Roberto Vecchioni. Miti e parole di un lanciatore di coltelli

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Ernesto Capasso

Roberto Vecchioni Miti e parole di un lanciatore di coltelli

La riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza autorizzazione scritta è severamente vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi Prima edizione: ottobre 2011 Š 2011 Arcana Edizioni Srl Via Isonzo 34, Roma Tutti i diritti riservati Copertina: Laura Oliva Tutte le foto presenti nel libro provengono dall’archivio di Roberto Vecchioni ISBN: 978-88-6231-201-1 www.arcanaedizioni.com


a Silvia, tenero fiore del maggio odoroso a Sandra che lo ha colto


Indice

Il lanciatore di coltelli sono io, siamo tutti noi. I coltelli sono i pensieri, le nostre forme d’espressione. Ci sono stati i grandi lanciatori: Raffaello, Einstein. Poi ci sono quelli come me, gli imitatori: faccio del mio meglio, provo a emozionare e qualche volta riesco a prendere una stella. ROBERTO VECCHIONI

“Basta anche un niente per esser felici / basta vivere come le cose che dici” Incontro con Roberto Vecchioni

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I coltelli, l’amore e le parole Un inizio

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Speranza Lessico familiare Figli Le sentinelle del futuro Le donne e l’amore Voci di madre Amici L’altro se stesso La poesia La signora vestita di nero Miti e leggende Gli amori di carta e le storie

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Il sogno I luoghi Le parole e gli sguardi Le favole Ippopotami, giudici e fantasmi Il viaggio Il dialogo con Dio Il tempo Pessoa, Catullo e le speranze, un epilogo

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APPENDICI

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Il professore e i poeti Roberto Vecchioni e l’arte della narrazione Nota biografica Discografia Note Bibliografia Ringraziamenti

“Basta anche un niente per esser felici basta vivere come le cose che dici” Incontro con Roberto Vecchioni

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Cammino per l’ampia strada che costeggia il lungomare di Napoli, la mia città, in un pomeriggio di primavera inoltrata. Guardando il panorama, riaffiora in me un verso di Dante: “La dolcezza ancor dentro mi suona”. Mi soffermo a guardare il castello che domina il paesaggio. Castel dell’Ovo, chiamato così per una leggenda legata a un uovo magico appartenuto al poeta Virgilio, è il più antico della città. Sorgendo su un isolotto roccioso, “Megaris”, il palazzo è per una metà sulla terra e per l’altra totalmente immerso nel mare. Osservandolo, in attesa dell’incontro con Roberto, mi è sembrato una metafora appropriata del percorso musicale e letterario di Vecchioni. Le canzoni e i libri del professore abitano in una terra di mezzo sempre in bilico tra il sogno e la realtà, tra il desiderio e il rimpianto, fra la nostalgia del passato e la fede in un domani migliore. “Il Castel dell’Ovo fa parte della mia infanzia, io sono figlio di napoletani, ci sono stato tante volte”, mi dice Roberto che, sorridente, mi accoglie nella hall di un hotel nei dintorni. Signor Vecchioni, uno dei suoi dischi più intensi è: IL LANCIATORE DI COLpubblicato nel 2002, a cui ci siamo ispirati per il titolo di questo

TELLI,

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libro. Che significato hanno, nel suo cammino artistico, questa figura e questa canzone? Storia e leggenda del lanciatore è una canzone fondamentale perché è una storia totale. È la storia della speranza e degli ideali che si trasmettono da nonno a padre a figlio. Racconta del vero significato che hanno i coltelli che certamente non vengono intesi come un mezzo per offendere ma rappresentano le esternazioni, i pensieri. C’è un bersaglio non ancora raggiunto verso cui, in questo momento, vorrebbe indirizzare un pensiero, una suggestione, “un coltello”? In questo periodo sto facendo tantissimo, penso, anche più di quello che mi è permesso perché in realtà non è che io sia un grande politico, un sociologo o altro. C’è un’enorme differenza tra il ruolo del poeta, qualunque tipo di poeta, anche piccolo, come lo intendo io, e quello del pensatore, del maestro di pensiero. C’è una differenza notevole: il poeta lavora d’istinto mentre il maestro di pensiero ha a che vedere con la scienza vera e propria. Va da sé quindi che trovare soluzioni per i problemi delle persone, degli uomini, della vita, della civiltà, della cultura non è una cosa che posso permettermi di fare. Per che cosa uno scrittore di canzoni può trovare soluzioni? Quello che posso fare è trovare soluzioni per l’anima. Aiutare le persone a relazionarsi a se stesse, suggerire agli altri l’importanza dell’abitudine alla coerenza e cose di questo genere. Tutto questo ha poco a che vedere con un’analisi politica, partitica o di parte, anche se la mia parte è abbastanza nota, io sono più a Sinistra che a Destra. Però non è questo quello che faccio e che voglio fare, non è cercare di mettere insieme gli uomini, né far capire a uno come è l’altro e così via. Qual è, secondo lei, oggi, il compito di uno “scrittore di parole”? Io tento, nel mio piccolo, di far capire a ogni uomo com’è dentro, com’è nella sua intimità, nella sua trasparenza o non trasparenza. Cerco di spingere le persone a porsi delle domande per poi far sì che in un secondo momento le facciano anche agli altri. Il compito di uno scrittore di parole, di sentimenti è leggermente diverso da quello di un costruttore di idee politiche e sociali. Talvolta possono seguire strade comuni ma si tratta comunque di un diverso modo di esprimersi. 12

