Fashion Design Bachelor Degree thesis

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mezzo secolo di rivoluzione gender

tesi di laurea alessia vitale



“è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete!”

kevin spacey in “American Beauty” (1999)



a mia madre


#unlocked

#loveislove

#pride

#lgbtq


abstract

A distanza di 50 anni dai primi Moti rivoluzionari di Stonewall, cosa è realmente cambiato? Quali fattori hanno maggiormente influenzato la libertà di manifestare sé stessi e quali invece la ostacolano? La società si confronta sempre più con dilemmi sull’identità di genere grazie al feroce avanzamento del digitale e del mezzo social in costante aggiornamento di immagini, il più veloce e pervasivo metodo di comunicazione. “Essere alla moda” è un cliché in fase di atterraggio, il buon gusto si fa da parte lasciando alla Moda una più importante missione rispetto all’attenersi a regole di carattere estetico: raccontare. L’obiettivo di questo studio è quello di documentare i più significativi eventi di carattere storico, sociologico e antropologico che hanno dato una voce a tutt* coloro che in passato venivano ineluttabilmente posti ai margini sociali a causa della “non conforme” identità di genere, provocatoriamente manifestata attraverso condotte fuori dagli schemi, i famosi LGBTQ+. I gay pride sono l’orgoglioso omaggio annuale ai primi Moti di Stonewall, ricorrenti puntualmente ogni giugno: cortei pacifici di manifestazione non-violenta a favore di tutte le libertà che la società, spesso avente un atteggiamento bigotto, tende a censurare e discriminare, alla base dei quali estro, kitsch, musica e condivisione si mescolano dando vita ad un effimero, utopico nucleo sociale nel quale non esiste alcuna forma di pregiudizio. A tal proposito, la domanda della ricerca è la seguente: Come la Moda riesce a comunicare chi siamo e quali sono le principali figure che hanno reso la Moda un “luogo abitabile” per coloro che nella realtà comune incontrano ostacoli? Nell’attuale panorama politico stanno ri-prendendo vita non poche modalità di discriminazione contro chi, per orientamento sessuale o etnia di appartenenza, viene considerato diverso. La tesi affronta l’argomento da un punto di vista analitico, riportando una serie di dati e testimonianze volti a designare nell’animo di chi legge un mondo parallelo nel quale non esistono etichette, tentando così di sbloccare il pensiero di default che automaticamente si genera quando, ad esempio, vengono fatte associazioni legate ai dettami sociali.


Siamo circondati da arte, musica e Moda i cui i personaggi oscillano da un sesso all’altro. La società si confronta coi dilemmi dell’identità di genere e il web, insieme alle piattaforme social, diventa ambasciatore di messaggi che incitano all’accettazione del nuovo e del diverso, servendosi della più efficace forma di comunicazione: l’immagine. In un mondo in cui la generazione Y gioca un ruolo primario nella difesa e nella traduzione in chiave contemporanea di un prezioso passato cavalcando sempre l’onda della rete, attraverso la messaggistica istantanea e i colossi del social networking, è importante non restare aggrappati ad una forma mentis conservatrice di sepolti stereotipi di buon costume e di pudore cercando di sfruttare tutti i mezzi di confronto e informazione che la tecnologia offre. Il mondo è in costante mutamento e con lui mutano ideali, gesti, parole e leggi, muta la storia e grazie a particolari movimenti di agitazione di massa per l’ottenimento di diritti culturali e pari opportunità, ci ritroviamo a vivere in una società composta da individui più consapevoli, che compiono scelte consapevoli e impostano dialoghi consapevoli prestando attenzione alla scelta lessicale affinché non si metta in discussione la sensibilità morale di chi è di fronte. In una nazione in cui la tradizione fa da padrona, in cui lo Stato del Vaticano esercita una rilevante potenza sul pensiero comune, mentre si discute di diritti e unioni civili, il tempo rimescola le carte. Essere gay o essere trans non è una moda, come non lo è essere nero o bianco: sono dati di fatto e vanno accettati in quanto tali. La tesi si sviluppa in dodici sezioni nelle quali verranno esplicate nel dettaglio le differenze fra le diverse definizioni e sigle utilizzate per definire l’omosessualità, l’identità di genere e l’orientamento sessuale. Un altro tema sensibile, arcano e contemporaneo, carico di provocazione e mistero è l’androginia. Un tema attuale, presente nella nostra società e da sempre radicato nelle culture occidentali. Possiede una spiccata carica espressiva e profonda intimità che da’ luogo ad una fascinazione che appartiene ad ognuno di noi e che rende questo fenomeno strumento di carica d’espressione emotiva, sessuale e di genere. L’androgino si propone come una figura di critica radicale contro ogni forma di rigidità, di regolazione e di discriminazione sessuale; è l’apertura verso la possibilità di un altro mondo, un punto di vista alternativo. Si ha l’opportunità di poter scegliere la parte “grigia”, quella parte che spaventa tanto la società ben scissa tra il bianco e il nero. Tema presente costantemente nelle strade, nei rapporti e in noi stessi. Questa figura vive con noi e dentro di noi. Viviamo all’interno di profonde trasformazioni, ne cambiano i nostri pensieri e i nostri modi di vivere che da sempre hanno carattere di transitorietà nel tempo. Ciononostante l’androgino è uno degli archetipi principali della nostra storia. Da mito delle origini, si è nel tempo ciclicamente ripresentato, costante ma mutevole nei secoli, fino ad arrivare alla società contemporanea. Oggi grazie ad una nuova apertura mentale, a limiti sempre meno definiti, siamo riusciti a far uscire allo scoperto questo lato ambiguo in maniera meno sofferente e a emancipare questa “grey zone” in cui si ha la possibilità di essere quello che si vuole è quello che si è. Questo tema fragile e delicato ma contemporaneamente forte e deciso vuole essere usato come mezzo di volontà di sovversione dei canoni sociali, estetici e culturali attuali. La tesi si incentra particolarmente sul mondo della Moda come mezzo di sblocco dagli stereotipi sociali sfruttandone il potente potere comunicativo diretto affinché si promuova l’androginia intesa come ribellione a tutto ciò che è definito, deciso e programmato.


