĂŠ,  secondo  l’equazione  di  Fischer,  il  tasso  d’interesse  nominale  è  uguale  alla  somma  del  tasso  d’interesse  reale  e  ! dell’inflazione  attesa  (ovvero  đ?‘–! = đ?‘&#x;! + đ?‘?!!! )  e  poichĂŠ  il  tasso  d’interesse  reale  đ?‘&#x;!  è Â

ragionevolmente  costante,  ciò  che  maggiormente  incide  sul  tasso  d’interesse  nominale  a  lungo  termine  è  l’inflazione  attesa.  Pertanto,  la  valutazione  dell’inflazione  di  lungo  periodo  da  parte  dei  mercati  è  ben  riflessa  dal  tasso  d’interesse  nominale.  Al  fine,  dunque,  di  evitare  comportamenti  opportunistici  da  parte  di  Stati  candidati,  che  abbassino  artificialmente  e  temporaneamente  l’inflazione  al  loro  interno  al  solo  scopo  di  essere  ammessi  nell’UME,  il  tasso  d’interesse  nominale  non  deve  superare  di  piĂš  del  2%  le  media  dei  valori  corrispondenti  registrati,  nell’anno  precedente  la  valutazione,   nei  tre  Stati  piĂš  â€œvirtuosiâ€?  in  questo  senso,  ovvero  i  tre  che  abbiano  registrato  i  valori  piĂš  bassi.                                                          1  Nel  seguire  l’odierno  dibattito  economico,  si  ha  l’impressione  che  il  Cicerone  del  De  oratore,  nel  descrivere  la  storia  come  â€œmagistra  vitaeâ€?,  abbia  senz’altro  peccato  di  eccessivo  ottimismo.  6  Â


Tasso di cambio stabile: il Paese candidato deve aver dimostrato di saper mantenere il proprio tasso di cambio legato alle valute dei futuri partner dell’UME, e quindi deve essersi collocato per almeno i due anni precedenti all’interno dei margini dettati dai parametri del Sistema Monetario Europeo (SME) senza aver svalutato la propria moneta.

Deficit/PIL: al fine di impedire una forte crescita dell’inflazione dovuta a emissioni di moneta per finanziare (crescenti) deficit di bilancio, si stabilì che il Paese candidato ad entrare nell’UME doveva mantenere un rapporto tra deficit e Prodotto Interno Lordo (Gross Domestic Product, d’ora in poi PIL) inferiore al 3%.

Debito/PIL: per impedire comportamenti opportunistici come il trasferimento di spesa pubblica da un anno all’altro al fine di soddisfare il criterio deficit/PIL, venne posta attenzione anche sullo stock di debito di ogni Stato, stabilendo che lo Stato candidato ad entrare nell’UME doveva avere un rapporto debito/PIL inferiore al 60%. A questo criterio fu data un’interpretazione “tendenziale” (ovvero venne ammesso anche chi si stava avvicinando al 60%) al fine di permettere l’entrata di Paesi, come l’Italia, poco “virtuosi” dal punto di vista della politica fiscale, ma difficili da escludere dall’UME per ragioni eminentemente politiche.

Nel modello keynesiano IS-­‐LM, la politica fiscale e quella monetaria sono strumenti quasi sostituibili ai fini della stabilizzazione delle fluttuazioni di occupazione e produzione. Pur non essendo del tutto così (la politica fiscale è molto più complessa da attivare ed i suoi esiti sono più incerti rispetto a quelli della politica monetaria, necessita infatti di compromessi politici, tempi istituzionali, impegno di burocrazia e, non da ultimo, interessi sul pagamento di eventuali debiti che dovessero sorgere), all’entrata nell’UME da parte di un Paese, ed alla conseguente perdita da parte sua della sovranità monetaria, che passa nelle mani della Banca Centrale Europea, alto è il rischio che questo Paese porti tutto il peso della stabilizzazione sulla politica fiscale, destabilizzando i risultati conseguiti nel soddisfacimento dei criteri di convergenza. In breve, si temeva che, una volta entrati nell’UME, i Paesi meno “virtuosi”, opportunisticamente, avrebbero “rilassato” i loro bilanci pubblici, mettendo così in pericolo i risultati raggiunti. Questo timore era rafforzato dall’osservazione del cosiddetto deficit bias (Wyplosz, 2006), ovvero il fatto che, poiché diverso è l’orizzonte temporale dei governi da quello degli effetti economici delle decisioni che questi sono chiamati a prendere, i diversi esecutivi 7


nazionali,  spinti  dalla  legittima  volontĂ Â di  non  scontentare  l’elettorato  e  di  vincere  le  elezioni  successive,  tendessero  a  non  prendere  decisioni  che  avrebbero  comportato  costi  immediati  ed  effetti  positivi  nel  futuro  (dopo  la  scadenza  elettorale)  ed  invece  a  prendere  decisioni  â€œpopolariâ€?,  che  avrebbero  comportato  benefici  immediati  e  costi  (maggiori)  una  volta  votata  una  nuova  maggioranza  parlamentare2.  Uno  scenario  di  questo  genere,  pur  contraddicendo  le  ipotesi  alla  base  dell’homo  oeconomicus,  prima  fra  tutte  la  perfetta  razionalitĂ ,  è  spiegabile  con  la  prevalenza,  nel  giudizio  dell’elettorato,  del  fattore  tempo,  per  la  quale  si  preferisce  un  beneficio  immediato  ad  uno  differito  (seppur  di  entitĂ Â maggiore).  Una  visione  piĂš  prosaica  -­â€?ma  a  mio  parere  piĂš  aderente  al  vero-­â€?,  invece,  imputa  questa  â€œcongiura  del  presente  contro  il  futuroâ€?  alla  miopia  dell’elettorato  che,  ben  distante  dalla  razionalitĂ Â perfetta  propria  dell’homo  oeconomicus,  è  invece  dotato  semplicemente  di  razionalitĂ Â limitata.  In  questa  ottica,  l’imposizione  di  â€œvincoli  esterniâ€?  può  essere  vantaggiosa  per  la  popolaritĂ Â del  Governo  in  carica  (che  cosĂŹ  può  â€œscaricare  la  colpaâ€?  sui  â€œtecnocrati  di  Bruxellesâ€?),  ma  alla  lunga,  se  questa  visione  viene  assunta  dalla  maggioranza  della  popolazione,  questo  può  essere  d’ostacolo  al  processo  di  integrazione  europea.  La  progressiva  espansione  dei  disavanzi  pubblici  avrebbe  portato  a  diversi  problemi  riguardanti  la  stabilitĂ Â dei  prezzi,  la  crescita  e  l’occupazione,  qui  riassunti  per  sommi  capi:  â€˘

Grandi  deficit  e  debiti  pubblici  vincolano  pesantemente  i  policy-­â€?makers  nazionali  nell’adozione  dei  provvedimenti  necessari  durante  le  diverse  fasi  del  ciclo  economico. Â

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In  condizioni  di  piena  occupazione  dei  fattori  produttivi,  l’assorbimento  da  parte  dello  Stato  di  grandi  risorse  che  altrimenti  potrebbero  andare  nel  settore  privato,  si  traduce  in  un  innalzamento  dei  tassi  d’interesse  (Tamborini,  2010).  Questo  perchĂŠ  dato  đ??ź!  l’investimento  privato  e  đ??ľ! = đ?‘‡! − đ??ş!  il  saldo  del  bilancio  pubblico  (uguale  alla  differenza  tra  il  prelievo  fiscale,  đ?‘‡! ,  e  la  spesa  pubblica,  đ??ş! )  il  risparmio  aggregato  è  pari  a  alla  somma  algebrica  tra  l’investimento  privato  ed  il  saldo  del  bilancio  pubblico  đ?‘†! = đ??ź! − đ??ľ! .  Pertanto,  un  disavanzo  da  parte  dello  Stato  causa  un  maggior  assorbimento  del  risparmio  privato.  PoichĂŠ,  dunque,  vi  è  maggiore  â€œconcorrenzaâ€?  sul  mercato  dei  titoli,  il  tasso  d’interesse  reale  d’equilibrio  sale3. Â

                                                        2  Wiplosz  definisce  efficacemente  il  deficit  bias  come  â€œil  risultato  di  un  processo  democratico  che  fallisce  nell’imporre  alle  generazioni  presenti  la  disciplina,  a  spese  delle  generazioni  futureâ€?   3  Juergen  Stark  ha  scritto  â€œL’assorbimento  di  risorse  da  parte  dello  Stato,  risorse  che,  in  un’altra  situazione,  si  sarebbero  dirette  verso  gli  investimenti  privati,  porta  come  risultato  tassi  8  Â


Figura 1, effetto di un disavanzo fiscale sul tasso d'interesse (v. nota 3)

Dal punto di vista del modello IS-­‐LM, in caso di pendenza positiva della curva LM, un disavanzo fiscale causa uno spostamento verso destra della curva IS e dunque, oltre ad un’espansione del PIL, un aumento del tasso d’interesse.

Figura 2, effetto di un aumento della spesa pubblica sul tasso d'interesse nel modello IS-­‐LM (Wikipedia)

Al più alto tasso d’interesse conseguono un aumento del risparmio, una riduzione del consumo, ed un effetto-­‐ricchezza negativo, poiché aumenta il tasso cui scontare i redditi attesi. Inoltre i tassi d’interesse compensano la profittabilità degli investimenti causata dalla politica fiscale espansiva. Questi fenomeni causano il cosiddetto effetto spiazzamento (crowding out) del capitale privato. •

L’aumento del tasso d’interesse causa anche un aumento del costo degli investimenti.

d’interesse a lungo termine più alti”. (Brunila et al., “The stability and growth pact”, Palgrave, 2001) 9


Una politica fiscale poco avveduta, indebolendo la credibilità dei policy-­‐makers nazionali, può diminuire il valore della valuta nei mercati esteri.

La compresenza in un’unione monetaria, oltre ad acuire questi effetti, causa ulteriori esternalità negative (o effetti di spillover) generate alle politiche fiscali di un paese nei confronti degli altri. Le più comuni esternalità negative delle politiche fiscali sono le seguenti: •

Spillover ciclici di reddito: nei paesi fortemente integrati dal punto di vista commerciale e dei movimenti di capitali, le diverse economie sono molto sensibili alle reciproche politiche fiscali. Questo implica che le fluttuazioni del ciclo economico dei diversi Paesi siano facilmente trasmissibili ai partner commerciali. Nel caso, ad esempio, di una fase comune di recessione nella quale si rendono necessarie politiche fiscali espansive, possono verificarsi due casi “estremi”: a. Se ogni Governo mette in campo misure fiscali espansive, c’è il rischio che, causa un effetto del moltiplicatore keynesiano, la concomitanza d’interventi sia “troppo forte”; b. Se, al contrario, data la forte integrazione tra le due economie, ciascun Paese conta sull’altro per godere degli effetti positivi sulla propria economia (e.g. aumento delle esportazioni) dell’altrui politica fiscale espansiva, comportandosi così da free-­‐rider, c’è il rischio che nessuno dei due Paesi metta in campo misure sufficienti. •

Spillover del free-­‐riding sui tassi d’interesse: dato che nell’UME l’influsso di ciascun singolo Paese sul tasso d’interesse, in un’unione monetaria, risulta ridotto, i vari Paesi trovano meno costoso finanziare i propri disavanzi fiscali, scaricandosi il “peso” del loro maggior indebitamento sul tasso d’interesse comune all’intera unione monetaria. I Paesi dalla tradizione lassista in senso fiscale, potrebbero dunque indebitarsi più del dovuto, dividendo con tutti gli oneri e trattenendo per se stessi gli “onori” del maggior debito contratto. A questo proposito, si veda l’asse delle ascisse della figura 1 non più come il mercato nazionale, ma quello dell’UME. Risulta chiaro come un disavanzo in un singolo Stato sposti marginalmente il tasso d’interesse dell’intera UME.

Spillover dei costi d’indebitamento: poiché, come già detto, grandi deficit di bilancio possono alzare i tassi d’interesse, un comportamento fiscale improbo da parte di un Paese, specialmente se di grandi dimensioni, può influenzare il tasso d’interesse di tutta l’UME, alzando il costo dell’indebitamento anche dei Paesi

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partner e scoraggiando gli investimenti. Questo effetto di spillover può essere visto come complementare a quello precedente. •

Spillover dei debiti eccessivi e del salvataggio: tradizionalmente, un alto debito da parte di un Paese veniva pagato mediante un’emissione di moneta da parte della rispettiva banca centrale che, in questo modo, correva il rischio di generare inflazione. Poiché, però, nell’UME l’unica banca centrale è la BCE, ad essa è vietato prendere provvedimenti a favore di un singolo Paese e nello statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali (European System of Central Banks, d’ora in poi SEBC; al suo vertice vi è la BCE) è precisato come “l'obiettivo principale del SEBC [sia] il mantenimento della stabilità dei prezzi”4, questa strada non è percorribile dai singoli Governi nei confronti della BCE. Nel caso, però, che in stato di difficoltà si trovi una moltitudine di Paesi (od un Paese di vitale importanza per l’intera UME, e.g. la Germania), non è escluso che si inneschi un conflitto di obiettivi tra questi, che premono per un sostegno alla domanda aggregata mediante l’inflazione e la BCE che, in conformità al proprio statuto, ovvero la stabilità dei prezzi, vuole mantenere la stabilità dei prezzi; da questo “braccio di ferro” il tasso d’interesse uscirebbe certamente innalzato. Poiché aumenta il rischio che il singolo Governo, divenuto incapace di pagare puntualmente gli interessi sul proprio debito, debba essere dichiarato insolvente, gli Stati partner corrono seriamente il rischio di essere contagiati da un lato da un generalizzato calo dei consumi, dall’altro dalla diminuzione del valore dei titoli di debito del Paese detenuti. Al contrario, un salvataggio da attuarsi in forma di monetizzazione del debito dello Stato insolvente (con conseguente inflazione) potrebbe essere promosso da parte degli Stati partner, per non subire le conseguenze negative di un fallimento, attraverso pressioni politiche sulla BCE. Dal canto suo, la Banca Centrale Europea potrebbe non opporre grosse resistenze, dato che un default di uno Stato membro le provocherebbe sia una perdita patrimoniale che una riduzione della capacità di azione, a causa della presenza, nel suo portafoglio, di un grande numero di titoli di debito degli Stati aderenti all’UME. Inoltre, gli Stati fortemente indebitati potrebbero esercitare pressioni sulla BCE per

4 Protocollo sullo statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea, Art. 2, http://www.ecb.int/ecb/legal/pdf/it_statute_2.pdf

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un salvataggio ex-­‐ante (astenendosi dal far salire i tassi d’interesse in condizioni di tensione inflazionistica) ed ex-­‐post (riducendo il valore del debito attraverso un aumento dell’inflazione non programmato). Nasce dunque, da parte dei singoli Stati, un forte incentivo all’azzardo morale ed al free-­‐riding poiché questi, lasciando aumentare i propri debiti fino al punto di far divenire il default inevitabile, possono poi ricattare gli altri Stati e il SEBC affinché provvedano al salvataggio. In questo caso sarebbe il tasso d’interesse comune a subire gli effetti negativi e lo spillover potrebbe estendersi anche ai mercati azionari dei paesi partner nell’UME. Questa fattispecie è stata tuttavia chiaramente esclusa dal Trattato di Maastricht che include una clausola di non salvataggio (no-­‐bailout) per la quale nessun credito ufficiale può essere esteso ad un Governo membro in difficoltà. Un’ulteriore conseguenza negativa di questo scenario sarebbe la predita di credibilità da parte della ECB che, sottostando alle pressioni degli Stati, perderebbe agli occhi dei mercati la propria indipendenza ed il proprio orientamento anti-­‐ inflazionistico, che sono stati messi alla sua base fin dalla istituzione. In presenza di questi spillover, dunque, si rende opportuno un coordinamento delle diverse politiche fiscali. Per evitare, dunque, il temuto “rilassamento” dei bilanci pubblici dei Paesi meno virtuosi dopo la convergenza ai parametri di Maastricht e le sue probabili conseguenze, si decise di prorogare la disciplina fiscale attraverso lo strumento del PSC, per vincolare i Paesi anche dopo la loro entrata nell’UME.