Che cosa le manca di più, oggi? Mi mancano molte cose, tantissime. Mi manca vedere gli uomini più felici, più allegri, contenti. Vedo sempre persone tristi, arrabbiate con la propria vita, con la società in cui vivono, con la patria che non gli dà nulla. Ecco è per gli altri che sono in pensiero, non per me. E per se stesso, cosa insegue? Io mi accontento di quel che ho, l’ho già scelto quello che ho. Ho scelto di non contrabbandarmi in nessun modo, di fare anche cose fuori dalla mia portata intellettuale, se servono e l’ho fatto partecipando a Sanremo. Non ho preoccupazioni per me, le mie preoccupazioni sono per gli altri. Quindi tenterò con le parole, con la musica e con i sentimenti soprattutto, di supportare i discorsi degli altri rappresentando uno stile di vita a cui non sono capace di dare una risposta. Prima ha parlato delle parole. Nel suo romanzo Le parole non le portano le cicogne, le definisce: “Soffi dell’anima dinanzi all’ignoto per definirlo e non averne più paura”. Se dovesse scegliere due o tre parole che maggiormente le fanno compagnia e le sono care, quali sceglierebbe? Indipendenza, carità, gioia, armonia con se stessi, queste sono le cose per me fondamentali. Più ancora di libertà, che pure è bella come parola, o di amore per se stessi. Tra carità e amore, quale predilige? Carità mi piace più di amore come concetto perché la carità è rivolta agli altri, nell’amore c’è sempre qualcosa di egoistico, invece, la carità è rivolta agli altri. Altre parole? La semplicità… E la coerenza? La coerenza non è un concetto che mi coinvolge più di tanto. Dipende da che cosa si intende per “coerenza”, non è mica facile stabilirlo. Io penso di avere una mia coerenza però qualche volta posso anche travisare, andare fuori, se ne ho bisogno per arrivare a un fine diverso. 13


Quali sono dunque le parole fondamentali, oggi, per Roberto Vecchioni? La carità, l’armonia con se stessi e con gli altri e… la pazienza. Pazienza intesa nel suo senso etimologico, da pathos, cioè questo soffrire la vita e accettarla come gli stoici, come un fatto necessario, importantissimo, per non abbattersi mai. Il fine è questo… non abbattersi mai di fronte alle situazioni e non dare la colpa agli altri. Questo è un vecchio vezzo italiano, dar sempre la colpa a qualcuno quando la colpa è anche tua. Prima ha parlato della necessità di non abbattersi, c’è una parola che ritorna nel suo percorso artistico ed è: speranza. Chiamami ancora amore è stata definita dal giornalista Michele Serra sul quotidiano «la Repubblica»: “Un manifesto della speranza”. Che valore ha per lei, oggi, la speranza? La speranza era una delle più belle dee dei latini. La spes era una delle divinità che i latini amavano di più. Non è mai definitiva, è il controcanto a tutte le altre divinità. Tutto quello che succede nel commercio, nella poesia, nel lavoro, in qualsiasi cosa, ha accanto la speranza, come divinità che accompagna ogni cosa. È la nostra arma segreta. Dobbiamo averla sempre, dobbiamo comunicarla ai figli, alle future generazioni perché il momento in cui ti arrendi è il momento fatale, è quello della fine. Dunque che requisiti deve avere, per lei, la spes? La speranza deve essere la cosa che sempre e comunque ti dà il senso di andare avanti. E Chiamami ancora amore è una canzone di speranza? Chiamami ancora amore è assolutamente una canzone di speranza, d’altronde, devo dire, ha avuto anche dei risultati… perché qualcosa è cambiato nell’immediato (sorride). Anche se non è questo il punto. Probabilmente non è quello l’importante. Il mondo non sarà mai perfetto e questo lo sappiamo benissimo, gli uomini non saranno mai tutti uguali, le cose non andranno mai bene per tutti, questo è normale purtroppo, però proprio per questo non bisogna mai perdere questa spes, questa voglia di pensare che il mondo non congiura contro di noi, dobbiamo essere noi ad andare incontro al mondo. 14

Gli artisti hanno la capacità di captare, di sentire prima degli altri il segnale di un cambiamento? Questo non saprei stabilirlo. Me l’hanno detto in tanti che l’artista riesce a cogliere ogni cosa prima degli altri, anche molto prima. Sì, forse è vero, perché l’ho visto e l’ho letto in tanti autori certamente più grandi di me. Questa forma di preveggenza esiste perché l’artista calcola in un modo infinitesimale con l’anima e con la sensibilità, non certo con la ragione, alcune cose che stanno per avvenire, per avverarsi e che agli altri sfuggono anche perché nel vivere quotidiano degli altri c’è forse fin troppa realtà. L’artista, invece, riesce ogni tanto a vagheggiare e quindi riesce a captare l’evolversi delle cose. Realtà e immaginazione, l’uomo è sempre in bilico tra due mondi e due anime? L’uomo è entrambe le cose: desiderio e delusione, sogno e recriminazione. Siamo sempre entrambe le cose. Questo mi fa venire in mente il tema del doppio che è centrale nelle sue canzoni. Lei spesso si è specchiato in personaggi storici e letterari, in poeti e scrittori: Arthur Rimbaud, Alda Merini, Fernando Pessoa, Jorge Luis Borges. Fra tutti questi specchi, ce n’è uno il cui riflesso le somiglia di più? Amo molto il tema del doppio. Poeti e personaggi li ho anche cambiati un po’ per farli somigliare a me. Quello a cui mi sento più vicino è Borges, per la sua grandezza, la sua unicità, il suo percorrere universi improvvisamente complicati, mescolati, infiniti, ma mediabili, accettabili, a volte comprensibili, a volte no. Borges è stato un grandissimo genio. In che cosa Roberto Vecchioni si distacca da Jorge Luis Borges? Da lui mi distacco per alcune cose, per esempio io ho molta più fede. Io credo nell’aldilà, credo sinceramente che non tutto finisca qui. Qual è stata la lezione che lo scrittore argentino, di cui quest’anno ricorre il venticinquennale dalla scomparsa, ci ha lasciato? La sua lezione agli uomini è stata fantastica. L’unico peccato è che non abbia preso il Nobel che si meritava.