introduzione

Lo studio passa attraverso la parte storica, filosofica e sociologica della figura androgina fino ad arrivare allo studio iconico riguardante le arti della fotografia e della performance, evidenziandone i protagonisti principali attivi e passivi. Stilisti celebri ed emergenti propongono collezioni dall’immaginario a-gender e talvolta utopico, come nel caso di Alessandro Michele, Telfar Clemens e Rad Hourani, preceduti dal fautore ante litteram della moda genderless: Giorgio Armani. Il Gender è sempre stato un’influenza sociale di primo piano nel settore della Moda, con le donne che sono state le principali forze motrici del settore. Nel corso dei decenni la Moda era, e spesso è ancora, vista come “femminile” e quindi non collegata agli uomini. Tuttavia, negli ultimi anni i vincoli del genere tipico sono stati infranti e l’idea di superare i confini di genere attraverso la Moda è diventata un tema comune all’interno dell’industria stessa. Man mano che la società diventa più incline al genere, alla razza e alla sessualità, le persone diventano più fiduciose nel modo in cui si esprimono attraverso la Moda. Spesso si pensava che la Moda fluida androgina e di genere fosse un concetto di “Alta Moda” con i designer che utilizzavano la nozione nel loro lavoro. Ad ogni modo, questo concetto ha avuto un effetto solletico e ora il pubblico in generale sta adottando ed integrando questo stile nel proprio guardaroba. La prima sezione illustrerà la Teoria del gender e le sezioni a seguire affronteranno l’argomento dai punti di vista: storico-sociologico, risalendo a quando Karl Marx e Friedrich Engels definirono, attraverso le loro filosofie materialiste, quali fossero gli archetipi delle lotte sociali e di genere; contemporaneo, illustrando come l’attuale forma di comunicazione di massa digitale riesca a facilitare l’approccio al “diverso” ma allo stesso tempo ostacoli le manifestazioni degli alter ego di chi, per natura personale o lavorativa, possiede molteplici identità. La seconda sezione evidenzierà le differenze tra “unisex” e “genderless” definite da Jo B. Paoletti nel suo saggio “Sex and Unisex, Fashion, Feminism, and the Sexual Revolution” proiettando tale scissione nel campo semantico del prodotto Moda, evidenziando come, soprattutto nel settore del fast fashion, il termine “genderless” venga strumentalizzato dalle strategie di marketing affinché il consumatore sia indotto ad acquistare capi unisex sfruttando un concept di gran lunga differente. La sezione terza percorrerà la strada dell’androginia, definendone la storia e analizzando i miti letterari che hanno posto al centro tale figura fino ad arrivare ai giorni nostri. La quarta sezione porrà in discussione la Moda genderless e i designer che hanno portato in passerella, secondo i propri immaginari, quei capi “rivelatori” del proprio io che oggigiorno siamo semrpe più abituati a vedere nelle strade e sui principali siti di diffusione immagini, oltre che sui social. La tesi si concluderà con un editoriale contenente le testimonianze di coloro che hanno contribuito a renderla quello che sarà, assieme a racconti di vita ed esperienze personali rilasciati in brevi interviste.



014/a.