Come funziona il PSC? A questo scopo, nel 1995, il Ministro federale delle finanze tedesco dell’epoca Theo Waigel propose un “Patto di Stabilità per l’Europa”, una bozza particolarmente rigorista e a tratti economicamente (ma non politicamente e tatticamente) immotivata di accordo tra gli Stati membri. Da quella bozza e da estenuanti trattative nacque (con ratifica nel 1997) quello che oggi conosciamo come il Patto di Stabilità e Crescita. Per descrivere il suo contenuto, esso si può dividere in due parti, una preventiva ed una repressiva, che vanno analizzate in dettaglio. 12


Parte preventiva È la parte del PSC che riguarda la sorveglianza multilaterale che gli Stati esercitano gli uni sugli altri al fine di segnalare tempestivamente i disavanzi eccessivi nell’Eurozona. Poco dopo l’approvazione della propria legge annuale di bilancio, ciascuno Stato presenta un Programma di Stabilità (se membro dell’UME) oppure di Convergenza (se non ne fa ancora parte, deve inoltre indicare “gli obiettivi di medio termine della politica monetaria e la relazione tra questi e la stabilità dei prezzi e del tasso di cambio”, poiché queste materie non saranno più, una volta parte dell’UME, di competenza del singolo Stato). Si tratta di un programma (o piano) di medio termine, le cui caratteristiche principali sono standardizzate tramite regolamenti ed un Codice di Condotta, che presta particolare attenzione alle finanze pubbliche e che deve contenere, fra le altre cose, l’obiettivo di avere un “saldo di bilancio prossimo al pareggio od in avanzo”, il percorso verso di esso, delle scadenze ben precise verso il suo raggiungimento ed i provvedimenti in tale direzione che lo Stato intende adottare, oltre ad i dati basilari per la valutazione dell’economia nazionale, delle sue prospettive di crescita e del ciclo economico. È importante notare come, oltre a servire per un’efficace sorveglianza multilaterale, la pratica dell’invio dei Programmi da parte degli Stati renda più chiara la loro “funzione obiettivo”, aumentando la credibilità delle autorità fiscali e la prevedibilità delle politiche di bilancio, facilitando il compito alla BCE. Entro due mesi dall’invio di tale programma, l’ECOFIN esprime il proprio giudizio, basato sulle raccomandazioni di Commissione Europea e Comitato Economico e Finanziario, relativamente al fatto se gli Stati membri abbiano previsto margini di sicurezza sufficienti ad evitare disavanzi eccessivi5, con la possibilità di richiedere allo Stato delle modifiche al proprio Programma, di rilasciare avvertimenti (nell’ottica della pressione fra pari), ma non sanzioni (che vengono erogate solo in violazione effettiva del PSC). La condotta di ciascun Paese, inoltre, viene valutata alla luce degli indirizzi di massima delle politiche economiche dell’intera Unione europea (Broad Economic Policy Guidelines). I programmi sono in seguito monitorati dal Consiglio, onde erogare ulteriori raccomandazioni in caso di significativa deviazione dagli obiettivi prefissati. Si noti che una procedura del genere, formalmente, non intacca la sovranità fiscale degli Stati. Inoltre, un Paese può venire “avvertito” di non essere in linea con un programma di disciplina

5 De Grauwe, P., “Economia dell’Unione Monetaria”, Il Mulino, 2009

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fiscale senza che venga sganciata la “bomba nucleare” (dal punto di vista politico) della sanzione (Baldwin e Wyplosz, 2005). Parte repressiva Ex-­‐post può emergere, ai sensi dell’art. 104 del Trattato di Maastricht, un deficit “eccessivo”, ovvero superiore al 3% del PIL, fatta eccezione per i casi in cui questo sia “eccezionale, temporaneo ed il rapporto resti vicino al valore di riferimento”. Vi è, dunque, la necessità di definire i seguenti requisiti (che, si noti bene, cagionano la non sussistenza del “deficit eccessivo” solo quando si verificano congiuntamente; questo, poiché si verifica solo molto raramente, porta de facto alla decisione di esistenza del deficit eccessivo in un’alta percentuale di casi): •

Eccezionalità: sussiste quando l’eccesso di deficit rispetto al 3% è dovuto ad un evento inconsueto (cioè esterno alla gamma di situazioni normali) fuori dal controllo dello Stato membro in oggetto, con un impatto significativo sul suo bilancio. Il dibattito sul come definire questa “grave recessione economica” fu molto serrato ed alla fine si arrivò alla soluzione “a scatola” proposta da Sir Nigel Wicks, all’epoca presidente del Comitato Monetario, così articolata: a. Una caduta del PIL dello Stato superiore al 2% (ovvero una recessione eccezionalmente grave6) è da considerarsi grave e dunque relativa ad un evento eccezionale. b. Una caduta del PIL dello Stato inferiore al 2%, ma superiore allo 0,75% (ovvero una recessione grave) può essere considerata grave e dunque relativa ad un evento eccezionale: il Paese deve a questo fine attestare la particolare severità del crollo od una perdita cumulativa di prodotto rispetto alle performances passate. c. Una caduta del PIL dello Stato inferiore allo 0,75% (ovvero una recessione lieve) non è da considerarsi grave e, dunque, non comporta la sussistenza del requisito di eccezionalità necessario perché il deficit sia definito “eccessivo”.

Transitorietà: sussiste qualora il deficit rimanga al di sopra del 3% del PIL solo per un limitato periodo di tempo. Per definire il “limitato periodo di tempo” si scontrarono, in fase di trattativa, al solito una visione più “rigorista”, portata avanti dalla Germania ed

6 Per la tassonomia delle recessioni in base alla caduta del PIL si veda Buti M., Sapir A., “La politica economica nell’Unione economica e monetaria europea”, Il Mulino, 1999 14


una più realistica, che alla fine ebbe la meglio. Infatti, la transitorietà è definita dai regolamenti come il caso in cui le previsioni della commissione indicano che il deficit scenderà sotto il valore di riferimento (il 3% del PIL) subito dopo la fine dell’evento eccezionale o la grave recessione economica e comunque entro un anno dall’identificazione dell’eccesso di deficit7. •

Prossimità: sussiste quando il deficit rimane vicino al valore di riferimento; questo criterio non è esplicitamente considerato dal Patto (il dubbio rimane, a quanto ammonta ∆ della Figura 3?).

Questo grafico riassume efficacemente i diversi sentieri rilevanti del deficit.

Figura 3, illustrazione dei sentieri rilevanti del deficit ai fini dell'applicazione del PSC (Buti e Sapir, 1999, pag. 176)

In esso si vedono con chiarezza le seguenti fattispecie: a) È il caso in cui il deficit non supera la soglia del 3% del PIL, ovvero il caso non problematico. b) È il caso in cui il deficit supera la soglia del 3% del PIL, ma solo temporaneamente (alla fine del periodo recessivo vi torna immediatamente sotto) e restando in prossimità del limite. Anche in questo caso non si verifica alcun deficit eccessivo. c) È il caso in cui il deficit, pur eccedendo la soglia del 3% del PIL solo temporaneamente, non resta nella sua prossimità; poiché il deficit è eccessivo solo nell’anno in cui si verifica la grave recessione economica (e, dunque, transitorio), non viene adottata alcuna misura sanzionatoria. 7 Come fa notare Antonio J. Cabral (Brunila A., Buti M., Franco D. (a cura di), “The stability and growth pact”, Palgrave, 2001, pagg. 145-­‐147), l’identificazione dell’eccesso non coincide con il suo verificarsi. In particolare, è possibile che un deficit eccessivo di uno Stato, pur essendosi verificato nell’anno t, sia identificato il 1 marzo dell’anno t+1, facendo da quel momento decorrere l’anno di riferimento per la definizione di “transitorietà” che si concluderebbe, dunque in t+2, due anni dopo l’effettivo sforamento del limite del 3% del PIL. 15


d) Ăˆ  il  caso  in  cui  il  deficit,  pur  eccedendo  la  soglia  del  3%  del  PIL  e  restando  in  sua  prossimitĂ Â (non  eccede  3% + ∆),  non  rientra  prontamente  sotto  il  valore  di  riferimento  dopo  la  fine  della  grave  recessione  economica,  violando  cosĂŹ  il  requisito  di  transitorietĂ .  In  questo  caso  si  verifica  un  deficit  eccessivo  ed  è  probabile  che  vengano  applicate  delle  sanzioni.  e) Ăˆ  il  caso  in  cui  il  deficit  eccede  la  soglia  del  3%  del  PIL  non  restando  in  sua  prossimitĂ Â nĂŠ  rientrando  repentinamente  sotto  il  valore  di  riferimento  dopo  la  fine  della  grave  recessione  economica.  In  questo  caso,  definito  anche  di  â€œdoppia  violazioneâ€?,  si  verifica  un  deficit  eccessivo  che  può  portare  all’adozione  di  misure  sanzionatorie.  Nel  momento  in  cui  emerge  un  disavanzo  eccessivo  (in  ultima  istanza,  questo  viene  deciso  dal  Consiglio  su  raccomandazione  della  Commissione)  da  parte  di  un  Pase  membro,  questo  incorre  nella  Procedura  per  i  Deficit  Eccessivi  (Excessive  Deficit  Procedure,  d’ora  in  poi  PDE),  l’ultimo  passo  della  cosiddetta  â€œparte  repressivaâ€?  del  PSC  e,  pertanto,  la  piĂš  dura.  Essa  consiste  nell’obbligo,  da  parte  dello  Stato  inadempiente  ai  propri  obblighi,  di  vincolare  una  frazione  del  proprio  PIL  ogni  anno  in  un  deposito  infruttifero.   Siano  đ??ˇ!  il  deposito  infruttifero  richiesto,  đ??ľ!  il  rapporto  deficit/PIL  registrato  e  đ??ľâˆ—  quello  fissato  dai  parametri  di  Maastricht  (ovvero  il  3%  del  PIL),  la  frazione  di  PIL  richiesta  nel  primo  anno  è  calcolata  con  la  formula  đ??ˇ! = 0,2 + 0,1 ∗ (đ??ľ! − đ??ľâˆ— )  ed  ogni  anno  successivo  con  la  formula   đ??ˇ! = 0,1 ∗ (đ??ľ! − đ??ľâˆ— )  fino  ad  un  massimo  dello  0,5%  del  PIL,  come  si  vede  dalla  seguente  tabella.  Dimensione  deficit  (%  del  PIL) Â

Ammontare  del  deposito  (%  del  PIL) Â

3,00% Â

0,20% Â

4,00% Â

0,30% Â

5,00% Â

0,40% Â

6,00% Â

0,50% Â

Tabella  1,  ammontare  delle  sanzioni  (in  %  sul  PIL)  in  corrispondenza  dei  diversi  deficit  eccessivi Â

Il  costo  per  lo  Stato  è  solo  inizialmente  pari  al  mancato  incasso  degli  interessi  sulla  somma  depositata.  Dopo  due  anni  dal  deficit  eccessivo,  infatti,  se  questo  è  stato  corretto,  il  deposito  viene  restituito  allo  Stato,  altrimenti  si  trasforma  automaticamente  in  una  multa.  Si  noti  che  il  deposito  infruttifero  che  può  essere  convertito  in  una  multa  è  quello  riferibile  ai  due  anni  precedenti  la  conversione.  Pertanto  restano  sempre  i  depositi  cumulati  degli  ultimi  16  Â


due anni (dunque, riscattabili) a fare da forte incentivo per lo Stato alla correzione del deficit eccessivo. Si noti infine che le sanzioni possono essere calcolate solo “quando il deficit eccessivo derivi dal non soddisfacimento del criterio del deficit [ovvero dal superamento del limite del 3% del PIL, n.d.r.]”. Non si calcolano sanzioni, dunque, se il deficit eccessivo è dovuto al non soddisfacimento del criterio del debito (ovvero al superamento del limite del 60% del PIL). Stabilizzatori automatici ed obiettivi di medio termine Per “stabilizzatori automatici” s’intendono gli effetti anticiclici connaturati ai moderni sistemi fiscali. Ad esempio, in occasione di una fase depressiva del ciclo economico la tassazione progressiva farà calare in maniera importante gli introiti dello Stato, lasciandone proporzionalmente in più nel sistema privato, specialmente alle fasce più basse della popolazione; contestualmente i sistemi di assicurazione dei lavoratori disoccupati aumenteranno i sussidi erogati, sostenendo i redditi di chi ha perso il lavoro e lasciando più risorse ai consumatori. Al contrario, in occasione di una fase espansiva del ciclo economico, la tassazione progressiva aumenterà gli introiti del settore pubblico e la diminuita incidenza della disoccupazione farà trattenere allo Stato maggiori importi che altrimenti sarebbero stati erogati tramite i sussidi di disoccupazione. Questi due esempi spiegano con chiarezza il ruolo di due “classici” stabilizzatori automatici (tassazione progressiva ed assicurazioni contro la disoccupazione) nel compensare (parzialmente) le diverse fasi del ciclo economico. L’effetto stabilizzante sull’economia si ha, dunque, stimolandola nelle fasi di recessione e deprimendola nelle fasi di surriscaldamento; questi effetti sono anche detti anticiclici. Come si è chiarito, nelle fasi di recessione questo avviene a discapito del saldo del bilancio pubblico, che inevitabilmente peggiora. Una misura dell’incidenza degli stabilizzatori automatici si può avere, dunque, guardando la differenza tra il saldo di bilancio effettivo e quello aggiustato per il ciclo (il cosiddetto bilancio strutturale, ovvero quello stimato se l’output gap fosse zero). Le fluttuazioni cicliche (al netto, dunque, di quelle strutturali) hanno ampiezze diverse, in ragione delle caratteristiche dei cicli economici, dall’importanza del settore pubblico nell’economia dello Stato in questione, dalla portata (dimensione) degli stabilizzatori automatici e dalla sensibilità dell’occupazione alle variazioni del PIL.

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Si  è  stimato8  che,  in  media,  un  calo  dell’1%  della  crescita  porti  ad  un  deterioramento  del  saldo  di  bilancio  di  circa  lo  0,5%  del  PIL  (pur  rimanendo  le  differenze  tra  i  diversi  Paesi,  afferenti  alla  struttura  della  tassazione  e  dei  sussidi  da  parte  del  settore  pubblico);  da  ciò  si  deduce  che,  partendo  da  un  bilancio  pubblico  in  pareggio,  il  tetto  del  3%  sarebbe  raggiunto  con  un  calo  del  PIL  del  6%,  ovvero  una  crisi  di  gravitĂ Â davvero  eccezionale.  Questo  ha  portato  a  sostenere  che,  poichĂŠ  il  limite  del  3%  è  sempre  stato  sufficiente  a  correggere  le  recessioni  mediante  gli  stabilizzatori  automatici,  il  suo  costo  di  implementazione  sia  molto  basso.  Tuttavia,  questa  evidenza  empirica  deriva  dai  dati  raccolti  quando  ancora  i  Paesi  disponevano  della  possibilitĂ ,  tramite  la  sovranitĂ Â fiscale,  di  effettuare  svalutazioni  competitive,  che  adesso  sono  piĂš  che  mai  precluse  (Tamborini  e  Targetti,  2004).  Ăˆ  interessante  osservare  come  i  dati  di  cui  sopra  siano  ottenuti  a  loro  volta  dalle  stime  (ad  opera  della  Commissione  Europea)  della  sensibilitĂ Â media  delle  entrate  dell’UME  rispetto  al  PIL  dell’UME  (0,4%)  e  di  quella  delle  uscite  (-­â€?0,1%);  la  sensibilitĂ Â complessiva  del  saldo  di  bilancio  è  data  da  0,4 − −0,1% = 0,5%.  Si  può  dunque  affermare  che  il  deterioramento  del  saldo  di  bilancio  pubblico  in  corrispondenza  di  un  calo  dell’1%  del  PIL  è  dovuto  per  i  4/5   alla  diminuzione  delle  entrate  (specialmente  quelle  derivanti  dalle  imposte  sulle  societĂ ,  particolarmente  sensibili)  e  per  1/5  all’aumento  delle  uscite.  Naturalmente,  per  poter  essere  sostenibili,  gli  stabilizzatori  automatici  dovrebbero  essere  lasciati  operare  in  entrambe  le  direzioni,  nonostante  la  â€œtentazioneâ€?  politica  di  lasciarli  operare  solo  quando  stimolano  il  ciclo  in  fasi  di  recessione,  spendendo  le  relative  maggiori  entrate  nei  periodi  di  espansione.  In  questa  prospettiva,  dunque,  è  proprio  affinchĂŠ  il  limite  del  3%  del  PIL  per  il  deficit  non  limiti  l’azione  degli  stabilizzatori  automatici  che  gli  Stati  devono  puntare  ad  un  â€œsaldo  di  bilancio  prossimo  al  pareggio  od  in  avanzoâ€?,  per  avere  sufficiente  spazio  di  manovra  per  poter  stimolare  l’economia  in  periodi  di  recessione  (come  si  è  visto,  non  grave)  senza  sforare  il  tetto  del  deficit  imposto  dall’UME.  Un’efficace  formalizzazione  di  questo  concetto  si  può  avere  a  partire  dalla  formula  (Brunila  et  al.,  2001,  pagg.  186-­â€?197)  che  definisce  il  deficit  annuale:  đ??ľ! = đ??ľâˆ— − đ?›źđ??ş + đ?œ€  dove,  oltre  alle  notazioni  giĂ Â esposte,  đ?›ź  rappresenta  la  sensibilitĂ Â al  ciclo  del  bilancio,  đ??ş  l’output  gap  (che  qui  è  utilizzato  come  valida  proxy  del  ciclo  economico)  ed  đ?œ€  uno  shock                                                          8  Cfr.  V.  Tanzi,  Role  and  Future  of  the  Stability  and  Growth  Pact,  21st  Annual  Conference  on  The  Future  of  the  EuroÂť,  Cato  Institute,  20.11.2003,  Washington  DC,  mimeo. 18  Â


fiscale.  Il  deficit  nominale  non  deve  superare  il  tetto  del  deficit  (đ??ľ! ≤ đ??ľâˆ— ),  che  nel  caso  dell’UEM  è  il  3%  del  PIL.  Nella  figura  che  segue  si  vede  come,  posta  l’assenza  di  shock  fiscali,  due  diversi  programmi  di  politica  fiscale  (con  diversi  target  di  deficit,  đ??ľâˆ— )  conducano,  per  i  medesimi  livelli  di  output  gap,  a  diversi  deficit. Â

 Figura  4,  la  costruzione  di  programmi  fiscali  coerenti  con  il  limite  del  3%  (Artis  e  Buti,  2001,  pag.  195) Â

I  due  programmi  sono  rappresentati  dalle  due  rette  la  cui  inclinazione  (đ?›ź)  è  la  sensibilitĂ Â del  bilancio  alle  variazioni  dell’output  gap.  In  particolare,  maggiore  è  l’inclinazione  della  retta  (ovvero  la  sensibilitĂ Â del  deficit  alle  variazioni  dell’output  gap),  piĂš  basso  deve  essere  l’obiettivo  di  deficit  che  si  pone  lo  Stato.  I  due  programmi,  evidentemente,  sono  congegnati  in  modo  da  far  rimanere  il  deficit  entro  il  limite  anche  nel  caso  peggiore  possibile,  ovvero  quello  con  output  gap  pari  a  đ??ş .  Tramite  simulazioni  stocastiche,  il  Fondo  Monetario  Internazionale,  l’OECD  e  numerosi  studiosi  hanno  confermato  come  un  deficit  strutturale  compreso  tra  l’1%  e  l’1,5%  del  PIL  consenta  agli  Stati  dell’UME  di  non  infrangere  il  tetto  del  3%  con  una  probabilitĂ Â del  90%.   Risulta  anche  empiricamente  provato,  dunque,  il  senso  degli  obiettivi  di  bilancio  di  medio  termine  che  vogliono  il  saldo  di  bilancio  in  pareggio  od  in  surplus  al  fine  di  lasciare  sufficiente  spazio  di  manovra  agli  stabilizzatori  automatici  per  esercitare  la  loro  funzione  senza  violare  le  condizioni  del  PSC.  Inoltre,  il  coordinamento  verso  obiettivi  di  virtuositĂ Â fiscale  scoraggia  cambiamenti  repentini  ed,  implicitamente,  manovre  eccessivamente  espansive.  Se  ciascun  Paese  persegue  l’equilibrio  del  proprio  bilancio,  consentendo  agli  stabilizzatori  automatici  di  entrare  in  funzione,  anche  l’UME  nel  suo  complesso  potrĂ Â giovarsi  di  questi  effetti.  19  Â


Critiche e proposte di riforma al PSC Nonostante alcune autorevoli voci a suo supporto9, nella fase precedente la sua riforma del 2005, l’PSC è stato oggetto di numerose critiche. Vale la pena di esporre, le principali in parte con un’elencazione, in parte nella trattazione delle proposte di riforma al PSC già avanzate: •

Parte del mondo accademico ha messo sotto la lente d’ingrandimento l’effettiva grandezza (e quindi pericolosità) degli spillover originati da un singolo Stato. Inoltre, è stato rilevato come, anche se questi fossero effettivamente importanti, la sanzione nei confronti dei governi più “fiscalmente dissoluti” sia implicitamente comminata dal mercato, che alzerebbe significativamente i tassi d’interesse sui titoli di Stato del Paese “colpevole”. Tuttavia, si è notato come le sanzioni affidate al mercato negli anni ’80 non siano state efficaci nel prevenire le politiche fiscali eccessivamente espansive di alcuni Stati.