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Parlando sempre di grandi scrittori a lei cari, c’è una frase di Cesare Pavese che dice: “Non si ricordano i giorni, si ricordano i momenti”. C’è un momento della sua carriera che le è rimasto nel cuore? Mamma mia… Ce ne sono due o tre. Il primo disco che ho fatto, mi ha fatto quasi morire per l’emozione: per me era il massimo. È stato tanto tempo fa, sto parlando del 1970-71, tantissimo tempo fa. Quello è stato un momento molto emozionante, bellissimo, fantastico. Il secondo momento? Vincere il premio Tenco è stato un bel momento, con il riconoscimento alla carriera. E Sanremo? Sanremo non è stato meno emozionante, ma sapevo che era un’altra cosa. Non sono andato al Festival per fare una figuretta, ci sono andato per vincere. Per me significava portare avanti un discorso sulla canzone d’autore e anche prendermi una bella responsabilità sulle spalle per tanti altri che non se l’erano presa. La canzone d’autore non è sempre così difficile, complessa, complicata o snob come si è abituati a credere, può essere anche molto popolare. Sanremo allora rientra tra i momenti da ricordare? Sì, vincere Sanremo è stato un bel momento ma è venuto dopo. Anche se avessi perso, sapevo benissimo che comunque l’operazione era riuscita. L’avevo capito già da prima, dai giornalisti, da tutti, dai commenti. Sapevo che dovevo farlo. Non arrivando a fare la vittima sacrificale perché non è quello il senso anche perché non mi sono sacrificato per niente. Quali sono state dunque le cose più belle della sua carriera? Le cose più belle nella mia carriera sono stati alcuni concerti che mi ricordo. Il piacere immenso di vedere gente applaudire per cinque, sei minuti. A Roma, non più tardi di cinque o sei anni fa, ho ricevuto dieci minuti di applausi. Sapevo che non era una cosa da prima copertina, da 500mila copie. Forse era anche un fatto un po’ elitario però di grandissima qualità e valore e mi ha emozionato tantissimo.

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Restando sempre nell’ambito poetico, lei, nel primo racconto del libro Scacco a Dio dal titolo L’importanza di essere Wilde, cita un aforisma dello scrittore irlandese: “Oggi essere comprensibili equivale a essere scoperti”. Certo, Oscar Wilde sfuggiva sempre alla comprensione. Lei, invece, quando si è sentito veramente compreso e scoperto? Non credo sia importante essere compresi o scoperti. Se esco fuori, oggi, mi saltano addosso tutti, eppure non sono cambiato negli ultimi cinque mesi. Per un motivo o per l’altro, perché ho fatto un Sanremo e l’ho vinto, tutti mi vogliono, tutti mi cercano, ma non è che cambi la mia vita. Le ha fatto piacere questo tipo di popolarità? Lo volevo. Poteva capitare a Renato Zero, a De Gregori, poteva capitare a chiunque, non è importante. Volevo che un cantautore, cioè una persona che vede la società con un occhio un po’ più critico, un po’ diverso, meno fanciullesco e semplicistico avesse questa popolarità. Lo volevo e sono contento di averla ottenuta. La popolarità è quindi un modo per abbattere barriere e steccati tra il cantautore e il pubblico? Sì perché c’è sempre un po’ di incertezza, di dubbio, la gente non è che capisca molto bene, al volo, quel che dicono i cantautori. Le loro istanze, le loro canzoni sono a volte un po’ complicate, come il loro modo di essere. Quindi bisogna trovare una via di mezzo e dire: io adesso vi faccio ascoltare questa canzone però andate a sentire anche altre cose che sono un po’ più complicate ma altrettanto importanti. Rimanendo nell’ambito delle canzoni, in un altro dei racconti di Scacco a Dio, dal titolo Voce ’e notte uno dei personaggi, a un certo punto dice: “Gli uomini cantano quel che non riescono a dire con le parole”. C’è qualcosa che finora Roberto Vecchioni non è riuscito a esprimere con le parole ma soltanto con la musica? Tanto. Dipende dalle parole, dal momento, con chi parli, con chi sei, di che cosa parli. Non è facile sempre farsi capire con le parole e nemmeno con tutti.

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Ad esempio? L’esempio più semplice è che quando canti per amore, quando vuoi dire una parola d’amore a una donna è più facile cantarla che dirla. Cantandola le arriva subito, a dirgliela, invece, è un discorso normale, quasi scontato. Che valore ha, secondo lei, una canzone per una donna? Una canzone per una donna è importantissima, è come un fiore, è sincera, è vera. Il canto imprime più sincerità al discorso parlato. In un brano del 1997, Quest’uomo, contenuto nell’album EL BANDOLERO STANCO, lei canta la fragilità di un padre di fronte ai figli. Le canzoni possono essere viste come uno strumento per abbattere barriere e rivelare se stessi? Penso che le canzoni abbiano sempre assolto questo compito, ottenendo anche i risultati cercati. Le barriere sono state abbattute. Molte melodie sono arrivate nell’immaginario, nel senso di vivere la vita della gente, sono state comprese, accettate, capite e sono state tradotte in speranza, carità, amore. Quale funzione deve avere per lei, oggi, una canzone? La funzione della canzone è simile a quella del cinema d’essai, del teatro, della bella arte. La canzone fa conoscere all’uomo la sua fragilità ma insieme anche la sua grandezza. Prima accennava al suo disco d’esordio, il 2011 segna i quarant’anni dall’uscita del suo primo 33 giri, PARABOLA, al cui interno era contenuta Luci a San Siro, composta, in realtà, due anni prima, nel 1969, lei aveva 26 anni. A distanza di oltre quarant’anni, cambierebbe qualcosa di quella canzone? Luci a San Siro è così, deve essere così, doveva essere così e l’attimo dopo che ho finito di scriverla, ho detto: “Questa mi resterà per sempre”, e non l’ho mai detto per nessun’altra mia canzone. Luci a San Siro era fondamentale. Avevo capito… che c’era tutto dentro: non vendersi mai, amare fino allo spasimo, essere traditi, piangere l’amore, trovarne un altro. C’era tutto…

