Street Virus - dalle lettere agli sticker

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ready-made


street virus is the catalogue of 5 exhibitions curated by ready-made, milano, in 2005. 1000 unique covers were hand-drawn by the artists bean one, el gato chimney, luze, santy. some copies are still available (italian text only). info@fatbombers.com

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street virus dalle lettere agli sticker

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Nelle pagine precedenti: Spin, Milano Vari, Milano

Ready-made è uno studio grafico-editoriale e come tale inevitabilmente attento alle più recenti tendenze del mondo dell'immagine: tra le fonti di ispirazione degli ultimi anni la più diffusa, remixata e saccheggiata è di sicuro l'arte di strada. Firme, sticker e stencil fanno parte di un linguaggio visivo da cui ormai è impossibile prescindere – lo dimostrano la grafica di MTV e le borse di Louis Vuitton. Abbiamo deciso di andare alla sorgente: coinvolgere alcuni artisti, seguirne il processo creativo e produrre una serie di esposizioni che mettessero in luce i punti di contatto tra la grafica e questa forma di creatività spontanea. Cinque mostre, cinque stili differenti, una manciata di artisti che rappresentano un percorso ideale: l'evoluzione dell'arte in strada, sui muri di Milano, nel 2004 e nel 2005. è stata una breve rassegna, difficilmente potremmo definirla esaustiva – molti altri sono degni di nota, è avrebbero meritato spazio e attenzione – tuttavia sentiamo che ha contribuito, nel suo piccolo, a fare il punto su una scena artistica attiva e underground, dai confini sfumati e di difficile definizione. I segni sui muri hanno mille nomi, le etichette (come dice qualunque cantante pop) nulla aggiungono al valore espressivo delle opere e la foga definitoria è stata troppo spesso uno strumento di banalizzazione: per questo useremo termini come graffiti o street art con parsimonia ed eviteremo di darne una definizione. Gli artisti sono stati scelti in modo da fornire una panoramica molto ampia, al limite quasi conflittuale, delle spinte creative che provengono dalla città e dai suoi muri – dalla città di Milano, dove ha sede Ready-made, ma anche da Londra e Parigi, come vedremo. Dal grafismo di D*face alla calligrafia di Rebel Ink, dai fumetti improbabili di Alexone alle visioni psichedeliche dei Krudality, con il ciclo Street Virus abbiamo cercato di mettere in evidenza tutti i contrasti: semi-legalità e completo vandalismo, ossessione delle lettere e focalizzazione sul figurativo, manualità e digitalità, giovinezza e vecchia scuola, con un solo filo conduttore, la strada - la strada come provenienza e come destinazione, come medium e come galleria. Ossia, come vera galleria per i pezzi e per i poster, consapevoli del fatto che Ready-made – che già non è uno spazio espositivo, ma uno studio grafico – potesse essere solo un pallido surrogato di quegli enormi musei a cielo aperto che sono diventate le nostre metropoli. Art-gallery interinale, a tempo determinato, ha assolto egregiamente questa insolita funzione, diventando di volta in volta sala da ricevimenti, laboratorio per gli artisti, base di innumerevoli raid notturni, punto di contatto tra giovani vandali e un pubblico ampio ed eterogeneo e infine punto di scambio e di vendita. Il presente catalogo è stato infatti stampato grazie al contributo dei numerosi collezionisti che hanno deciso di investire su questo progetto e sugli artisti che hanno preso parte alle mostre.


Sommario

Cannibali dallo spazio La strada ha i suoi metodi D*face Pus Rebel Ink Alexone Krudality crew Una regola per l'eresia Conclusione. Un cambiamento di mentalitĂ Credits

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Luca Martinazzoli

Cannibali dallo spazio

Bo130, Milano

Damien è arrivato una ventina di anni fa dallo Sri Lanka. Si è arrabattato pulendo il culo a un pubblico senile. Poi è passato ai pavimenti delle case e ai cessi degli uffici. Ha svoltato e adesso si barcamena con i dipendenti e i prestiti delle banche. Storia ordinaria di un piccolo imprenditore, immigrato. Ha svoltato con il business dell’igiene. Negli ultimi due anni ha però deciso di diversificare. Si occupa dell’igiene pubblico. Non parliamo di cassonetti olezzosi o fogne. Parliamo di muri, imbrattati di vernice spray e da sticker collosi. Lui li ridipinge con vernici che si puliscono meglio. È un business da decina di migliaia di euro dopo che la città di Milano ha intrapreso la linea dura folgorata dalla tolleranza zero di Giuliani a New York. Ma il punto non è che in tutte le società che vivono di terziario avanzato l’igiene pubblica e privata è diventata il buco dove si innesta una vitale imprenditoria terzomondista. Il punto è che la cosmesi della città è rimbalzata sulle prime pagine dei giornali e in cima alle agende degli amministratori trasformandosi in repressione contro chi lo spazio pubblico se lo prende la notte. Quelli che chiamiamo vandali perché se ne fottono delle troppe regole della convivenza per devastare superfici urbane. Allo stesso modo i brand nidificano nello spazio pubblico contendendosi l’attenzione di consumatori sempre più segmentati nelle aree urbane: banner, proiezioni, sticker, cartelloni e segni sui marciapiedi. A suon di investimenti e concessioni lo spazio pubblico è stato colonizzato trasformando il vernacolare della città in un linguaggio algido e riempiendo le casse delle amministrazioni pubbliche come quelle degli amministratori di condominio. Segno di un capitalismo maturo, che sul livello simbolico dei suoi output crede di giocarsi la sopravvivenza, ma che non è in grado di riconoscere nei vandali uno dei pochi nuclei dove vivida è la creazione di immaginario che loro sfacciatamente riciclano. Così il dibattito sulle disfunzioni dello spazio pubblico viene polarizzato su chi i muri li imbratta, sui loro danni e sulla loro marginalità sociale, mentre, chi la città se la prende staccando copiosi assegni, se la ride prendendosi il nostro immaginario, oltre che il nostro spazio. Ma forse è proprio sul controllo dell’immaginario che la crociata contro i vandali ha preso piede. Una delle caratteristiche del capitalismo di oggi è il ruolo in termine di crescita, occupazione e fatturato di quei settori il cui output è impregnato di significato simbolico e culturale (Scott, 2000), insomma tutto quello che poi disegna il nostro immaginario. Le industrie che si muovono con successo su questo piano stanno ridisegnando l’economia della città. I centri urbani immersi in un’economia che definiamo post fordista diventano luoghi fertili per una produzione prevalentemente simbolica. Sulla stessa onda si muovono le amministrazioni comunali che sulla rivitalizzazione del contenuto simbolico delle città provano a posizionare le città in un’ arena territoriale sempre più competitiva. Non a caso il marketing urbano è diventato uno degli strumenti più sfacciatamente usati per rilanciare le città. Prolificano festival e manifestazioni culturali, cosi come edifici dall’alto valore simbolico. Operazioni di make up che con il controllo della dimensione simbolica della città sperano di risolvere le tensioni economiche e sociali causate dal processo di ristrutturazione economica, cosi come delle ondate migratorie. In questo contesto l’igiene simbolica della città diviene vitale nella gestione della questione sociale. È vitale per chi la città la amministra, cosi come per chi la usa come territorio promuovere brand pervasivi. In questa arena chi si intromette cercando di rubare attenzione viene linciato perché le economie che sostengono la produzione simbolica sono economie dell’attenzione, non ammettono distrazioni. 7


