Quando le frasche sui colli di bergamo allietavano la vita

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Sulle soleggiate pendici di monte Bastia, affacciata sulla Val d'Astino, sorge Casa Moroni, che per 35 anni, fino al 1985 fu adibita a frasca dalla famiglia Nessi. Si raggiungeva percorrendo una stretta mulattiera che si snodava fra terrazzamenti coltivati a vigneto, distanziati l'uno dall'altro da un salto di circa tre metri: un serio pericolo per chi aveva alzato troppo il gomito. La frasca offriva un moscato nervoso e sostenuto, certo meglio del taglialingua (L. Veronelli).

Ahimé, non ci sono più le frasche sui colli, non si trovano più le mescite con i cortiletti acciottolati, ingentiliti da un glicine o da una vite all'americana, le panche, i tavolini di pietra, il pergolato. Che tempi! (U. Zanetti, Magia di Bergamo) I colli di Bergamo, piccole perle di rara bellezza e mesta poesia, spiccano al centro di un ampio paesaggio che esalta la loro avvenenza di una grandiosità stupenda, spaziando dai vicini contrafforti orobici all'infinita pianura che si estende indefinita all'orizzonte. Non molti decenni or sono, su quei declivi soleggiati le frasche sorgevano a dozzine, discretamente nascoste tra boschetti coltivi e ortaglie, racchiuse in muretti, che i contadini del posto - piccoli proprietari, mezzadri o fattori – curavano con dedizione.


I contadini solevano adibire le loro cantine in rustiche cascinette o nel cortile di qualche casa colonica, come fu per la cinquecentesca Casa Moroni posta ai piedi della Bastia. Le stradette, tracciate con gusto come la via Sudorno, i Torni e S. Sebastiano, s'insinuavano - fra centinaia di cascinali, fattorie e ville padronali - talvolta quasi aeree, come lo Scorlazzino, con i suoi 210 scalini e lo Scorlazzone, con i 165 gradini ripidi e faticosi, o sentieri fortunosi come quello dei Vasi.


La chiesa dei Caduti di Sudorno dalla Scaletta dello Scorlazzino, 1958.

14 agosto 1917: i Torni e il Colle della Bastia (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti).


2 settembre 1922: i colli della Bastia e di San Sebastiano e i Torni da San Vigilio (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti).

1930 circa: scorcio su via San Sebastiano (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti).


Fra tanta bellezza, agli inizi degli anni cinquanta spuntavano ancora sui colli una quarantina di frasche: in Castagneta, S. Vigilio, S. Sebastiano, Astino, Fontana, Madonna del Bosco, Borgo Canale e giù, fino all'altezza delle attuali piscine Italcementi, raggiungibili da Città Alta attraverso le ripide Scalette di Fontanabrolo, del Paradiso, di S. Lucia, delle More.

La musicalità del verdeggiante scenario dei colli in una rara cartolina da collezione: passeggiate fuori le mura (da una raccolta privata).

Le più famose erano quelle comprese nel classico gir dèle Sèt cése: quelle dei Casati, dei Biondi, dei Carminati, dei Bagià, dei Canali, dei Rizzi, dei Nessi. Ed anche la frasca di Mario Carissoli appena sopra il monastero di Astino, con vino di fresca beva, adatto a scorribande festaiole (Luigi Veronelli). Sui colli di Bergamo le "frasche" - circa una quarantina agli inizi degli anni Cinquanta - restavano generalmente aperte dal periodo pasquale fino a settembre, o fino a che il vino non era terminato. Chi aveva prodotti migliori preferiva non fare "cantina" e vendeva il proprio vino ad acquirenti della città. Benchè di bassa gradazione, il vino rappresentava un'interessante fonte di reddito per il contadino, avendo questi trovato un proficuo abbinamento tra lo smercio del proprio prodotto e la scampagnata primaverile della gente.


L'oste esponeva sul portone o sul cancello d'accesso, a mo' di richiamo, alcuni rami messi alla brava, solitamente di ciliegio o di gelso, ma anche d'edera o altro. Un'usanza citata giĂ dagli Statuti di Brescia nel XIII secolo.