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A proposito di amore, c’è una frase dello Zibaldone di Giacomo Leopardi che mi sembra si sposi perfettamente con la sua poetica. Leopardi scrive: “Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando”. Vorrei chiederle in che misura nelle sue canzoni e nei suoi libri l’amore e la vita si intrecciano e si sovrappongono. Partiamo da Leopardi. Si è sempre pensato che Leopardi non amasse niente e nessuno, invece non è vero assolutamente perché aveva un amore per la vita straordinario. È tipico dei pessimisti avere un amore meraviglioso per la vita. E l’amore nella vita di Roberto Vecchioni come si colloca? Nella mia vita l’amore è il tema fondamentale. L’amore è questo miracolo straordinario che fa unire in un certo punto temporale, spaziale, spirituale e animale due cose, due persone, due oggetti, due situazioni ed è una delle prove infinitesimali dell’esistenza di un disegno. Perché non è possibile che esista una cosa così bella che sia soltanto un prodotto della natura o del rapporto fisico con un’altra persona. L’amore tra gli uomini è prima di tutto emozionale, intellettuale, di intelligenza, di sensibilità. Si è mai chiesto perché fra tante donne un uomo ne voglia una soltanto che magari agli occhi degli altri è meno bella di tante altre? La bellezza, che pure è importante, non è la sola cosa che conta. Che cos’è importante, secondo lei, nei rapporti d’amore tra le persone? L’importante è la corrispondenza che è data dall’amore. Ad esempio? Io vedo molto più bella la mia compagna, ho molto più piacere ad andare a dormire la sera con mia moglie perché sono in armonia con lei, piuttosto che andare con una mai vista, strafiga, che però non mi dà niente. In una sua canzone, Piccolo amore, contenuta nell’album BEI TEMPI del 1985, lei canta: “Piccolo letto / dove puoi dormire / che è un altro modo poi di far l’amore”, l’amore è dunque un sentimento molteplice e onnicomprensivo? L’amore è onnicomprensivo… poi soprattutto adesso che ho la mia età. Magari a vent’anni ti va bene tutto però dopo si bada al piacere dello stare con la persona che si ama. Questo piacere è sacro. 19


In che senso l’amore è un sentimento sacro? Il sentimento d’amore è religioso perché è giusto fare l’amore con la persona a cui si vuol bene e che ti illumina l’esistenza e non con un’altra che è la più strafiga del mondo ma che non ti illumina niente.

I coltelli, l’amore e le parole… Un inizio

In conclusione, se dovesse scegliere il verso di una sua canzone che sente, in questo momento, maggiormente la rappresenti, quale sceglierebbe? Quello di Canzone per Alda Merini è bello. Prima lei mi ha ricordato la Merini. Quel verso che dice: “Basta vivere come le cose che dici”. Questo verso mi prende ancora oggi tantissimo. Mi è venuto dai discorsi con Alda naturalmente: “Basta anche un niente per esser felici / basta vivere come le cose che dici”. Quello è veramente il senso dell’esistenza. Le canzoni forse non cambiano il mondo o le persone ma hanno la capacità di spalancare porte su noi stessi e sugli altri e in particolare quelle di Roberto Vecchioni spesso riescono nel difficile compito di abbattere barriere e aprire serrature interiori. Saluto Roberto, lasciandolo ai suoi impegni, portandomi dentro la felice sensazione di aver conversato con un artista e un uomo pacificato con se stesso e con gli altri. Mai domo, lo scrittore di parole e sentimenti conserva immutata la voglia di lanciare coltelli, pensieri, idee, esternazioni verso gli altri e verso se stesso, per continuare a vedere la vita, la vita… davvero, perché come recita una delle strofe di Storia e leggende del lanciatore: “E volavano su nel cielo / come ricordi, come paure, / queste piccole cose di uomo / che sono ritorni, che sono avventure / e anch’io ogni tanto prendevo una stella, / e illuminavo uno sputo di cielo / e potevo finalmente vederla, la vita, / vederla, vederla davvero!”. Giugno 2011

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“Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando”, scrive Giacomo Leopardi, in una pagina dello Zibaldone, datata 1819. Le canzoni di Roberto Vecchioni potrebbero racchiudersi in questo aforisma del genio di Recanati, ossia un desiderio ostinato di vivere alimentato da un motore inesauribile e incessante: l’amore. Se si vuol trovare un senso a questa esistenza, l’unica strada è amare, senza smettere neanche per un minuto: “E allora penserò che niente ha avuto un senso / a parte questo averti amata, / amata in così poco tempo”1. Il cuore brucia di passione come un incendio in una radura in piena notte, le scintille inondano il cielo che si colora di luci come in un bombardamento aereo, le stelle rimangono fisse in alto a guardare quanto sta accadendo, il sogno di un mondo migliore forse è ancora possibile. L’utopia di un domani senza divisioni e conflitti affiora nelle parole che come lettere d’amore indirizzate al mondo affidano alla voce il canto di una nuova nascita, di un’epifania luminosa. Tenaci e combattivi i versi di Roberto Vecchioni sfidano i modelli fatui di una società falsamente opulenta orientata più verso la ricerca di un risultato che di un significato. Canzoni come coltelli tesi a trafiggere la rassegnazione, l’indifferenza e le ombre della sera. Gli idoli, i potenti non sono altro che figu21


