Progettare l'interazione

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progettare l’interazione alessandro zamprogna



DICHIARAZIONE DI ORIGINALITÀ

Ho consegnato questo documento per l’appello d’esame del 14 gennaio 2011 del corso Interaction Design Theory (Teorie dell’interazione) tenuto da Gillian Crampton Smith con Philip Tabor alla Facoltà di Design e Arti, Università Iuav di Venezia. Per tutte le sequenze di parole che ho copiato da altri fonti, ho: a. riprodotte in corsivo, inoltre b. messo virgolette di citazione al loro inizio e fine, inoltre c. indicato, per ogni sequenza, il numero della pagina o lo url del sito web della fonte originale. Per tutte le immagini che ho copiato da altri fonti, ho indicato: a. l’autore e/o proprietario, inoltre b. il numero della pagina o lo url del sito web della fonte originale. Dichiaro che tutte le altre sequenze e immagini di questo documento sono state scritte o create esclusivamente da me.

Alessandro Zamprogna 11 gennaio 2011

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progettare l’interazione alessandro zamprogna

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INDICE

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dichiarazione di originalitĂ

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indice

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introduzione 09

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interazioni 13

punti di partenza

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affordance

uomo e utente 19

ucd - user centered design

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brainstorming

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intervista partecipativa

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personas

strumenti 27

gli attrezzi del mestiere

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metafore

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problemi come opportunitĂ

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dallo scenario al flusso

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dal prototipo al video

conclusioni 39

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interaction design?

un mondo immateriale

bibliografia

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INTRODUZIONE

interaction design? Frigoriferi, lavastoviglie, televisori, videoregistratori, radio e impianti hi-fi, telefoni cellulari, computer, macchine fotografiche, automobili, lampade. In tutti questi settori merceologici e in molti altri stiamo assistendo negli ultimi anni a un’implementazione sempre maggiore di componenti elettroniche che rendono questi oggetti altamente tecnologici e sempre più sofisticati e complessi. In questo modo strumenti e funzioni, che un tempo erano accessibili esclusivamente a professionisti, sono oggi alla portata di un bacino d’utenza immensamente più ampio ma con esigenze molto diverse e non sempre in grado di padroneggiare e sfruttare le potenzialità messe a disposizione da questi raffinatissimi oggetti. Se consideriamo ad esempio un qualunque notebook in commercio oggi, ci rendiamo immediatamente conto di come questo sia immensamente più performante di un qualsiasi computer prodotto vent’anni fa. Tuttavia l’utente medio odierno sfrutta, normalmente, non più del 20% del potenziale offerto da questi calcolatori. Lo stesso vale per qualunque altra categoria di oggetti tecnologici.

Diffusione di massa delle invenzioni

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Performance dei processori Intel

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Si è così affermata un’insperata democratizzazione nell’uso e nel possesso di artefatti estremamente complessi e tecnologicamente raffinati, realizzando forse quel concetto di progresso tanto caro a Henry Ford secondo cui “c’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti.” 01 Sicuramente questa spasmodica rincorsa al primato tecnologico conduce talvolta a perdere di vista quale sia il reale obiettivo della ricerca, a favore del mero fatturato aziendale, con l’ossessione di immettere nel mercato prodotti sempre più evoluti ma non per questo sempre più utili. Le innovazioni scientifiche e tecnologiche non sempre sono sinonimo di progresso e il mito della macchina osannato, tra gli

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INTRODUZIONE

altri, dai futuristi negli anni trenta, sta dimostrando oggi tutti i suoi limiti. In quest’ottica, se di progresso si continua a voler parlare, le parole di Zygmunt Bauman risultano illuminanti, dato che egli considerava che “il progresso è diventato una sorta di gioco delle sedie senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile. Invece di grandi aspettative di sogni d’oro, il progresso evoca un’insonnia piena di incubi di essere lasciati indietro, di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera in fretta.” 02

Umberto Boccioni Forme uniche della continuità dello spazio, 1913

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Quali sono, dunque, le ragioni per cui in qualsiasi ambito continuano a susseguirsi inattesi successi commerciali e clamorosi buchi nell’acqua? Le cause di ciò non possono essere definite in modo universalmente valido, tuttavia un fattore ricorrente può essere individuato nel rapporto tra artefatto e utente. Spesso si sente dire che un determinato oggetto non è stato “capito“ dal mercato oppure che l’utenza non era ancora pronta. Ebbene, queste considerazioni nascono da un capovolgimento dell’ordine degli attori nel processo progettuale e ciò risulta, incredibilmente, tanto frequente quanto disastroso. Troppo spesso si privilegia l’idea visionaria o inconsistente di un progetto, a discapito delle reali aspettative, dei bisogni e dei desideri delle persone. Questo atteggiamento porta alla realizzazione di prodotti che sfidano l’utente e ne mettono alla prova le capacità d’uso, quando invece dovrebbe essere l’utente a veicolare lo sviluppo di prodotti che corrispondano alle sue esigenze e al suo modo di interagire con essi. Apparentemente si tratta di un concetto banale se non di una tautologia, eppure quotidianamente ognuno di noi si confronta, sia in casa che al lavoro, con oggetti sempre più complessi, performanti