Molte critiche sono state rivolte al tetto del 3% del PIL per il deficit che, oltre ad essere visto come arbitrario, è ritenuto “colpevole” di essere efficace solo con i Paesi che si trovino in fase di recessione, limitando l’azione degli stabilizzatori automatici, aumentando di conseguenza la volatilità del PIL. In realtà, però, questo pericolo è mitigato da svariati fattori che, sebbene già trattati, vale la pena di ricapitolare brevemente, sistematizzandoli in questo contesto: a. Le sanzioni non vengono comminate se c’è una caduta del PIL del 2% (e diventano solo possibili se la caduta del PIL è tra lo 0,75% ed il 2%); b. Il tempo che passa tra l’occorrenza del deficit eccessivo e l’eventuale sanzione è, alla fine, di due anni; c. Tra l’identificazione del deficit eccessivo e la sanzione c’è una lunga procedura burocratica che può essere fermata o durante la quale si possono trovare i necessari compromessi politici; d. Se gli Stati perseguono obiettivi di medio termine come il bilancio in pareggio od in surplus, hanno la possibilità di far operare i loro stabilizzatori automatici senza far infrangere al deficit il tetto del 3% del PIL.

9 Si veda ad esempio l’economista tedesco Otmar Issing che dichiarò alla Boersen Zeitung, il 29 agosto 2002, salvo essere smentito pochi mesi dopo, “Non c’è alcun bisogno di cambiare le regole.[…] Se applicato correttamente, il PSC lascia abbastanza respiro alla politica fiscale, anche se la situazione economica cambia. […] Quello che è importante ora è che il PSC sia applicato non solo ai piccoli Paesi, ma anche a quelli grandi”. (Coeuré e Pisani-­‐Ferry, 2003) http://www.pisani-­‐ferry.net/base/papiers/re-­‐03-­‐keynes-­‐sustainability.pdf 20


Tuttavia, numerosi autorevoli commentatori, riferendosi al fatto che, in fase di recessione, politiche fiscali restrittive possano essere pro-­‐cicliche, hanno duramente criticato il PSC; anche l’ex Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, proprio per questo motivo, lo definì pubblicamente “stupido”10. •

Una volta imposto il limite del 3%, l’PSC non prescrive come raggiungerlo o come correggere i deficit eccessivi, dando luogo a fenomeni di “creatività contabile” (anche con l’emissione di zero coupon bonds da parte di alcuni Stati) o ad aumenti indiscriminati della tassazione – senza, dunque, tagli della spesa pubblica – in altri. Secondo alcuni questo può portare ad un forte disincentivo (che diventa ancora maggiore in fase di riduzione del deficit) ad intraprendere grandi progetti che portino benefici differiti ed un crescente gap tra spese e ricavi correnti11.

Deficit continui, talvolta alti e talvolta bassi, che non destano preoccupazione perché non incorrono nella PDE, possono tuttavia dar luogo a dinamiche di espansione del debito, che possono causare ingenti spillover.12

Il deficit non è una misura valida della disciplina fiscale di uno Stato, poiché esso è influenzato dalle diverse fasi del ciclo economico, peggiorando sensibilmente al peggiorare delle condizioni economiche. A questa criticità si può ovviare utilizzando, anziché il deficit, quello strutturale, aggiustato per la componente ciclica.

L’attenzione sulle performance annuali a scapito di quelle di lungo periodo è, secondo alcuni, causa di distorsioni e renderebbe necessaria l’elaborazione di un concetto di disciplina “di lungo periodo”.

La sospensione della PDE per una caduta del PIL è davvero straordinaria, ma può accadere che lunghi periodi di bassa crescita si traducano in un consistente allargamento del deficit. Chi rileva questa criticità propone una sospensione del PSC durante i periodi a bassa crescita prolungata.

10 In un’intervista a Le Monde del 17 ottobre 2002, Prodi dichiarò «[Il PSC] è stupido, come tutte le decisioni rigide». La definizione piacque molto al settimanale “The Economist”, che rilanciò chiamandolo, nei giorni a seguire, “Stupidity Pact” (v. http://www.economist.com/node/1402102) 11 Oxley e Martin (1991, in Brunila et al., 2001) puntano il dito contro “la realtà politica, che è più facile tagliare o rimandare la spesa per investimenti rispetto a tagliare la spesa corrente”. 12 Per le critiche sin qui esposte si veda Roel Beetsma in Brunila A., Buti M., Franco D. (a cura di), “The stability and growth pact”, Palgrave, 2001. 21


Pur trattandola in maniera più completa nel seguito, è opportuno esporre qui anche la critica che vuole il PSC poco attento alle componenti di spesa pubblica che supportano la crescita (spesa capitale produttiva).

Nonostante la complessa articolazione delle procedure del PSC, è probabile che durante le negoziazioni (si vedano i casi di Francia e Germania nel 2003, su tutti) vi siano valutazioni diverse da quelle strettamente attinenti alla razionalità delle politiche economiche. Per fare solo due esempi, è probabile che nelle riunioni dell’ECOFIN un Ministro dell’Economia e delle Finanze di uno Stato sia piuttosto riluttante a punire con sanzioni un collega seduto allo stesso tavolo. Inoltre, nelle valutazioni che i Governi fanno nelle decisioni da prendere in sede europea, spesso entrano in gioco componenti elettoralistiche che poco hanno a che vedere con gli obiettivi stabiliti nei trattati. Per questo alcuni studiosi (Charles Wyplosz, 2006 in testa) hanno proposto di delegare la disciplina fiscale a comitati tecnici indipendenti a livello nazionale o comunitario13. Personalmente, ho delle perplessità sulla funzionalità di una proposta in tal senso per due ordini di ragioni: a. L’indipendenza è un requisito facile da immaginare, ma estremamente complesso da applicare. Organismi realmente indipendenti, ma dotati di competenza, sono difficili da nominare. Inoltre, l’indipendenza va anche garantita nel tempo, sfida non facile per un organismo che dovrebbe comminare anche sanzioni pari allo 0,5% del PIL agli Stati e che dunque –è facile immaginare-­‐ sarebbe oggetto di fortissime pressioni da parte degli stessi. b. La sorveglianza sulle politiche fiscali dei diversi Stati ed in particolare la valutazione sulle politiche espansive e l’eventuale erogazione di sanzioni, sono argomento sì tecnico (rectius, sono tecniche le competenze che sono richieste nello svolgimento di tale incarico), ma anche (e soprattutto) politico. In un momento in cui sul piano europeo si scontrano diverse visioni di politica economica dovute alle diverse maggioranze politiche presenti negli Stati, risulta evidente a parere di chi scrive la necessità di istituzioni comuni, politicamente legittimate e dotate, in questo ambito, del potere di imporre politiche fiscali ed economiche comuni a tutta l’UME.

13 Per le ultime cinque critiche esposte, si veda “UME: the dark side of a major success”, Charles Wyplosz, da Economic Policy, aprile 2006. 22


Nel PSC sono previste sanzioni per i “vizi”, ma non è previsto alcun premio per la “virtù” fiscale. Come ha scritto Charles Bean “Il problema con il PSC così com’è attualmente configurato e che è tutto bastone e niente carota: avrebbe più senso, accanto alle sanzioni dei comportamenti sbagliati durante le recessioni, premiare un buon comportamento fiscale nelle fasi di espansione” (Bean, 1998, pag. 106).

Il PSC rende palese la cessione di sovranità degli Stati al livello europeo: combinando le misure piuttosto rigide e la discrezionalità nell’erogazione delle sanzioni è passibile di essere detestato nei singoli Stati, depauperati di poteri e credibilità. In questo senso, può essere di ostacolo al processo d’integrazione europea (Brunila et al., 2001, pag. 395).

L’imposizione di un tetto di deficit comune a tutti gli Stati (la cosiddetta logica del “one size fits all”) sarebbe adeguata se le esternalità negative derivassero esclusivamente dal deficit stesso. In realtà, poiché le esternalità negative del deficit dipendono largamente dalle caratteristiche dei mercati dei beni, dei capitali e del lavoro dei diversi Stati, nonché dalla loro configurazione istituzionale e dalla composizione della loro spesa pubblica, risulta poco sensata l’imposizione di obiettivi comuni ad un’UME in cui gli estremi (e le medie) di alcuni parametri sono configurati come segue (Coeuré e Pisani-­‐Ferry, 2003): Valore minimo Valore massimo Valore medio Debito/PIL

5,6

109,8

62,9

Deficit/PIL

-­‐6,1

4,1

-­‐0,1

Investimento pubblico/PIL 1,2

4,4

3

Pension gap / PIL

11,2

4,5

1,8

Pension gap: aumento delle pensioni tra il 2000 ed il 2040 Tabella 2, diversità degli indicatori di finanza pubblica nell'UME (Fonte: Eurostat, 2001)

Per ovviare a queste ed altre criticità sono state avanzate numerose proposte di riforma del patto di Stabilità e Crescita; nel seguito se ne espongono alcune. La “golden rule”: una diversa contabilizzazione degli investimenti pubblici Questa proposta di riforma risponde alla preoccupazione che gli Stati, impazienti di raggiungere un saldo di bilancio in pareggio o in surplus, riducano permanentemente il contributo pubblico all’accumulazione di capitale, poiché questo viene contabilizzato completamente al pari della spesa pubblica corrente. 23


Secondo  alcuni  (Blanchard  e  Giavazzi,  2004),  la  soluzione  a  questo  bias  sarebbe  applicare  le  regole  del  PSC  al  saldo  di  bilancio  comprendente  il  servizio  del  debito  ed  il  deprezzamento  del  capitale,  ma  che  esclude  l’investimento  netto.  Questa  â€œregola  d’oroâ€?  (da  cui  â€œgolden  ruleâ€?)  avrebbe  numerosi  vantaggi,  qui  brevemente  trattati:  â€˘

Permetterebbe,  ammortizzando  i  costi  degli  investimenti  e  dunque  imputandoli  ai  periodi  in  cui  essi  generino  effettivi  benefici,  di  rispettare  il  principio  di  competenza.  Questo  farebbe  aumentare  l’investimento  pubblico  (poichĂŠ  si  imputerebbero  meno  costi  in  bilancio)  e  favorirebbe  una  virtuosa  sostituzione  della  spesa  corrente  con  la  spesa  capitale  per  gli  investimenti. Â

•

Farebbe  rimanere  in  bilancio  un  importo  â€œsanoâ€?  di  debito  pubblico,  ovvero  quello  dovuto  alla  compensazione  del  trasferimento  intergenerazionale  dei  benefici  derivanti  dall’investimento,  ad  esempio,  in  infrastrutture.  Infatti  l’investimento  pubblico  consente  di  spostare  l’onere  del  finanziamento  della  spesa  capitale  alle  generazioni  (quelle  future)  che  ne  trarranno  gli  effettivi  benefici.  Il  problema  dell’equitĂ Â intergenerazionale  può  essere  sintetizzato  con  il  vincolo  di  bilancio  come  segue  (Balassone  e  Franco,  2001):  đ?‘‡ + đ??ľ = đ??ş = đ??ś! + đ??ź đ??ˇ + đ??ž â&#x;š đ?‘‡ − đ??ś! = đ??ž + đ??ź đ??ˇ − đ??ľ  dove  T  sono  le  tasse,  B  il  deficit,  G  il  totale  delle  uscite  (composto  dalle  uscite  correnti,  đ??ś! ,  dagli  interessi  sul  debito,  I(D)  e  dagli  investimenti,  K).  L’onere  delle  generazioni  presenti  è  rappresentato  da  đ?‘‡ − đ??ś! ,  ovvero  dal  pagamento  delle  tasse  diminuito  dei  benefici  ricevuti  in  conseguenza  della  spesa  corrente  (e.g.  sanitĂ ,  istruzione),  compensato  dal  flusso  di  benefici  provenienti  dagli  investimenti  intrapresi  dalle  generazioni  passate.  Questo  onere,  come  si  vede,  è  aumentato  dalla  spesa  per  investimenti  e  dagli  interessi  sul  debito  ed  è  diminuito  dal  deficit;  infatti,  ad  una  diminuzione  del  deficit  consegue  ad  un  aumento  dell’onere  che  grava  sulle  spalle  delle  generazioni  presenti. Â

•

L’obbligo  di  trattare  la  spesa  per  investimenti  come  quella  corrente  ha  creato,  in  Italia,  un  forte  incentivo  all’espunzione  dei  prestiti  dal  bilancio  statale  attraverso  la  creazione  di  agenzie  a  controllo  pubblico  (e.g.  Infrastrutture  S.p.A.  in  Italia)  i  cui  bilanci,  però,  non  sono  consolidati  e  peccano  in  trasparenza  nella  distinzione  tra  investimento  netto  e  lordo.  Queste  agenzie  emettono  titoli  di  debito  le  cui  garanzie  sono  offerte  (ma  non  contabilizzate)  dai  Governi.  Queste  garanzie  sono  state  contestate  dalla  Commissione  come  aiuti  di  Stato:  pur  essendoci  alcune  criticitĂ ,  però,  non  va  dimenticato  come  una Â

24 Â Â


delle  funzione  principali  dello  Stato  sia  proprio  il  sussidio  dei  progetti  il  cui  ritorno  â€œsocialeâ€?  eccede  quello  finanziario.  L’introduzione  della  golden  rule,  dunque,  porterebbe  maggiore  trasparenza  nei  bilanci  pubblici.  Naturalmente  sono  state  fatte  svariate  proposte  per  l’applicazione  della  golden  rule,  di  seguito  se  ne  espongono  alcune.   La  prima  (Blanchard  e  Giavazzi,  2004)  si  basa  sull’istituzione  di  un’agenzia  governativa  per  il  finanziamento  e  la  gestione  di  (tutti  i)  nuovi  progetti  d’investimento.  Sia  r  il  tasso  d’interesse  reale,  n  il  tasso  di  crescita  del  PIL,  đ?›ż  il  tasso  di  deprezzamento  (costo  di  mantenimento  del  capitale  pubblico),  đ?œ—  il  tasso  di  rendimento  finanziario  lordo  sul  capitale  pubblico  (che  incorpora,  dunque,  anche  considerazioni  sul  benessere  sociale,  non  economico);  siano  k  lo  stock  di  capitale  pubblico,  b  lo  stock  di  debito  pubblico,  g  la  spesa  pubblica,  i  gli  investimenti  e  t  gli  introiti  dalla  tassazione;  siano  le  variabili  con  â€œ â€?  le  variazioni  nell’unitĂ Â di  tempo  (derivate  rispetto  al  tempo).  Il  vincolo  di  bilancio  della  nazione  è  come  segue:  đ?‘? = đ?‘” − đ?‘Ą + đ?‘– − đ?œ—đ?‘˜ + đ?‘&#x; − đ?‘› đ?‘?  Possiamo  dire  che  (đ?‘” − đ?‘Ą + đ?‘–)  è  il  saldo  primario,  đ?œ—đ?‘˜  indica  quanto  rende  il  capitale  pubblico  e  đ?‘&#x; − đ?‘› đ?‘?  sono  gli  interessi  pagati  per  il  servizio  debito.  Se  la  disciplina  fiscale  vuole  che  il  deficit  sia  pari  a  zero  secondo  i  criteri  del  PSC  vale  che  !"#$%&

đ?‘” − đ?‘Ą + đ?‘– − đ?œ—đ?‘˜ + đ?‘&#x;đ?‘? = 0,  cosicchĂŠ   đ?‘? = −đ?‘›đ?‘?,  con  il  rapporto Â

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 che  tende,  anno  dopo  anno, Â

a  zero.  Al  contrario,  qualora  si  parlasse  di  una  normale  azienda,  nel  vincolo  di  bilancio  in  pareggio  non  rientrerebbero  gli  investimenti,  ma  andrebbe  considerato  il  tasso  di  deprezzamento  (si  può  vedere  anche  come  la  â€œquota  di  ammortamentoâ€?)  del  capitale  pubblico.  Il  vincolo  di  bilancio  si  configurerebbe,  dunque,  come  đ?‘” − đ?‘Ą + (đ?›ż − đ?œ—)đ?‘˜ + đ?‘&#x;đ?‘? = 0 ,  cosicchĂŠ  đ?‘? − đ?‘˜ = −đ?‘›(đ?‘? − đ?‘˜),  con  (đ?‘? − đ?‘˜)   che,  implicitamente,  tende  a  zero.  Si  supponga  che  il  Governo  istituisca  l’agenzia  di  cui  sopra,  autorizzata  ad  emettere  titoli  per  raccogliere  capitale  sul  mercato  (sui  quali  deve  pagare  interessi  pari  a  đ?‘&#x;đ?‘? ! )  e  sia  đ?‘˜ !  l’ammontare  costante  di  capitale  sotto  il  suo  controllo.  La  differenza  tra  quanto  l’agenzia  guadagna  sul  proprio  capitale  e  quanto  spende  in  ragione  di  esso  è  pari  a  đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜ ! ;  inoltre  essa  riceve  dal  bilancio  statale  un  sussidio  pari  a  đ?‘&#x; + đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜ ! .  Si  ha  che   đ?‘? ! = đ?‘˜ ! + đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜ ! − đ?‘&#x; + đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜ ! + đ?‘&#x;đ?‘? !  da  cui  đ?‘? ! − đ?‘˜ ! = −đ?‘&#x;(đ?‘? ! − đ??ž ! ).   25  Â