Táol dé lègn, öna banchèta.. (Umberto Zanetti)

La si arrangiava all'aperto con qualche tavolo in graniglia oppure servendosi di alcuni tavolacci – i caalér – utilizzati per l'allevamento dei bachi da seta, cui si aggiungeva una dozzina di sedie e qualche panca in legno, da disporre sotto un noce od un ciliegio, o sotto un porticato o ameni pergolati di vite americana, oppure sotti un glicine dal profumo inebriante. E accanto a qualche rustico vasetto di fiori e a una gabbietta, nient'altro se non attrezzi del mestiere: falci, rastrelli, zappe e gerle, a intreccio fitto o largo. Immancabili, per chi desiderava uno spuntino, uova fresche, acciughe e sott'aceti, salsicce e salami veraci, formaggi e stracchini casalinghi, lattughe e radicchi dell'orto, quest'ultimo sistemato al solivo e curato oltre ogni dire. Il tutto innaffiato dal leggero vinello dei colli, che aumentava di gradazione se mischiato con uve o vini meridionali - Tarantino, Manduria, Trani, Bisceglie -, noti nel bergamasco perche prima del 1880 fungevano da toccasana contro la pellagra. Altro non poteva essere offerto, se non nella stagione degli asparagi


nostrani, delle fragoline e delle ciliegie, solitamente amarene o marasche. A volte ci scappava pure un grappino, fatto con l'alambicco nascosto in cantina; oppure i salamini piccanti fatti in cascina col maiale ucciso a Natale o, in occasioni speciali, i deliziosi spiedini di uccelletti con polenta. Talvolta alcune “frasce” aprivano per qualche giorno anche in inverno: quella dei Bagià, dopo l'uccisione del maiale, preparava per gli amici più intimi la tipica torta di sangue e la trippa.

In quanto al regolamento – bei tempi – la legge strizzava l'occhiolino, perchè oltre all'acquisto del vino il padrone metteva a disposizione bicchieri, piatti e posate per consumare in loco: “fanno canti ossia servono vino (e, se proprio hai fame) ti dànno contra legem rapido ma saporito cibo”, scriveva Veronelli negli anni '70. D'altronde il vino dei colli non si prestava, allora come oggi, a lunghi invecchiamenti: andava gustato nel luogo d'origine, meglio se sposato a un cotechino cotto alla brace e a polenta buìda, o taragna o chissöla. E ancor meglio se apprezzato con gli amici dinanzi a una tavola di legno grezzo, all'aria aperta, nella pace di una bella giornata d'inizio primavera.


L'odore acre del vino novello, ancora giovane e asprigno, saliva dalle cantine aleggiando nell'aria. Sempre pronto in cucina - bianca di calce fresca e linda da specchiarvisi il rame -, v'era un ricco assortimento di boccali e boccaletti di maiolica dalle tipiche forme, con qualche scritta spiritosa: Bevi e paga, questo nettare ti resuscita, oppure: Chi beve vino campa pi첫 del medico che lo proibisce. Motti gustosi apparivano anche su rudimentali insegne messe all'entrata di questa o quella frasca. Come d'incanto a primavera inoltrata sparsi tra i brevi filari di vite, esplodeva un tripudio di grossi ciliegi in fiore e di peschi di un impareggiabile rosa a macchiare i prati, morbidamente punteggiati da mille fiorellini.

Bergamo in un tripudio rosato di Primavera

Brezze profumate, nella calda estate, di fieni e di quante erbe odoravano strane e distinte. Durante le classiche gite fuori porta, frotte di giovanotti si appartavano beati sul verde tappeto erboso e, stesa un'enorme coperta per la merenda al sacco, traevano da capaci borsoni le abbondanti vettovaglie, ancor pi첫 buone


se gustate all'aperto, innaffiate vino dei colli, che insieme alle gazzose, alle birre e alla spuma, veniva messo a disposizione dall'oste. Da presso giungeva il suono di un'orchestrina, arrangiata alla buona, di chitarre, mandorlini e fisarmonica (e in alcuni casi anche di banjo), e si udivano i canti e le risate provenire dall'aia. Qualcuno s'improvvisava tenore attaccando con La furtiva lacrima o, a gran richiesta, con Di quella pira l'orrendo fuoco, con l'immancabile, solenne “do di petto” finale. Il repertorio variava dai canti di montagna alle canzoni melodiche del tempo, soprattutto napoletane; ma si cantavano a squarciagola anche le canzoni un po' “sporche”, piccanti. Quando poi nella frasca arrivava qualche buon cantante, allora si puntava pure su qualche brano lirico. Un'atmosfera festosa che non lasciava spazio, malgrado l'ebbrezza, né a litigi né a questioni urlate: le urla erano riservate solo al gioco della morra. Storica è in particolare la frasca dei Rapizza sul colle di San Sebastiano, dove approdava Gaetano Donizetti, amante dei “bei siti" della sua Bergamo.

Il colle di S. Sebastiano ritratto nel 1959: il grande edificio sulla destra era il convento delle suore che ospitavano in collegio i figli dei carcerati. Sul crinale la mitica frasca dei "rapesa" (Rapizza).