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INTRODUZIONE

e tecnologicamente evoluti e contemporaneamente sempre più distanti dalla semplicità d’uso che chiunque si aspetta. Le modalità di interazione che intercorrono tra l’utente e l’oggetto, così come tra le persone o tra le persone e gli ambienti, sono cruciali e stanno assumendo un ruolo sempre più centrale nella progettazione di dispositivi in ogni ambito. Pensiamo ad esempio all’iPhone prodotto da Apple; l’azienda di Cupertino ha rivoluzionato il mondo della telefonia mobile (e non solo quello) introducendo un nuovo modo di utilizzare il device, basato sull’interazione dell’utente con un oggetto formato concettualmente soltanto da un display, in questo caso di tipo touchscreen, e quindi non più vincolato alla dicotomia tasti/display. Appare chiaro il ruolo centrale attribuito all’utente nel processo di progettazione di questo dispositivo, il cui successo deriva da una modalità di interazione innovativa e allo stesso tempo estremamente intuitiva per l’utente. La disciplina che si occupa dell’analisi dell’utente, del dispositivo, dell’interazione tra questi due soggetti e di tutti i fattori che la determinano, è detta “design dell’interazione” o “interaction design” e lo scopo che questo booklet si prefigge è proprio quello di analizzare, dal punto di vista progettuale, i processi che intervengono nelle diverse fasi del lavoro di un buon interaction designer e gli strumenti di cui quest’ultimo si serve.

iPhone 4G

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Apple, 2010

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INTRODUZIONE

citazioni

01

Sygmunt Bauman, Modus vivendi, Laterza, Bari 2008, p. 53.

02

Andrea Lupacchini, Design olistico, Alinea, Firenze 2010, p. 96.

immagini

01

http://www.singularity.com/charts/

02

http://www.singularity.com/charts/

03

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/ARTE/

04

http://www.apple.com/it/iphone/ios4/

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INTERAZIONI

punti di partenza La disciplina dell’interaction design riveste un ruolo di primo piano nel processo di progettazione di qualsiasi artefatto, in particolar modo di tutti i device elettronici altamente tecnologici che stanno contribuendo a modificare radicalmente il modo in cui comunichiamo, ci muoviamo, lavoriamo, ci divertiamo e quindi il modo in cui siamo. Questa rivoluzione multimediale porterà, e sta già portando, enormi cambiamenti a livello culturale in rapidissimo e continuo mutamento. Occuparsi di interaction design significa dunque avere coscienza del fatto che il modo in cui interagiamo, ad esempio, con uno smartphone piuttosto che il modo in cui ascoltiamo la musica, costituiscono delle premesse per un cambiamento di mentalità, la possibilità di uscire da uno schema comportamentale per adottarne uno nuovo.

Le discipline che si sovrappongono all’interaction design

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Le categorie e gli strumenti propri di questa disciplina si prestano a essere adottati anche in altri campi, non soltanto per ragioni di affinità metodologiche, ma soprattutto per il fatto che il sistema artefattuale di cui è composta la nostra cultura materiale sta progressivamente acquisendo un elevato livello di interattività. L’interazione è infatti un rapporto tra noi e gli oggetti che si verifica, anche in modo totalmente automatico, in ogni singolo momento della nostra vita con artefatti i più diversi tra loro. Ciò avviene, nei casi migliori, in modo talmente spontaneo e istintivo da non rendersi neppure conto della presenza dell’oggetto né tantomeno dello studio condotto a priori affinché si verifichi un’interazione così immediata. Naturalmente la facilità con cui l’utente interagisce con un prodotto dipende da fattori ergonomici, ma è soprattutto veicolata dagli schemi mentali, dalle convenzioni, dalla cultura e in sintesi dal mondo in cui siamo cresciuti e viviamo. Per questa ragione una modalità di interazione fortemente innovativa e distante dagli schemi mentali acquisiti, farà fatica ad imporsi e ad avere successo,

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INTERAZIONI

Macintosh Mouse Apple, 1984

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perlomeno fino a quando i vantaggi d’uso risulteranno evidenti e si sia creato un sistema intorno a quel particolare prodotto. Consideriamo ad esempio il mouse, dispositivo di puntamento oggi comunemente utilizzato e universalmente considerato uno strumento imprescindibile nell’uso del computer a ogni livello. Ebbene, sono stati necessari circa trent’anni prima che il mouse si imponesse sul mercato, nel 1984 circa, ad opera di Apple. Prima del suo avvento, l’utilizzo del computer era concepito con il solo utilizzo della tastiera poiché l’ambiente di lavoro era fondamentalmente di tipo testuale. L’avvento dell’ambiente grafico, caratterizzato da finestre, icone e pulsanti determinò l’irrinunciabile presenza del mouse, affiancato oggi da trackpad e mousepad nei notebook per ragioni di portabilità. A differenza di altri sistemi di puntamento, quali trackball e tavolette grafiche, il mouse si basa su uno schema di utilizzo estremamente aderente ai nostri modelli mentali, tale per cui allo spostamento bidimensionale fisico del mouse corrisponde uno spostamento bidimensionale virtuale del cursore sul monitor. La presenza di un sistema, in cui un nuovo device si inserisce, è dunque una componente importantissima per determinarne il successo, ma rimane imprescindibile che la modalità di interazione che esso presuppone sia immediata. Di fondamentale importanza è dunque il concetto di affordance.

affordance Nel mondo del design il termine affordance ha assunto un significato che va ben oltre quello attribuitogli nel 1977 da J.J. Gibson, psicologo della percezione che per primo coniò questo termine riferendosi alle relazioni che si possono instaurare tra il mondo e un attore, sia esso un uomo o un animale. Un’affordance pertanto non è una proprietà insita nel mondo né nell’uomo, bensì