018/b.

022/c.

Gender Theories or Gender Studies?

Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere

Donna non si nasce, si diventa

053/d.

078/e.

084/f.

La prima volta fu rivolta

In ognuno di noi presiedono due forze, una femminile e una maschile

Capire la mescolanza significa perseverare e cambiare rotta nello stesso momento

101/h.

107/i.

Auguri e figli maschi!

La giacca è stata il mio punto di partenza

There should be no boundaries, no hierarchy, no violence. Men and women are equal.

116/j.

120/k.

124/l.

You get to wear exactly what you want

Eckhaus Latta

I don’t see things with gender, race and culture

092/g

.

128/m. LGBTQ+ humans

142 Bibliografia e ringraziamenti


a.

Gender Theories or Gender Studies?

“Teoria el Gender”: si tratta di un neologismo nato in ambito cattolico negli anni novanta del secolo scorso per riferirsi in modo critico agli studi di genere: coloro che fanno uso di questa locuzione sostengono che gli studi di genere nasconderebbero un progetto predefinito mirante alla distruzione della famiglia e della società fondate su un presunto ordine naturale. La parola “gender” è il termine inglese che sta a indicare l’identità e l’orientamento sessuale. Per secoli, si è sempre utilizzato il vocabolo ‘sesso’ per indicare le differenze presenti tra uomini e donne. Dagli anni ‘50 in poi, prima negli Stati Uniti e poi anche in Europa, grazie agli studi di Claude Lévi-Strauss1 e di Michel Foucault2, si è iniziato a differenziare il “sesso” dal “genere”: il primo si riferisce prevalentemente al proprio corredo genetico-biologico, mentre il secondo è connesso a un complesso di meccanismi strettamente correlati ai rapporti tra uomini e donne.

Gli studi di genere hanno descritto e studiato le nuove forme familiari, comprese le coppie omosessuali con e senza figli, e hanno scoperto che l’idea che non avrebbero potuto funzionare era falsa; pertanto queste vanno tutelate come le altre famiglie, per proteggere i bambini dalla discriminazione. L’identità maschile o femminile secondo questi studi non è “data per natura” ma è stata costruita socialmente. In questa costruzione la differenza di sesso biologico è stata trasformata in una differenza di ruoli (di “genere”, appunto), che a sua volta è diventata una gerarchia: gli uomini sono stati assegnati alla produzione e al lavoro, le donne alla riproduzione e alla cura. La gerarchizzazione delle differenze ha portato all’oppressione degli uomini sulle donne e alla creazione di confini rigidi tra le identità di genere, con l’allontanamento o il non riconoscimento di chi sta fuori da questa norma. Per questo, secondo le teoriche del genere, è necessario che le convenzioni sociali si emancipino dalla natura, ma anche che le persone sleghino la loro identità dall’ordine sociale sottraendosi al dualismo sessuale. A tutto questo è collegata la rivendicazione di nuovi diritti sessuali: quello di scegliere il proprio sesso, la difesa delle cosiddette minoranze sessuali, il diritto al matrimonio omosessuale e all’adozione, il diritto ad avere un bambino.

1. L’antropologo Claude Lévi-Strauss (1908-2009) è stato colui che, con la sua utilizzazione del modello della linguistica strutturale nelle indagini sulle strutture della parentela e sui miti e con le sue teorie generali sul concetto di struttura, ha più contribuito alla formulazione e alla diffusione di quello che è stato chiamato strutturalismo. 2. Nel pensiero di Michel Foucault è centrale il concetto di potere, inteso sia come complessità dei rapporti che come molteplicità di strategie, «il cui disegno generale o la cui cristallizzazione istituzionale prendono corpo negli apparati statali, nella formulazione della legge, nelle egemonie sociali». In particolare, Foucault si è occupato di riflettere sul rapporto che vi è tra potere, sapere e sessualità, concentrandosi proprio su quest’ultimo aspetto. In Storia della sessualità del 1976 (opera che consta di tre volumi e della quale fanno parte La volontà di sapere, L’uso dei piaceri e La cura di sé), Foucault ricostruisce ad esempio una genealogia della sessualità, indagando la relazione che esiste tra il sesso e i dispositivi di potere, storicamente atti a normarlo.


J U D I T H BUTLER 014 - 015

Dice Butler:

Il libro che ha introdotto nel dibattito comune degli anni Novanta la definizione di “teoria del genere” è Gender Trouble (Questione di genere) di Judith Butler, una delle pensatrici femministe più autorevoli e influenti dell’ultimo decennio. Secondo Butler la materia, i corpi e le differenze sessuali sono “atti” recitati: non ci sono “donna” e “uomo” (né ovviamente una “natura femminile” e una “natura maschile”) ma ci sono “recite” ripetute e obbligate dei codici dominanti. Nel 2013 Butler è stata intervistata su Le Nouvel Observateur e ha spiegato molto bene la propria posizione rispondendo innanzitutto a chi sostiene che la “teoria del genere” sia in generale una negazione dei sessi e che il suo insegnamento, se attuato, porti a questo come principale conseguenza.