rine di cartone di fronte al flusso impetuoso dell’esistenza che spazza via ogni cosa, solo l’amore rimane, perché: “Il mondo sarà salvato dalla bellezza”2. Anche quella di una canzone che se pure, come sostiene Francesco Guccini: “È il fatto di un momento”, non esita a intrecciare le sue note ai nostri respiri, le sue armonie ai pensieri. Forse siamo davvero tutti lanciatori di coltelli, anime alla ricerca di un bersaglio da colpire, di un sogno da afferrare, di una mano da stringere. “I coltelli”, spiega Vecchioni, “sono i pensieri, le nostre forme di espressione. Il lanciatore di coltelli non tira per raggiungere un risultato preciso. L’artista non è uno scienziato, non è un politico, non deve dire una verità. L’artista deve dare sensazioni, emozioni. Le emozioni sono i disegni dei coltelli attorno a una sagoma”3. Alla ricerca delle traiettorie indefinite e fuggevoli che l’artista disegna indirizziamo la rotta del viaggio lungo itinerari di musica e parole. Percorsi, stazioni di partenza, porti dove attraccare le ancore di un infinito viaggiare, angoli di visuali, finestre affacciate sulle distese dell’ispirazione artistica, attraverso cui far vibrare le corde di un racconto lungo oltre quarant’anni. È il 1971 quando un giovane cantautore milanese di origini napoletane firma il suo primo album: PARABOLA. All’interno un brano che non passerà inosservato: Luci a San Siro. Passano quarant’anni, suoni, parole e indecifrabili nostalgie, e il professore che sogna si presenta sul palco del teatro Ariston di Sanremo e vince la 31esima edizione del Festival con Chiamami ancora amore, aggiudicandosi anche il premio della Critica intitolato a Mia Martini. “Questa è la storia di uno di noi […]”, direbbe Adriano Celentano, anche lui nato (per caso o forse no…) nelle vie sterminate e suadenti della musica, in quella terra senza confini né padroni dove le parole diventano: “Soffi dell’anima dinanzi all’ignoto per definirlo e non averne più paura”4.

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SPERANZA La speranza è un sogno fatto da svegli. ARISTOTELE


Chiamami ancora amore (R. Vecchioni – C. Guidetti – R. Vecchioni) 2011 Perché le idee sono voci di madre che credevamo di avere perso e sono come il sorriso di Dio in questo sputo d’universo. L’ingenuità di un uomo considerato straniero nella propria casa, l’onestà che non vuol lasciare il campo ai miti del consumo e del facile benessere. “La guerra non è finita!”, Gennaro lo ripete a ogni persona che incontra: amici, conoscenti, ma soprattutto familiari. È fuggito da un campo di concentramento, è tornato nella sua abitazione, ma non se ne sente più parte. Il figlio fa il ladro, la moglie la borsa nera, la figlia aspetta un bambino da un soldato americano ritornato in patria. “Quando dissi l’ultima battuta: ‘Ha da passa’ ’a nuttata’ e scese il pesante velario, ci fu silenzio ancora per otto, dieci secondi poi scoppiò un applauso furioso e anche un pianto irrefrenabile. Io avevo detto il dolore di tutti”5. Eduardo De Filippo, lo sciamano capace di tirare 24

fuori dal cuore delle donne e degli uomini il dolore sopito e rimosso della guerra, ha esorcizzato le ombre con una frase scolpita nel legno robusto della memoria: “Ha da passa’ ’a nuttata”, un grido liberatorio, teso a scardinare la ruggine che imprigiona le parole, la nebbia delle coscienze. Uno schiaffo contro la paura capace di tradursi in una parola sola e audace: speranza. Da maneggiare con cura, con guanti di seta per non sciuparla, per non lasciarla cadere nelle sabbie mobili della banalità e della retorica. Il professore che sogna conosce l’alchimia delle lettere che unite insieme sono in grado di evocare mondi e memorie e così quando scrive Chiamami ancora amore firma quella che il giornalista Michele Serra ha definito sulle pagine del quotidiano «la Repubblica»: “Un manifesto della speranza”, una canzone contro i signori del dolore, ma soprattutto una melodia per… per i ragazzi che scendono nelle piazze per difendere un libro vero, per l’operaio che perde il suo lavoro, per le idee che sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo. Lanciati con fantasiosa precisione verso il bersaglio, i coltelli affilano la traiettoria fino a raggiungere il centro: “Che questa maledetta notte / dovrà pur finire”, rimando implicito all’antico monito di Eduardo. Dopo quella raccontata da De Filippo, nel 1945, un’altra notte oscura la società con i suoi tentacoli violenti e subdoli. Raccontare il dolore non è rassegnarsi alla sua ombra ma combatterlo, stanarlo con lo sguardo dei poeti. “Quello che ho messo nella canzone”, spiega Vecchioni, “è di tutti non soltanto mio. È di tutti anche quella immensa frase di Eduardo De Filippo che è il centro di Chiamami ancora amore ossia ‘Ha da passa’ ’a nuttata’ ovvero questa maledetta notte dovrà ben finire. Non sono un profeta ma un romantico e un idealista. Finché ci saranno quelli che hanno i nervi, il sangue e la poesia per dire queste cose, questa nottata finirà”6. Un rimedio da contrapporre al silenzio cupo della sera è la forza travolgente della scrittura: “E scrivere d’amore / scrivere d’amore / anche se si fa ridere / anche quando la guardi / anche mentre la perdi / quello che conta è scrivere”7, canta Vecchioni nel brano Le lettere d’amore. La scrittura è speranza, il canto dilegua la tristezza provocata dal tramonto del sole proiettando lungo le superfici dell’anima squarci di infinito, ricordi assoluti e indelebili di primavere mai sfiorite, la cui fragranza ritorna a farsi sentire nelle narici. I coltelli lanciati verso il bersaglio evocano trascendenze sognanti, in 25