2501, Milano

Ma se le amministrazione pubbliche sono cieche davanti alla corrosiva vitalità dei vandali, le multinazionali che provano a dettare i confini del nostro immaginario si sono accorte che proprio in questa forma di espressione cosi urbana si nasconde un linguaggio innovativo e forme di creatività che difficilmente vengono partorite nei loro uffici. Si sono cosi attivate forme di cannibalismo promiscuo che vedono le multinazionali divorare tutto quello che esce dalla strada, dagli stili di lettering alle pratiche di appropriazione degli spazi. Multinazionali come Nike o Sony ormai non fanno più scandalo quando ricoprono la superficie della città con pratiche di street marketing mutuate da chi viene quotidianamente linciato dai media e inseguito dagli sbirri. Queste forme di appropriazione, al di là di ogni questione morale, mettono in luce la debolezza di strutture complesse e gerarchiche nel definire forme di innovazione simbolica, stilistica. Cosi le forme più marginali di produzioni culturali, quelle che nascono e si esprimono per strada, diventano laboratori fondanti per definire il nostro immaginario. Ma solo nella loro marginalità, sul bordo della legalità, trovano ragione di esprimersi, perché poi si trasformano in merce. Tra l’altro questi vandali prima di annidarsi nell’immaginario si annidano tra gli spazi fisici della città, ridefinendone la geografia culturale. Si muovono nei limbi metropolitani individuando le superfici dimenticate, quelle che lo sguardo sorvola, magari che non è più abituato a guardare. Chi maneggia l’immaginario della città lo sa. A Los Angeles la notte le crew che fanno guerrilla marketing si fronteggiano armate di proiettori da migliaia di dollari per aggiudicarsi i muri della città. Se li giocano una notte, perché poi un broker vende subito lo spazio quando si accorge che qualcuno lo sta usando senza pagare dazio. La superficie della città viene cosi cannibalizzata da ossessivi stimoli visivi che ci si aggiudica senza regole, arruolando gruppuscoli di vandali per quattro soldi. Sono quelli che la città la conoscono perchè la vivono quotidianamente, si muovono come topi per dipingere o attaccare sticker. Provano a svoltare prestando servizio alle multinazionali. Sanno dove i muri sono protetti dal nero la notte e visibili da tutti durante il giorno. Setacciano le aree informali, tracciano mappe che poi vengono rubate da strategic planner che le trasformano in spazi da commerciare. Anche in questo caso solo grazie alla condizione di marginalità riescono a identificare geografie nuove e vitali per reimmaginare la città, gli altri non trovano il tempo di camminare nelle aree grigie. Tra le campagne di repressione dell’opinione pubblica in cui si contorcono i vandali, la ricerca del ciclo di mostre Street Virus diventa vitale per riconoscere alla marginalità dei segni che troviamo per strada il ruolo fondante nella definizione dell’immaginario di oggi. Si nasconde li il nucleo vitale di un capitalismo decotto da un’ eccessiva enfasi simbolica. Della loro corrosiva vitalità ne abbiamo bisogno noi, che cerchiamo la poesia di un segno illegale, cosi come ne hanno bisogno le aziende, che ci affondano le mani per costruire brand sempre più dipendenti dalla dimensione simbolica e urbana della nostra identità.

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Alessandro Mininno

La strada ha i suoi metodi

The Stoned Face, Milano

Spazio e pubblicità La strada è uno spazio vitale aperto a tutti, è lo spazio pubblico per eccellenza e sancisce il confine tra ciò che è di tutti e ciò che è relegato all'iniziativa e alla responsabilità privata, tra il comune e il personale. Che possa essere il luogo d'elezione per un’espressione artistica da molti a molti è una conseguenza diretta della sua natura: spesso gli artisti hanno scelto di interpretarla, modificarla o usarla come medium e la tendenza si è intensificata negli ultimi trent'anni. La volontà di incidere il territorio non è certo una novità, possiamo trovarne testimonianze dalle caverne al monte Rushmore, fino alle installazioni di land art. Da Basquiat (in qualche modo imparentato con l'oggetto di questa trattazione) a Barbara Krueger (che per un periodo ha affisso le sue stampe per le vie di New York), la strada è diventata di volta in volta oggetto dell’agire artistico, veicolo per un messaggio o destinatario dello stesso. Lo sfruttamento della strada come spazio pubblicitario ha suscitato le dovute critiche sulla mercificazione di un luogo che dovrebbe essere di tutti e riservare a tutti le stesse possibilità di espressione, indipendentemente da valutazioni di natura economica. Le iniziative di riappropriazione delle superfici verticali non si contano, dal californiano Billboard Liberation Front agli Adbuster di matrice canadese o ai gruppi Reclaim The Streets, fino a progetti più recenti come Delete, in cui gli artisti hanno mascherato con carta gialla tutte le pubblicità, le insegne e i loghi dell’intera Neubaugasse a Vienna. Sappiamo che ogni giorno i pedoni sono sottoposti a più di 3000 stimoli commerciali e Delete vuole dimostrare che la loro improvvisa scomparsa muta il paesaggio cognitivo, sfumando quelli che ormai sono riferimenti certi, imprescindibili. I passanti, spaesati o straniti, hanno espresso il loro dissenso scrivendo frasi di protesta a pennarello sulle superfici riportate all'anonimato (da “ridateci le insegne” a un sardonico “era meglio blu”). Il progetto Delete rimarca un fatto, di per sé, molto semplice: lo spazio pubblico cui facciamo riferimento (in senso anche toponomastico: ci si vede al Fila Forum, al PalaVobis e tra poco alla fermata della metro Missoni, anziché Missori?) è ormai immerso in modo indissolubile in un pattern di simboli commerciali, di nomi il cui significato pubblicitario è quasi indistinguibile dal ruolo funzionale. La presunta difesa di tale spazio professata dalle amministrazioni pubbliche, in nome del decoro, della pulizia, dell’igiene, si confonde troppo spesso con la strenua difesa di monopoli commerciali su uno spazio che è pubblico solo quando Palazzo Marino incassa le royalty, è

Delete Project Vienna, 2005

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Gesù ti amo, Brescia a Milano