Siano  đ?‘˜! lo  stock  di  capitale  pubblico  alla  fondazione  dell’agenzia  e  đ?‘? !  il  debito  pubblico  rimasto  inevaso,  il  nuovo  vincolo  di  bilancio  pubblico  dopo  l’istituzione  dell’agenzia  è   đ?‘? ! = đ?‘” − đ?‘Ą + đ?‘&#x; + đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜ ! + đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜! + (đ?‘&#x; − đ?‘›)đ?‘? !  dove  (đ?‘&#x; − đ?‘›)đ?‘? !  sono  gli  interessi  sul  debito  pubblico  residuo  e  đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜!  è  la  differenza  tra  quanto  lo  Stato  guadagna  e  quanto  spende  per  il  proprio  capitale  pubblico  (ovvero,  quello  in  bilancio  all’istituzione  dell’agenzia).  Ponendo  che  la  spesa  corrente  (inclusi  i  sussidi  all’agenzia)  sia  in  pareggio,  si  ha  che  đ?‘” − đ?‘Ą + đ?‘&#x; + đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜ ! + đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜! + đ?‘&#x;đ?‘? ! = 0  e,  dunque,  che  đ?‘? ! = −đ?‘›đ?‘? ! .  Con  il  debito  pubblico  che  tende  a  zero,  l’unico  debito  per  gli  investimenti  è  in  capo  all’agenzia.  Questo  si  rifletterĂ Â sulla  tassazione  che,  diventando  pari  a  đ?‘Ą = đ?‘” + + đ?‘&#x; + đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜ ! + đ?›ż − đ?œ— đ?‘˜!  non  dovrĂ Â piĂš  comprendere  il  servizio  del  debito.  Alcune  pubbliche  amministrazioni  italiane  (e.g.  la  sanitĂ Â della  Regione  Veneto  per  la  costruzione  di  ospedali)  si  sono  giĂ Â mosse  nella  direzione  dell’esternalizzazione  del  finanziamento  per  la  costruzione  di  infrastrutture  con  contratti  di  project  financing,  ovvero  con  la  concessione  a  privati,  in  cambio  di  contributi  per  la  costruzione  di  tali  infrastrutture,  dell’esclusiva  per  la  fornitura  di  alcuni  servizi  (e.g.  fornitura  di  calore,  pulizie,  gestione  e  riscossione  degli  introiti  di  parcheggi  a  pagamento14).   Le  restanti  proposte  per  l’applicazione  si  basano  tutte,  anzichĂŠ  sul  ridisegno  istituzionale,  sul  ridisegno  delle  regole  del  PSC,  ovvero  sul  cambiamento  dei  parametri  che  seguono  (DEF  indica  il  deficit  ed  il  pedice  â€œsâ€?  indica  â€œstrutturaleâ€?)  !"#

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(!"#)! ≤ 0,03  e  ( !"#! )! ≤ 0,03   âˆ€đ?‘Ą  e  cui  si  riferisce  la  figura  seguente. Â

 Figura  5,  andamento  del  deficit  con  l'PSC  (Balassone  e  Franco,  2001) Â

                                                        14  Complici  la  delicatezza  insita  nell’erogazione  dei  servizi  afferenti  l’ambito  sanitario  e  la  spending  review,  di  recente  queste  concessioni  sono  state  rimesse  in  discussione  (v.  http://corrieredelveneto.corriere.it/verona/notizie/politica/2012/25-­â€?luglio-­â€?2012/posti-­â€? letto-­â€?farmaci-­â€?dipendenti-­â€?scure-­â€?monti-­â€?sanita-­â€?veneta-­â€?2011162560262.shtml).  26  Â


La  seconda  proposta,  ideata  da  Franco  Modigliani  et  al.  (1998),  è  imperniata  sul  cambiamento  del  parametro  di  riferimento,  ovvero  sull’uso  del  deficit  al  netto  dell’investimento  netto.  I  parametri  del  PSC  verrebbero  cosĂŹ  modificati:  !"#! !"#!!"" !"#

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≤ 0,03  e Â

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= 0,01  ∀đ?‘Ą Â

Dove  INV  è  l’investimento  lordo  e  AMM  sono  gli  ammortamenti.  Questa  proposta  determinerebbe,  con  la  corretta  applicazione  del  principio  di  competenza,  l’aumento  del  livello  di  deficit  strutturale  compatibile  con  la  riduzione  del  debito;  inoltre  essa  ha  il  merito  di  rendere  il  livello  massimo  di  deficit  subordinato  alla  parte  di  spesa  che  può  rendere  effettivamente  piĂš  competitiva  l’economia  nazionale.  Tuttavia,  il  problema  principale  nell’uso  dell’investimento  netto  è  il  calcolo  degli  ammortamenti,  che  avrebbe  alti  costi  amministrativi  e  solleverebbe  grossi  problemi  teorici,  poichĂŠ  le  infrastrutture  non  hanno  un  valore  di  mercato  cui  fare  riferimento.  L’uso  dell’investimento  lordo,  invece,  pur  non  soddisfacendo  il  principio  di  competenza,  ovvia  ai  problemi  appena  esposti  modificando  i  parametri  del  PSC  come  segue:  !"#!!"# !"#

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≤ 0,03  e Â

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= 0,01  ∀đ?‘Ą Â

Ad  essi  si  riferisce  la  figura  che  segue. Â

 Figura  6,  andamento  del  deficit  escluso  l'investimento  lordo  (Balassone  e  Franco,  2001) Â

La  terza  proposta,  applicata  in  Germania  ai  sensi  dell’art.115  della  Legge  fondamentale15,  è  imperniata  sul  cambiamento  del  tetto  del  deficit,  poichĂŠ  i  deficit  annuali  sono  ammessi  in  misura  pari  al  livello  dell’investimento  netto  dell’anno  in  questione  presente  nel  bilancio  federale.  I  parametri  del  PSC  verrebbero  cosĂŹ  modificati:  !"#

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(!"#)! ≤ (!"#)!  e  ( !"#! )! = (!"#)! − 0,02  âˆ€đ?‘Ą                                                          15  Esso,  al  primo  comma,  recita:  â€œ[‌]  Le  entrate  provenienti  da  crediti  non  possono  superare  la  somma  delle  spese  previste  nel  bilancio  per  gli  investimenti.  Eccezioni  sono  ammissibili  solo  per  eliminare  distorsioni  dell'equilibrio  economico  generale.  I  dettagli  sono  disciplinati  da  una  legge  federale.â€?  27  Â


Si  assume  che  il  cambiamento  del  tetto  implichi  anche  un  cambiamento  nell’obiettivo  di  medio  termine  necessario  a  non  infrangerlo  (qui  si  assume  che  il  margine  di  sicurezza  sia  pari  a  0,02).  Il  deficit  procederebbe  come  nella  figura  che  segue. Â

 Figura  7,  andamento  del  deficit  con  il  metodo  tedesco  (Balassone  e  Franco,  2001) Â

La  principale  criticitĂ Â di  questo  metodo  consiste  nel  fatto  che,  se  anche  per  i  Paesi  poco  virtuosi  fiscalmente  il  livello  del  deficit  consentito  fosse  pari  a  quello  degli  anni  precedenti,  la  situazione  non  cambierebbe  di  molto  e  non  sarebbero  rispettati  gli  obiettivi  posti  nel  Trattato  di  Maastricht.   La  quarta  proposta,  applicata  nel  Regno  Unito,  è  imperniata  sul  cambiamento  dell’obiettivo  di  medio  termine  e  prevede  che  l’indebitamento  pubblico  non  possa  superare,  nel  corso  del  ciclo,  il  livello  dell’investimento  netto.  Questa  attenzione  all’intero  ciclo  economico  avvicina  piĂš  degli  altri  questo  metodo  agli  obiettivi  di  soliditĂ Â e  flessibilitĂ Â del  bilancio.  I  criteri  del  PSC  sarebbero  cosĂŹ  modificati  (il  pedice  â€œaâ€?  indica  una  misura  media):  !"#

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+ 0,02  e   ( !"#! )! ≤

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Il  deficit,  in  questo  caso,  procede  come  nella  figura  che  segue. Â

 Figura  8,  andamento  del  deficit  con  il  metodo  inglese  (Balassone  e  Franco,  2001) Â

L’idea  della  golden  rule  si  scontra,  però,  anche  con  numerose  obiezioni,  di  seguito  le  piĂš  comuni:  28  Â


L’espunzione della spesa per investimenti dal bilancio pubblico potrebbe portare ad una distorsione della spesa a favore di quella per il capitale fisico a discapito di quella (imputata a spesa corrente) per il capitale umano (e.g. spesa per l’istruzione, per la sanità), che talvolta favorisce la crescita come e più della spesa capitale stessa. Tuttavia, la scelta tra diversi tipi di spesa corrente è difficile anche senza la golden rule. Essa, anzi, toglierebbe l’alternativa della spesa capitale.

Secondo alcuni, la separazione tra spesa corrente e spesa capitale toglie la pressione per la riduzione del debito pubblico. In realtà, la pressione viene diminuita, ma non certo azzerata. Per i motivi già esposti, inoltre, non è saggio non avere debito pubblico e tale rigidità non aiuterebbe di certo l’acquisizione di benefici dal godimento differito.

Secondo altri, quello che conta è l’accumulazione di capitale complessiva, non la sua distribuzione tra pubblico e privato. Una visione di questo genere, tuttavia, non considera che alcuni investimenti dall’elevato ritorno esclusivamente in termini “sociali” non possono essere intrapresi, se non dallo Stato.

Nonostante la produttività di larga parte del settore privato sia correlata positivamente con la presenza d’infrastrutture indispensabili (e.g. infrastrutture di !"#$%&!'$"&( !"##$%&'

trasporto e di telecomunicazione), il rapporto

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non può essere usato

come unica proxy dell’incremento anno-­‐per-­‐anno dello stock di capitale pubblico. A questo proposito, scrivono Fabrizio Balassone e Daniele Franco (2001): “[…] l’esperienza italiana indica chiaramente che il rapporto tra investimento e PIL non è un buon indicatore delle variazioni nello stock di capitale pubblico; il rapporto italiano è stato per lungo tempo tra i più alti tra i paesi occidentali senza incrementare la relativa posizione italiana in termini d’infrastrutture”. Permessi di deficit: una soluzione “di mercato” La seguente proposta (Casella, A., 2001) prende le mosse dal Teorema di Coase, secondo il quale tramite un meccanismo di mercato si può giungere ad un’allocazione efficiente che massimizza il benessere sociale più della regolazione o dell’intervento statale16. Sulla scorta di quanto già fatto per i permessi di inquinamento negoziabili ai fini della tutela dell’ambiente, Casella (2001), dunque, propone l’utilizzo di un meccanismo di mercato per 16 “Se le parti possono negoziare senza costi l’allocazione delle risorse, il mercato riesce a risolvere il problema delle esternalità allocando le risorse in maniera efficiente." (R. Coase, The Problem of Social Cost, 1960) 29


l’allocazione efficiente di permessi di generare deficit che, qualora mantenga inalterato il deficit dell’intera UME, si traduce in una maggiore flessibilità da parte degli Stati nel prendere provvedimenti anticiclici deviando dalle loro inziali possibilità, poiché questi possono acquistare i permessi dai Paesi in pareggio od in avanzo. L’accresciuta flessibilità dei bilanci pubblici porta da un lato all’attribuzione dei giusti premi nei confronti degli Stati che hanno comportamenti fiscali virtuosi ed hanno una solida finanza pubblica, dall’altro ad una maggiore aderenza del prezzo di un’unità additiva di deficit (che altrimenti, in caso di superamento del tetto del 3% del PIL sarebbe stato uguale alle sanzioni previste dal PSC) al costo marginale (in termini di minor solidità del sistema finanziario europeo) dello stesso. Questo, implicitamente, minimizza i costi di aderenza ai parametri stabiliti nel PSC. Tuttavia, come nell’attuale formulazione, resta il problema che un Governo, in un momento di recessione, si trova a dover affrontare un onere ulteriore (siano le sanzioni, sia il prezzo de permessi per la generazione di deficit), ovvero una componente di bilancio pesantemente pro-­‐ ciclica. Inoltre, poiché i permessi devono essere acquistati, una parte del nuovo debito deve essere impiegata nell’acquisto degli stessi. Sia p la frazione del valore che rappresenta il prezzo del diritto di generare 1 euro addizionale di debito, lo Stato potrà impiegare solo (1-­‐p) del nuovo debito contratto nell’implementazione di politiche fiscali espansive. Questo meccanismo si articola innanzitutto nella predisposizione di un totale di permessi disponibili sul mercato e nella loro allocazione tra gli Stati. Questo solleva un primo problema: poiché l’effetto di un deficit sull’equilibrio dell’intera UME dipende anche da dove questo si verifica (per vederla dal lato dell’attuale PSC, si può dire che l’implementazione di criteri uniformi ha costi diversi in corrispondenza dei diversi paesi dove si verificano), i permessi di deficit tra i vari Stati non sono perfetti sostituti ed hanno valori diversi. Ad esempio, un permesso di deficit avrebbe valore maggiore per un Paese “fiscalmente improbo” (e.g. Italia) rispetto a quello che avrebbe in un Paese “fiscalmente virtuoso”. Una distribuzione uniforme dei permessi di deficit, inoltre, potrebbe dar luogo ai cosiddetti hot spots (punti caldi), paesi che strutturalmente concentrano un largo ricorso all’acquisto dei permessi di deficit e che minano l’efficacia del meccanismo per l’intera area. La soluzione proposta a queste criticità implica il concentrarsi non sull’effetto da combattere (ovvero il deficit), ma sull’esternalità indesiderata (nel caso dei permessi di deficit, la fragilità del sistema finanziario dell’Unione). Al fine di distribuire correttamente (e, dunque, nelle 30


opportune proporzioni) il permesso di aumentare la fragilità del sistema finanziario dell’UE, è necessario trovare una proxy efficace di quest’ultima, ad esempio il rapporto

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All’aumentare di questo tasso, diminuiranno i permessi assegnati allo Stato in questione. Qualora, però, la domanda di permessi sia maggiore dell’offerta, alcuni Paesi (quelli che hanno ricevuto più aiuti di quelli di cui avevano bisogno) godranno di una rendita di posizione. I permessi distribuiti sono denominati in euro e, soprattutto, liberamente trasferibili. Al momento della pubblicazione delle statistiche nazionali, lo Stato deve avere sufficienti permessi da coprire il proprio deficit, altrimenti incorre in una multa per ogni permesso mancante (ovvero, per ogni quota di deficit in eccesso). Ad ogni Stato, inoltre, è permesso tesaurizzare i propri permessi per gli anni successivi, per permettere una pianificazione intertemporale e per mitigare shock previsti. Anche nella fase del modello proposto che corrisponde alla negoziazione dei permessi assegnati, sono da rilevarsi alcune criticità di seguito esposte: •

L’organizzazione del mercato dei permessi deve garantirne l’effettiva competitività, ma questa è ostacolata sia dalla rilevante dimensione di alcuni partecipanti (i Paesi più grandi) le cui decisioni influenzano comunque tutti gli altri, sia dallo svolgimento della contrattazione (e quindi della determinazione del prezzo di mercato dei permessi) in sede politica, dove spesso accade che si prendano in considerazione elementi estranei alla pura razionalità economica.

Resta aperta la questione su chi debba essere ammesso alle negoziazioni del mercato dei permessi di deficit. Assunto che ad un maggiore sviluppo del mercato corrisponde una maggiore efficienza, l’autrice propone di ammettervi, sul modello di quello dei titoli di Stato, anche gli investitori privati. Il problema, però si presenta a proposito degli investitori istituzionali. Devono, infatti, essere ammessi solo i Governi istituzionali, o vi possono accedere anche le istituzioni locali (e.g. Regioni, Lander)? Sempre secondo l’autrice, una maggiore presenza di competitori favorisce l’aderenza del prezzo al costo marginale facendo guadagnare, di nuovo, in efficienza. Con la consueta sommissione, chi scrive ritiene piuttosto miope questa cieca fiducia nella creazione di efficienza da parte del mercato non solo per le fortissime ipotesi che vi stanno alla base (e.g. perfetta razionalità, perfetta informazione), ma anche perché, dati i numerosi bias empiricamente verificati oggi più che mai che si verificano nei mercati finanziari, una soluzione di questo genere aprirebbe nuove praterie alla

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speculazione  su  un  terreno,  quello  dei  bilanci  pubblici,  giĂ Â pesantemente  oggetto  della  stessa.  La  regola  dell’equilibrio  permanente  di  bilancio  Proposta  da  Buitier  e  Grafe  (2003),  la  regola  dell’equilibrio  permanente  di  bilancio  (Permanent  Balance  Rule,  d’ora  in  poi  PBR),  è  un’applicazione  particolarmente  rigida  del  tax  smoothing  â€“ovvero  la  pratica  di  mantenere  costanti  le  aliquote  impositive  per  raccogliere  fondi  durante  le  fasi  espansive  e  spenderli  come  stabilizzatori  in  quelle  recessive-­â€?  e  richiede  che  il  bilancio  pubblico  aggiustato  per  l’inflazione  e  per  la  crescita  reale  sia  permanentemente  in  equilibrio  od  in  avanzo.  L’obiettivo  prioritario  di  questa  proposta  è  di  assicurare  la  solvibilitĂ Â dei  Paesi,  tenendo  conto  delle  differenti  posizioni  iniziali  e  dei  diversi  sviluppi  futuri.  Questo  equilibrio  permanente  del  bilancio  pubblico  è  dato  dalla  differenza  (nulla  o  positiva)  tra  il  costante  valor  medio  di  lungo  periodo  degli  introiti  fiscali  e  la  spesa  pubblica.  Siano  đ?œ?!!  il  totale  delle  tasse  pagate  al  tempo  0  al  Governo  del  Paese  rapportata  al  PIL,  đ?‘”!  la  spesa  pubblica  (a  sua  volta  formata  dalla  somma  della  spesa  pubblica  per  consumi  đ?‘”!! ,  la  spesa  pubblica  per  trasferimenti  e  sussidi  đ?‘”!!  e  la  spesa  pubblica  per  investimenti  đ?‘”!! ),  đ?‘&#x; !  il  !"#$%&

tasso  d’interesse  reale,  đ?‘›!  il  tasso  di  crescita  del  PIL,  b  il  tasso Â

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,  đ?œƒ !  il  tasso  di  ritorno Â

lordo  finanziario  sullo  stock  di  capitale  pubblico  e  đ?‘˜ !  il  tasso  di  capitale  pubblico  in  rapporto  al  PIL,  per  aversi  l’equilibrio,  è  necessario  che  đ?œ?!! ≼ đ?‘”! + đ?‘&#x; ! − đ?‘›! đ?‘? − đ?œƒ ! đ?‘˜ !  Pertanto  la  quota  di  tassazione  rapportata  al  PIL  deve  essere  mantenuta  costante  ad  un  valore  non  inferiore  alla  somma  della  quota  di  spesa  pubblica  â€œcostanteâ€?  sul  PIL(đ?‘”! ),  del  costo  del  debito  nel  lungo  periodo  ( đ?‘&#x; ! − đ?‘›! đ?‘?),  meno  il  reddito  che  il  Governo  riceve  dal  proprio  capitale  pubblico  (−đ?œƒ ! đ?‘˜ ! ).   Questo  porterebbe  all’abolizione  dei  criteri  del  3%  del  PIL  per  il  deficit  e  del  bilancio  prossimo  al  pareggio  od  in  avanzo  che,  secondo  gli  autori,  sono  del  tutto  arbitrari  e  non  correlati  ad  una  solida  posizione  di  bilancio.  Infatti,  nella  proposta  della  PBR,  non  vi  è  alcuna  attenzione  ad  un  desiderabile  livello  di Â

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 di  lungo  periodo  (tranne  per  quanto  riguarda  la Â

sua  influenza  sul  livello  di  tassazione  permanente),  ma  solo  ad  una  livello  permanente  di  tassazione  adeguato  a  garantire  la  solvibilitĂ Â del  Governo.  La  PBR  ha  senza  dubbio  alcuni  pregi  (Buiter  e  Grafe,  2004),  che  vale  la  pena  di  elencare  brevemente:  32  Â


È una regola concettualmente intuitiva e semplice da comunicare all’esterno.