«In molti mi domandano se io ammetta o no l’esistenza del sesso biologico. Implicitamente, è come se mi stessero dicendo: «bisognerebbe essere pazzi per dire che non esiste!» E in effetti è vero, il sesso biologico esiste, eccome. Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione. Ciò che rispondo, più semplicemente, è che la sua definizione necessita di un linguaggio e di un quadro di comprensione – esattamente come tutte le cose che possono essere contestate, in linea di principio, e che infatti lo sono. Noi non intratteniamo mai una relazione immediata, trasparente, innegabile con il sesso biologico. Ci appelliamo invece sempre a determinati ordini discorsivi, ed è proprio questo aspetto che mi interessa». E ancora:

«La teoria del genere non descrive “la realtà” in cui viviamo, bensì le norme eterosessuali che pendono sulle nostre teste. Norme che ci vengono trasmesse quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori, e noi le perpetuiamo nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita. Sono norme che prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna. E noi dobbiamo incessantemente negoziare con esse. Alcuni tra noi sono appassionatamente attaccati a queste norme, e le incarnano con ardore; altri, invece, le rifiutano. Alcuni le detestano, ma si adeguano. Altri ancora traggono giovamento dall’ambiguità… Mi interessa dunque sondare gli scarti tra queste norme e i diversi modi di rispondervi».


“La moderna famiglia singola è fondata sulla schiavitù domestica della donna, aperta o mascherata.” Friedrich Engels

Le premesse teoriche di quella che poi sarebbe stata chiamata “Teoria di Genere” risalgono all’ideologia socialista e, in particolare, alle idee espresse da Friedrich Engels (1820-1895) nella sua opera pubblicata nel 1884, “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, nella quale il filosofo tedesco parla della prevaricazione sulla donna come la massima espressione della lotta di classe nella sua forma originaria. Va ricordato che la filosofia della storia di Karl Marx e di Engels è radicalmente materialista. L’uomo non è che un’escrescenza della materia e non esistono valori spirituali o morali che lo trascendono. Il cuore della dottrina marxista è il materialismo dialettico. Tutto ciò che esiste è materia in movimento e la dialettica è la legge del movimento incessante della materia. La sua espressione storica è la lotta di classe tra borghesia e proletariato. Secondo tale visione, la donna costituisce la prima forma di proprietà privata e l’oppressione delle donne da parte degli uomini è la prima oppressione di classe: «in un vecchio manoscritto mai pubblicato scritto da Marx e da me nel 1846, ho trovato queste parole: “La prima divisione del lavoro è quella tra uomo e donna per la riproduzione dei bambini”. Oggi posso aggiungere: la prima opposizione di classe che appare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo uomo-donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella fatta dall’uomo sul sesso femminile».

Basandosi sulle teorie pseudo-scientifiche dell’etnologo inglese Lewis Henry Morgan (1818-1881), Engels sostiene che nella storia si è passati da un sistema matriarcale originario ad un sistema patriarcale, che ha alienato la donna dai suoi diritti trasformandola in una serva dell’uomo, obbligata come è a maternità ripetute, lavori domestici ed emarginazione sociale. La prima lotta di classe ha luogo all’interno della famiglia patriarcale. Il comunismo permetterà il superamento di tale situazione di asservimento della donna mediante la sua “liberazione” dalla schiavitù familiare, materna e domestica. Tutto ciò avverrà, da un lato, tramite la distruzione della famiglia naturale e dell’istituzione del matrimonio considerata una gabbia insopportabile per la donna, dall’altro attraverso l’affermazione dell’amore libero e dell’uguaglianza totale tra i sessi. Tali idee verranno riprese e mutuate dal femminismo radicale3 e saranno alla base dell’ideologia gender che nella famiglia naturale vedrà il principale ostacolo da abbattere sul proprio cammino. In una rilettura della lotta di classe, il femminismo affermerà che così come l’ideologia marxista aveva individuato nella classe proletaria il soggetto che avrebbe dovuto abbattere il sistema capitalista, spetta ora alle donne compiere la rivoluzione. Nella nuova dialettica di ispirazione marxista, le donne sostituiranno, dunque, i proletari riappropriandosi del proprio corpo, attraverso il controllo della loro fecondità e l’utilizzo delle nuove tecniche biomediche. Lo scopo finale di tale rivoluzione non è solamente l’abolizione dei privilegi dell’uomo quanto la soppressione totale di qualsiasi distinzione tra le classi. Tale processo si potrà dire compiuto solamente nel momento in cui saranno abolite tutte le differenze tra uomini e donne e in cui non avrà più alcun senso parlare di famiglia, matrimonio, madre, padre e così via, in quanto termini che rievocano una realtà storica oramai superata in contrasto con la visione distruttrice di tale ideologia.