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privato solo quando il commerciante si lamenta dei graffiti, è prostituibile sempre e comunque, come dimostrano i tanti edifici storici imballati da cantieri sempiterni e sponsorizzati, che fruttano un tanto al dì. E se il privato dilaga, erodendo a ogni piè sospinto ciò che un tempo era pubblico, il fatto che chi la strada la abita e la vive cerchi di riconquistare il terreno perduto non può certo stupirci. Singolare e incredibile il fenomeno dei bum-writers, clochard o ignoti scrittori che intraprendono campagne di comunicazione personalissime. Chiunque abbia preso la metropolitana a Milano avrà notato la presenza, sulle affissioni pubblicitarie (la tela usata da Haring), sui cestini della spazzatura e sui muri la scritta irridente “Lucifero culo”, variamente coniugata e corredata da epiteti in almeno cinque lingue. Se l'identità dello scrivano rimane un mistero, gli emuli non rimangono certo nell'ombra, spuntano anzi in città distanti e diverse: se Brescia può vantare l'ubiquità di “Gesù ti amo” (le frequentazioni religiose non gli impediscono di seguire i writer e glossare le loro firme) il ginevrino “Laissez Genève prope, merci” insiste sulla vocazione igienista della città svizzera: combattere lo sporco scrivendo sui muri farà inorridire i benpensanti, ma potrebbe altresì aprire il dibattito sul concetto di “stato di pulizia”, fermo ai tempi di Calimero. Un'azione di remix dell'immagine pubblica sistematica e incisiva arriva però solo con il graffiti writing. E poiché ogni volta che si parla di “graffiti” i media amano pensare a Lascaux, Pompei e Keith Haring, è bene rimarcare quanto il loro tentativo di inquadramento del fenomeno sia inopportuno e distante dalla realtà. I writer, figli della nascente società di massa dei Settanta, scrivono, e scrivono il loro nome. Da qui, la denominazione writer. L'intento, narcisistico e stilistico, è quanto di più lontano possa esistere dalla propiziazione della caccia al bufalo (anche se, si dice, la caverne di Lascaux ricordano i tunnel della metro di New York), dalla comunicazione murale pompeiana e anche dall'arte stradale di Keith Haring, che le distanze dai writer le prese subito: “Avevamo rispetto per i graffitisti, ma il nostro era un lavoro diverso, e non ci siamo lasciati accomunare da quella situazione”, tiene a sottolineare l'artista newyorchese, parlando di sé a Basquiat. I writer puri come Dondi, da parte loro, non potevano certo tollerare l'accostamento con un borghese inserito nel mondo dell'arte e con una punta di sprezzo lo consideravano masticabile, “palatable”: la sua arte era, ed è, per tutti. I media, che in un primo momento esaltarono il fenomeno con tolleranza hippy, passarono presto dalla parte del potere costituito e degli interessi privati. Le scritte sui muri erano (basti pensare al film Warriors) un simbolo lampante che la società aveva perso il controllo di alcune zone della città e di talune fasce di popolazione, irrecuperabili. “A symbol that we lost control”, rimarca il chief executive officer della metropolitana di New York, nel documentario Style Wars (Chalfant e Silver 1983). Un titolo appropriato: infatti, erano esattamente guerre stilistiche quelle che si svolgevano nei tunnel della metro di New York dalla fine degli anni Sessanta e che perdurano sulle fiancate dei convogli nostrani. Guerre combattute a suon di lettere e di tecniche, sfide positive in cui il vandalismo non è il fine, ma lo strumento per ottenere la fama tra gli altri writer, scrivendo il proprio nome sempre meglio e sempre più in grande. La competizione nel disegno delle lettere, come tutte le gare, è circoscritta da regole precise cui la


Campagna AMSA per la cancellazione dei graffiti, inverno 2005, Milano

Campagna street marketing Nike, Catania 2004

comunità dei vandali si attiene, leggi consuetudinarie punite con sanzioni sociali o rappresaglie fisiche: la regola principale è il rispetto verso il nome degli altri, verso le altre firme e gli altri pezzi. E se la norma vorrebbe che si evitassero opere d'arte e luoghi di culto, queste limitazioni tendono a venire meno quando la competizione si infittisce e l'unico modo per emergere tra centinaia di altri writer è colpire bersagli tabù: si pensi alle grandi metropoli, in cui la scena locale conta centinaia di nomi, tutti in lizza per l'unico posto di King – the best with the most. I criteri di giudizio sono decisamente stringenti e per scalare i posti in classifica le armi sono poche: lo stile, la quantità e la predisposizione al rischio. Se all'inizio imprecisioni tecniche, sbavature e scarsa padronanza degli strumenti erano gravi pecche nel curriculum di un writer, il cambiamento di alcune variabili esogene (aumento dei controlli, diminuzione del tempo disponibile, nuovi strumenti) ha portato a riconsiderare alcuni parametri di valutazione: i writer moderni colano, sbavano, fanno linee sfumate e poco precise e le loro campiture sono disomogenee di proposito. Colpire bersagli impossibili in quantità industriale e avere uno stile proprio, seppur tecnicamente scadente, sono spesso gli obiettivi primari. Il writing è una filosofia stilistica, è uno sport estremo giocato fuori dai playground stabiliti, è una sottocultura con una forza e una carica tremende che ha resistito ai cambiamenti sociali e culturali dell'ultimo trentennio e, anzi, si diffonde nonostante gli attriti imposti dalla politica e le barriere geografiche: a poco valgono le continue campagne di cancellazione, rieducazione e dissuasione; il germe del vandalismo si propaga anche in luoghi – il Giappone ne è un esempio – in cui il culto della pulizia e della proprietà sono radicati un maniera ben diversa rispetto al mondo occidentale. La missione è semplice da capire e da abbracciare: scrivere il proprio nome meglio e più volte, conquistare lo spazio comune, res nullius, e appropriarsene simbolicamente, apporre la propria bandiera di conquista in luoghi irraggiungibili e nello stesso tempo esprimere la propria creatività – da quando la cosiddetta classe creativa era ancora una minoranza – al di fuori di qualunque schema istituzionale. Il writing non esiste, esistono solo i writer: personalità solitamente forti ed egocentriche, che hanno interpretato il fenomeno in modi diametralmente opposti, imponendo la propria visione attraverso le loro qualità artistiche. Questo fa sì che all'interno dello stesso movimento possano sopravvivere puri artisti e puri vandali, writer votati alla quantità e aerosol artist maniaci dei particolari. La storia – seppur breve – del movimento ha visto molte fasi e molti mutamenti: se il nome e l'azione erano prìncipi nella New York degli anni Settanta, le qualità estetiche del prodotto artistico hanno attirato presto l'attenzione del mondo dell'arte, dando vita a un dibattito intenso sull'opportunità di esporre all'interno di una galleria – e di rinchiudere in una cornice istituzionale – un'espressione nata per strada, che si realizza al meglio soltanto nell’illegalità. La sorpresa e lo spaesamento, la ri-contestualizzazione dello spazio pubblico, l'ira o l'ammirazione che sono collegate ai graffiti, sono fattori che vengono facilmente a mancare in uno spazio istituzionale: l'arte di strada in vitro è senza punta, non colpisce e non fa male. Certo non tutti i writer sono uguali, e taluni riescono a dare in galleria o su tela di più di quello che riescono a fare per strada: potremmo dire che non sono più soltanto writer. 13


Wink a Milano 14


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Dumbo (FIA), Milano

Humen (Les), Milano

Spin, Milano

Osey a Milano

Sniper (TGB), Milano

Panda (FIA - THE), Roma a Milano


Firme ad acido fluoridrico su vetro, Milano A destra: "east" (BN), Linea MM1, Milano

I writer infatti vivono benissimo anche senza le gallerie, senza le pareti legali e l’aiuto delle istituzioni. E anche la continua cancellazione, il buffing, dai muri e dai treni non ha sortito gli effetti sperati: molti treni continuano a girare dipinti, la quantità di muri colorati non è diminuita e l'inasprimento delle pene e dei controlli aumenta solo il rischio e la sfida. La lotta ai graffiti – un confronto tra le esperienze internazionali Lungi dall’essere un problema esclusivamente milanese, il writing affligge, per così dire, tutte le maggiori città del mondo occidentale, da New York a Mosca, complice da un lato la diffusione della cultura hip hop e dall’altro l’atmosfera di coolness che media e agenzie pubblicitarie attribuiscono al fenomeno. Barcellona, sede del maggior produttore mondiale di spray e capitale europea della street art, poteva vantare, fino a pochi mesi fa, pareti dipinte senza soluzione di continuità: è stata per diversi anni uno dei luoghi più produttivi e fertili per quanto riguarda l’arte urbana, come dimostrano le dozzine di street artist di alto livello che popolano la città. Ora, il municipio ha deciso di ripulire tutti i muri del centro cittadino, nel contesto di una più ampia stretta di igiene stradale volta a eliminare, tra l’altro, buskers, giocolieri e suonatori ambulanti, simboli di un’atmosfera liberale che evidentemente mal si coniuga con la rinnovata serietà economica della città spagnola. Berlino è, invece, protagonista di una lunghissima e poco fruttuosa lotta all’imbrattamento, che ha raggiunto il suo apice nel 2005: il comune, in un eccesso di zelo, ha deciso di utilizzare gli elicotteri per braccare chi usa gli spray. Siamo ancora in attesa di dati e risultati su questa soluzione che, se non palesemente sbagliata, appare quanto meno largamente sovradimensionata. A Parigi le misure anti-graffiti sono arrivate addirittura a scalfire la libertà di stampa: GraffIt, una delle riviste specializzate più diffuse, si trova a dover soddisfare una richiesta di risarcimento milionaria da parte dell’azienda ferroviaria francese (la SNCF), che la accusa di aver pubblicato foto di treni dipinti, mentre un altro magazine d'oltralpe, Xplicit Grafx, è stato costretto a stampare l’ultimo numero in Spagna. I graffiti esiliati dalle pareti del centro città di Parigi, piuttosto che scomparire per sempre, si sono spostati 16