Prudenza e cautela: la solvibilità degli Stati è nel suo DNA.

È coerente sia con le suggestioni neoclassiche inerenti il tax smoothing, sia con quelle neokeynesiane sui deficit anticiclici.

Riconosce l’impatto della crescita del PIL nominale sul servizio del debito, che si estrinseca nell’influenza gli interessi pagati sul debito denominato in valuta nazionale.

Può essere vista come una generalizzazione od addirittura un perfezionamento della golden rule, perché permette al Governo gli investimenti fino al punto in cui essi generano futuri flussi di cassa sia direttamente (ovvero con le tasse pagate per usufruire dei nuovi servizi), sia indirettamente (ovvero con l’allargamento tramite il welfare, della base imponibile).

L’osservanza della PBR non potrebbe che giovare alla completa informazione nel dibattito pubblico sulle policies in materia fiscale, costringerebbe infatti i Governi a rendere note le loro previsioni ed intenzioni riguardanti i percorsi che, nel lungo periodo, dovranno seguire il consumo pubblico, i trasferimenti e gli investimenti.

Vi sono, tuttavia, anche alcune criticità (Buti et al., 2003) a proposito della PBR: •

La sua reale applicabilità suscita parecchi dubbi, poiché essa richiede la stima del valore permanente delle entrate fiscali e delle spese e quindi deve tener conto delle future preferenze sociali e politiche e fare previsioni sui futuri tassi di crescita.

Nelle economie meno affermate, la crescita del PIL nominale può essere sì molto veloce, ma anche molto variabile; questo implica un potenziale conflitto tra disciplina e stabilizzazione.

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Capitolo II: la riforma del 2005 Le ragioni della riforma del 2005 Nonostante l’ampio dibattito che contrassegnò l’approvazione e l’implementazione del Patto di Stabilità e Crescita, già nella prima fase della sua vita si evidenziarono alcune crepe nella sua costruzione. È il caso, dunque, prima di trattarne la riforma, di esaminare le criticità che si evidenziarono nei primi anni di vita del PSC, che portarono nel 2003 al suo venir meno e nel 2005 ad una sua una profonda riforma. •

Il PSC originale non favorì l’adozione di pratiche di consolidamento fiscale ciclico. Nell’iniziale costruzione del Patto, essendoci scarsi incentivi all’implementazione di politiche restrittive nelle fasi crescenti del ciclo, erano probabili deficit eccessivi nelle fasi di contrazione dell’economia; non si era prestata sufficiente attenzione, dunque, al rischio di politiche pro-­‐cicliche. In altre parole, poiché è probabile (sempre a proposito di deficit bias) che gli effetti positivi -­‐in termini di minor rischio di infrazione dei criteri di deficit e debito-­‐ delle politiche fiscali restrittive nei momenti economicamente favorevoli vengano goduti da Governi diversi da quello in carica nel momento considerato, è improbabile che questo approvi norme fiscalmente restrittive; è invece probabile che metta in atto manovre fiscali espansive per garantirsi maggior consenso alle elezioni successive.

I criteri di deficit e debito si esaurivano nel raggiungimento di determinati rapporti tra queste grandezze ed il PIL, ignorando completamente le modalità di questo raggiungimento. Non distinguendo, dunque, tra un raggiungimento dei criteri conseguito tramite riforme strutturali (e.g. riforma del sistema previdenziale, revisione delle aliquote di imposizione) ed uno conseguito con misure una tantum (ovvero con misure che hanno un impatto transitorio sul bilancio e che non portano mutamenti protratti nel tempo), il PSC originale forniva forti incentivi ai policy makers a perseguire obiettivi di equilibrio di breve periodo (e.g. con alienazioni di patrimonio pubblico) piuttosto che di lungo periodo.

Le sanzioni per i deficit eccessivi non erano automatiche, come da proposta iniziale fatta dal Governo tedesco (la cosiddetta “Proposta Waigel”, come si è visto), ma erano 35


soggette a decisioni politiche all’interno dell’ECOFIN che portavano ad un’oggettiva scarsità di incentivi alla loro effettiva applicazione, le cui cause vanno sviscerate. Mutuando il linguaggio dalla Teoria dei giochi, si potrebbe dire che, in questo caso, la minaccia delle sanzioni non è credibile. In primo luogo, vi è una forte tentazione, da parte dei rappresentanti degli Stati con grandi deficit (in particolare tra gli Stati di maggiori dimensioni), a colludere tra loro per evitarsi vicendevolmente le sanzioni, considerato che, mentre il guadagno per chi vota a favore della sanzione è molto limitato, la perdita da parte del soggetto cui viene inflitta è molto elevata. In secondo luogo, nel decidere se infliggere o meno una sanzione, anche gli Stati più virtuosi mettono in conto di poter essere loro stessi, un giorno, “sul banco degli imputati”; pertanto, un atteggiamento indulgente nei confronti del Paese che abbia violato i criteri del PSC può essere visto come un “investimento” sull’altrui futura clemenza (di questo si parla quando si sente l’espressione, spesso abusata in questi contesti “mercato delle vacche”). In questo caso, la cooperazione tra gli Stati, che è sempre stata fra gli obiettivi fondanti l’UE, diventa un problema per lo stesso processo di integrazione europea. In terzo luogo, come si è detto, i rappresentanti degli Stati in seno all’ECOFIN sono riluttanti ad infliggere una sanzione ad un collega seduto allo stesso tavolo. In questo senso, si può affermare che al crescere dei fiscalmente improbi Stati-­‐cicala, come li chiama Fiorella Kostoris Padoa Schioppa (2006) in contrapposizione ai virtuosi Stati-­‐formica, la credibilità delle sanzioni diminuisce perché, proseguendo per citazioni, stavolta di Haan et al. (2003), “è politicamente più semplice (o meno costoso) sanzionare per un cattivo comportamento fiscale uno Stato, piuttosto che molti”. Inoltre, poiché il costo delle sanzioni in parte è da considerarsi in termini di reputazione, anche questo diminuisce all’aumentare del numero di Stati-­‐cicala. Queste considerazioni portano ad affermare che l’effettiva applicazione delle sanzioni previste nel PSC era “partigiana” e che, delegando l’applicazione delle sanzioni agli organi dell’UE composti dalle rappresentanze dei vari Stati, non si era affrontato il problema che già il poeta e retore romano Giovenale si poneva nel II secolo d.C.: “quis custodiet ipsos custodes?”17, ovvero “chi sorveglierà i sorveglianti stessi?”.

17 Giovenale, Satire VI, 347–8 36


Dopo il trattato di Maastricht e l’entrata in vigore della moneta unica, l’importanza dei premi e delle sanzioni era diminuita sensibilmente. Mutuando il lessico adottato da Charles Bean e riportato nel capitolo precedente, Buti (2006) ha scritto che “con l’adozione della valuta comune […] e con la convergenza dei tassi d’interesse, gli incentivi di mercato erano stati ridotti e, mentre il bastone dell’esclusione [dall’UEM] era stato sostituito dalla minaccia di sanzioni che, semmai, sarebbero state inflitte dopo lungo tempo, la carota dell’entrata era [già] stata mangiata”.

Già nel primo PSC, era evidente la mancanza di un soggetto europeo di applicazione delle regole e di comminazione delle sanzioni. Questo in parte per una mancanza di volontà di cessione di sovranità da parte degli Stati membri, in parte per la mancanza di legittimazione delle istituzioni comunitarie da parte dell’opinione pubblica, che si chiedeva (e se lo chiede ancora adesso18) perché un deficit di un altro Stato membro dovesse essere un suo problema. Questa problematica era amplificata dall’arbitrarietà degli obiettivi di medio termine che volevano il saldo di bilancio “in pareggio od in avanzo”, dei criteri del deficit e del debito che secondo i loro detrattori, poiché non vi sono teorie comunemente accettate sulla grandezza ottimale del debito pubblico, non hanno alcuna giustificazione teorica, in special modo data la necessaria convergenza del debito, una volta accettati i vincoli, verso lo zero. Questo tipo di argomentazioni veniva usato spesso e volentieri, senza alcuna velleità scientifica questa volta, nella retorica contro i “tecnocrati di Bruxelles” impiegata a piene mani dagli antieuropeisti di tutto il continente.

Come dimostra il caso della Grecia, c’erano delle deficienze riguardanti da un lato gli indicatori statistici utilizzati, dall’altro la scorrettezza dei dati forniti dagli Stati membri. Inoltre vi fu un insufficiente monitoraggio delle rilevazioni e delle statistiche in riferimento ai diversi Stati dell’UEM e, ove questo vi fosse stato, era eccessivamente confinato nella ristretta cerchia degli esperti e dei tecnici. Una maggiore condivisione dei dati più “scottanti” avrebbe forse maggiormente interessato l’opinione pubblica, creando un clima favorevole alla prevenzione.

18 Pur prendendoli “con le pinze”, è opportuno vedere i sondaggi condotti in Germania nell’ultimo anno, ad esempio questo http://www.asca.it/news-­‐ Crisi__sondaggio__79_PERCENTO_tedeschi_contrario_a_emissione_eurobond-­‐1158771-­‐ ECO.html

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In questa cornice di imperfezioni e criticità riferibili all’originaria formulazione del PSC va inserito il superamento da parte di 6 Paesi su 12 facenti parte dell’UEM (con buona pace della parte preventiva del PSC) del tetto del 3% del deficit nei primi anni del nuovo millennio. È interessante notare (Calmfors, 2005) come nella maggior parte dei casi di superamento del tetto del 3%, i deficit aggiustati per il ciclo fossero inferiori ai deficit rilevati, ciò a dire come la maggior parte delle violazioni siano avvenute in contesti di fasi depressive del ciclo economico. Per comprendere la vera ratio della riforma del PSC del 2005 è dunque necessario esaminare questi sei casi. •

Nel 2002 iniziò la procedura per deficit eccessivo nei confronti del Portogallo in conseguenza di un deficit del 4,4% nel 2001, che venne riportato sotto il limite del 3% nel 2003 e nel 2004, con la chiusura della procedura per deficit eccessivi, nonostante il rapporto debito/PIL del Portogallo, all’epoca, superasse il limite del 60%.

Nel 2004 iniziò la procedura per deficit eccessivo nei confronti dei Paesi Bassi in conseguenza di un deficit del 3,2% nel 2003, che venne riportato sotto il limite del 3% nel 2004. Questo è stato l’unico caso in cui la procedura per i deficit eccessivi venne usata chiaramente e nel rispetto di tutti i criteri.

Il deficit del 3,3% nel 2003 e del 3,1% nel 2004 nel Regno Unito stimolò la Commissione Europea a stendere un rapporto nel quale, però, si affermava come detto deficit non fosse da considerarsi eccessivo, ma solo temporaneo.

L’Italia superò il limite del 3% a partire dal 2003, come si appurò solo a partire dal 2005, a seguito di una revisione al rialzo delle cifre e delle stime dei deficit degli anni precedenti. Nonostante i deficit degli anni 2003 e 2004 fossero da considerare prossimi al valore limite del 3%, furono ritenuti comunque eccessivi, poiché non definibili “temporanei”; infatti le previsioni per il 2005 ed il 2006 indicavano rispettivamente deficit del 3,6% e del 4,6%. Inoltre il rapporto debito/PIL, storicamente eccessivo (si aggirava all’epoca attorno al 106% ) non era diminuito ad un ritmo sufficientemente sostenuto negli ultimi anni.

Quella della Grecia fu la più evidente e sfacciata violazione delle regole del PSC fino al 2004 quando, sulla scorta del primo sostanziale cambio al Governo del Paese dal 1981 (ad eccezione della breve parentesi a maggioranza di centrodestra dei primi anni 90), le cifre prima diffuse vennero riviste al rialzo. Si scoprì così che il tetto del deficit era stato superato negli anni dal 1997 al 2003 senza che questo venisse notato dalle

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autorità comunitarie o segnalato da quelle elleniche al fine prima di raggiungere i criteri di convergenza ed entrare nell’UEM e poi di evitare l’apertura di una procedura per deficit eccessivo nei confronti della Grecia. In considerazione delle “speciali circostanze” in cui si trovava lo Stato (va ricordato anche un rapporto debito/PIL attorno al 110%), furono dati alla Grecia non uno, ma due anni per ritornare sotto il 3%. •

Il caso più significativo, tuttavia, è quello, che si può trattare congiuntamente, di Francia e Germania. Le procedure per deficit eccessivo nei confronti di questi due Stati iniziarono, rispettivamente, nel tardo 2002 (per un deficit del 3,2% nello stesso anno) e nel 2003 (per un deficit del 3,7% l’anno precedente). In quegli stessi anni, inoltre, i due Stati ebbero le peggiori performance dell’UEM per quanto riguarda dinamica del rapporto debito/PIL. Infatti quello francese passò dal 59% del 2002 al 65,6% del 2004 e quello tedesco dal 59,4% del 2001 al 66% del 2004; il rapporto debito/PIL, dunque, sforò il limite del 60% in entrambi i casi. In questo quadro, i due Stati ricevettero delle raccomandazioni da parte dell’ECOFIN perché riducessero i loro deficit entro il 2004. Tuttavia, quando Francia e Germania fallirono in quest’obiettivo, l’ECOFIN, anziché fornire delle osservazioni sul mancato soddisfacimento dei criteri del PSC fornì delle raccomandazioni, prolungando il termine arbitrariamente fino al 2005 e di fatto bloccando la procedura per deficit eccessivi, votando contro alla proposta del commissario UE Pedro Solbes. Francia e Germania si limitarono a firmare, per mano dei due ministri delle finanze (rispettivamente Mer ed Eichel) “una dichiarazione d'intenti non vincolante, per cui i due Paesi [volevano] ridurre i deficit nei [successivi] due anni secondo le loro forze, condizionando il rientro nel parametro nel 2005 ad una crescita sufficiente del PIL”19. Costatando questa omissione da parte dell’ECOFIN, la Commissione Europea portò il blocco della procedura per deficit eccessivi nei confronti di Francia e Germania davanti alla Corte di Giustizia Europea. Quest’ultima –con una sentenza unanimemente considerata salomonica ed ambigua-­‐ da un lato annullò la deliberazione dell’ECOFIN giudicandola come un’interferenza nei processi stabiliti dai trattati, dall’altra stabilì una volta per tutte che l’avanzamento delle tappe della procedura per deficit eccessivi

19 Da “La rottura in sede UE sul Patto di Stabilità e Crescita: le reazioni in Germania”, da lavoce.info su http://www.lavoce.info/articoli/pagina787.html

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non era automatico, ma necessitava volta per volta di un consenso politico e discrezionale, nonostante fosse previsto dai trattati e dal PSC. Preso atto dello “smacco”, la Commissione Europea accettò il nuovo termine con la motivazione che Francia e Germania avevano ragione di credere che l’estensione concessa dall’ECOFIN fosse legalmente valida e non giudicò necessari ulteriori passi avanti nella procedura per deficit eccessivi perché i due Stati erano sulla strada giusta per correggerli20. Come ha scritto Calmfors (2005), a causa dell’interpretazione “morbida” scelta dalla Commissione Europea al fine di evitare ulteriori contrasti con Francia e Germania, vi fu la “dimostrazione che le regole dell’UE sono endogene [ovvero, stipulate ed applicate dai medesimi soggetti, gli Stati, n.d.r.] e che, dunque, è probabile che vengano modificate in risposta alle loro stesse violazioni. [Questo] causa necessariamente una perdita di credibilità”. Ma ciò che in quei mesi causò una forte crisi del prestigio delle regole comunitarie fu soprattutto lo spudorato mercato delle vacche che i Paesi con deficit eccessivi misero in scena al fine di evitarsi l’incorrere nelle sanzioni previste dal PSC. Francia e Germania, infatti, oltre a supportarsi vicendevolmente, trovarono nel novembre del 2003 l’appoggio sia del Portogallo (che aveva a sua volta un deficit eccessivo), sia del Regno Unito (che si trovò con un deficit eccessivo tra il 2003 ed il 2004), sia dell’Italia. Il nostro Paese, all’epoca, aveva in quota il Presidente dell’ECOFIN, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti. Secondo Fiorella Kostoris Padoa Schioppa (2006), questi seguì una politica di do ut des, favorendo un’interpretazione morbida del PSC a favore dei Paesi più forti (nonostante una maggiore intransigenza fosse stata adottata nei confronti dei Paesi economicamente più deboli) e venendo ripagato, secondo Calmfors (2005), quando nel 2004 l’ECOFIN non diede seguito alla richiesta da parte della Commissione Europea di allarmare l’Italia per la sua inadempienza ai suoi stessi obiettivi di medio termine. Allo stesso modo il Portogallo venne ripagato con la chiusura della procedura per deficit eccessivi nel 2004, nonostante le continue violazioni del criterio del debito e i chiari segni che i miglioramenti ottenuti nel saldo di bilancio non erano che temporanei. Queste evidenti contraddizioni nell’architettura originaria del Patto di Stabilità e Crescita fecero emergere, nel corso del 2004, un vasto consenso attorno all’ipotesi di una sua riforma 20 Aveva dunque ragione il legislatore ateniese Solone nel dire che “le leggi sono come ragnatele, […] rimangono salde quando vi urta qualcosa di molle e leggero, mentre una cosa più grossa le sfonda e sfugge”. (Citato nelle Vite Parallele di Plutarco) 40


che comprendesse un superamento dell’eccessiva uniformità nell’applicazione dei criteri insita nella formulazione originale, incentivi al miglioramento dei saldi di bilancio nelle fasi di espansione, più attenzione alla sostenibilità di lungo periodo, più trasparenza nell’elaborazione e nella trasmissione dei dati riguardanti le politiche fiscali degli Stati, una maggiore attenzione al ciclo economico, miglioramenti alla procedura per deficit eccessivi ed un ruolo maggiore per la Commissione Europea nell’applicazione delle regole dell’UEM. Come notano Buti et al. (2005), era ben noto anche il rischio che, poiché la riforma avveniva sotto la pressione di cattive condizioni economiche ed a seguito di un così palese fallimento del PSC, la credibilità delle regole fiscali dell’UEM ne uscisse di molto indebolita. Pur tenendo conto di questo pericolo, nel settembre del 2004 la Commissione Europea preparò una sua comunicazione richiedendo alcune modifiche al PSC. Dopo estenuanti trattative, l’ECOFIN giunse ad un accordo che venne ratificato dal Consiglio Europeo del 22 e 23 marzo del 2005.