016 - 017

Il Sessantotto4 non fu una rivolta spontanea ma un movimento rivoluzionario accuratamente preparato che si propose di portare a compimento la rivoluzione marxista, liberando gli istinti vitali dell’individuo e delle masse dal giogo imposto da secoli di cultura e di civiltà. Tale movimento di contestazione, sviluppatosi originariamente a metà degli anni Sessanta negli Stati Uniti, raggiunse la sua massima espansione nell’Europa occidentale toccando il suo apice nello “storicamente famoso” maggio francese. Alla rivoluzione politica si sostituì una “rivoluzione culturale”, finalizzata a sovvertire i valori e i princìpi a fondamento dell’ordine naturale e cristiano. Il Sessantotto si distinse da tutte le rivoluzioni precedenti per il suo carattere “culturale” che determinò il passaggio dal livello classico e socio-politico, a quello dell’interiorità umana; in altre parole, dalla società all’uomo. In questo senso, tale rivolta è stata, appropriatamente, definita una rivoluzione in interiore homine per rimarcare come il suo fine primario fu lo stravolgimento dell’essenza stessa dell’uomo. Esso come sottolinea Corrado Gnerre, «volle essere una rivoluzione totale, una rivoluzione culturale che toccasse tutto: il quotidiano, i costumi e l’essenza stessa dell’uomo».

Herbert Marcuse5, uno dei suoi ideologi principali, così spiegò la rivolta giovanile di quegli anni: «una ribellione allo stesso tempo morale, politica, sessuale. Una ribellione totale. Essa trova origine nel profondo degli individui. […] L’idea tradizionale di rivoluzione è tramontata, adesso dobbiamo intraprendere una sorta di diffusa e totale disgregazione del sistema». Accanto all’attacco generale nei confronti dell’istituto naturale della famiglia, le conseguenze concrete di questa rivoluzione, come nota ancora Corrado Gnerre furono: lo snaturamento dell’atto sessuale, con la scissione del fine unitivo da quello procreativo; la legalizzazione e successiva normalizzazione dell’aborto in tutti gli Stati occidentali; la diffusione della pornografia, correlata al processo di banalizzazione del sesso ridotto a mero atto di piacere; il dilagare dell’omosessualismo come normale conseguenza di una sessualità libera e istintuale, svincolata da qualsiasi riferimento morale; e, infine, la diffusione della pedo-pornografia anch’essa logico e coerente risultato di tale processo rivoluzionario, teso a giustificare qualsivoglia perversione sessuale, in nome della liberazione dei propri istinti e delle proprie passioni. Il ’68 diede un contributo notevole al successo del femminismo e del nascente movimento omosessuale e rappresentò una vera e propria fucina ideologica delle correnti di pensiero che avranno un impatto decisivo negli anni a seguire portando ad una profonda e radicale trasformazione della società.

3. Il femminismo radicale è un ramo del femminismo che si distingue per lo studio della società patriarcale come un obiettivo fine a se stesso invece che come aspetto secondario di un più grande sistema intersezionale. 4. Il Sessantotto è il primo fenomeno generazionale di massa del dopoguerra. Coinvolge quasi tutte le nazioni occidentali e dispiega la sua influenza anche sui movimenti di dissenso dell’Europa orientale, attraversa i due emisferi e si presenta come un fenomeno globale dell’età contemporanea. Accomunate da una generale protesta nei confronti del sistema dell’istruzione scolastica e universitaria che si estende gradualmente ad altre tematiche, le agitazioni del Sessantotto promuovono un modello di partecipazione politica del tutto innovativo, che incide in modo durevole sulle consuetudini e sulla mentalità della società novecentesca. 5. Herbert Marcuse (1898-1979), è stato un filosofo e sociologo tedesco. È stato uno dei pensatori più influenti del Novecento, soprattutto è nota la passione che per lui avevano gli studenti in rivolta nei tardi anni sessanta. Il suo pensiero, intrinsecamente anti-autoritario, rispecchiava la volontà di cambiamento radicale che animava la protesta dei giovani in tutto il mondo occidentale; il suo rifiuto di ogni forma di repressione, il suo secco no alla civiltà tecnologica (in entrambe le declinazioni liberal-capitalistica e comunista-sovietica), lo resero il filosofo del “grande rifiuto” verso ogni forma di repressione. Per i sessantottini fu anche molto importante il concetto di “liberazione dell’eros”, inteso non solo come liberazione sessuale, ma come liberazione delle energie creative dell’uomo dal condizionamento della società repressiva, per la creazione di una società più aperta, fatta di uomini liberi e solidali tra loro. Eros inteso anche come “bello”, in opposizione al concetto di dominio della società tecnologica; egli utilizzò l’espressione “società come opera d’arte”, ovvero una società più autentica, veramente libera, dominata dalla fantasia e dall’arte come dimensione fondamentale di ogni forma di convivenza.


b.

“Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.” Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila

“Nel lavoro quotidiano di utilizzo delle tecnologie digitali occorre costruire, gestire e sostenere un’idea di comunità che oscilla da una parte in direzione dell’effimero, del transitorio, del non mappabile e invisibile, e dall’altra si sfrutta lo spazio illimitato offerto dalle piattaforme social per organizzare, promuovere e diffondere i propri pensieri, opinioni, comportamenti, aggirando i limiti imposti dai protocolli di utilizzo di questi strumenti. Ecco che la politica di Facebook di associare a un profilo il vero nome di una persona si scontra con l’identità fluida e mutevole dei componenti della comunità drag queen di Brooklyn, che rivendicano la possibilità di frammentare il proprio vissuto in sfere differenti. Nell’intervistare alcune drag queen che hanno visto congelato il loro account, l’autrice testimonia come a fronte di un’esigenza di avere più profili legati all’essere uomo, performer, queen ecc. Facebook risponda con una rigidità che non soddisfa la flessibilità identitaria. Analizzando questa criticità del social network più diffuso e utilizzato dalla community, la Lingel sottolinea come oggi viviamo nell’illusione di essere liberi, ma non lo siamo affatto. Le strategie di sviluppo delle piattaforme digitali sono basate su una paradossale condizione che dimostra come la comunicazione digitale, che si presenta come libertà, si rovescia in controllo. Comunicazione e trasparenza producono una costrizione al conformismo.” (Marco Petroni)

Il “genere” è pervasivo nelle nostre società, la sua influenza si manifesta dunque anche riguardo alla tecnologia. Il campo di studi interdisciplinare che analizza i rapporti fra donne, uomini, genere e tecnologia, denominato Gender and Technology studies, nato negli anni Settanta del secolo scorso, analizza e discute in maniera critica numerose tecnologie: riproduttive, ambientali, informatiche, di uso domestico o lavorativo. Negli anni più recenti è stato avviato un percorso di decostruzione della tecnologia, parallelo alla decostruzione del concetto di genere. L’arrivo di Internet ha offerto negli ultimi trent’anni circa la possibilità di uno studio innovativo dell’influenza della tecnologia sul genere grazie alla rapida mutazione, radicale, che ha determinato nell’uso dei computer, oggi strumenti non solo di lavoro ma anche di comunicazione e interazione ludica. Gli studi sul genere e la tecnologia hanno via via trovato nuovi campi di analisi: la tecnologia non è costituita solo da oggetti, ma anche dalla cultura, e come tale è implicata nella costruzione e nell’evoluzione dell’identità individuale, incluso dunque l’identità di genere. Ecco allora come la critica femminista della letteratura cyberpunk1, dove si evidenziavano sfumature misogine, e la reazione a una percezione pessimista della tecnologia hanno contribuito alla produzione di una visione cyberfemminista: dove il cyberspazio e Internet sono considerati strumenti per la dissoluzione di costrutti sociali come sesso, genere e differenza sessuale.

1. Cyberpunk: genere narrativo in cui temi legati alla realtà delle società postindustriali (cibernetica, robotica, telematica, realtà virtuale, biotecnologie, clonazione) vengono elaborati fantasticamente nel segno di un’ideologia contestataria, di ribellione e critica sociale, analoga a quella del movimento punk o della musica punk rock.


018 - 019

Il settore di studi che analizza il genere e la tecnologia è oggigiorno più concentrato sullo studio dell’identità, ad esempio negli studi sulla tecnicità, cioè il ruolo della tecnologia nel definire chi siamo. Ne sono esempi gli studi su come la tecnologia sia coinvolta nella creazione dell’identità, grazie a ricerche inizialmente centrate sullo studio dei computer games ma rivolte ora a computer, Internet, smartphone visti come elementi che contribuiscono alla formazione dell’identità, di come ci percepiamo e ci rappresentiamo, al modellamento di chi siamo e come viviamo. Un altro esempio è dato dall’analisi di come le tecnologie per la comunicazione abbiano permesso lo sviluppo di comunità di persone transgender nel Nord America, favorendo consapevolezza dei diritti, scambio di informazioni, confronto sull’evoluzione dell’identità di genere.