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INTERAZIONI

una sorta di legame, di dialogo che si forma tra queste due entità senza essere necessariamente visibile, conosciuto o desiderabile. Trasferendo questo concetto al mondo degli artefatti e delle interazioni che intercorrono tra essi e l’uomo inteso come utente, si dovrebbe distinguere tra affordance percepita e affordance reale. La prima riguarda la percezione che l’utente ha circa la possibilità o meno di compiere un’azione, la seconda invece determina la reale possibilità di compiere quell’azione a prescindere dall’utente. Se consideriamo, ad esempio, lo spremiagrumi Juice Salif progettato da Philippe Starck, l’affordance percepita è molto positiva poiché la forma dell’oggetto suggerisce all’utente di spremere il frutto dall’alto, avendo prima posizionato sotto un bicchiere per raccoglierne il succo. Formalmente dunque l’oggetto trasmette una buona affordance percepita. Non vale lo stesso al momento dell’utilizzo, quando ci si rende conto che è difficile mantenere lo spremiagrumi in una posizione stabile e l’operazione di spremitura risulta estremamente frustrante. Ne consegue una pessima affordance reale. Dunque è evidente come, occupandoci in questa sede di interazione, l’affordance percepita sia l’oggetto della nostra analisi e per semplicità ci limiteremo a chiamarla affordance d’ora in avanti.

Jacques Carelman La caffettiera del masochista, 1969

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Un oggetto dotato di una buona affordance è sempre un oggetto studiato in fase progettuale sotto molti aspetti, nessuno secondario, fra cui la forma, le dimensioni, il materiale, la disposizione dei diversi elementi che lo potrebbero comporre, l’uso dei colori, l’uso di pittogrammi o ideogrammi, l’uso di testo, etc. Lo studio di questi fattori è fondamentale non soltanto quando un prodotto deve consentire all’utente di svolgere un’azione, ma anche quando deve impedire o evitare un determinato comportamento, ad esempio nei casi di macchine utensili il cui uso scorretto potrebbe risultare pericoloso per l’incolumità dell’operatore che le utilizza.

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INTERAZIONI

Il progetto di un oggetto o di un’interfaccia che voglia veicolare un comportamento deve necessariamente considerare i vincoli a cui sarà sottoposto al momento dell’uso. Alcuni vincoli possono essere di tipo fisico, spaziale o dimensionale e riguardano sostanzialmente l’ambiente, sia esso reale o virtuale, in cui l’utente si ritrova ad interagire con il prodotto oppure possono essere legati a ragioni ergonomiche e antropometriche. Altri vincoli sono invece di tipo culturale e riguardano le convenzioni adottate all’interno di una comunità rispetto ad un’altra oppure l’aderenza ai modelli mentali e cognitivi. La caffettiera del masochista realizzata da Jacques Carelman è un esempio di come si possa giocare con questi vincoli, in particolar modo con gli schemi mentali acquisiti, ottenendo oggetti che creano volutamente un senso di disorientamento negando formalmente le buone affordances di un oggetto d’uso. Il buon design dunque è tale quando l’utente capisce subito il corretto funzionamento dell’oggetto progettato. È proprio per questa ragione che nella progettazione di un qualsiasi prodotto che si prefigga l’obiettivo di migliorare o semplificare la vita delle persone, l’affordance e altre proprietà quali, visibilità, mapping e feedback, devono assumere un ruolo di primo piano anche perché Philippe Starck Juice salif Alessi, 1990

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“quando una cosa semplice esige figure, scritte o istruzioni, vuol dire che il design è sbagliato.” 03 Osservando gli oggetti che quotidianamente ci circondano con occhio critico relativamente all’affordance che creano con l’utente, ci possiamo rendere conto di come moltissimi prodotti per noi quasi invisibili nascondano una progettazione attenta e intelligente e di come, per contro, molti strumenti con cui interagiamo frequentemente comunichino male il loro uso, rivelando una progettazione superficiale o quantomeno la mancata considerazione della figura dell’utente da parte del designer.

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INTERAZIONI

good affordance

bad affordance

always on the right place!

where is the button?

the cross is a perfect visual indication!

hour? minutes?

the steering wheel is where he have to be!

left? right?

Osservazione di oggetti che presentano buona e cattiva affordance realizzata nell’ambito del corso

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INTERAZIONI

citazioni

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Donald A. Norman, La caffettiera del masochista, Giunti, Firenze 1990, p. 28.

immagini

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Dan Saffer, Design dell’interazione, Pearson, Milano 2007, pag. 18.

06

http://www.calmug.org/2010/10/21/

07

http://www.flickr.com /photos/leeander/with/4093627/

08

http://www.mixdesign.it/Uno-spremiagrumi-_history_x_4201.html

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UOMO E UTENTE

ucd - user centered design La rincorsa al primato scientifico e tecnologico che si sta verificando nel mondo occidentale è figlia della spinta innata nell’uomo a cercare di dominare i fenomeni della natura, a modellare il mondo in cui vive per adattarlo alle sue esigenze. Questo atteggiamento è senz’ombra di dubbio influenzato culturalmente dal pensiero cartesiano, in particolare dal dualismo tra res cogitans, intesa come realtà psichica dotata di inestensione, libertà e consapevolezza, e res extensa, intesa come realtà fisica caratterizzata da estensione, limitatezza e inconsapevolezza. Si tratta dunque della divisione tra uomo e mondo materiale, tra soggetto e oggetto o, se vogliamo, tra utente e oggetto. Da sempre infatti l’uomo ha interagito con oggetti, siano essi appartenenti al mondo naturale o artefatti, e in questo senso l’uomo ha sempre giocato il ruolo di utente. Solo a partire dalla Rivoluzione Industriale, tuttavia, questo concetto ha iniziato ad assumere un’importanza assoluta favorendo la nascita di accesi dibattiti sul fronte politico, sociale ed economico. Il pubblico stesso della produzione industriale non ha sempre accolto con entusiasmo questi artefatti, manifestando talvolta repulsione e un senso di estraneità misti a fascinazione. Il contatto tra utente e prodotto ha generato un senso di inadeguatezza nei confronti delle tecnologie, dovuto al fatto che l’uomo spesso si sente inadatto ai progressi scientifici e tecnologici e dà la colpa di ciò soltanto a se stesso. Il punto di vista dovrebbe tuttavia essere capovolto e si dovrebbe piuttosto valutare se i modi in cui si applicano le tecnologie siano adatti all’utente in quanto uomo.