Di questa frasca si ha notizia ancora nel 1860, grazie a una missiva da Marsala del garibaldino Alessandro Airoldi, che non desiderava altro che tornarvi. Negli anni quaranta del Novecento gli amatori del bel canto vi potevano udire la voce meravigliosa del tenore Alessandro Dolci, che autorevolmente assiso al pianoforte spronava ad esibirsi alcuni provetti dilettanti del bel canto: la frasca si riempiva allora di avventori e il repertorio di arie e romanze si protraeva sino a tarda ora.


Il tenore Alessandro Dolci (Bergamo 1890 - 1954), fu il piÚ grande cantante lirico del primo novecento bergamasco, la sua voce venne definita: potente e morbida, dal timbro d'acciaio eppure carezzevole come il tocco del velluto e la dizione nitida ed autorevolissima. Mascagni gli fece interpretare per 18 volte la sua "Parisina" (di cui esiste una registrazione fonografica). Cantò nei piÚ importanti teatri del mondo.


Il ricordo di una serata indimenticabie è rivolto alla frasca dei Bagià, in San Vigilio, dove un gruppo di cantanti e di coristi impegnati in un'opera lirica al teatro Donizetti vi approdarono a sorpresa commuovendo oste e avventori con un malinconico Va, pensiero.

Dal colle di S. Vigilio, ai primi del '900.

Quando la lunga giornata volgeva al termine, sullo sfondo, dietro le torri e le cupole di Bergamo Alta, un tramonto di fuoco arrossava tutto il cielo e a sera, mentre i grilli canterini allietavano l'oscurità, le compagnie discendevano i ripidi viottoli disordinatamente, e capitava che qualcuno rovinasse tra i rovi per le troppe libagioni. Un vino ancor più buono dopo una bella camminata, eh sì, perchè sui colli ci si arrivava a piedi salendo piano piano, e inevitabilmente la camminata procurava qualcosa di nuovo, di inaspettato, di stregato. Giunti alla frasca, quel vino pareva nettare per gli dei.


Il rito di “Sèt cése” A lungo per molte compagnie di bergamaschi è stata un'allegra consuetudine ritrovarsi alle nove in Colle Aperto, nelle domeniche di primavera e sino al termine dell'estate, per raggiungere sui colli questa o quella frasca.

Colle Aperto ai primi del Novecento (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti).

Dopo aver spedito una staffetta per prenotare il tavolo, diverse compagnie si disperdevano man mano, tra canti e risate, fra le cascine che esponevano una frasca. Chi saliva da Castagneta per raggiungere i Casati, i Birondi, o i Carminati, e chi s'incamminava per la Ripa di S.Vigilio per raggiungere le “frasche”, collocate in quella zona.


1875: veduta da Colle Aperto verso il palazzo dei conti Roncalli e la strada per Castagneta (fotografia probabilmente eseguita dal conte Antonio Roncalli - Archivio storico-fotografico D. Lucchetti).

I piĂš anziani e le famiglie con bambini troppo piccoli, preferivano servirsi della funicolare di S. Vigilio, risparmiando cosĂŹ la fatica della Ripa.


La salita della Ripa di S. Vigilio.


Dopo aver trascorso la giornata in letizia, giocando e cantando, gustando la cucina nostrana e bevendo fiumi di vino, verso le 22 si ritornava a casa; i vecchi e le donne con i bambini scendevano prima, i più giovani rientravamo più tardi perché avevano il loro giro da terminare, altre “frasche” da visitare: lo chiamavamo il rito di “Sèt cése” (delle sette chiese), durante il quale si beveva e cantava.



Borgo Canale verso il 1920 (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti). Alcuni anziani ricordano che dopo aver visitato le “sette chiese”, prima di rientrare in città passava con gli amici per Borgo Canale , dove, raggiunta la casa natale di Gaetano Donizetti, intonavano la celebre romanza dell'Elisir d'amore: la “Furtiva lagrima”. Non mancavano episodi esilaranti, ricchi di colpi di scena.

Negli anni trenta i clienti più numerosi erano i gitanti delle domeniche, mentre i barbieri, per esempio, vi andavano i lunedì. Per un lungo periodo questi ultimi ebbero l'abitudine di inaugurare il periodo di penitenza quaresimale – il mercoledì delle Ceneri - peregrinando tra le osterie di Borgo Canale e le frasche. Quale simbolico richiamo alla Quaresima tenevano infilata un'aringa affumicata nel nastro del cappello, giusto per osservare il prescritto precetto di “magro” previsto il primo giorno quaresimale. Era consuetudine festeggiare alle frasche anniversari e Prime Comunioni, ed ogni altra occasione un po' speciale. Ma in particolare, a quel tempo, era soprattutto a Pasquetta che i bergamaschi raggiungevano la frasca preferita per il tradizionale pranzo a base di salame e insalatina fresca, accompagnando il tutto dal tipico vinello dei colli e riservando ai bambini l'immancabile bottiglietta di gazzosa tappata con la caratteristica biglia di vetro. Dopo il pranzo c'era tempo per una partita alle bocce su precari campi che confinavano con gli orti, oppure per una passeggiata lungo i Torni godendosi fino all'ultimo il tepore del sole.