grado di disegnare lungo le rive della coscienza frammenti di speranza. Forse per questo la canzone, nel corso degli ultimi cinquant’anni, si è imposta sul silenzio della poesia senza musica. “A differenza della poesia”, scrive Donatella Bisutti, “che nella seconda metà del Novecento sembra esprimere soprattutto una visione negativa e senza speranza della vita, la canzone ha conservato per lo più una componente utopistica, ha interpretato una spinta combattiva verso il cambiamento, una speranza anche ingenua in un mondo migliore dove l’ingiustizia venga finalmente abolita e la felicità sia possibile”8. La canzone è speranza, desiderio di un mondo possibile dove vivere in pace. “Non esaltate il talento / che è sempre più spento / non li avviate al bel canto, al teatro, alla danza / ma se proprio volete / raccontategli il sogno di un’antica speranza”9, canta Giorgio Gaber in Non insegnate ai bambini. “Ero a Roma quando ho scritto Chiamami ancora amore. Non riuscivo ad addormentarmi e chissà perché mi sono venuti in testa alcuni flash di sogni. Prima di tutto, mi sono ricordato di quando, da bambino, giravo per i prati della Valle d’Aosta, dove trascorrevo le vacanze. Mi pareva tutto bellissimo e tra me e me dicevo: ‘Com’è bella l’Italia’. Poi altri flash di quando andavo all’università e parlavo con i miei amici della voglia di cambiare e discutevo con loro del futuro che vedevamo roseo. Da quel momento ho imparato poco alla volta il valore della cultura. La cultura salva da tutto. Imparavo e leggevo e non mi bastava mai”10. Scrivere aiuta a capire, a sapere che non sei solo. L’uomo alla ricerca del sapere, come l’Ulisse dantesco, è un individuo in cammino, mai stanco, mai piegato dalle onde e dalla burrasca, è come un naufrago incapace di ritrovare la strada di casa. Itaca è vicina, il fuoco è acceso, il rumore dei ceppi penetra nelle ossa con la dolcezza di un canto di sirena, il sentiero è lungo e non ha fine perché: “Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza”11. Quella conoscenza che, come il tepore di un mattino primaverile, ti fa sentire libero di vivere, di amare e provare la dolcezza che suona dentro.

Sogna, ragazzo, sogna (R. Vecchioni) 1999

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Copri l’amore, ragazzo, ma non nasconderlo sotto il mantello: a volte passa qualcuno, a volte c’è qualcuno che deve vederlo. Aveva un nonno poeta e una moglie a cui scrisse lettere d’amore da un luogo ostile: il carcere. Rinchiusero la sua ispirazione ma la farfalla può volare, come ci mostra Van Gogh, anche nel grigio cortile di una prigione. Lui chiese asilo alla scrittura, inventando un mondo oltre le sbarre dove la giustizia fosse ancora possibile. Nel 1948, due anni prima di essere scarcerato, Nazim Hikmet scrisse un canto d’amore alla vita: “Prendila sul serio / ma sul serio a tal punto / che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi non perché restino ai tuoi figli / ma perché non crederai alla morte / pur temendola / e la vita peserà di più sulla bilancia”12. La vita è un dono. Il professore lo sa, la speranza e la vita sono una cosa sola. Il sogno è la strada da percorrere per ritrovare l’entusiasmo perduto, una realtà parallela da attraversare con l’animo ingenuo e stupito dei bambini. La lirica del poeta prigioniero fa breccia nell’ispirazione dell’artista che a essa attinge per scrivere Sogna, ragazzo, sogna. Nel testo dell’autore turco è forte il richiamo alla vita, alla forza e alla fragilità del suo incanto, l’invocazione a vivere ogni giorno fino all’ultimo istante con tenacia e combattività. In Vecchioni, pur conservando la risolutezza di Hikmet, il verso diventa più dolce, poiché protagonista del brano è l’amore, il sentimento universale che permette di sognare e di “spostare i fiumi con il pensiero”. In particolare, in un verso, è possibile cogliere buona parte del percorso poetico del professore: “Copri l’amore ragazzo / ma non nasconderlo sotto il mantello / a volte passa qualcuno / a volte c’è qualcuno che deve vederlo”. Nel riferimento alla vita, quale forza inarrestabile, cogliamo uno dei punti salienti del percorso letterario di Vecchioni che nelle sue canzoni non manca mai di inserire delle vere e proprie dichiarazioni d’amore all’esistenza, vista nelle sue accezioni più ampie, dall’amore per la propria donna a quello per i valori civili di una comunità, da quello per le parole e le idee a quello per il sogno. Un sentimento conflittuale, a volte burrascoso in grado però di portare dentro una tensione etica e morale accompagnata da una costante positività di toni e contenuti. SOGNA RAGAZZO SOGNA è il titolo del cd che l’artista pubblica, nel 1999. Sulla copertina un ragazzo sta in equilibrio su una sfera. In bili27


co tra realtà e astrazione, in una terra di mezzo, in grado di coniugare il quotidiano e la visione. Vale sempre la pena di credere e lottare anche se si perde perché conta più il sentiero che la meta raggiunta. “La vita è così forte / che attraversa i muri per farsi vedere”13. Facendo suo il messaggio catartico del poeta prigioniero, Vecchioni rivolgendosi a un ipotetico giovane uomo, canta gli stati d’animo per cui vale la pena vivere: l’amore, la poesia, gli ideali. L’esistenza è come una grande scatola di mogano, ciò che conta non è l’involucro ma quello che c’è dentro. “La capacità di accoppiare sogno e realtà è molto difficile”, spiega l’autore, “e credo si acquisisca con l’età. Per i ragazzi il sogno è un rimedio perché li aiuta a superare alcune fasi difficili della loro crescita e alcune realtà nelle quali non sempre si trovano. Per un adulto invece credo che il sogno debba essere il compendio della realtà; bisogna avere un grande rispetto per la realtà e avere il coraggio di affrontarla. Spesso questo coraggio si trova dentro ai propri sogni”14.