In cosa consiste la riforma del 2005 Ai fini di comprendere la procedura di approvazione della riforma, è importante sottolineare come il PSC originale, ancorché trovasse la propria ratio in alcuni articoli del Trattato di Maastricht (l’art. 99 e l’art. 104 in massima parte) e dunque in una fonte del diritto primaria, era imperniato su una risoluzione del Consiglio Europeo (quella, appunto, di Amsterdam) e su due regolamenti del Consiglio (il 1466/97 ed il 1467/97), dunque su fonti secondarie. Pertanto, per una modifica sostanziale del PSC, potendosi lasciare intatti i trattati e cambiando solo i regolamenti, non era necessario il coinvolgimento dei Parlamenti nazionali o degli elettorati tramite referendum, ma bastava l’unanimità del Consiglio Europeo. Questa fu la procedura che venne utilizzata e che si concretizzò nell’approvazione dei regolamenti 1055/2005 e 1056/2005. Le modifiche al PSC approvate in quella sede, secondo la tassonomia adottata dall’ECOFIN nel suo report per il “miglioramento dell’implementazione del Patto di Stabilità e Crescita” si dividono in quelle per “migliorare la governance”, quelle alla parte preventiva del PSC e quelle alla sua parte repressiva, ovvero la procedura per deficit eccessivi. Modifiche per il miglioramento della governance Le modifiche per il miglioramento della governance sono quelle di minor conto, poiché nulla di significativo è stato cambiato in questo ambito. 41


Vale la pena citare, per completezza, i richiami alla cooperazione tra gli Stati nel quadro della sorveglianza multilaterale ed allo scambio continuo di informazioni per assicurare un migliore monitoraggio, oltre agli inviti all’Eurogruppo a valutare gli sviluppi dell’intera area-­‐ euro (entro l’estate di ogni anno) e agli Stati membri di prestare, nello sviluppo del primo programma di stabilità o convergenza dopo un cambio di Governo, attenzione al soddisfacimento degli obiettivi di bilancio precedentemente approvati dal Consiglio Europeo. Si dice poi che gli Stati, nell’elaborazione dei loro programmi di stabilità o convergenza, possono avvalersi di fonti proprie, ma devono spiegare in dettaglio i motivi della scelta di non avvalersi dei dati forniti dalla Commissione Europea e le divergenze tra le due fonti; inoltre, data la plausibilità di errori nelle previsione, gli Stati devono prestare particolare attenzione alle analisi di sensitività sui propri programmi. Modifiche alla parte preventiva Le modifiche alla parte preventiva del PSC, dettate dal mancato raggiungimento da parte di molti Stati dell’obiettivo di medio termine di un saldo di bilancio in equilibrio od in avanzo, vanno trattate in maniera più estesa. •

A differenza della formulazione originale degli obiettivi di medio termine (d’ora in poi OMT) che si era rivelata troppo rigida, non considerando le differenze presenti tra le economie ed i bilanci dei diversi Stati dell’UEM, nel 2005 si introduce una differenziazione negli OMT che tenga conto di tali diversità. Inoltre gli OMT ai sensi della riforma sono aggiustati per il ciclo e calcolati al netto delle misure una tantum e temporanee. I nuovi OMT, mantenendo un margine di sicurezza adeguato al rispetto del tetto del 3% del PIL per il deficit, assicurando la rapidità del cammino verso la sostenibilità del debito e permettendo allo Stato in questione sufficiente spazio di manovra, in particolare per l’investimento pubblico, possono differenziarsi tra gli Stati a seconda degli stock di debito (e quindi della solidità finanziaria) e dei potenziali di crescita. I nuovi OMT, inoltre, possono oscillare da un deficit dell’1% (per i Paesi ad alto debito con grandi potenzialità di crescita) al “pareggio od avanzo” del precedente PSC. Inoltre viene stabilito che le cosiddette “passività implicite” (ovvero quelle non messe a bilancio, ma implicite nella struttura dell’economia del Paese, e.g. quelle derivanti dall’aumento delle pensioni erogate in occorrenza di un progressivo invecchiamento della popolazione) potranno essere contabilizzate, una volta che la Commissione

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Europea (l’ECOFIN le dà come prima scadenza la fine del 2006) avrà partorito i necessari criteri. •

Riguardo al percorso di aggiustamento verso gli obiettivi di medio termine, viene riconosciuto esplicitamente che “gli sforzi devono essere maggiori in momenti favorevoli e possono essere più limitati nei momenti meno favorevoli”21. I “momenti favorevoli” vengono identificati come quelli in cui l’output gap è positivo, tenuto conto dell’elasticità delle tasse. In altre parole, il percorso di aggiustamento verso gli OMT è definito in conformità con le diverse fasi del ciclo economico. Viene richiesto, agli Stati che debbano intraprendere questo percorso, un aggiustamento annuale minimo, al netto delle misure una tantum e temporanee ed aggiustato per il ciclo, il cui benchmark è lo 0,5% del PIL. Gli aggiustamenti anno per anno, comunque, potranno essere maggiori o minori a seconda delle fasi del ciclo economico in cui si troveranno.

Mentre nella formulazione originale del PSC solo il Consiglio Europeo (su segnalazione della Commissione Europea) poteva far “scattare l’allarme” per un deficit eccessivo, con la riforma anche la Commissione stessa può farlo, incoraggiando la Stato membro in questione ad intraprendere un percorso di aggiustamento del proprio saldo di bilancio.

Sia il report dell’ECOFIN che i nuovi regolamenti contengono un generico impegno per gli Stati membri a condurre politiche fiscali maggiormente simmetriche. Questo impegno dovrebbe essere espletato perseguendo obiettivi di maggiore rigore nei momenti economicamente favorevoli, al fine di evitare di dover mettere in atto politiche pro-­‐cicliche.

Secondo la nuova formulazione del PSC, al fine di rafforzare l’orientamento alla crescita delle regole fiscali dell’UEM, nella definizione del percorso di aggiustamento verso gli obiettivi di medio termine, devono essere tenute in conto anche le riforme strutturali, anche qualora possano rallentare detto percorso o far deviare temporaneamente gli Stati che lo abbiano intrapreso. Vi sono però alcune condizioni che sono necessarie affinché dette riforme possano essere prese in considerazione, ovvero deve trattarsi di riforme di grande portata, che incidano, direttamente o meno, sulla sostenibilità del bilancio, deve essere garantito il

21 ECOFIN Report, “Improving the implementation of the Stability and Growth Pact”, 2005

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rispetto del tetto del 3% del deficit, che deve ritornare sulla strada indicata dagli OMT nel periodo preventivato e devono essere fornite informazioni in dettaglio all’interno dei programmi di stabilità o convergenza. La motivazione di questa flessibilità riguardante le riforme strutturali è il timore che, dati vincoli troppo stretti alla politica fiscale, gli Stati rinuncino ad intraprendere quelle riforme che, pur avendo costi alti nel breve periodo, migliorano la sostenibilità del bilancio pubblico a lungo termine. In particolare, avendo a mente l’annoso problema europeo dell’invecchiamento della popolazione, il Consiglio Europeo stabilisce che, in occorrenza di riforme del sistema previdenziale che peggiorino il saldo di bilancio sul breve periodo, ma che lo migliorino sul lungo, è consentito al Paese che le mette in atto di deviare (temporaneamente ed in misura coerente con il costo della riforma) sia dal percorso di aggiustamento che dagli obiettivi di medio termine stessi. Quella riforma previdenziale verrà presa in considerazione, ai fini della sorveglianza multilaterale, nei primi cinque anni dalla sua implementazione, secondo una funzione linearmente decrescente che contabilizzerà, del costo netto della riforma, il 100% al primo anno, l’80% al secondo, il 60% al terzo, il 40% al quarto ed il 20% al quinto anno. Modifiche alla parte repressiva Il principio guida alla base delle modifiche alla procedura per i deficit eccessivi è che, per essere applicate, tali norme devono essere semplici, trasparenti ed eque e che, per essere efficace, tale procedura deve essere implementata quanto prima, dopo l’occorrenza del deficit eccessivo. Tuttavia, poiché lo scopo della PDE è quello di assistere lo Stato nel rientro nei parametri del PSC, gli errori di politica economica devono essere distinti da quelli nelle previsioni; di queste differenze si deve tener conto nell’applicazione della PDE. Le modifiche fatte in questo quadro sono di seguito esposte. •

Mentre nella formulazione originale del PSC quest’obbligo non c’era, con la riforma del 2005, nei casi in cui sia superato il tetto del 3% del deficit la Commissione Europea prepara sempre un report che fa da base al dibattito nell’ECOFIN, verifica se nella fattispecie siano rintracciabili le eccezioni previste dai trattati (ovvero se sussistano l’eccezionalità, la temporaneità e la prossimità al 3%) e tiene in conto l’eventuale superamento, da parte del deficit, della spesa pubblica per investimenti e

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degli “altri fattori rilevanti”. Di fatto, dunque, la Commissione Europea dà inizio alla procedura per deficit eccessivi. •

Cambiando radicalmente il criterio dell’originale stesura del PSC esposto nel precedente capitolo e giudicato eccessivamente restrittivo, viene definita recessione eccezionalmente grave quella in corrispondenza di un tasso di crescita negativo prolungato oppure di una perdita di produzione accumulata in un lungo periodo di crescita molto bassa del PIL (confrontata a quella potenziale), cioè a dire lo sviluppo di un grande output gap nel corso degli anni.

Con la riforma, inoltre, s’introduce un altro rilevante elemento di novità. Una volta verificata la sussistenza di temporaneità e prossimità al 3%, infatti, anche altri fattori rilevanti possono essere considerati per la decisione sull’esistenza o meno di un deficit eccessivo e per la determinazione, qualora esso esista, del successivo e conseguente percorso di aggiustamento. In particolare, devono essere presi in considerazione tutti gli sviluppi della posizione di medio termine sia economica (riguardanti la crescita potenziale, le fasi del ciclo e le politiche messe in campo per implementare l’Agenda di Lisbona per la promozione della ricerca, dello sviluppo e dell’innovazione, che poi fallirà miseramente) che di bilancio (riguardanti gli investimenti pubblici, la qualità della finanza pubblica ed il suo consolidamento nei momenti favorevoli, la sostenibilità del debito); ulteriori fattori rilevanti sono quelli segnalati alla Commissione Europea dallo stesso Stato membro. Una formulazione che riapre così platealmente la porta alla discrezionalità dei Governi nazionali, secondo Calmfors (2005), non può che risvegliare l’istinto mai sopito del deficit bias.

Conformemente al dettato dei trattati, con questa riforma si prendono in maggiore considerazione il criterio del debito (prima passato in secondo piano rispetto a quello del deficit) e, dunque, la sostenibilità dello stesso. A questo fine si introduce il concetto di debito “che diminuisce a sufficienza e si avvicina al valore di riferimento [il 60% del PIL, n.d.r.] ad un ritmo soddisfacente”; questo concetto viene applicato in termini qualitativi, tenendo conto delle condizioni macroeconomiche e delle dinamiche del debito. Tuttavia, la “diminuzione sufficiente” non è mai stata definita con precisione. L’ECOFIN si impegna inoltre a stendere raccomandazioni per gli Stati che lo sforino, al fine di favorire il rispetto del criterio del debito. 45


Secondo la nuova formulazione del PSC, i Paesi che abbiano avuto deficit eccessivi devono perseguire, come detto, un aggiustamento annuale minimo, aggiustato per il ciclo ed al netto delle misure una tantum, dello 0,5% del PIL.

La riforma introduce un generale allungamento delle scadenze alle quali vanno presi provvedimenti dopo il verificarsi di un deficit eccessivo, come si vede dalla seguente tabella.

Tabella 3 Scenari teoricamente possibili per la PDE in caso di inadempienza (tempo prima della prima multa) (Calmfors, 2005)

Inoltre è prevista anche una possibile dilazione (da uno a due anni) del termine per la correzione del detto deficit eccessivo in circostanze particolari, ovvero in occorrenza degli altri fattori rilevanti e purché sia stato intrapreso l’aggiustamento annuale minimo (quest’ultima previsione è, ovviamente, ritenuta dalla Commissione Europea un sufficiente bilanciamento all’allungamento della scadenza).

Valutazioni sul PSC riformato Mentre per alcuni questa riforma non significa altro che la presa d’atto del fallimento del PSC nella sua formulazione originale, per altri (Kostoris Padoa Schioppa, 2006) la maggiore flessibilità rende la riforma del 2005, paradossalmente, più in linea con lo spirito del PSC del PSC originale stesso. 46


Altri commentatori ritengono che, data la pluralità di eccezioni alla regola del deficit eccessivo, che ne allargano così sensibilmente le maglie, il PSC, se non de iure perché ancora formalmente applicato in base ai trattati ed ai regolamenti, sia de facto morto. A mio parere, come a parere di Buti e Franco (2005), vi sono sia elementi che migliorano il PSC, sia elementi che lo peggiorano. Nel primo gruppo si trova certamente la maggiore flessibilità nella stesura degli obiettivi di medio termine, che sono calcolati al netto delle misure una tantum, sono aggiustati per il ciclo economico e tengono conto delle differenze tra Paesi, istituzionalizzando finalmente che “one size does not fit all”. Questa maggiore flessibilità, tuttavia, deve comunque fare i conti con il limite stabilito per il deficit annuale degli Stati, ovvero il 3% del PIL, senza escludere alcuna categoria di spesa (cassando, in sostanza, qualsiasi ipotesi di golden rule). Anche la pressione per il miglioramento della trasparenza e della qualità delle statistiche utilizzate (attraverso l’obbligo per gli Stati di stimare e indicare le uscite di cassa con largo anticipo ed un costante ed approfondito monitoraggio del livello di debito) è da considerarsi positiva, così come l’enfasi posta sulla sostenibilità di lungo periodo. Si è dato inoltre alla Commissione Europea il potere non solo di “abbaiare”, come aveva sempre potuto fare nel PSC originale, ma anche di “mordere”22, dando inizio alla procedura per deficit eccessivi. Va posta particolare enfasi, a mio parere, sulla possibilità di tener conto sia delle riforme strutturali che delle cosiddette “passività implicite”; questa novità, pur portando significativi problemi dal lato dell’applicazione e dei suoi criteri, porta all’interno della costruzione del PSC una “logica di lungo periodo” che nella formulazione originale (si veda anche il calcolo del deficit al lordo delle misure una tantum e temporanee ed aggiustato per il ciclo economico) non si aveva. Quello che Josè Manuel Gonzàlez-­‐Pàramo definisce come “un approccio maggiormente complesso alla sorveglianza fiscale”, dunque, a mio parere riconosce l’effettiva complessità insita nella valutazione dell’economia degli Stati e non può che essere, dal punto di vista della teoria economica, un passo avanti. Vi sono tuttavia altri aspetti della riforma che peggiorano l’impianto complessivo del PSC. In primo luogo, l’allungamento delle scadenze per la procedura per deficit eccessivi e la complessità che vi è stata aggiunta rendono la PDE meno certa ed, in definitiva, meno credibili le minacce di sanzioni. 22 Lessico utilizzato da Coeurè e Piasni-­‐Ferry (2005), tratto da Kostoris padoa Schioppa, F., “The 2005 Reform of the Stability and Growth Pact: Too Little, Too Late?”, BEER paper n.6, 2006, pag. 42

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Secondo Buti et al. (2005), la definizione di una così ampia gamma di altri fattori rilevanti per la non applicazione delle sanzioni può fornire agli stati delle comode “vie di fuga” in caso di deficit superiori al tetto stabilito del 3% del PIL. Inoltre, come afferma Calmfors (2005), la riforma porta la correzione dei deficit eccessivi (se ancora ve ne sono, dato il minor valore attribuito al limite del 3% del PIL) ad essere un processo “complesso, opaco ed inapplicabile”23. A questo proposito, non aiuta certo l’enfasi posta su variabili come la crescita potenziale e l’output gap che, ancorché pregne di significato economico, sono di difficilissima quantificazione nella realtà ed aggiungono al calcolo, dunque, un notevole margine di incertezza. L’accresciuta discrezionalità nell’applicazione delle sanzioni, inoltre, non solo rende le sanzioni stesse meno credibili e più soggette al “mercato delle vacche” di cui si è detto, ma anche qualora queste venissero applicate, porterebbero con sé anche un maggior rischio di conflitti politici nell’UEM, che sarebbe invece limitato con delle sanzioni automaticamente comminate agli Stati in violazione dei parametri stabiliti. Ciò che, tuttavia, più spaventa della riforma del 2005 è la dimostrazione che le regole sono stilate e fatte rispettare dai medesimi soggetti, dimostrazione che ha portato la loro credibilità ai minimi storici. Si è persa, a mio parere, con questa riforma l’occasione di dare alle regole dell’UEM un organismo indipendente, di respiro e legittimazione democratica europei, che le applichi e le faccia rispettare.

23 Calmfors, L., “What Remains of the Stability Pact and What Next?”, SIEPS 2005:8, 2005, pag. 68 48


Capitolo III: le riforme del SIx Pack e del Fiscal Compact Perché la riforma del 2011? Durante il periodo di convergenza delle diverse economie verso i criteri di Maastricht, pur registrando progressi positivi nei saldi di bilancio e negli stock di debito di diversi Stati e nonostante l’istituzione dei meccanismi “virtuosi” dettati dal Patto di Stabilità e Crescita, non si provvide a fornire loro la necessaria esecutività, per la quale sarebbero stati necessari, come detto, automatismi ed istituzioni indipendenti. La crisi finanziaria che riempie il dibattito economico, le rassegne stampa ed i pensieri degli economisti di tutta Europa e non solo, affonda le sue radici nei primi dieci anni della moneta unica e delle sue debolezze. In quel decennio, sparito il “bastone” dell’esclusione dall’euro, sostituito solo dal “fuscello” del Patto di Stabilità e Crescita, le politiche fiscali furono rilassate, in particolare durante il breve periodo di recessione dei primi anni 2000, quando i bassi tassi d’interesse mantenuti dalla BCE vennero utilizzati più a fini di riduzione delle imposte (ed aumenti delle uscite) che per dare solidità ai bilanci pubblici. I tentativi di revisione, come visto, non mancarono, ma furono adottati in risposta a drammatiche crisi di credibilità della zona euro e trasformarono il PSC in un accordo estremamente complesso e dalla dubbia applicabilità. Nel 2010, in risposta alla grave crisi economica e finanziaria mondiale, i Governi dei Paesi europei adottarono una serie di misure espansive volte da un lato alla stabilizzazione del sistema finanziario, dall’altro al supporto delle rispettive economie. Questo portò ad un significativo peggioramento del deficit medio complessivo dell’UEM, che passò da circa l’1% al 6% del PIL europeo del 2010, e del debito medio complessivo, che passò da circa il 65% al 85% del PIL europeo del 2010. Di fatto, questa fu l’ennesima prova (ma era proprio necessaria?) dell’inconsistenza delle regole del Patto di Stabilità e Crescita e della loro risibile credibilità. Particolarmente critiche furono le situazioni debitorie di Grecia, Irlanda e Portogallo, che furono costretti a ricorrere ad aiuti finanziari esterni.