Nella stupenda prosa di Geo Renato Crippa, sostare alle frasche nei giorni 'feriali' del chiaro di settembre alla maniera di un cacciatore o d'un sognatore sereno, procurava, inutile precisarlo, momenti, anche se romantici, di timida letizia. Si godeva dell'umilta di un fascino domestico. Non stordiva il tranquillo tramestio della cucina appena discosta, il battere di un falcetto sulla siepe, il chiacchiericcio del pollaio, e nemmeno una voce perduta lontano... Solo l'accostamento ad interessi virgiliani, al fremere della terra, alla tessitura, mai aspra, delle opere feconde, mobilitava vieppiù quell'ambiente mai stanco di sollevarsi nella giocondità impercettibile ma decifrabile solo ai moti del cuore..


La Bastia e la Val d'Astino dal colle di S. Vigilio, anni '50.


Le macchiette Nelle frasche capitava spesso d'imbattersi in una delle tante “macchiette” della città, personaggi stravaganti peri loro particolarissimi atteggiamenti. Tra queste, un posto di preminenza spetta senza dubbio al “Mèrica” (al secolo Signorelli Giovanni), “figura piccola con gambe ad arco, che abbandonò la sua professione di calzolaio per fare il cantastorie. Cantava canzoni sue che commentavano argutamente i fatti cittadini.

Il Mèrica, al secolo Giuseppe Signorelli, cantastorie di Bergamo, ritratto nel 1920 nei pressi del Duomo.


Altra celebre “macchietta” era il barbuto Giovanni Servalli detto “il principe lustrascarpe”, pazzoide e accattone dignitoso, stupenda incarnazione della parodia oratoria, con una gran barba profetica, un berrettone calato sulla fronte ed un”ampia palandrana. Poi c”era “ol Ciapa mosche”, che risiedeva in via Colleoni, alto e magro con i baffi e vestito con miseri e sudici abiti: mendicava suonando la chitarra, sempre accompagnato da una donna cieca (forse sua moglie). Altra figura caratteristica di Città Alta era il “Boa”, questo barbuto “medico” (aveva in gioventù fatto per due anni medicina) si vantava di essere un bravissimo attore specializzato in versi danteschi. Un giorno ebbe la sventura di uscire sul palcoscenico e dopo pochi versi fu costretto a smettere per le urla e i fischi degli spettatori presenti. Elenchiamo brevemente altre “macchiette”, ricordate dagli avventori: “Ol Scarpèla, suonatore di chitarra, “Il Menotti”, “Ol Garibaldi”, “Ol Muriccio”, “Ol Gnocc”, “Ol Vesbù” che usciva tutte le sere da via Porta Dipinta ad accendere i lampioni; del “Cuminetti“, idraulico di professione e tenore mancato, è ancora celebre la sua “Di quella pira” con clamorosa steccata finale. “Ol Pipelé”, “Ol Gandòla”, “Ol Sciabulù”, “Ol Lumazzi” un “gobbetto” che faceva il corriere tra i colli di Città Alta e la citta bassa con un asinello sempre carico di mercanzia e il “Carlo Sarzetti”, artigiano di Città Alta che intratteneva le persone nei cortili delle “frasche” con una baracca improvvisata, eseguiva divertenti spettacoli di burattini; altro burattinaio era un certo Bernardo Moro di Peja detto “Pasquali”.


Il burattinaio Carlo Sarzetti nella sua abitazione di via Tassis, a Bergamo Alta (Museo storico di Bergamo).

Oggi quasi più nessuno si ricorda di queste macchiette che, in altri tempi quanto tutto era più semplice e genuino, hanno reso un poco più allegra (per non dire meno triste) la vita dei nostri padri e dei nostri nonni con quel calore genuino e quell”umorismo originale e caratteristico. Nota Il testo è frutto di una rielaborazione resa possibile grazie a Evaristo Pagani e Luca Bresciani (Le “frasche” sui colli di Bergamo. Circoscrizione n. 3 – Citta alta e colli, 1999). Alessandra Facchinetti alessandrafacchinetti@outlook.it



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