Stagioni nel sole (J. Brel – R. Vecchioni) 2005 Addio mio piccolo futuro piccolo raggio in questa notte scura dal giorno che ti ho preso in braccio: non devi avere mai paura io sarò sempre nel tuo viaggio. La Francia era la sua patria spirituale, ma in realtà era nato in Belgio. Il poeta dei “vecchi amanti” che, insieme al fratello maggiore Georges Brassens, aveva scaldato il cuore di Fabrizio De André, con il suo canto d’amore per la vita, attraversa l’ispirazione del professore che nel 2005 ritorna alle origini. Stanco di batterie e distorsioni si affida al silenzio armonioso di due strumenti: contrabbasso e pianoforte, in compagnia dei quali riaccende le luci di San Siro. Luci a San Siro di questa sera è il titolo dello spettacolo acustico che Roberto porta in giro per i teatri italiani insieme a Patrizio Fariselli e Paolino Dalla Porta. Nasce: IL CONTASTORIE un cd live con la rivisitazione in chiave jazz di molti classici e 28

un inedito: Stagioni nel sole, una cover di Le moribond di Jacques Brel, riadattata in italiano. È la storia di un uomo che sta per morire trasformata da Vecchioni in un inno alla vita e alla speranza: “Ma tu vivile sempre / e vivile per me / le stagioni nel sole continuano con te”. Qualche problema con la famiglia Brel affiora perché Roberto, nella riscrittura, è solito reinventare e, questa volta, il cerchio si stringe e lui non è così libero. Amico, padre, compagna, figlio, quattro punti cardinali, isole a cui aggrapparsi prima di partire a bordo di un treno pagato da Dio, interlocutori dell’anima a cui il narratore si rivolge ricordando la vita trascorsa. La primavera, le stelle nel mare, le stagioni da vivere al sole con il sogno di un futuro luminoso, la dolce utopia capace di insinuare il dubbio che nulla è scontato, ma che ogni cosa può essere messa in discussione e ricostruita daccapo. “Charlot abita in quella parte della vita costituita da quella lunghissima stagione che è l’infanzia, l’adolescenza, periodo che attraverso il filtro della memoria portiamo sempre con noi”15. Come il Vagabondo dei Tempi moderni americani, l’artista mette dentro le storie pezzi del suo passato. “La vita è come una scatola di cioccolatini”, ripete ossessivamente Forrest Gump. All’autore non interessa la scatola ma i cioccolatini che la riempiono. Stagioni nel sole chiude la prima parte dello spettacolo: Luci a San Siro di questa sera. Quando il poeta dei vecchi amanti la scrisse non fece presa e tredici anni dopo a interpretarla fu il cantautore canadese Terry Jacks con il titolo di Seasons In The Sun. “Già a dieci anni”, racconta Vecchioni, “sentivo musica americana degli anni Quaranta e le prime chansons francesi, Piaf, Montand perché accoppiavano bellissimi concetti di parole alla musica. Jacques Brel è stato il massimo dal punto di vista formale, aveva una capacità di renderti visiva un’immagine, Brel è un pittore del corpo che fa sentire la fisicità delle cose”16. Una fisicità che vive nelle parole cantate dell’artista capace di scandire il verso dandogli fiato con la voce. Brel e Vecchioni, maestri consolidati del palcoscenico, affidano all’interpretazione un ruolo fondamentale per trasmettere la propria arte. Ci risiamo con l’eterno dualismo canzone e poesia, la prima non può prescindere dall’esecuzione e a essa si lega in maniera indissolubile, la seconda è una voce muta in grado di risuonare nel silenzio delle stanze interiori.

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Shalom (R. Vecchioni) 2002 Come mi pesa questo canto, padre, tu non sai quanto! Ma non lo senti che è più forte la vita della morte? È un professore che cerca la pace nella guerra, un ossimoro, una scommessa e una sfida che vale la pena di affrontare. Insegna letteratura comparata all’università, fino a quarant’anni ha scritto soltanto racconti poi è venuto il tempo del romanzo, di una narrazione più lunga e articolata. Due temi lo appassionano più degli altri, il rapporto tra popoli diversi e i legami familiari: il padre e il figlio, la moglie e il marito, il nonno e il nipote, mondi che si incontrano, pianeti distanti accomunati dalla stessa orbita. Il nome del professore è Abraham Yehoshua e vive ad Haifa. Il coltello è affilato e il lancio serrato, la circonferenza disegnata intorno al bersaglio è quanto mai marcata, i lineamenti sono polvere di stella. Il cantautore racconta una storia: un padre e un figlio ne sono gli indiscussi protagonisti. Entrambi sono israeliani, sentono e vivono il respiro incendiario della guerra fin sotto la pelle. Stanco delle divisioni e delle lacerazioni, il ragazzo decide di partire, di andare alla ricerca di un mondo senza odio e divisioni. Il suo canto si alza come un’onda che vuole spazzare via il rancore: “Shalom, padre, shalom, io vado via”17. La vita conta più della morte. Il dialogo è in realtà un monologo del figlio che canta le proprie ragioni a un genitore rimasto ancorato a un passato di ostilità. Non si può vincere senza gli altri, soltanto insieme possiamo sconfiggere le ombre, riscoprendo il senso di una comunità. “Ci manca, anche se avessimo / soltanto noi ragione, / l’umiltà di non vincere / che fa uguali le persone”18. Gli eroi del professore non sono né i santi né i potenti, ma quelli che, come direbbe Fabrizio De André, viaggiano in direzione ostinata e contraria. I ragazzi che trovano la forza di opporsi al mondo asfittico dei padri, quelli che lottano per un ideale a costo di rimanere senza niente. Il giovane israeliano grida il suo addio a un mondo di oscurità, urlando che la vita vale più della morte. La dolce utopia di una terra senza con30