Donald A. Norman, 2009

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Donald A. Norman si è lungamente interrogato su queste questioni ai confini tra design, psicologia, sociologia e filosofia, nel rapporto troppo spesso conflittuale tra uomo e oggetti: “... per anni e anni non ho fatto altro che annaspare a tentoni, senza trovare mai il rubinetto dell’acqua calda

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UOMO E UTENTE

IDEO Human Centered Design Toolkit, 2009

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o fredda, andando a sbattere nelle porte, incapace di far funzionare le cose semplici della vita di ogni giorno. «Sono Io», borbottavo, «È la mia inettitudine meccanica». Ma, studiando la psicologia e osservando il comportamento degli altri, ho cominciato ad accorgermi che non ero solo” ... “E tutti a incolpare se stessi. Possibile che tutto il mondo fosse meccanicamente incompetente?” ... “[Ma] gli uomini non sono sempre maldestri. Non fanno sempre errori. Ma ne fanno quando le cose che usano sono concepite e progettate malamente”. 04 Norman non è sicuramente stato il primo a sollevare questo problema, ma è stato il primo ad affrontarlo mettendone in gioco gli attori, ovvero utente e progettista. I suoi scritti dunque hanno interessato, e continuano ad interessare, tutti noi che viviamo in una società in una condizione di utenti per la quale ci dobbiamo rendere conto di poter avanzare il diritto di utilizzare comodamente i prodotti con cui interagiamo, senza subire passivamente le costrizioni che dovremmo affrontare a causa di un cattivo design. L’obiettivo progettuale del designer deve spostarsi dunque dal prodotto all’utente, mettendo in atto una processo di User Centered Design (UCD), di cui non mancano buoni esempi. IDEO è ad esempio un team di progetto che ha ottenuto un grande successo industriale e commerciale proponendo soluzioni innovative grazie a precise scelte metodologiche che mettono l’utente al centro del processo. Per raggiungere questo risultato è necessario conoscere l’utente, non come entità astratta, ma come persona, individuo pensante con le sue peculiarità, le sue sensibilità, i problemi che incontra nelle operazioni che svolge e le sue esigenze.

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UOMO E UTENTE

brainstorming La fase più difficile in un percorso progettuale è probabilmente quella iniziale, quando la mente risulta rallentata da mille fattori tra cui ansia, tempi ridotti e necessita di partorire un buon design. Ma gli stessi ostacoli possono esserci anche nel momento in cui si tratta di dover risolvere un problema squisitamente tecnico. Lavorare in solitudine in questi casi non aiuta, anzi rischia di peggiorare la situazione, mentre il confronto con altre persone può far nascere idee e far emergere soluzioni a cui individualmente non si sarebbe giunti. Questo è il principio su cui si basa la pratica del brainstorming, concepita come un’attività di gruppo in cui tutti i partecipanti sono liberi di dare libero sfogo alle proprie riflessioni, senza censure e senza timori poiché talvolta è dagli spunti più improbabili che nascono le idee più brillanti.

Esempio di brainstorming sulle interazioni uomo/dispositivo che amiamo e odiamo

È essenziale che il brief in questa situazione sia chiaro a tutti per evitare eccessive divagazioni che risulterebbero infruttuose e utili semmai soltanto a rilassarsi. L’unica prerogativa è non avere freni mentali e spaziare con l’immaginazione effettuando un cambio di prospettiva in modo da scartare le convenzioni e raggiungere una visione nuova e originale sul progetto affrontato. La qualità delle intuizioni che un singolo individuo può avere dipende da fattori soggettivi, ma sicuramente “Dedicare tempo a osservare, intervistare e interagire con i soggetti, e poi derivare implicazioni da tutto ciò, alimenta l’empatia e l’immaginazione dei designer. Questa immaginazione è il cuore del brainstorming, dove avviene l’invenzione e la re-invenzione” 05

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UOMO E UTENTE

intervista partecipativa Per conoscere le emozioni provate e le reali necessità di un utente finale, l’interaction designer può ricorrere all’intervista, condotta in maniera analitica e coinvolgente. Domande mirate, poste anche nell’ambito di un colloquio informale, consentono di accedere agli aspetti meno espliciti che difficilmente emergerebbero da un questionario impersonale. Questo strumento risulta inoltre particolarmente utile perché consente di indagare l’utente in modo profondo, avendo accesso non soltanto alle sensazioni esplicitamente manifestate, ma anche a quelle espresse con il linguaggio non verbale, come la gestualità e le espressioni del volto. La frustrazione e l’insoddisfazione che nascono negli utenti quando utilizzano prodotti o servizi senza ottenere il risultato sperato, oppure raggiungendo i propri obiettivi in modo difficoltoso, rappresentano un fallimento a livello progettuale per il designer che abbia concepito quella modalità di interazione. L’intervista partecipativa può servire, in questo senso, ad aiutare il progettista a capire e conoscere il suo utente finale per tradurre le sue aspettative in un prodotto che migliori la sua esperienza d’uso. Infatti: IDEO Shopping cart

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“Un buon design richiede riflessione, pianificazione e consapevole attenzione ai bisogni dell’utente. E a volte centra l’obiettivo” 06 IDEO fa dell’intervista uno dei propri strumenti privilegiati nel processo di User Centered Design, talvolta in modo atipico, ad esempio intervistando persone completamente estranee al campo di applicazione del progetto in questione oppure coinvolgendo professionisti dagli ambiti più disparati, in modo da avere spunti progettuali estremamente originali e non convenzionali.