Bisogna distinguere Drag Queen da Drag King2 dai discorsi sul genere, in quanto tali persone non fanno questo lavoro per problemi di identità di genere e spesso è un “travestimento” a fini performativi. Ci sono invece persone trans, gender variant o gender fluid che hanno potuto aprire account con il nome e profilo di elezione (non anagrafico). In tal caso è un modo per potersi presentare ed esporre come ci si sente realmente, almeno sui social, quando nella realtà è più difficile. Da un punto di vista esterno, affermare la/le propria/e soggettività sui social risulta l’unico capro espiatorio per chi trova difficoltà nel farlo nella vita reale; variabili come la cultura, forma mentis familiare e contesto sociale fungono sovente da ostacoli più o meno forti da superare, destando quindi introversia e frustrazione per coloro che invece desiderano manifestarsi per come sono. Sulla base di ciò il web gioca un ruolo centrale anche in casi adolescenziali, in quanto permette loro di confrontarsi e sperimentarsi anche nel confronto con altri in modo sicuro.

2. Drag king è un’espressione in inglese usata per designare donne che si esibiscono su un palco o in un locale interpretando personaggi maschili famosi o anche solo stereotipi maschili, sottolineandone gli aspetti estetici più virili mediante barbe posticce e abiti tipicamente maschili.


IL CASO

facebook

Facebook ha collaborato con i gruppi del Regno Unito Press for Change e Gendered Intelligence per aggiungere 21 nuove opzioni per garantire che l’elenco rifletta meglio i modi in cui gli utenti del Regno Unito possono scegliere di descriversi. “Le identità di genere sono complesse e per molte persone, descrivendosi come un semplice uomo o semplicemente una donna, sono sempre state inadeguate”, ha affermato il prof. Stephen Whittle, vicepresidente di Press for Change. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato il diritto di sviluppare la nostra identità di genere, come chiave per la nostra autonomia personale. “Sfidando il genere binario, Facebook permetterà finalmente a migliaia di persone di descriversi come sono adesso e permetterà alla futura generazione di bambini di sentirsi veramente a proprio agio nella propria pelle”. Garantire agli utenti la sensazione di sentirsi a proprio agio quando si utilizza la rete è una priorità, ha affermato Simon Milner, Policy Director, Regno Unito Medio Oriente e Africa su Facebook. “Una parte importante di questo è l’espressione del genere, specialmente quando si estende oltre le definizioni di solo” maschio “o” femmina“.L’annuncio di oggi offre molte più opzioni per le persone nel Regno Unito“, ha aggiunto.


020 - 021

f

gender options

agender

androgyne

androgynous

bigender

cis

cisgender

cis female

cisgender

cis female

cis male

cis man

cis woman

cisgender female

cisgender male

cisgender man

cisgender woman

female to male

FTM

gender fluid

gender nonconforming

gender questioning

gender variant

genderqueer

intersex

male to female

MTF

neither

neutrois

non-binary

other

pangender

trans

trans*

trans female

trans* female

trans male

trans* male

trans man

trans* man

trans person

trans* person

trans woman

trans* woman

transfeminine

transgender

transgender female

transgender male

transgender man

transgender person

transgender woman

transmasculine

transsexual

transsexual female

transsexual male

transsexual man

transsexual person

transsexual woman

two-spirit


c.

“Donna non si nasce, si diventa.” Simone de Beauvoir

Throwing back negli anni ‘60 e ‘70, “il Decennio dell’io” si distinse per narcisismo e autoindulgenza? O era un momento di attivismo sociale e di esperimenti di interesse comune? La moda unisex era semplicemente un “gioco” scherzoso sugli stereotipi di genere, o era un movimento più profondo per diventare i nostri veri “io”, non individualizzati? Esplorare l’ambiente culturale della molda unisex, oltre ad favorire la comprensione della storia, ci aiuta a comprendere le attuali guerre culturali. “Gender”: il termine è stato inventato negli anni ‘50 per descrivere le espressioni sociali e culturali del sesso biologico. Tuttavia nell’uso quotidiano, i concetti di sesso e genere sono quasi sempre fusi, inseparabili nella mente di molte persone. Negli anni ‘60 adolescenti e giovani imitano musicisti famosi e giovani designer producono abiti per una nuova generazione ispirata ai movimenti per i diritti civili e alla rivoluzione sessuale. I designer da Parigi (Pierre Cardin) a Hollywood (con le uniformi di Star Treck) hanno immaginato un futuro di uguaglianza e androginia. L’inclusione di donne nell’occupazione di professioni dominate dagli uomini, facilitata dall’uguale porzione di opportunità di lavoro della legge sui diritti civili, ha coinciso con l’aumento dell’abbigliamento professionale per le donne.