fini né padroni dove vivere in pace fa capolino nelle sue parole perché come dice Paul Valéry: “Il modo migliore per realizzare i propri sogni è svegliarsi”19. “Shalom”, dice Vecchioni, “parla di un ragazzo ebreo che, per un attimo, vede la realtà con gli occhi di un altro popolo e anche se lo ama, dice al padre: me ne devo andare. Ho pensato ai romanzi degli scrittori israeliani, in particolare a Yehoshua, ai suoi personaggi che vivono un conflitto interiore profondo e non riescono a scegliere. Ho cercato di far capire il disagio di un popolo veramente sottomesso da un altro, senza offendere gli ebrei”20. Il coltello viaggia nell’aria cercando di cogliere l’essenza di un dramma che da secoli affligge popoli e nazioni. Siamo nel 2002, l’album è IL LANCIATORE DI COLTELLI, insieme a IL CIELO CAPOVOLTO, uno dei più intensi e ispirati dell’artista.

Speranza (R. Vecchioni – R. Pareti) 1971 Ma guarda che la vita non è la vita non è la prima porta aperta in fretta senza bussare: è il balcone più grande che guarda sul mare. Come un aquilone che non interrompe il volo, guidato dalle mani entusiaste di un bambino, la parola speranza, naviga con continuità nelle canzoni. “Ma mi basta darti speranza, / ma mi basta darti speranza”21, canta Roberto. Se come sostiene Aristotele: “La speranza è un sogno fatto da svegli”, la vita non può essere vissuta a pieno senza amarla. “’A vita sceglie ’a chi ’a vo’ bene”, recita un antico proverbio napoletano. Questo amore è un elemento chiave per comprendere e sentire il mondo artistico di Vecchioni: “È vero che sono un entusiasta, che amo la vita, che sono spesso felice, ma è anche vero che, proprio perché la amo tanto, quando mi capita qualcosa di doloroso, mi pare che la vita mi abbia pugnalato alla schiena, mi abbia tradito e ne soffro moltissimo. Momenti di euforia, di vera esaltazione e altri di abbattimento, di disperazione si alternano dentro di me con estrema facilità”22. Prodotto da Renato Pareti, PARABOLA segna l’esordio a 33 giri dell’artista. Prima di debuttare come solista, Vecchioni fa una lunga gavet31


ta, come autore, per altri. È ricca la lista delle collaborazioni con grandi nomi della musica italiana. Insieme all’amico Andrea Lo Vecchio frequenta il mondo musicale. Nel 1968, come ricorda Sergio Secondiano Sacchi in Voci a San Siro, si laurea con una tesi in letteratura latina sul libro terzo del Corpus Tibullianum, sulle elegie di Ligdamo e Neera, con la votazione di 108 su 110. È l’anno in cui Roberto e Andrea vengono scelti da una nota casa discografica per scrivere una canzone che Gigliola Cinquetti porterà a Sanremo. Messo da parte Il bene di luglio che sarà interpretato da Bruno Lauzi, la scelta cade su Sera. Il Sessantotto è anche l’anno del servizio di leva in cui Roberto incontra un nuovo amico e collaboratore: Renato Pareti. Tra i cantanti con cui lavora, in questi anni, ci sono due personaggi molto diversi tra loro: Iva Zanicchi e Umberto Bindi. Il 1969 è l’anno di Luci a San Siro che dopo essere stata interpretata dal cantante Rossano, sarà incisa dal suo autore, solo due anni dopo, nell’album d’esordio. Nei primi anni Settanta c’è l’incontro con Gianni Morandi che diventerà suo grande amico, per lui Roberto scrive: Raffaella una santa non è e Rosabella. Per Fausto Leali, Tu non meritavi una canzone. Il grande successo come autore arriva con Donna Felicità per i Nuovi Angeli, una melodia molto orecchiabile che strizzando l’occhio alla Signorina Felicita della lirica di Guido Gozzano, si piazza ai primi posti delle classifiche di vendita. I consensi ottenuti come paroliere lo portano sulla strada del disco d’esordio. È il 1971, l’album che contiene, nelle note di copertina, una presentazione scritta dal padre Aldo, vanta al proprio interno, tra gli altri, brani come: Luci a San Siro, Parabola ripresa, in chiave jazz, nel 2005, nel cd IL CONTASTORIE, Io non devo andare in via Ferrante Aporti, Povero ragazzo, cantata poi da Dori Ghezzi. “Una sola cosa ti ammiro”, scrive Aldo Vecchioni nelle note di copertina del disco, “combatti una battaglia perduta; i tuoi valori sono stati dimenticati da troppo tempo. Tu credi e oggi non bisogna credere, bisogna prendere, tu ami e oggi bisogna essere ‘amanti’; tu hai Dio e un desiderio infinito di ordine: oggi vince chi l’ordine lo sovverte. Ecco, forse solo questo ti ammiro, sei controcorrente con la tua generazione e la tua battaglia è perduta. Secondo me ti ha fatto male la laurea in lettere antiche: anche gli avvocati e i ragionieri pensano al loro mestiere e raramente si sognano di essere al centro dell’universo. Comunque, tra i tanti a me non è capitato il più stupido”. 32

LESSICO FAMILIARE La famiglia è la patria del cuore. GIUSEPPE MAZZINI


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