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UOMO E UTENTE

Ida 84 years old living alone

need help suffers solitude love family routine

she could appreciate a mobile phone with big keyboard, big display to send and receive easely sms and mms

Rielaborazione di un’intervista partecipativa realizzata nell’ambito del corso

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UOMO E UTENTE

personas Progettare basandosi sull’utente è un metodo indispensabile considerando che qualsiasi prodotto o servizio è destinato a persone reali, non a entità astratte. Tuttavia può risultare molto efficace e utile ricorrere a figure astratte che riassumano le caratteristiche peculiari dell’utenza di riferimento, così da verificare che le conclusioni a cui il designer è giunto non siano falsate dalla specificità di un singolo utente di riferimento. Gli utenti di riferimento così delineati sono detti personas.

Esempio di personas

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Questo strumento pre-progettuale è in uso da molto tempo ma deve il suo successo e il suo nome ad Alan Cooper che lo teorizzò nel 1998 nel libro “The Inmates Are Running the Asylum.” L’efficacia dell’uso di personas è dovuta al fatto che in essi sono rachiuse tutte le possibili caratteristiche degli utenti previsti, con la possibilità di aggiungere in un secondo momento altri elementi precedentemente trascurati. Una persona deve tuttavia essere un’entità, un personaggio assolutamente credibile, plausibile, non una figura caricaturale o irreale che non avrebbe nessun punto in comune con gli utenti reali sulla base dei quali è stata creata. Questo strumento trova riscontri nella sua efficacia in molti studi e ricerche condotti in ambiti anche molto diversi, a testimonianza del fatto che una semplificazione o riduzione dell’utente finale reale in un’entità astratta conduce a risultati che trovano ottimi riscontri anche sul singolo utente reale. Una ricerca di particolare interesse è quella condotta da Frank Long, docente alla National College of Art and Design di Dublino, intitolata “Real or Imaginary: The effectiveness of using personas in product design” in cui egli conclude sostenendo che “I risultati hanno dimostrato che, mediante l’uso di personas, sono stati realizzati progetti con maggiori caratteristiche di usabilità. Essi inoltre indicano che l’uso

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UOMO E UTENTE

di personas offre vantaggi significativi durante le fasi di ricerca e concept nel processo di design” 07 Il metodo delle personas naturalmente non vede tutti d’accordo sulla reale efficacia del suo impiego e la principale critica che viene mossa è legata alla fissità, alla rigidità dell’archetipo creato che, a differenza delle persone e degli utenti reali, non hanno la possibilità di interagire né di ripensare ai giudizi espressi o cambiare idea. Sulla base di queste considerazioni, questo metodo non sarebbe soltanto un’inutile dispendio di tempo e risorse, ma risulterebbe addirittura controproducente conducendo a risultati assolutamente errati. I risultati ottenuti da Long conducono evidentemente a conclusioni del tutto diverse; in particolare dall’analisi di un gruppo di nove studenti egli sostiene che ”Questo studio dimostra l’efficacia dell’uso di personas nel processo di progettazione del prodotto e, nonostante siano necessarie ulteriori ricerche, ora c’è qualche oggettiva evidenza che l’utilizzo di personas funzioni.” 08

Studio di personas in ambito scolastico realizzato da Frank Long

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UOMO E UTENTE

citazioni

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Donald A. Norman, La caffettiera del masochista, Giunti, Firenze 1990, p. 11.

05

Dan Saffer, Design dell’interazione, Pearson, Milano 2007, p. 88.

06

Donald A. Norman, La caffettiera del masochista, Giunti, Firenze 1990, p. 44.

07

Frank Long, Real or Imaginary; The effectiveness of using personas in product design, Proceedings of the Irish Ergonomics Society Annual Conference, Dublin May 2009, pp. 1-10.

08

ibidem.

immagini

09

http://www.jnd.org/

10

http://newsfromconstantinople.com/

11

http://www.ideo.com/work/shopping-cart-concept

12

http://dylan440.blogspot.com/

13

http://www.frontend.com/products-digital-devices

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STRUMENTI

gli attrezzi del mestiere Fino a questo momento si è delineato l’ambiente entro cui opera l’interaction designer, comprendendo il ruolo cruciale dell’utente in tutto il processo di progettazione e verifica degli obiettivi e verificando la complessità del sistema che caratterizza l’interaction design. Questa disciplina deve oggi infatti confrontarsi con un mondo sempre più articolato, una rete fittissima e sconfinata che impone una visione globale. Per affrontare e risolvere un problema che presenta un livello di complessità molto elevato non è spesso possibile suddividere il problema stesso in situazioni più semplici da gestire, poiché così facendo si perde di vista la totalità e il risultato è inevitabilmente fallimentare. Si rende dunque necessario un metodo di lavoro che tenga conto della totalità, della complessità e della singolarità del problema.