A destra: The London Police, Amsterdam a Milano

fuori dalla “giurisdizione” dei pulitori: oltre i 3 metri d’altezza, sui marciapiedi e sui furgoni dei privati. Nemmeno il recente giro di vite berlinese ha soffocato il bisogno di scrivere: i nomi restano, a imperitura memoria, sui vetri della metropolitana, graffiati con la carta vetrata o sciolti con l’acido fluoridrico, misura estrema e quasi demenziale, strumento economico e pericoloso per raggiungere la fama necessaria, as seen on tv. Ma è proprio la Grande Mela, patria storica dei graffiti, che può vantare la più lunga, travagliata e vana lotta al writing, iniziata già nel 1978 e che ha sortito effetti inattesi. L'introduzione di una “doccia chimica” per pulire l'esterno dei treni della metropolitana, irrorati con ben 55 galloni di solvente a carrozza, intossicò in pochi giorni l’intero quartiere, agevolò il secondo strato di “pezzi” e spinse i writer, frustrati, ad ambire nuovi obiettivi: le strade, i ponti e tutti gli edifici della città, quasi intonsi prima di quel momento, iniziarono a ricoprirsi di una uniforme texture di firme e throw up. Oggi, anche se le carrozze sono pulite in poche ore e dormono difese da una doppia cortina di filo spinato farcita di pastori tedeschi, la metro di New York subisce quasi quattromila attacchi vandalici all'anno (a opera di artisti indigeni, ma anche di stranieri in pellegrinaggio), come confermano i report della MTA. Rudolph Giuliani è un convinto assertore della cosiddetta “teoria del vetro rotto”, il cui assunto è il seguente: vetri rotti, sporcizia e – naturalmente – graffiti, costituendo un chiaro segnale dell'assenza delle istituzioni, inducono e attirano comportamenti di criminalità diffusa. Il ragionamento, che appare esagerato già a un primo esame, non tiene forse conto degli altri motivi che possono essere alla radice di diminuzione nel tasso di criminalità: il massiccio incremento delle forze di polizia e una popolazione che invecchia, per esempio. L'ex sindaco della Grande Mela considera la lotta ai graffiti uno strumento principe per la prevenzione della criminalità (Bloomberg ha abbracciato la sua filosofia, spendendo 5 milioni di euro l’anno solo per mantenere una squadra anti-graffiti di 68 corporuti agenti): in realtà è evidente l'appetibilità strumentale, in termini di comunicazione, di un fenomeno come il writing, che è sotto gli occhi di tutti e costituisce un facile appiglio per azioni di propaganda, soprattutto in periodo di campagna elettorale.

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Vari, Milano

Sul versante opposto, il Time Magazine di Houston ha assoldato proprio un writer per la sua più recente campagna di street marketing: le enormi superfici verticali conquistate dalla divisione marketing vengono imbiancate e poi dipinte, a sorpresa e su commissione, da Cope (uno dei padri del writing), dando vita a una bizzarra aporia: la città paga fior di quattrini per ripulire i muri, ma viene pagata per mantenerne alcuni artificialmente “sporchi”. Milano a tinta unita A Milano, Albertini iniziò la campagna Muri Puliti già nel ‘99, proponendo l'utilizzo di un magico prodotto per la pulizia (costosissimo, invendibile e invenduto fino ad allora) e introducendo una taglia sugli imprendibili writer, pari a un terzo della multa impartita (pochissime le delazioni ottenute e taglie mai corrisposte). Quasi nessun privato aderì al servizio di pulizia delle facciate, praticato a tariffe da gioielleria: da un minimo di 18.000 a un massimo di 78.000 lire al metro quadro. Né valse a molto l’intervento della graziosa Megan Gale, “felice di cancellare le scritte sui muri di largo Corsia dei Servi” armata solo di acqua e sapone: il numero di adesioni è passato dai 90 ordini del 2003 ai 200 del 2004, contro le 700.000 lettere inviate alle famiglie dal sindaco Albertini (con un conversion rate dello 0,0285%: un fallimento totale, per usare un eufemismo). Infine, è del marzo 2005 la seconda e ultima tornata della campagna AMSA (apparsa per la prima volta nel dicembre 2004), che fa nuovamente leva sul fascino femminile: ne è protagonista la supermodel Atias

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Moran, che disapprova con sguardo severo blandi e ovviamente orribili murales passionali, con contorno di scarabocchi. Il testo delle affissioni AMSA non è certo una pubblicità progresso: piuttosto che disincentivare il vandalismo o l'imbrattamento, il claim mira a pubblicizzare i servizi di pulizia, esitati stavolta a un euro e mezzo al metro quadro (in realtà, il canone di abbonamento non è irrisorio: per una facciata di 60 metri quadrati, è necessario un esborso iniziale di circa 3600 euro). Ah, l'indotto dei graffiti, motore dell'economia meneghina! L’abbonamento al servizio dà diritto alla cancellazione iniziale delle scritte e all’applicazione di una protezione cerosa che semplifica le successive azioni di pulizia: via Porpora, area test del progetto, dovrebbe rimanere, a dispetto del nome, color grigio topo in secula seculorum. In controtendenza rispetto ad AMSA e municipio, il mondo dell’arte ha rivolto un’inattesa attenzione al fenomeno. La Biennale e la Fondazione Prada hanno ospitato Barry Mc Gee (alcuni lo ricorderanno come Twister), vandalo statunitense trai i più quotati. Il comune di Milano ha sponsorizzato Urban Edge, una retrospettiva sull’arte urbana degli ultimi trent’anni, dalla metro di New York ai posteroni meneghini. Trenitalia, solitamente impegnata nella lotta allo spray, ha addirittura ospitato una rassegna artistica al binario 21 della Centrale di Milano, trattando con tutti i riguardi molti artisti avvezzi a stare sì in stazione, ma cento metri più in là, nel deposito dei treni.

Oneman, Milano

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Defacement della campagna di street marketing Sony per PSP, New York.

Furgone dell'AMSA per la cancellazione delle scritte.