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Si istituì dunque un quadro istituzionale di supporto finanziario europeo agli Stati membri in crisi. Esso si articolò dapprima in due diversi istituti, entrambi finanziati dagli Stati dell’unione e giudicati AAA dalle agenzie di rating: •

European Financial Stability Mechanism (EFSM): dotato di una “potenza di fuoco” di 40 miliardi di euro, è giuridicamente basato su di un regolamento (il 407/2010) e si trova dunque all’interno del quadro istituzionale dell’Unione Europea. È stato utilizzato per le crisi irlandese e portoghese.

European Financial Stability Facility (EFSF): costituito come società di diritto lussemburghese, dunque fuori da quadro istituzionale dell’Unione Europea, dispone di 440 miliardi ed è stato utilizzato per le crisi irlandese, portoghese e (con un incremento dei fondi a disposizione) greca.

Il compito di queste due strutture, dal 2013, sarà svolto dal definitivo, qualora approvato, European Stability Mechanism (ESM), un vero e proprio ente finanziario di diritto internazionale. Poiché, tuttavia, vi era vasto consenso sul fatto che una solida governance fosse fondamentale per il successo o meno delle politiche fiscali ed un cambio di passo su questo punto fosse necessario per i motivi esposti nei precedenti capitoli, gli Stati raggiunsero, attraverso molteplici dispositivi, infine confluiti nel cosiddetto Fiscal Compact, un accordo sulle modifiche da apportare all’area euro congegnato non solo come incentivo ad una corretta politica fiscale, ma anche come contrappeso e contraccambio per l’istituzione dell’ESM per l’accesso al quale la ratifica del Fiscal Compact ed il rispetto degli impegni in esso contenuti sono condizioni imprescindibili. Vale la pena, dunque, spiegarne nel dettaglio i contenuti.

I contenuti della riforma della governance europea Come accennato, la riforma della governance europea non si compone di un solo provvedimento, ma di una molteplicità di testi. Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, gli Stati più virtuosi fiscalmente, preoccupati delle conseguenze sulla moneta unica della crisi dei debiti sovrani, avanzarono le prime proposte di riforma del Patto di Stabilità e Crescita che culminarono, nel febbraio del 2011, nel Patto di competitività proposto da Francia e Germania. Pur non venendo approvato, questo fornirà una solida base di discussione per il cosiddetto Six Pack, un pacchetto di riforme formato da cinque regolamenti ed una direttiva, approvato dal Parlamento Europeo nel settembre del 2011 ed entrato in vigore nel dicembre dello stesso 50


anno. Poiché i regolamenti che ne fanno parte si richiamano agli articoli 136 e 121 e la direttiva all’articolo 126 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, si può affermare che il Six Pack è del tutto inserito nel quadro legislativo dell’UE. Tuttavia, poiché il pensiero economico dominante nelle classi dirigenti politiche e finanziarie europee individuava nella spesa pubblica la radix omnium malorum del continente, si decise che il Six Pack non bastava, ma che doveva essere integrato e rafforzato. A questo scopo si predispose il Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance nell’unione Economica e Monetaria, volgarmente detto Fiscal Compact. Poiché la procedura di revisione dei trattati dell’Unione Europea esige il consenso di tutti, ma in occasione della stesura del Fiscal Compact il Regno Unito (che pretendeva l’esclusione della Città di Londra dalla regolamentazione dei mercati finanziari e dall’applicazione di una eventuale tassa sulle transazioni finanziarie) e la Repubblica Ceca si opposero, si scelse la strada di un accordo di diritto internazionale separato e, dunque, intergovernativo. Questo venne approvato dal Consiglio Europeo il 30 gennaio 2012 e sottoscritto da 25 Stati membri dell’Unione Europea (esclusi, dunque, Regno Unito e Repubblica Ceca) il 2 marzo 2012; l’entrata in vigore è prevista per il 1 gennaio 2013, purché il Trattato, a quella data, sia stato ratificato, secondo le diverse procedure nazionali, da almeno 12 Stati membri della zona euro. Poiché il Fiscal Compact, pur rafforzandone spesso le previsioni, è in larga parte confermativo delle regole del Six Pack, è opportuno, distinguendone talvolta le previsioni, trattarli congiuntamente. Nella riforma della governance europea si possono rintracciare alcune aree d’intervento, che verranno esaminate nei paragrafi a seguire. Miglioramento del coordinamento delle politiche economiche La crisi dei bilanci pubblici in cui si trova l’Europa intera è stata letta da più parti come una crisi di coordinamento delle politiche di bilancio nazionali ed al fine di migliorare quest’ultimo si è provveduto all’approvazione di alcuni provvedimenti24. •

Semestre Europeo giuridicamente codificato: al fine di dare ulteriore impulso alla sorveglianza multilaterale, dalla prima metà del 2011 gli Stati membri coordinano ex ante ed in maniera forte le loro politiche economiche e condividono con gli altri Stati

24 “Le parti contraenti si impegnano ad adoperarsi congiuntamente per una politica economica che favorisca il buon funzionamento dell'unione economica e monetaria e la crescita economica mediante una convergenza e una competitività rafforzate.” (Art. 9 del Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance nell’unione Economica e Monetaria) 51


membri le loro intenzioni per quanto riguarda le riforme strutturali, con la possibilità di sanzioni qualora non ottemperino agli obblighi assunti25. Sulla base dell’Indagine Annuale sulla Crescita partorita dalla Commissione Europea a marzo di ogni anno, che identifica le maggiori criticità tanto sul mercato comune che sui singoli mercati nazionali, i diversi Governi presentano entro un mese le loro strategie di medio termine attraverso i Programmi di Stabilità e Convergenza ed i Piani Nazionali di Riforma. Basandosi sulle valutazioni che di essi fa la Commissione Europea, nei mesi di giugno e luglio di ciascun anno il Consiglio Europeo formula opinioni e rilievi sui Programmi, che lo Stato membro deve recepire nella definizione del proprio bilancio annuale, ovvero nell’approvazione della legge finanziaria, che de ve avvenire durante il cosiddetto “semestre nazionale”. •

Euro Summit: incontro dei Capi di Stato o di Governo delle parti contraenti la cui moneta è l’euro, assieme al Presidente della Commissione Europea ed, invitato, il Presidente della Banca Centrale Europea, che si affianca all’ECOFIN (il cui Presidente può comunque essere invitato, come può esserlo il Presidente del Parlamento Europeo), essendone in parte un sottogruppo, “per discutere questioni connesse alle competenze specifiche che le parti contraenti la cui moneta è l'euro condividono in relazione alla moneta unica, altre questioni concernenti la governance della zona euro e le relative regole, e orientamenti strategici per la condotta delle politiche economiche per aumentare la convergenza nella zona euro”26. L’Euro Summit elegge a maggioranza semplice un Presidente (che orientativamente sarà lo stesso del Consiglio Europeo), che oltre ad assicurare “la preparazione e la continuità delle riunioni del Vertice euro, in stretta cooperazione con il presidente della Commissione Europea”27, è tenuto a riferire al parlamento Europeo dopo ogni seduta del vertice.

Rafforzamento della disciplina fiscale Al fine di rafforzare la disciplina fiscale degli Stati, sono state introdotte alcune modifiche al precedente quadro normativo mediante sia il Six Pack che il Fiscal Compact.

25 “Le parti contraenti assicurano di discutere ex ante e, ove appropriato, coordinare tra loro tutte le grandi riforme di politica economica che intendono intraprendere”. (Art. 11 del Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance nell’unione Economica e Monetaria) 26Art. 12 del Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance nell’unione Economica e Monetaria 27 ibidem 52


Il criterio del debito, sempre dichiarato e mai reso applicabile nelle precedenti stesure, viene reso operativo. Infatti, mentre fino ad allora il limite era da considerarsi inteso come una prospettiva di medio periodo supportata da credibili Programmi di Stabilità o Convergenza, con le riforme più recenti i Paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 60% sono tenuti a rientrare al di sotto della soglia stabilita al ritmo di 1/20 dell’eccedenza all’anno. Qualora il ritmo stabilito di riduzione del debito non venga rispettato, la Commissione Europea potrà avviare una procedura per deficit eccesivo nei confronti dello Stato membro. Una modifica delle regole fiscali in questo senso può essere positiva nella misura in cui, dando maggior rilievo al debito ed (implicitamente) minor rilievo ai deficit annuali, pur restando coerente con l’obiettivo del mantenimento della solidità dei conti pubblici, non vincola pesantemente l’azione dei Governi.

Il saldo del bilancio pubblico deve essere in pareggio od in avanzo (sparisce il concetto di “prossimità al pareggio”). Questa regola si considera rispettata “se il saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione è pari all'obiettivo di medio termine specifico per il Paese, quale definito nel Patto di Stabilità e Crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato”

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o dell’1% nel caso di un Paese con un rapporto debito/PIL

significativamente inferiore al 60% o con un basso rischio in merito alla sostenibilità della finanza pubblica. Poiché si parla di saldo di bilancio strutturale e non pubblico, il limite per il deficit del 3% del PIL rimane valido. In quel “strutturale”, però, si annidano numerosi problemi. Infatti, ancorché intuitivamente semplice, il concetto di “bilancio strutturale” è puramente teorico ed estremamente complicato ed opaco da quantificare, poiché molto dipende dalla contabilizzazione (discrezionale) di molte poste di bilancio, nonché dall’identificazione di ciò che si intende per “ciclo economico” e “PIL potenziale”, in riferimento ad un particolare Stato membro. Ponendo la variabile obiettivo in termini “strutturali”, dunque, la si rende difficilmente osservabile e soggetta alle preferenze, in fatto di misurazione, dei diversi Paesi. Le disposizioni di cui a questo punto devono produrre effetti sul diritto nazionale degli Stati membri antro un anno dall’entrata in vigore del Fiscal Compact, con disposizioni “costrittive e preferibilmente di natura costituzionale”. 28 Art. 3 del Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance nell’unione Economica e Monetaria 53


Proprio sul vincolo del pareggio di bilancio da inserirsi in Costituzione si scatenarono, in tutto il mondo, le più ferventi polemiche; esse facevano perno su una preoccupazione in particolare: quella per cui, dovendo i Governi affrontare i più diversi shock e i necessari cambiamenti nelle politiche, un provvedimento del genere avrebbe gravemente limitato la loro libertà di movimento e di risposta. In sostanza, la regola del pareggio si rifà all’equivalenza ricardiana per la quale, data la perfetta razionalità dei risparmiatori (nel primo capitolo si è visto come, a proposito delle loro preferenze intertemporali, quest’ipotesi sia quantomeno “eroica”) e la loro perfetta informazione, un disavanzo del bilancio pubblico oggi farebbe loro presagire un aumento delle imposte domani allo scopo di finanziare il servizio del debito; questo porterebbe ad un aumento del risparmio ed ad una contrazione del consumo. Al contrario, con il bilancio pubblico in pareggio, le aspettative dei risparmiatori cambiano, con un abbassamento dei tassi d’interesse, con effetti positivi sugli oneri per il servizio del debito pubblico. Al profilarsi di una modifica dello stesso tenore nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, su proposta del Partito Repubblicano, poi bocciata dall’amministrazione progressista, 8 economisti tra cui 5 premi Nobel promossero un appello29 contro il pareggio di bilancio in Costituzione le cui critiche possono essere in larga parte traslate sul terreno europeo. Si dice in sostanza che non solo, data l’indistinguibilità nel bilancio federale di spesa corrente e spesa capitale, quest’ultima verrebbe sacrificata ai fini del raggiungimento del pareggio (questa critica, come si è visto, non è nuova a chi ha letto della genesi del PSC), ma anche che un vincolo così stringente alla spesa pubblica potrebbe, in fasi critiche del ciclo economico, portare ad una vera e propria recessione. Inoltre, come riportato in Whelan (2012), poiché il rapporto debito/PIL di una nazione converge al rapporto tra deficit percentuale medio e tasso medio di crescita del PIL nominale, una regola come quella del deficit strutturale massimo allo 0,5% porterebbe ad un livello del debito largamente al di sotto di quello considerato sostenibile. •

Nel caso di deviazioni significative dall’obiettivo di medio termine o nel percorso di avvicinamento a tale obiettivo, gli Stati dovranno garantire meccanismi automatici di

correzione dei detti squilibri, elaborati ed istruiti a livello nazionale, al fine di 29 Il testo si può trovare qui http://www.cbpp.org/cms/index.cfm?fa=view&id=3543, tradotto qui http://www.unita.it/mondo/usa-­‐pareggio-­‐di-­‐bilancio-­‐br-­‐nobel-­‐a-­‐obama-­‐noi-­‐contrari-­‐ 1.322464 54


correggerli in un periodo di tempo definito30. Non si può non notare che, al fine di ottemperare a queste disposizioni, l’unica misura praticabile sarebbe una riduzione drastica della spesa per gli stipendi pubblici da attuarsi mediante un’effettiva diminuzione dei trasferimenti (provvedimento politicamente difficilissimo e, per usare un eufemismo, poco attento al lato della domanda) o mediante una diminuzione della tassazione sugli stipendi del settore pubblico, lasciandone invariato l’ammontare netto (ricorrendo così a quel maquillage contabile oggetto degli strali dei rigoristi del vecchio continente e che è una ratio fondamentale del Fiscal Compact). •

Allo scopo di prevenire, inoltre, un aumento di spesa pubblica mediante entrate occasionali o cicliche, si è stabilito nel Six Pack che, secondo un principio di politica di bilancio prudente, il tasso di crescita della spesa pubblica dovrà essere inferiore a quello del PIL di medio periodo (10 anni) valutato prudenzialmente, oppure finanziato con tagli in altri settori o tramite l’aumento delle imposte. Di fatto, questa previsione estende l’applicazione del PSC anche ai singoli capitoli di bilancio, competenza fino ad oggi gelosamente custodita dagli Stati nazionali, rendendo di difficile praticabilità politica un’opzione di questo genere.

Qualora la Commissione Europea, nella sua attività di sorveglianza sui meccanismi di correzione posti in atto dai diversi Stati, sul loro orizzonte temporale e sull’adeguatezza delle istituzioni indipendenti che ne sono responsabili sul piano nazionale, rilevi l’inottemperanza alle disposizioni dei trattati od alle sue stesse indicazioni, uno o più Stati possono fare ricorso alla Corte di Giustizia Europea. Questo può essere fatto da uno o più Stati anche a prescindere dal parere della Commissione. In ogni caso, la sentenza della Corte è vincolante e può prevedere una sanzione di cui al paragrafo successivo.

Miglioramento dell’efficacia delle sanzioni Memori delle mancate sanzioni a Francia e Germania, le istituzioni europee hanno cercato di rafforzare l’enforcement delle regole e delle decisioni prese attraverso sia una modifica al meccanismo di approvazione, sia una revisione del sistema stesso delle sanzioni.

30 “Qualora si costatino deviazioni significative dall'obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo, è attivato automaticamente un meccanismo di correzione. Tale meccanismo include l'obbligo della parte contraente interessata di attuare misure per correggere le deviazioni in un periodo di tempo definito.” (Art. 3 del Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance nell’unione Economica e Monetaria) 55


Reverse Qualified Majority Voting (RQMV): rivoluzione copernicana in fatto di comminazione delle sanzioni, decise dalla Commissione Europea, da parte del Consiglio Europeo. Mentre in passato, per la loro messa in pratica era necessaria una maggioranza qualificata (rappresentante sia la maggioranza degli Stati che la maggioranza della popolazione, approssimativamente del 75%), grazie sia al Six Pack che al Fiscal Compact31, le sanzioni diventano quasi automatiche, poiché il Consiglio è tenuto a darvi seguito a meno del raggiungimento, in seno allo stesso, di una maggioranza qualificata contraria. Come risulta chiaro, questo rende più difficile, per gli Stati che eccedano i criteri del PSC, evitarne le sanzioni. Tuttavia, come nota Fracasso (2010) “l’esperienza del Fondo Monetario Internazionale (FMI) suggerisce che quando le decisioni sanzionatorie prese sulla scorta di analisi tecniche divengono automatiche, allora la battaglia politica si sposta sulla fase ‘tecnica’: la considerazione di una lunga serie di fattori rilevanti (attenuanti o aggravanti) nella valutazione degli obiettivi e delle politiche di bilancio e dell’andamento del debito potrebbe creare forti tensioni tra Commissione e Consiglio, e dentro il Consiglio.”

Durante la cosiddetta “parte preventiva”, qualora la Commissione Europea, mediante benchmark legati alla spesa pubblica, verifichi la mancata consistenza delle politiche economiche di uno Stato membro con i suoi obiettivi di medio termine o con la correzione delle proprie politiche in caso d’inadempienza, anche in caso di rispetto dei vincoli previsti dal PSC, la pena comminata in maniera quasi automatica sarà il deposito fruttifero dello 0,2% del PIL dello Stato in questione.

Durante la cosiddetta “parte repressiva”, una volta che nei confronti dello Stato è stata aperta la procedura per deficit eccessivi, il Consiglio richiede (sempre secondo il RQMV) l’imposizione di un deposito infruttifero dello 0,2% del PIL dello Stato in questione. Tale deposito potrebbe essere incrementato nel caso di ripetuti fallimenti nel tentativo di raggiungere gli obiettivi di medio termine e potrebbe, in fine, essere tramutato in una multa dell’ammontare massimo dello 0,5% del PIL dello Stato membro inadempiente.