Diagramma di un modello mentale

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Il primo passo da compiere è la comprensione del sistema che, come avviene in molte discipline e in molti settori produttivi, può basarsi sul metodo del reverse engineering. In seguito alla ricezione di informazioni, creiamo cioè un modello mentale di ciò che stiamo analizzando. Questo processo avviene naturalmente, istintivamente quando ognuno di noi osserva un fenomeno, un oggetto o un qualsiasi sistema, sia che si tratti di un’entità estremamente semplice o drammaticamente complessa. In entrambi i casi il processo deduttivo che mettiamo in atto può essere approfondito e corretto oppure superficiale ed errato, portando alla costruzione, nell’ordine, di modelli mentali corretti e errati. Considerando, ad esempio, il mondo degli artefatti, risulta inoltre evidente che la comprensibilità non dipende sempre e direttamente dalla complessità tecnica. Nel libro di Norman precedentemente citato sono infatti numerosi gli esempi di oggetti tecnologicamente molto semplici ma che conducono l’utente a madornali errori nel loro uso, dimostrando che il modello mentale del progettista che li ha creati non è stato trasmesso correttamente dall’oggetto e di

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STRUMENTI

conseguenza il modello mentale dell’utente si è rivelato errato, come nel caso del celebre telefono da ufficio. Una possibile soluzione, universalmente adottata, consiste nel fornire il prodotto corredato da un libretto di istruzioni che dovrebbero risolvere ogni dubbio nella mente dell’utente circa l’utilizzo del prodotto stesso, sia esso un oggetto meccanico, tecnologico o un software. La realtà dei fatti è che troppo spesso servirebbero le istruzioni per le istruzioni, ma non è una situazione così paradossale a ben pensarci. Se il prodotto fosse ben concepito, nella maggior parte dei casi dei casi non dovrebbe neppure necessitare di un supporto esterno per l’uso, pertanto cosa ci fa pensare che chi ha progettato un cattivo prodotto sia poi in grado di progettare delle buone istruzioni? I telefoni cellulari Nokia hanno avuto un enorme successo sul finire degli anni Novanta proprio grazie alla loro facilità d’uso che sostanzialmente non richiedeva all’utente di leggerne le istruzioni, contrariamente ai prodotti di tutti i brand concorrenti il cui uso era assoggettato a un attento studio di istruzioni spesso labirintiche e oscure. Nokia 6110 del 1998

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Il primo passo per un progettista consiste dunque nel formarsi un modello mentale di ciò che sta progettando, ma il più difficile è consiste nel far sì che quello stesso modello sia poi comunicato autonomamente dal prodotto, perché “Noi formiamo modelli mentali attraverso l’esperienza, l’addestramento e le istruzioni. Il modello mentale di un dispositivo si forma in gran parte interpretandone le azioni, così come sono percepite, e la struttura visibile. Chiamiamo la parte visibile del dispositivo “immagine del sistema”. Quando l’immagine del sistema è incoerente o inadeguata (...) l’utente non può utilizzare facilmente il dispositivo. Se è incompleta o contraddittoria, sono guai.” 09

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STRUMENTI

metafore La necessità che un oggetto esprima se stesso in modo visibile, completo ed efficace dunque si traduce, dal punto di vista progettuale, nell’esigenza di creare una immagine di sistema del prodotto coerente con il suo funzionamento. Quando il sistema è particolarmente complesso, può essere utile, se non talvolta necessario, ricorrere ad alcuni strumenti mutuati dal mondo della comunicazione, come la metafora che ben si presta a rappresentare una condizione, un ambiente o un intero sistema sfruttando immagini provenienti da contesti apparentemente molto lontani, ma capaci di ricreare un’analogia mentale. Il computer odierno, sia esso dotato di sistema operativo Windows o Mac OS, è un perfetto esempio di metafora in cui l’assoluta complessità dei processi che governano il funzionamento del calcolatore appare, agli occhi dell’utente, sotto forma grafica come un ipotetico ufficio dotato di scrivania, archivi, cartelle e fogli di lavoro organizzati secondo una rigida struttura gerarchica. Questa metafora, introdotta per la prima volta da Alan Kay presso lo Xerox PARC nel 1970, è divenuta lo standard, anche se con varianti grafiche e dettagli di funzionamento, universalmente condiviso e riconosciuto sia dagli utenti che dalle imprese. Si tratta infatti di una metafora efficace che consente all’utente un’immediata comprensione e gestione di problematiche anche molto complesse poiché sfrutta un modello mentale basato su un modo di lavorare ormai assimilato. Screenshots dello Xerox Star, 1981

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STRUMENTI

UNIVERSITY TRIPS FOOD / DRINKS COMPUTER / PHONE INVESTMENTS WEAR SPORT TRANSPORTS UNPREDICTABLE

Metafora grafica della situazione finanziaria di un ragazzo che vive solo, con definizione della provenienza delle entrate, rappresentate dalle foglie sull’albero, e della ragione delle uscite, rappresentate dalle foglie a terra

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STRUMENTI

problemi come opportunità L’osservazione del mondo, del contesto sociale e culturale è fondamentale per un designer, in quanto qualsiasi progetto nasce dell’esigenza di apportare qualcosa di nuovo, diverso, migliore rispetto a quello che già esiste oppure dalla necessità di risolvere una soluzione problematica. Ogni problema rappresenta infatti per un designer un’opportunità progettuale, una situazione in cui è presente un ampio margine di innovazione. Il resto è moda, styling. Questo non significa che un buon progetto debba necessariamente essere originale nelle soluzioni adottate, ma lo deve essere il punto di vista da cui si affronta quest’opportunità.

Facebook visualizzato sul display di uno smartphone HTC

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Le situazioni di vita quotidiana offrono infiniti spunti per la concettualizzazione di progetti sensati, utili e spendibili. I grandi problemi del mondo, come la fame, l’inquinamento, i rifiuti o le energie rinnovabili rappresentano opportunità progettuali al pari dell’anziana signora che fatica a scendere le scale. Ciò che cambia è la complessità della situazione in analisi. Affrontare un piccolo problema con intelligenza può inoltre portare a soluzioni inattese i cui effetti positivi possono innescare un effetto valanga. Pensiamo a Facebook. Questo social network nasce nel 2004 dalla necessità di un ristretto gruppo di studenti universitari di comunicare tra loro all’interno del campus e oggi è il secondo sito web più visitato al mondo dopo Google. La necessità e il desiderio di comunicare in modo alternativo e gratuito ha trovato in FB una risposta. Come tutti i fenomeni di questa levatura, Facebook trova appassionati consensi e feroci critiche, ma è indubbio che il suo successo sia dovuto alla corretta lettura di un’opportunità offerta dalla società contemporanea: poter comunicare sempre, ovunque e soprattutto gratis.