Infine, il 2006 ha visto l’inaugurazione di Beatiful Losers alla Triennale, una mostra itinerante sulla scena californiana graffiti-skate-punk dello scorso decennio. Lo stesso ciclo di mostre che fornisce il materiale per questo libro è un tentativo di riflettere sulla creatività di strada senza indulgere a facili pregiudizi, senza prescindere dall’illegalità di queste manifestazioni, senza il moralismo precotto che anima il dibattito istituzionale. E, soprattutto, senza l’ipocrisia di chi ora cancella e ora finanzia secondo criteri, più che arbitrari, guidati da logiche politiche ed economiche. Figli della repressione I limiti, le repressioni, l'inasprimento delle sanzioni e delle pene, gli arresti e gli inseguimenti hanno di certo un effetto su stile e qualità dei graffiti, così come ogni mutamento nel contesto politico e sociale lo può avere sulle opere d'arte “tradizionali”. A un estremo possiamo trovare murate votate al committentemecenate in maniera imbarazzante, al punto da costituire un'intera branca dello street marketing: tedeschi come Daim e Loomit o padri fondatori del writing come i newyorchesi FX ne hanno fatta una vera professione, e ci risulta difficile biasimarli, sia per la qualità tecnica dei loro lavori, sia pensando a quanto di eccellente i grandi mecenati del passato ci hanno regalato. In ogni caso, il significato e il potere espressivo di queste composizioni è profondamente diverso da quello indipendente e gli artisti stessi ne sono consapevoli: quando il marketing si mischia ai graffiti, spesso è la stessa scena locale a smascherare la truffa (come nel recente caso della campagna Sony PSP, che ha scatenato le giuste reazioni delle frange più seriose del movimento). Nelle strade e nei depositi dei treni i controlli del fondamentalismo igienista hanno certamente portato a mutazioni stilistiche e, dove i tempi stringono e i vigilantes incalzano, gli stili subiscono una relativa semplificazione, le colorazioni diventano più omogenee – anche se non banali – e il numero di elementi addizionali barocchi e di fioriture dello stile decresce, pur con lodevoli eccezioni. 20


Di certo, uno dei risultati più rilevanti delle strategie repressive è lo spostamento ad altre tecniche e altri medium: se la realizzazione di un pezzo a spray, quali che siano le sue dimensioni e il numero di lettere, richiede un cospicuo numero di minuti, altrettanto non può dirsi per la realizzazioni di stencil o per l'affissione di poster. Se questi mezzi si prestano poco al disegno delle lettere, la loro – sempre relativa – facilità di realizzazione li rendono strumenti ideali per la diffusione di semplici loghi o personaggi stilizzati. Banksy ammette di essere passato agli stencil, dopo anni di writing, per ridurre il profilo di rischio e il tempo di realizzazione delle sue opere in una Londra sempre più orwelliana e potersi così concentrare più sul messaggio che sullo stile – come il lettore potrà ben capire, si tratta di un passo logico in una carriera artistica, motivata cioè da finalità ben diverse da quelle di un writer comune. Non dissimilmente, le affissioni di Obey The Giant a San Francisco gli consentono di attaccare spazi differenti e di esprimere con completezza idee e orientamenti che si collocano in una ben definita corrente d'arte pubblica e politica – fa testo la sua vicinanza, geografica e artistica, a personaggi come Barry Mc Gee. Sticker, stencil, poster hanno subito una proliferazione a tratti inquietante: facili da realizzare e da riprodurre, hanno preso piede, talvolta al punto da veicolare un mero formalismo, in una replica delle idee precedenti che sarebbe (ed è) stata molto poco tollerata in un ambiente, come quello dei writer in senso stretto, in cui l'originalità è un valore imprescindibile. Banksy ha definito questa nuova ondata brandalism, il vandalismo del brand: gli artisti assimilano le logiche del marketing e le ritorcono contro il sistema. Se la sovrapposizione di firme le svuota di significato e le rende spesso incapaci di attirare l’attenzione, il ricorso a un simbolo o un logo può garantire livelli di awareness da tempo insperati. Il pattern di sticker, poster, loghi e facce che ha preso piede negli ultimi anni non è un’evoluzione del writing delle lettere, né una filiazione, né tantomeno una corrente diversa e opposta. È semplicemente una delle tante possibili ramificazioni che l’arte di strada sta subendo, a distanza di trentacinque anni dalla

Barry McGee Today Pink, 2002 Courtesy Fondazione Prada, Milano Foto di Attilio Maranzano

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Pao, Milano Foto di Michele Ferrario

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sua esplosione: le differenze rispetto alla forma degli anni Settanta sono molte, alcune profondissime. Ma i punti di contatto sono numerosi ed è impossibile ignorarli: la strada, l’azione notturna, la (parziale) illegalità, il desiderio di fama e di esposizione. Colpisce il fatto che i migliori loghi e i migliori poster siano stati creati proprio da writer di vecchia data (La Mano e Alexone, per fare due esempi). Il popolo degli adesivi ha vissuto un biennio di intensa esposizione mediatica, in un universo commerciale sempre più affamato di tendenze street: Dave the Chimp, inglese, commenta il fenomeno dicendo che “Le cose sbocciano, poi muoiono e solo i forti sopravvivono” (Things bloom, then die, and only the strong survive). Aggiunge che sta aspettando di veder morire l’attenzione verso il fenomeno, in modo da lasciare spazio al lato più underground, quello di cui sente di fare parte. A Milano si è parlato di street art ininterrottamente per mesi. Molto si è fatto (il 2005 ha visto decine di vernissage) e molto si sta, ancora, facendo: è una delle capitali mondiali della street art, come lo è stata per i graffiti. 108, Bo130, Microbo e poi Krudality, Abbominevole, Ozmo, Robot Inc hanno fissato dei livelli qualitativi altissimi, anche se dobbiamo constatare che – per strada – oggi la produzione scarseggia. Se questo fenomeno è assimilabile a una corrente artistica – e io penso che anche il più piccolo sticker vada interpretato in questo senso –, di certo non è destinata alle gallerie: gran parte della sua forza deriva dallo spiazzamento, dallo stupore di vedere un personaggio, un logo, una forma astratta incollati dove non dovrebbero essere: per strada, in alto fino a 5 metri, sui muri dei palazzi. L’osservatore comune è stupito e spiazzato dall’onnipresenza della street art all’interno della città e dalla ricercatezza e, talvolta, eleganza delle opere. L’appassionato d’arte è frastornato dal completo anonimato degli autori, che vengono così a confondersi con l’opera (La Mano disegna mani gialle, Obey the Giant affigge poster con la faccia di André the Giant, storico wrestler anni Ottanta, Il Ciuccio Nero…ve lo lascio immaginare), dalla serialità delle opere, spesso incentrate attorno a un unico soggetto e, naturalmente, dall’illegalità delle azioni: la street art è reato, per il codice penale italiano, ex articolo 639 e 639 bis. Testimone, tra gli altri, ne è Pao, il milanese dei pinguini, orgoglioso titolare di una multa di 200 euro per danneggiamento, ebbene sì, di panettone. Tutte queste opere traggono gran parte della loro forza visiva dalla strada, insieme supporto artistico e galleria a cielo aperto: esporle in una galleria o appenderle in salotto significa, per alcuni, decontestualizzarle e privarle in toto del loro significato. Non è così. In primo luogo, bisogna essere consapevoli del fatto che il poster di uno street artist appeso in galleria, non è un’opera di street art: è forse un suo simulacro, un fantoccio, un clone esposto in vitro per essere analizzato e rivelare le sfumature, i dettagli e i particolari narrativi che per strada non potremmo mai


Dumbo One, Milano

cogliere. Il valore estetico resta quasi immutato, anche se di certo vengono meno l’azione e l’effimerità dell’opera – legate a doppia mandata, perché è proprio l’effimerità a conferire tanta importanza all’azione. E tuttavia, data la serialità delle opere, ogni pezzo ci riporta memorie di strada e ci ricorda il luogo da cui proviene e cui appartiene, e l’iter da cui trae forza (seriale e vandalico): sublime souvenir, rammenta l’originale e, insieme, ci consente di focalizzare l’attenzione sul retroscena di ogni affiche. I personaggi di D*face, prima di diventare protagonisti della street life londinese, sono creature di un sottile lavoro grafico che affronta più passaggi: dallo sketch su carta, alla rifinitura in Illustrator, fino a un processo vero e proprio di produzione quasi “editoriale”. Stampa del master (scomposto in innumerevoli fogli A4), assemblaggio del personaggio e, infine, produzione massificata in decine di esemplari, ognuno dei quali va ritagliato prima di essere piazzato per strada con pennello e colla da parati. È questa fase, assolutamente meritoria di attenzione e sempre sottovalutata se non ignorata, che noi abbiamo voluto portare alla luce: il lavoro grafico, artigianale e amatoriale che c’è dietro ogni raid vandalico, di cui il poster è la testimonianza.