31 “Le parti contraenti la cui moneta è l'euro si impegnano a sostenere le proposte o le raccomandazioni presentate dalla Commissione europea, ove questa ritenga che uno Stato membro dell'Unione europea la cui moneta è l'euro abbia violato il criterio del disavanzo nel quadro di una procedura per i disavanzi eccessivi. Tale obbligo non si applica quando si constati tra le parti contraenti la cui moneta è l'euro che la maggioranza qualificata di esse […] si oppone alla decisione proposta o raccomandata”. (Art. 7 del Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance nell’unione Economica e Monetaria) 56


Qualora uno Stato non ottemperi alle disposizioni riguardanti i meccanismi automatici di correzione degli squilibri macroeconomici e un’altra parte contraente faccia ricorso alla Corte di Giustizia, quest’ultima può comminare la sanzione massima, allo Stato interessato, dello 0,1% del suo PIL da versarsi nell’ESM (se lo Stato in questione fa parte della zona euro) o al bilancio generale dell’Unione Europea (se lo Stato in questione non fa parte della zona euro). Resta irrisolta, tuttavia, la questione della stessa identificazione dello squilibrio, oltre che della definizione delle politiche economiche che lo risolverebbero: i problemi di trade-­‐off che emergerebbero potrebbero portare a scelte biased, che cioè rischierebbero di aggravare, anziché correggere, gli squilibri oggetto d’attenzione.

Le innovazioni riguardanti le sanzioni hanno sollevato qualche perplessità sia per la loro scarsa credibilità, data l’esperienza passata con Francia e Germania, sia per quanto riguarda le conseguenze economiche di imporre a Stati già in difficoltà con i propri bilanci pubblici ulteriori sanzioni. Miglioramento della sorveglianza sulle politiche economiche Memori del caso delle statistiche fraudolente presentate dal Governo Greco negli anni passati, le istituzioni europee, in particolare con il Six Pack, hanno posto particolare attenzione alla sorveglianza che, da Bruxelles, va fatta sui bilanci pubblici e sulle politiche economiche dei diversi Stati membri. •

Viene elaborato un “sistema di allerta precoce” basato su una tabella di dieci indicatori delle maggiori fonti di squilibri macroeconomici. Qualora vi fossero violazioni in qualcuno di questi indicatori (e nei limiti contestualmente stabiliti), la Commissione inizierebbe studi più approfonditi riguardo l’effettiva presenza di squilibri macroeconomici problematici nel Paese in questione. Di seguito sono riportati gli indicatori utilizzati. o La media, per i tre anni precedenti, del saldo del conto corrente come percentuale del PIL, con una soglia massima del +6% ed una minima del -­‐4%; o La posizione netta degli investimenti esteri come percentuale del PIL, con una soglia minima del -­‐35%; o Variazione percentuale delle quote di mercato dell’export dei 5 anni precedenti misurate in valuta, con una soglia minima del -­‐6%;

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o Variazione percentuale del costo nominale per unità di lavoro dei tre anni precedenti, con un limite del 9% per i paesi che fanno parte della zona euro e del 12% per i Paesi che no ne fanno parte; o Variazione percentuale dei tassi di cambio effettivi reali dei 3 anni precedenti basata sui deflatori HICP/CPI, relativamente a 35 diversi Paesi industrializzati con soglie del +/-­‐ 5% per i paesi che fanno parte della zona euro e del +/-­‐ 11% per quelli che non ne fanno parte; o Debito del settore privato come percentuale del PIL, con una soglia massima del 160%; o Flusso di credito del settore privato come percentuale del PIL, con una soglia massima del 15%; o Variazioni anno-­‐per-­‐anno dei prezzi degli immobili basati sul deflatore dei consumi Eurostat, con una soglia massima del 6%; o Debito delle amministrazioni pubbliche in percentuale al PIL, con una soglia massima al 60%; o Media per i 3 anni precedenti del tasso di disoccupazione, con la soglia massima del 10%. Nonostante sia positivo l’emergere, accanto a consueti criteri di solidità come quello del debito, di criteri riguardanti il debito del settore privato (essendo questo strettamente correlato a quello del settore pubblico ed avendo giocato un ruolo fondamentale nella crisi finanziaria del 2008) e, sia pur indirettamente, il lato della domanda (in particolare, la disoccupazione ed il valore degli immobili, con il conseguente effetto-­‐ricchezza), come nota Mazzocchi (2011), la componente finanziaria viene “di fatto trascurata e considerata come scindibile dai problemi di squilibrio macroeconomico”. Questa è “quasi un’ammissione d’impotenza da parte di Governi nazionali ed autorità europee di fronte allo strapotere delle lobby bancarie: non potendo controllare direttamente il settore finanziario, si cerca di monitorarne gli effetti macroeconomici […] Non si fa menzione, inoltre, della diseguaglianza di reddito tra le possibili fonti di squilibrio, sebbene lo stesso FMI le abbia inserite tra le fonti di squilibrio a livello nazionale.” •

È stata prevista l’’introduzione di criteri comuni per i bilanci di tutti i paesi dell’Unione Europea, in particolare per quanto riguarda statistiche di finanza pubblica, previsioni macroeconomiche, sistemi contabili e procedure di bilancio. Il ricorso ad

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organismi indipendenti e non-­‐governativi per la generazione di stime e pareri, pur essendo caldeggiato, non è reso obbligatorio. Manca tuttavia, come rileva Mazzocchi (2012), l’attribuzione ad un organismo europeo (e.g. Eurostat) dei compiti di auditing, l’unica scelta che probabilmente avrebbe garantito maggiore affidabilità alle informazioni. •

È stata approvata una riforma della vigilanza finanziaria nell’Unione Europea con la creazione del European System of Financial Supervision (ESFS). Sono stati istituiti, a tale scopo, quattro diversi organi. o European Banking Authority (EBA): elabora il corpus unico di norme in materia di vigilanza interbancaria applicabile a tutti i 27 Stati membri e si assicura che le prassi di vigilanza siano uniformi in tutta l'Unione. 32 o European Insurance and Occupational Pensions Authority (EIOPA): si occupa della vigilanza del settore assicurativo. o European Securities and Market Authority (ESMA): si occupa della vigilanza sui mercati; in particolare avrà poteri di controllo sulle agenzie di rating e può indagare od intervenire nei mercati considerati più a rischio (e.g. derivati, vendite allo scoperto). Accanto a queste autorità di vigilanza settoriali, è stato creato anche l’European Systemic Risk Board (ESRB) che, al fine di favorire il funzionamento armonico del mercato interno, sotto la guida della BCE, dovrà vigilare e lanciare allarmi sui rischi per la stabilità della zona euro.

Alcune considerazioni sulle più recenti riforme Pur avendo accennato, durante la trattazione del capitolo, ad alcune delle principali critiche rivolte alle recenti riforme del sistema di regole fiscali che l’Unione Europea impone agli Stati

32 Il 12 settembre 2012 la Commissione Europea ha proposto “l’attribuzione di nuovi poteri alla BCE in materia di vigilanza bancaria nell’ambito di un’Unione bancaria”, conferendole ampi poteri di vigilanza su tutte la banche della zona euro, “in particolare quelli essenziali per preservare la [loro] stabilità finanziaria e individuare i rischi per la [loro] solidità economico-­‐ finanziaria […]. La BCE assumerà la responsabilità di compiti come il rilascio delle autorizzazioni bancarie, la conformità ai requisiti patrimoniali e in materia di leva finanziaria e liquidità, nonché la vigilanza sui conglomerati finanziari. La BCE potrà intervenire tempestivamente nel caso in cui una banca violi o rischi di violare i requisiti patrimoniali chiedendo alla stessa di adottare misure correttive”. 59


membri, vale la pena completare il quadro, esplorando i diversi punti di vista che si incontrano nel più recente dibattito. Vi è innanzitutto un nutrito fronte “rigorista” che, ponendo l’attenzione sulla necessaria indipendenza della BCE dai Governi nazionali ed, in ultima istanza, delle decisioni in materia di politica fiscale dagli organismi “politici” (dimenticando, talvolta, come essi siano anche “politicamente legittimati”), ritiene che il Fiscal Compact, pur andando nella direzione giusta, sia ancora “troppo poco”. Da questa parte “della barricata” troviamo gli accademici ed i policy-­‐makers meno flessibili e più ortodossi ai dettami della macroeconomia neoclassica, tanto da essersi guadagnati il nome, sulla scorta dell’orientamento neoliberista emerso alla fine degli anni ’80 del 900 e soprannominato in maniera simile, di “Bruxelles Consensus”. Salvo sporadici inviti ad un “mutamento del paradigma” nella somministrazione delle regole fiscali necessarie per la solidità fiscale dell’eurozona, infatti, Schknecht et al. (2011) notano come “le recenti disposizioni lasciano un considerevole grado di discrezionalità politica ed amministrativa in ciascuna tappa del processo”. Come si è già notato nel primo capitolo, una cessione di sovranità completa da parte di organismi (i Governi) democraticamente legittimati a favore di altri (la Commissione Europea) la cui legittimazione è più ardua da vedere, potrebbe generare scontento nella popolazione ed essere, in definitiva, un ostacolo al processo d’integrazione europea. Vi è un altro fronte, quello che semplificando potremmo definire “più attento al lato della domanda”, che pone l’accento innanzitutto sul fatto che il Fiscal Compact, per com’è congegnato, non tiene conto delle differenze, dei potenziali e delle interdipendenze dei diversi Paesi diventando, per dirla con Manasse (2012) è “un ‘corsetto’ recessivo imposto a tutti, chi potrebbe averne bisogno e chi no, risultando in un peggioramento per tutti”. Come nota Tamborini (2011), inoltre, le forti interdipendenze presenti tra le economie del nostro continente possono avere effetti perversi sui programmi di consolidamento del debito posti in essere dai diversi Stati: come possono avere successo sforzi simultanei di riduzione del debito in Stati interdipendenti ed eterogenei? Sembra invece che, sempre secondo Tamborini (2011), “ci sia la possibilità che una restrizione fiscale non coordinata porti ad una recessione complessiva di tutto il continente, peggiorando le condizioni per il servizio del debito di tutti gli Stati”. Inoltre, come nota Gros (2012), questo patto è stato sopravvalutato poiché, nella realtà non costituisce un primo passo verso l’unione fiscale, ma si limita all’istituzione di nuovi vertici 60


intergovernativi, senza dare all’Unione Europea un primo organismo, politicamente e democraticamente legittimato, di elaborazione del bilancio comunitario, che ponga fine all’idiosincrasia, tipica degli ultimi anni del processo d’integrazione europea, per la quale la politica monetaria è comune, mentre le politiche fiscali sono mantenute a livello nazionale. La medesima bipartizione del campo che si può semplificare in “rigore” e “sostegno alla domanda” si può rintracciare anche nelle prime proposte per andare oltre al Fiscal Compact. Appartengono al primo fronte le proposte di Schknecht et al. (2011) che comprendono l’approvazione obbligatoria da parte dell’ECOFIN sia degli OMT in deficit (a maggioranza qualificata) che dei deficit pianificati superiori al 3% del PIL (all’unanimità), l’amministrazione controllata dei Paesi che facciano ricorso al sostegno dell’ESM 33 e l’istituzione, all’interno del quadro della Commissione Europea, di un European Budgetary Office fortemente indipendente ed al quale potrebbe essere delegata la gestione delle risorse dell’ESM. Dall’altro “lato della barricata”, particolare interesse desta la proposta di De Grauwe (2011) di dare alle BCE la responsabilità di prestatore di ultima istanza, ovvero di fornire liquidità con operazioni di mercato aperto a sostegno dei debiti sovrani in crisi. In effetti, sostiene De Grauwe, già “nell’ottobre del 2008 la BCE ha scoperto che, nel mestiere della banca centrale, c’è di più della mera stabilità dei prezzi”. Infatti all’epoca la BCE fece da prestatore di ultima istanza al settore bancario privato onde salvarlo dal fallimento. Questa ipotesi, però, pare essere spesso scartata nei riguardi dei debiti sovrani per la paura da un lato dell’inflazione generata da un aumento dell’offerta di moneta (quando in realtà, in caso di insolvenza, non farebbe altro che fermare il processo deflattivo) e dall’altro dell’incentivo all’azzardo morale che si genererebbe da parte dei singoli Stati. In giorni in cui al centro del dibattito politico ed economico ci sono le politiche di rigore richieste dalle istituzioni europee a diversi Stati membri, è difficile non intravedere come, dietro al dibattito sull’efficacia o meno del Fiscal Compact, oltre che sulla sua riforma, si celi 33 “L’amministrazione controllata è necessaria nel caso in cui gli Stati non abbiano il consenso politico sufficiente a supporto delle riforme” (Schknecht et al. (2011)). Gli autori sembrano dimenticare come, dai referendum sul Trattato di Lisbona fino alle ultime elezioni in Francia, Italia ed Olanda la retorica antieuropeista dei “tecnocrati di Bruxelles” privi di una legittimazione democratica sia stata uno dei nemici principali del processo di integrazione europea, forse più della scarsa disciplina fiscale di alcuni Stati. 61


un più ampio dibattito sull’austerità e sui suoi effetti sia sulle diverse economie che compongono l’Unione Europea che sulla tenuta della stessa. Come detto, dietro l’irrobustirsi delle regole fiscali per i singoli Stati, vi è la precisa convinzione che dalla presente crisi ci si risolleverà una volta che, costatati i progressi nel percorso di consolidamento delle finanze pubbliche, i consumatori europei, sulla scorta della rinnovata fiducia nelle politiche di bilancio virtuose dei propri Governi e nella prospettiva di minori future imposte, aumenteranno i consumi imprimendo a tutto il sistema economico una spinta nella direzione della crescita. È questa idea che, in un’intervista a Repubblica del giugno 2010, porta Jean Claude Trichet, all’epoca Presidente della Banca Centrale Europea a rispondere alla domanda della giornalista che gli chiedeva se la Germania facesse bene o male a chiedere agli altri Paesi membri un’aspra politica di austerity, “È importante che tutti i Paesi con difficoltà di bilancio dimostrino di realizzare politiche credibili nel lungo periodo: aumenta la fiducia di famiglie, investitori ed imprese e consolida la ripresa”. Non bastasse la constatazione, a mio parere in verità piuttosto scontata, che le aspettative dei consumatori non sono del tutto razionali, ma rispondono in maniera diversa e spesso imprevedibile agli annunci dei Governi, c’è anche la lettura quotidiana dei dati provenienti da diversi Stati tra cui l’Italia a renderci quantomeno perplessi di fronte a simili affermazioni. Ciò che colpisce è la veemenza con cui, anche di fronte ai dati empirici, queste convinzioni si rafforzano e si affermano; sembra quasi di essere di fronte all’apologeta cristiano Tertulliano che, nel II secolo d.C. scriveva “credo quia absurdum” a dire che certi dogmi (nel suo caso, quelli della religione) vanno affermati con tanta più forza quanto più sono incomprensibili alla ragione. Non di ragione e fede si parla qui, ma del benessere e delle vite dei cittadini dell’Unione e, in definitiva, della sua stessa tenuta.

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Conclusioni Quando l’ex Presidente della Repubblica francese François Mitterrand affermava che "l’economia è un’invenzione della destra e degli alti funzionari per limitare i margini di manovra del potere politico"

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non poteva certo presagire le forti limitazioni alla capacità

d’indebitamento dei singoli Stati cui avrebbero portato il patto di Stabilità e Crescita e le sue successive riforme. Tuttavia aveva certo indovinato, da raffinato statista qual era, che l’economia e la finanza avrebbero avuto un ruolo sempre maggiore nella determinazione delle scelte politiche. Se davvero alla sede politica compete la composizione dei diversi interessi che permeano la società, a quel tavolo, nella sua declinazione europea, si sarebbe presto seduto un nuovo invitato “di peso”: la tutela del mercato e della moneta unici. Tutta la storia delle regole fiscali comuni per i Paesi che hanno adottato l’euro si svolge sullo sfondo del dibattito, esacerbato nelle fasi di crisi, tra chi vedeva (e tuttora vede) le limitazioni alla potestà fiscale degli Stati come una virtù che di per sé supporta la crescita e chi invece la ritiene null’altro se non una condizione necessaria per la stabilità della moneta unica, da contemperarsi, però, con le esigenze dell’economia reale e, non ultimo, con il lato della domanda. È indubbio, infatti, che a causa degli spillover esposti nel primo capitolo, per mantenere stabile il valore e la credibilità della moneta unica, sia necessaria l’uniformità nelle politiche di indebitamento e fiscali. Dall’analisi del dibattito sulla prima stesura del PSC e delle sue riforme successive, appare però come alla virtuosa tensione al coordinamento delle politiche sia subentrata quella alla forzata uniformità del one-­‐size-­‐fits-­‐all, senza alcuna considerazione dell’eterogeneità dei diversi Stati membri in termini di struttura del bilancio pubblico, di configurazione del sistema produttivo, di architettura istituzionale. Inoltre, rafforzando, prima con la riforma del 2005 ed in seguito con i provvedimenti del Fiscal Compact, l’automatismo dei meccanismi di sanzione ed il ricorso al giudizio della Commissione nell’attivazione delle procedure per deficit eccesivo si sono via via esautorate le istituzioni democraticamente legittimate a favore di organismi sì di levatura europea, ma dal 34 Attali, J., “C'était Francois Mitterrand”, Fayard, 2005 p. 118

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carattere intergovernativo: che di per sé, dunque, non garantiscono la continuità del processo di progressiva integrazione tra gli Stati membri. Anziché procedere con decisione alla risoluzione dell’idiosincrasia tra politica monetaria – comunitaria-­‐ e politiche fiscali –nazionali-­‐ con una decisa cessione di sovranità degli Stati ad organismi (e.g. Governo europeo, Presidente della Commissione Europea eletto direttamente dai cittadini dell’Unione) democraticamente legittimati, si è preferito procedere, per usare un lessico familiare per il lettore dei tre capitoli precedenti, utilizzando il “bastone” della sottrazione di poteri ma non la “carota” della legittimazione democratica; questo ponendo, di fatto, una gravosa ipoteca (fatta di retorica populista antieuropea, che ci vuole tutti ostaggio dei “tecnocrati di Bruxelles”) sul futuro dell’Unione Europea. Inoltre, il progressivo rafforzamento dei limiti alle politiche fiscali nazionali si è caratterizzato, specialmente per quanto riguarda i criteri di valutazione e l’irrogazione delle sanzioni, tanto per l’attenzione alla stabilità della moneta e all’indipendenza della BCE quanto per la disattenzione alla crescita economica sostenibile ed in generale a quello che possiamo definire come “il lato della domanda”; ulteriore fattore, questo, che ha portato le popolazioni europee ad una drastica diminuzione della fiducia nelle istituzioni dell’UE. Uscire da questo circolo vizioso, oggi, dunque non è solo vitale per il benessere delle cittadine e dei cittadini dell’Unione, ma è risolutivo per l’impasse in cui è bloccato il processo di integrazione europea. Solo con un cambio di prospettiva sull’importanza, accanto al rigore, della crescita e con uno scatto in avanti sul tema dell’integrazione europea si potranno gettare le basi per un’Europa unita, prospera e protagonista.

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