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STRUMENTI

what

people needs to find a restaurant when they are in a city, not before. people traveling don’t plan where to eat, just chose at last minute and reserve a table.

why

to chose the restaurant where to eat, people wants to know the kitchen style, the prices and some customer’s opinions.

who

the device connects customers and owners of the restaurants, travelers, tourists and local associations for tourism.

how

chose the city or the distance from where the user is. chose the price range. chose the kitchen style. see customer’s opinions and photos about the restaurant. input: touchscreen. output: touchscreen and sounds.

other

camera - gps - insert opinion - send a request to reserve a table

Definizione di un’opportunità progettuale: un device portatile interattivo che consenta all’utente di trovare un ristorante in una città e di prenotare eventualmente un tavolo.

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STRUMENTI

dallo scenario al flusso Immaginare l’utilizzo di un prodotto, un servizio o un’interfaccia che si sta progettando è un passo indispensabile per verificare la correttezza del progetto stesso. Lo scenario rappresenta il primo strumento utile per realizzare questa simulazione. Si tratta di una storia che racconti il modo in cui sarà utilizzato il prodotto una volta realizzato, mettendo in scena le personas precedentemente definite. Risulta molto utile utilizzare in questa situazione diverse personas per scoprire cosa debba essere incluso nel prodotto finale o per far emergere da subito eventuali grossolani errori. Possono essere utilizzate soltanto le parole oppure unire a queste dei veloci schizzi, ma l’utilità di questo strumento risiede proprio nell’immediatezza della sua creazione. Di pari passo il prodotto prende forma attraverso l’uso di schizzi e modelli che in una prima fase non possono e non devono essere eccessivamente dettagliati, sia per ragioni progettuali che funzionali. La funzione di questi consiste infatti nel verificare l‘ipotetico uso del prodotto per definirne soprattutto le funzioni; un modello troppo definito rischia di distogliere l’attenzione dagli aspetti salienti e di condurre l’osservatore a valutarne maggiormente gli aspetti e le imperfezioni formali che saranno invece affrontati in una fase più avanzata del progetto. Infatti

Telefono Grillo Modello di studio e schizzo

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“Gli schizzi e i modelli sono, per loro natura, informali e possono essere facilmente cambiati. Chi li guarda si sente libero di commentare proprio per questo motivo. Questo è un aspetto positivo, e nessun designer dovrebbe sentirsi eccessivamente legato ad essi.” 10 Definiti lo scenario e i primi modelli, un utile strumento per illustrare il prodotto è lo storyboard, in uso principalmente in campo pubblicitario e cinematografico. Spesso la tecnica utilizzata è l’illustrazione che porta alla realizzazione di uno storyboard

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STRUMENTI

in stile fumettistico che presenta il vantaggio, rispetto alla fotografia, di spaziare maggiormente con l’immaginazione e di aderire maggiormente allo scenario definito in precedenza. In uno storyboard ogni immagine rappresenta un momento saliente dell’interazione con il prodotto e risulta particolarmente efficace nel descrivere il funzionamento di un dispositivo o le modalità d’uso di un’interfaccia.

Storyboard di uno spot Coca-Cola

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Per meglio definire quali siano le azioni realmente importanti da documentare in uno storyboard è utile inoltre effettuare un’analisi dei compiti, che consiste in una lista di tutte le funzionalità messe a disposizione dal prodotto, ovvero tutto ciò che è possibile fare e come. Questo strumento funge anche da verifica nel momento in cui il progetto è concluso, poiché consente di valutare se tutti gli obiettivi stabiliti sono stati raggiunti. Stabiliti quali siano i compiti, è indispensabile, per una corretta gestione dell’interazione, che questi siano ordinati secondo uno schema logico e temporale, sfruttando i diagrammi di flusso. In un diagramma di flusso (o flowchart) sono indicati i momenti in cui l’utente dovrà eseguire determinate azioni e ciò aiuta a definire il modo in cui implementare i comandi e dove includere menu, informazioni e affordance. Tutti questi strumenti hanno la fondamentale funzione di concretizzare il modello mentale del designer in modo poterlo comunicare per sottoporlo a verifica. E in fondo il mestiere del designer è proprio questo, perché “Creare un design - come notò Hillman Curtis - è rendere visibile l’invisibile, ed è quello che fanno i migliori modelli, diagrammi e documenti. La qualità di modelli, diagrammi e documenti riflette la qualità del designer.” 11

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STRUMENTI

Diagramma di flusso del funzionamento di un ipotetico distributore di bevande calde

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STRUMENTI

dal prototipo al video Il passo finale di un processo di progettazione, prima che il prodotto sia realizzato per essere immesso sul mercato a disposizione dell’utente reale, è la creazione di uno o più prototipi. Questi sono indispensabili perché il designer conosce bene il progetto fin dalla sua nascita, ma qualunque altro individuo può avere delle grosse difficoltà a comprenderlo fintanto che non può interagire con un prototipo dello stesso. Diagrammi, schizzi e modelli hanno una forte capacità comunicativa, ma limitata agli addetti al settore. Il prototipo invece estende il bacino dell’utenza di controllo perché comunica esattamente come potrebbe essere il prodotto finale. Prototipo “quick and dirty” realizzato per la produzione del filmato nell’ambito del corso