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D*face

D*Face, trentenne e londinese puro, ha colpito con i suoi sticker e con i suoi poster giganti tutte le maggiori capitali europee (Amsterdam, Barcellona, Parigi, Milano e naturalmente Londra) e, oltreoceano, la Mecca dei graffiti: New York. Rielaborando i personaggi della Disney crea una propria serie di puppet e li distribuisce per le strade in punti nevralgici, di modo che siano liberi di esprimersi e parlare alla gente. Stanco dei limiti e delle barriere che la professione di designer impone alla sua creatività, si sfoga per strada e cerca di produrre la maggior quantità possibile di inquinamento visivo. È stato arrestato dalla polizia una volta per danneggiamento, poi rilasciato su cauzione. È tra i primi a utilizzare adesivi in bianco e nero, sagomati, per i suoi puppet: riesce a rinnovare spesso i suoi lavori e a utilizzare nuove forme e materiali, uscendo dal loop della serialità che ingabbia molti street artist: tra i suoi esperimenti, topi disegnati sul legno e fissati per strada con un potente collante e finte banconote, in cui la Regina d’Inghilterra – un suo tema ricorrente – è soppiantata dal “d-dog” (la caratteristica palla alata), cavallo di battaglia di D*Face. Se il suo lavoro vi ricorda qualcosa, non si tratta di una mera impressione: molte sue opere (e anche la sua firma) rielaborano personaggi di Walt Disney.

Nelle pagine precedenti: Bean Foto di Andrea Boscardin A sinistra: D*Face, stampa su carta 27


28 In alto: D*Face e Gorb a Manchester

D*Face e Bo130, Milano

D*Face e Helgi, Milano


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D*Face, poster, sticker e stencil a Milano


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A sinistra: D*Face, serigrafia su tela. A destra: D*Face, particolare della realizzazione di un poster


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In queste pagine: D*Face, tecniche miste su carta 33


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Pus

Pus (milanese, classe ’78) quasi ignoto in quello che è il panorama internazionale della street art, non ha al suo attivo alcuna mostra, né apparizioni su libri e riviste (salvo una foto, pubblicata quasi per sbaglio, su Street Logos di Tristan Manco). Tutta la sua forza deriva dai lavori in strada: enormi blatte cartacee, scarafaggi deformati e colorati, prodotti con materiali di recupero e incollati per strada, quasi ovunque a Milano, dai dintorni del Bulk a Porta Romana. Partendo da lavori isolati (poster o stencil) arriva a realizzare vere e proprie installazioni location dependent, come l’enorme scarafaggio apparso su una scalinata in Triennale o il defacement del poster della GAS: torme di piccole blatte che spuntano dal reggiseno e dai boxer dei fotomodelli. L’obiettivo è introdurre nel mondo reale elementi grafici, bidimensionali, creati in illustrator o dipinti a mano nel cortile di casa – mischiare concreto e immaginario, attrarre l’attenzione del passante e divertirlo: far sorridere e poi riflettere. Infatti la gente comune, dice Pus, non va al museo.

Nelle pagine precendenti: Bean Foto di Andrea Boscardin A sinistra: Pus, defacement della pubblicità GAS, Milano 37


38 Pus, installazione al Parco Sempione a Milano

Pus e altri, Illegal art show, Milano 2004

Pus, poster realizzati con materiali di recupero, Milano


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40 Pus, tempera, Milano

Pus, blatte su carta, Milano


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In questa pagina: Pus all'opera. L'abbigliamento di Pus è disegnato da Pus


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A sinistra: Pus, tecnica mista su tela. A destra e sotto: Pus, tecniche miste su carta, installazione a Ready-made, Milano


44 Pus, opera realizzata con materiali di recupero

Pus, opera realizzata con materiali di recupero

Pus, opera realizzata con materiali di recupero

Pus, tecnica mista su legno


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Rebel Ink

Con sprezzo verso l’espressività dozzinale dei molti adesivi facili e clipart riciclate che vengono associati al movimento street art, Rebel Ink dimostra come sia possibile perseguire una strada alternativa ed elevare il rango artistico delle firme e dei throw up (inferno degli igienisti e dannazione visiva dei benpensanti), svelando al contempo la fase preparatoria, quella più intima, effimera e metodica della produzione vandalica. Il prodotto finale è la performance che sta portando il gruppo in tour da più di un anno, in cui Bean, Marco Klefisch, Rae e gli altri incantano il pubblico, mischiando il lettering tradizionale delle tag e dei bombing a immagini e composizioni calligrafiche dal vivo su un palco (con tutte le difficoltà e le gioie dell’esibizione dal vivo). Limata la dimensione vandalica (i tre sono stati per anni – separatamente e in modo diverso – al top della scena del writing milanese) possono focalizzare l’attenzione su quelli che ne sono i presupposti fondamentali: lo studio di lettere originali e il loro perfezionamento, l’azione, l’utilizzo creativo dei materiali (le bombolette spray nascono come strumenti del carrozziere, i pennarelli da 3 centimetri non sono sicuramente pensati per gli spigoli delle lettere gotiche, né i produttori di Letraset li avrebbero mai immaginati sulle tele di Marco Klefisch). Anni di evoluzione non sono riusciti ad affrancarli dalla schiavitù delle lettere, il cerchio all’interno del quale ogni writer è costretto a danzare: anche le più astratte opere di Rae Martini conservano continui riferimenti ai caratteri tipografici e così alla fase precedente del suo lavoro, I tre artisti, pur diversissimi tra loro, si rincorrono in un giro di citazioni che investe le avanguardie degli anni Venti e l’espressionismo astratto, elaborando con estrema maturità i modi, le tecniche e i materiali da writer: il risultato è una serie di tele che non ha più alcuna affinità con gli stereotipi da “artista del graffito”, e dimostra invece la raffinatezza e l’eleganza del grafico professionista. Distanti dalla cultura accademica, dimostrano di avere una capacità di osservazione fuori del comune e la precisione senza esitazioni di chi si è allenato per anni per strada, dove l’errore non è ammesso.

Nelle pagine precedenti: Rae Martini, "Two Bad", 2000

Bean, probabilmente il writer italiano con la calligrafia migliore, diede vita al progetto Rebel Ink alcuni anni fa, con l’intento di creare una rivista che raccogliesse le migliori tag, la parte più controversa e chiacchierata del writing, formalizzando un’inedita idea estetica della firma.

A sinistra: Bean e Rae Martini, due tele

Klefisch, uno dei maestri del wildstyle milanese, ha dato prova per anni di saper costruire lettere intricatissime pur attenendosi a una logica funzionale. Riempì Milano di adesivi con il nome della sua crew, quando gli sticker erano usati solo dalle band musicali underground. Ora si occupa di grafica.

Nelle pagine successive: Bean, installazione a Ready-made, Milano

Rae, con un buon curriculum espositivo e una street fame ancora migliore, ha visto tutte le generazioni del writing milanese, rielaborando in modo personale lo stile di New York e riuscendo, infine, ad approdare a uno stile più istintivo e meno calcolatore, che sente molto vicino all’espressionismo astratto.

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A fronte: Kael One In alto: Marco Klefisch, "Crash Type" (particolare), 2001. A sinistra: Rae Martini, artwork per Mikosa Foundation, Amsterdam 2006 53


54 Le frasi che appaiono su queste pareti sono citazioni da M.Cooper e H.Chalfant, Subway Art, Thames & Hudson Ltd., 1984

In queste pagine: Marco Klefisch, particolari della realizzazione dell'installazione a Ready-made, Milano


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56 Due stampe di Rebel Ink, tela di Bean, installazione a Ready-made, Milano

Bean, esercizi calligrafici, marker su muro, installazione a Ready-made, Milano

Bean e fotografie di Andrea Boscardin, installazione a Ready-made, Milano

Bean, tecnica mista su tela. Particolare


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Rae Martini, "The Unburnable", 1997, particolare

Rae Martini, "Street Elegant", pt.4, 2005

Rae Martini, "Street Elegant", pt.3, 2005

Rae Martini, "Street Elegant", pt.2, 2005

Rae Martini, "Street Elegant", pt.1, 2005


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Rae Martini, "Blessed are those who struggle", 2004

Rae Martini, "Nero", 2005

Rae Martini, "Samurae", 2003

Rae Martini, "Rae doesn't bleed", 2003 Rae Martini, "Two Badster", 2001


60 Bean, tecnica mista su tela.

Bean, tecnica mista su forex

Bean, tecnica mista su tela e marker su muro, installazione a Ready-made

Bean, tecnica mista su tela


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Alexone

Il francese Alexone, trentenne, sviluppa un lettering originale negli anni Novanta, scrivendo il nome Oedipe. Dal 1998 inizia ad usare materiali diversi rispetto allo spray, incollando, a Parigi e in molte altre città europee, centinaia di poster e adesivi con i suoi eccentrici personaggi adottando lo pseudonimo Alexone. Da allora porta avanti entrambi i percorsi artistici (le lettere e i puppet) non escludendo – in futuro – di poter coniugare le due attività. Se la sua fonte di ispirazione primaria è ovviamente la strada, in cui le sue opere hanno raggiunto un pubblico molto vasto, attualmente riconosce di essere molto attratto dalla televisione, di cui rielabora gli stereotipi e gli eccessi. Animali antropomorfi e mostri, resi unici dal tratto incisivo, sono ricorrenti nei suoi lavori street e nelle sue tele, uniti spesso a un lettering volutamente ignorante e a soluzioni creative innovative e multimateriche, che vedono l’utilizzo di materiali di recupero. Tutta la sua vita è improntata alla creazione artistica: è un grafico professionista, ma si concentra principalmente sulla pittura e, da poco, su altre tecniche: sta realizzando, per esempio, alcuni giocattoli in plastica che riproducono i protagonisti delle sue opere.

Nelle pagine precedenti: Marco Klefisch Foto di Andrea Boscardin A sinistra: Ready-made presenta Alexone 65


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Alexone a Milano


68 Acrilico e spray su muro

Collage su carta

Wall-painting a Ready-made

Matita su carta


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70 Acrilico e spray su muro

Tecnica mista su carta

Marker su carta


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Tecnica mista su carta, particolare

Serigrafia a tre colori


72 Acrilico e spray su muro

Tecnica mista su carta

Tecnica mista su carta


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Krudality crew

La crew nasce attorno a un nucleo originale di writer più di dieci anni fa e i suoi componenti non hanno mai smesso di scrivere i loro nomi: i bombing di Santy, quasi onnipresenti per le strade della città, sono la dimostrazione di un amore per la strada che pochissimi a Milano sono riusciti a sostenere così a lungo. Le passioni e pulsioni artistiche del gruppo li hanno spinti a uno stile più figurativo e all'utilizzo di strumenti artistici ignoti ai writer: pennelli, poster e adesivi sono la chiave di un cambiamento di mentalità, forse epocale, per tutta la scena street, segnando un effimero confine tra i fondamentalisti dello spray e la generazione stick&stack. Con un piede nel deposito dei treni e l'altro nel secchio della colla i Los Krudos dimostrano che sono le idee, la costanza e la sostanza – non la tecnica utilizzata – che fanno guadagnare posti nelle classifiche underground. Ne sono la prova i balconi di Santy, che appaiono su numerose pubblicazioni di settore, ma ancora più numerose vie del centro di Milano, strizzando l'occhio ai passanti di Brera e suscitando curiosità in corso Garibaldi: del fumo esce dalle ante, che succede all'interno? In una recente intervista (tazreport.it, 2005) è lo stesso Santy a dare un'interpretazione: “...il balcone è un punto di vista tranquillo dal quale si può avere una chiara visione della piazza, quindi può comunicare distacco e oggettività...”. Il tratto è crudo, difforme e rozzo, gli stereotipi dell'italian style sono riconsiderati e messi in evidenza con ironia: la balaustra è un elemento architettonico tipicamente italiano, i personaggi sono grassi e pelosi, fumano e scolano la pasta. L'intento dei loro poster è pop nel senso più ampio: utilizzano simboli familiari ai più (Maradona o Obelix), colpiscono l'attenzione dei passanti che si soffermano e spesso, imbarazzati sul da farsi, staccano gli adesivi e se li portano a casa.

Nelle pagine precedenti: Foto di Andrea Boscardin A sinistra: Sticker, Milano 77


78 El Gato Chimney, spray e acrilico su muro, Milano

El Gato Chimney, poster, Milano

El Gato Chimney, poster, Milano

El Gato Chimney, poster, Milano


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In alto: Santy, poster. A destra: Santy, spray su muro, Milano


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In queste pagine: Santo, bombing misti, Milano


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Santy, Luze, Planck, Milano


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Luze, poster, Milano

Luze all-opera, Milano

Santy, Luze e El Gato Chimney, poster, Milano. A sinistra: Finders Keepers, Milano 2005


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The Stoned Face, stampa su legno. A sinistra: The Stoned Face, poster, Genova

In questa pagina: The Stoned Face, poster, Milano


86 Luze, The Stoned Face e Goze, tecniche miste su muro

Santy, tempera su muro

Santy, tempera su muro

El Gato Chimney, tempera su muro


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The Stoned Face, tecnica mista su carta. A sinistra: El Gato Chimney, tempera su muro

El Gato Chimney, tempera su muro

Santy, acrilico su muro, tela e magliette serigrafate a mano (con la faccia di Maradona)