I prototipi possono essere di tre tipi: cartacei, digitali o fisici a seconda del tipo di prodotto e delle funzionalità che questo deve presentare. Naturalmente i prototipi fisici sono i più dispendiosi, ma sono anche quelli che trasmettono il maggior numero di informazioni e da cui è possibile avere i riscontri più precisi. Il fatto di poter interagire con un oggetto maneggiandolo non è la stessa cosa che farne ruotare virtualmente un modello tridimensionale sul monitor di un computer. Con un modello fisico è inoltre possibile realizzare filmati in cui l’utente utilizza effettivamente il dispositivo. In questo modo il filmato stesso diventa uno strumento per comunicare la forma, il funzionamento, l’interazione e lo scenario di riferimento del progetto allo stesso modo in cui ciò era espresso nello storyboard, ma in modo molto più aderente alla realtà e immediatamente comprensibile da chiunque. Il filmato inoltre rappresenta una forma di autocontrollo per il designer, che può così scorgere un piccolo errore progettuale di cui non si era tenuto conto o che poteva essere sfuggito nelle precedenti fasi in cui l’utente reale non aveva la possibilità di interagire con il prodotto definito.

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STRUMENTI

Screenshots del filmato realizzato nell’ambito del corso per simulare il funzionamento del device

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STRUMENTI

citazioni

09

Donald A. Norman, La caffettiera del masochista, Giunti, Firenze 1990, p. 33.

10

Dan Saffer, Design dell’interazione, Pearson, Milano 2007, p. 103.

11

ibidem, p. 119.

immagini

14

Donald A. Norman, La caffettiera del masochista, Giunti, Firenze 1990, p. 35.

15

http://www.flickr.com/photos/deqadent/453978050/

16

http://www.digibarn.com/collections/systems/xerox-8010/index.html

17

http://www.eurodroid.com/2011/01/

18

http://www.radiobakelite.com/dblog/

19

http://www.vayacine.com/tag/coca-cola

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CONCLUSIONI

un mondo immateriale L’incessante ricerca in campo scientifico e tecnologico ha portato oggi a una riduzione nelle dimensioni delle componenti elettroniche che ha progressivamente determinato anche la riduzione nelle dimensioni di moltissimi dispositivi in cui queste componenti sono integrate. Se pensiamo soltanto al settore delle telecomunicazioni o all’informatica, questo appare in modo evidente: un cellulare del 2011 è più piccolo di una calcolatrice del 1990, possiede una potenza di calcolo inimmaginabile negli stessi anni, integra una macchina fotografica, una radio, talvolta un’intera collezione musicale, una TV e permette di comunicare in modi assolutamente nuovi e imprevisti. L’interfaccia fisica con l’utente è spesso assente, sostituita da un display touchscreen in cui i tasti sono delle metafore grafiche. Insomma, non soltanto si è raggiunto un livello di miniaturizzazione incredibile, ma ci si sta avviando alla smaterializzazione dei device, quantomeno quelli di input.

Screenshot dal film Minority Report

Questa prospettiva pone il designer di fronte a grosse responsabilità perché l’immaterialità degli oggetti, se da un lato ci si libera dalla fisicità degli stessi, dall’altra rischia di metterci nella condizione di non poterne fare a meno, neppure volendo e anzi di obbligarci all’uso. Il rischio è insomma che si amplifichi la situazione che già esiste relativamente all’uso del telefono cellulare: chiunque ce l’ha e il possesso ne impone l’uso. Questa è naturalmente una visione iperbolica della realtà, ma in molte situazioni neppure molto lontana. La responsabilità del progettista si estende inoltre in ambito sociale e culturale perché, nel momento in cui sono adottate delle nuove modalità di interazione, con il tempo queste ultime diventano uno standard, un nuovo e acquisito schema mentale che influenza tutte le attività di una persona nella vita di ogni giorno. Sicuramente si tratta di una sfida affascinante e stimolante che un

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CONCLUSIONI

buon designer, fatti propri gli insegnamenti dell’interaction design, è pronto ad affrontare. Alcuni passi sono già stati compiuti in questo senso, ma limitati a contesti molto specifici e settoriali, come ad esempio in campo ludico, con il Kinect per Xbox, o nel campo delle presentazioni multimediali in ambiente business, dove il controller, il device di input semplicemente non esiste fisicamente, ma è rappresentato dal corpo dell’utente i cui movimenti vengono rilevati, interpretati e tradotti in comandi da un apposito dispositivo davanti al quale l’utente stesso è libero di muoversi. Prima che questa innovazione possa essere definita progresso nel senso fordiano, bisognerà tuttavia che i suoi vantaggi appaiano evidenti e siano sfruttabili non soltanto in questi ambiti di nicchia, ma nella vita quotidiana di tutti.

Alessandro Zamprogna

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BIBLIOGRAFIA

testi

• • • • •

Sygmunt Bauman, Modus vivendi, Laterza, Bari 2008. Andrea Lupacchini, Design olistico, Alinea, Firenze 2010. Bill Moggridge, Designing Interactions, MIT Press, Cambridge 2006. Donald A. Norman, La caffettiera del masochista, Giunti, Firenze 1990. Dan Saffer, Design dell’interazione, Pearson, Milano 2007.

websites

• • •

http://www.jnd.org/ http://www.frontend.com/ http://www.cooper.com/

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font

intestazioni:

Akkurat Bold, 12 pt

titoli:

Akkurat Bold, 13 pt

testi:

Archer Pro Light, 11 pt

citazioni:

Archer Pro Light Italic, 11 pt

didascalie:

Akkurat Regular, 7 pt

software

Adobe速 Creative Suite CS5 Piattaforma Apple速 Mac OS X

stampa

stampa laser CMYK su carta patinata opaca 100gr/m2

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