The Stoned Face, stampa a colori su carta


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Una regola per l'eresia

Perazzi

Nella prima metà del secolo scorso Gaetano Salvemini scriveva: “La libertà significa il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale e che la cultura, in quanto creatività, sconvolge la tradizione ufficiale”. In una data imprecisata di questo nostro neonato secolo un ignoto graffitaro ha scritto su un tunnel del metrò di New York: “Graffiti is a art and if art is a crime let’s God forgive us!”. L’ignoto graffitaro (afro? caucasico? chicano? wasp? portoricano? giallo? o tutto insieme?) non sapeva di invocare un perdono che il grande teorico di un radicalismo laico che non prevede dei gli aveva già concesso. Non solo, ma concedendogli non il perdono, ma la libertà, gli aveva implicitamente concesso la patente di artista. Perché, in una cultura come la nostra, che giustamente e sacrosantemente ha ormai da tempo eliminato la distinzione tra “alto” e “basso”, sarebbe impensabile non collocare il graffitismo nella categoria delle “arti”. Sia pure in quelle “povere”. A ben vedere le cosiddette belle arti non sono mai state sempre belle e fin dall’antichità a rappresentarle non ci sono state soltanto le Muse e le Grazie, ma anche Medusa, Gorgone, le Graie. E le maschere sono sempre state mostruose. Cosa difficile da accettare, così come è stato a lungo difficile accettare (e per molti lo è ancora) il fatto che un quadro ben dipinto o un pezzo di musica ben suonato possono essere cretini. E anche brutti. Nonostante la fama dei loro autori. Da tempo però si è capito (o perlomeno si è tentato di far capire) che un concerto rock e un concerto alla Scala fanno parte di un medesimo sistema socio culturale e che il passato e il contemporaneo possono talvolta meticciare. Basta pensare a quanta tragedia greca sia trasmigrata nella cinematografia western (si pensi a “Duello al sole” o a quel capolavoro edipico che è “Sentieri selvaggi” di John Ford). Per non parlare di quel magma che è la musica cosiddetta popolare. Di cui i graffiti sono cugini germani. Stessi impulsi, stessa brama liberatoria, stesso tessuto cromatico, stessa discontinuità qualitativa, stessa monotonia di generi. Stessa volgarità. Ma sulla volgarità occorre aprire una parentesi. Il termine ha svariate accezioni. Per quanto riguarda i graffiti e i murales si tratta quasi sempre di una sana sguaiataggine che può scendere o salire di tono a seconda della fantasia, della creatività e della perizia tecnica dell’autore. Una sguaiataggine che, al di là del fastidio per le molte errate (e talvolta anche delinquenziali) collocazioni, non deve suscitare istinti censori. Mentre dovrebbero, ma non lo fanno ahimè nella massa, suscitare non istinti censori (quelli mai) ma un sano sentimento di offesa se non al pudore almeno al buon gusto, i tantissimi osceni messaggi che offre la pubblicità. Soprattutto quella della moda. Ci si offende perché un muro viene sporcato da un graffito magari spiritoso, o quantomeno bizzarro e non ci si offende perché muri assai più magniloquenti vengono lordati da immagini di ragazzotti e ragazzotte debosciati e invitanti al deboscio. Abbiamo detto deboscio e non sesso. Sia ben chiaro. Un’indiretta conferma viene anche dal fatto che ormai una parte più avveduta (e meno volgare) di pubblicità appaia da qualche tempo mascherata sotto forma di graffiti o murales. Il che non deve assolutamente scandalizzare, così come non deve scandalizzare il fatto che, sulle orme di Basquiat e Keith Haring i più dotati (o i più fortunati) tra i graffitari e i muralisti abbiano visto aprirsi le porte di gallerie o istituzioni pubbliche. È normale e giusto che sia così. Si comincia a suonare nei villaggi turistici e, se 89


Dumbo, Milano tutto va bene (e se si è bravi), si finisce allo stadio (o in Parlamento). Dando vita non a uno sporadico ritorno alla barbarie, ma ad una momentanea fuga liberatoria. Meglio se ben pagata e ben retribuita. Una regola, comunque, ci vuole, anche all’interno dell’eresia. Per i muralisti (e consimili appiccicatori di immagini sui muri) il discorso è semplice: basta che non eccedano nel travalicare i limiti imposti dalle leggi. Quanto poi a riservare loro spazi deputati in zone urbane degradate, come si tende ormai a fare da parte di molte pubbliche amministrazioni, la cosa ci sembra un po’ triste, per non dire castrante. Bisognerà stare a vedere che cosa ne verrà fuori. Potrà essere esornativo e gratificante o trasformarsi in una sorta di sagra paesana del muro dipinto. Se non addirittura di uno zoo per graffitari. Il fatto che lo propongano anche personaggi che fino a poco fa consideravano criminal beluina qualsiasi cosa non provenisse dall’ufficialità se non addirittura dall’Accademia lascia un po’ perplessi. Per i cosiddetti writer il discorso è diverso. È vero che le scritte murali sono antiche come la scrittura (purtroppo la lava ha conservato quelle di Pompei, fornendo un alibi culturale a chiunque voglia lordare un muro); ed è altrettanto vero che la scritta può essere un mezzo per dare sfogo non soltanto all’osceno che è in noi, ma anche a legittime rabbie. Ma all’osceno (nel senso di non bello) si deve porre un limite. Se uno scrive Dumbo o fa un ghirigoro su un muro molto bello si limita a sporcare un muro molto bello. E allora salviamo il muro e calci in culo a Dumbo.

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Conclusione. Un cambiamento di mentalità

Alessandro Mininno

Quello che è certo, è che la lettura del fenomeno come danneggiamento o imbrattamento da parte di piccoli gruppi di deviati è certamente riduttiva. Il writing (o la street art che sia) non è una patologia del comportamento urbano, né un vizio di forma sulle nostre pareti. La definirei, piuttosto, una reazione. È una reazione allergica alla saturazione visiva dello spazio pubblico e all’intrusività della comunicazione commerciale, questa sì, patologica. E come reazione, sembra essere commisurata alla causa e più che giustificabile. Gli innumerevoli tentativi di repressione del fenomeno nelle sue forme originali, evolute o affievolite, sono stati forse utili a reprimere i singoli casi, ma non l’idea di fondo. L’idea cioè che lo spazio cittadino sia uno spazio comune e che debba essere interagibile e fruibile da tutti, in modo democratico. L’immagine delle nostre città è cambiata molto nei secoli, ma una cosa è certa: le città sono sporche e lo sono sempre state. Che l’inquinamento sia organico o chimico, olfattivo o visivo, questo sì dipende dal periodo storico. Se ormai pochi si sognano di rovesciare le proprie deiezioni per le vie del centro, i bisogni(ni) indotti da Armani occupano a Brera una superficie che è multipla di 6x3 metri, le affissioni politiche abusive ricoprono ogni materiale peggio del decoupage e la patina nera dello smog riveste ormai anche l’interno delle nostre narici. Ci lamentiamo forse di tanta sozzura, o la associamo piuttosto alle magnifiche e progressive sorti della nostra crescita economica? Se accettiamo che il nostro spazio venga modificato in modo permanente dall’evolversi delle nostre necessità (industriali o brandalistiche che siano), dovremmo tollerare di buon grado le sue modificazioni anche quando sono causate e realizzate da fasce di popolazione che – orrore orrore – non producono fatturato (o almeno direttamente, ma questo è un altro discorso). Le vane crociate della tinta unita mirano a un modello di città obsoleto, in cui è un potere centrale (politico o commerciale) a determinare l’estetica per l’intera comunità, a pretendere un’omogeneizzazione che faccia spiccare i consigli per gli acquisti, a decidere che il grigio è bello a ogni costo (soprattutto se il costo lo incassa AMSA). I cambiamenti sociali hanno un effetto, inarrestabile, sullo spazio pubblico. Accettare questa semplice affermazione farebbe risparmiare tempo e risorse alle nostre amministrazioni pubbliche e consentirebbe di apprezzare il fenomeno dell’arte urbana, in tutte le sue forme, in una prospettiva più coerente con lo spazio e con il periodo storico in cui viviamo.

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Credits

Copyright 2006 Ready-made Copyright per i testi: gli autori Direzione artistica Gabriele Miccichè Alessandro Mininno Stampato dalle Arti Grafiche Leva, Sesto San Giovanni, Milano.

Questo libro è stato realizzato coi proventi delle vendite delle opere degli artisti presentati nella serie di mostre Street Virus a cura di Alessandro Mininno, dicembre 2004 - luglio 2005, tenutesi presso la sede di Ready-made in Foro Buonaparte 44a a Milano. Le copertine sono state realizzate dagli artisti coinvolti nel ciclo di mostre e da alcuni dei writer che hanno partecipato al progetto Bovisa in Linea.

Si ringraziano Laura Miccichè Giusy Mauceri Silvia Stabile Roberto Plaja Guido Guerzoni Aldo Della Vecchia Chiara Somajni Tille Bortolotti Anna Detheridge Nicola Del Vacchio Giacomo Moleri Virginia Rizzi Morris Ferrè Giorgio Mininno Ennio Bertrand Andrea Valenti Costanza Mazzotti L'amica di Pus che ha fatto le foto Helga Franza Luca Lampo Paolo Cirio Annalisa Pelegatti Giulio Zecca Lisa per le brioches

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