Il pendolo ha iniziato a oscillare più tradizionalmente verso l’abbigliamento femminile a metà degli anni ‘70 con il vestito a portafoglio della designer Diane Vin Fustenberg (1974)1 e il lancio di Victoria’s Secret (1976), e dalla metà degli anni ‘80 le mode unisex erano in gran parte svanite nella nebbia della nostalgia. Per la maggior parte, “unisex” significava un abbigliamento più maschile per ragazze e donne. I tentativi di femminilizzare l’aspetto maschile si sono rivelati di breve durata. Gli stereotipi incoraggiano modi semplicistici di vedere un mondo complesso. C’è una ragione per cui le persone creano degli stereotipi: ci aiutano a prendere decisioni rapide in situazioni confuse o caotiche. Ma le decisioni rapide non sono sempre quelle giuste. Molti dei nostri stereotipi di genere sono superficiali, arbitrari e soggetti a cambiamenti. I ragazzi cento anni fa indossavano il rosa e giocavano con le bambole. Ci sono bambini nati ogni giorno che non sono chiaramente ragazzi o ragazze all’esterno, e le nostre “parti interne” - fisiche, mentali ed emotive - comprendono una gamma infinita di identità ed espressioni di genere. Il movimento unisex era una reazione alle restrizioni dei rigidi concetti di sesso e ruoli di genere. L’abbigliamento unisex era una manifestazione della moltitudine di possibili alternative al binarismo di genere nella vita di tutti i giorni.


022 - 023 1. L’abito a portafoglio (Wrap Dress) disegnato da Diane Von Furstenberg era un abito in jersey di cotone con un top a fascia da ballerina. Senza bottoni o cerniere, è diventato parte del guardaroba di ogni donna nei tardi anni ‘70 fino agli anni ‘80. Risultava star bene su tutte, era impacchettabile, leggero e confortevole. Nel 1975, Furstenberg realizzava 15.000 Wrap Dress alla settimana.


I baby boomer2, come definito da Madison Avenue, non esistevano nella vita reale ma erano un costrutto simile a qualsiasi altro segmento demografico o di marketing. Contrariamente agli stereotipi popolari, c’erano neri, latini, queer, celibi, disabili e baby boomer della classe operaia, con una diversità di opinioni sulla politica e la moralità. Come enormi placche tettoniche in collisione per rimodellare i continenti, tre forze simultanee hanno cominciato a interagire durante questo periodo di tempo. Il primo fu il boom del dopoguerra, che nel 1960 iniziò a pompare milioni di adolescenti all’anno nel mercato dei consumatori. La seconda era la rivoluzione sessuale, che affondava le sue radici negli studi di sessuologia di Masters e Johnson, il sogno di Hugh Hefner3 di libertà sessuale e lo sganciamento del sesso dalla procreazione. Infine, il movimento per i diritti civili ha focalizzato l’attenzione nazionale sui diritti individuali, a cominciare dagli afro-americani, ma presto si allargherà a includere giovani e donne di tutte le razze e, in misura minore, gay e lesbiche. Perché guardare le tensioni e le polemiche di questa era attraverso le tendenze dell’abbigliamento? Ci sono stati momenti in cui i cambiamenti della moda hanno espresso convinzioni profondamente radicate in tempo di cambiamenti.

Il miglior esempio è l’abbandono dei pantaloni al ginocchio (associati all’aristocrazia) a favore dei pantaloni nella Francia rivoluzionaria, un cambiamento che prefigurava il trionfo della cultura commerciale sul potere ereditario nel diciannovesimo secolo. L’altra ragione per guardare oltre l’apparente banalità della moda è che è un modo importante in cui gli individui si connettono agli altri nella moderna cultura del consumo. Ci vestiamo per esprimerci - età, sesso, razza, religione, oltre che per personalità - e per metterci in un contesto: luogo, tempo, parentela di occupazione e comunità. Nata tra i primi anni ‘60 e il 1981, la Generazione X4 stava emergendo, anche se fortunatamente senza etichetta fino al 1991, quando il romanzo di Douglas Coupland5 “Generazione X: Racconti per una cultura accelerata” li battezzò come tali. Questi erano i beneficiari - o vittime, a seconda del punto di vista - delle trasformazioni sociali e culturali degli anni ‘60. Non hanno mai conosciuto le leggi di Jim Criw o le pubblicità “Help Wanted”6 divise per sesso o razza, e sono diventati adulti legali quando hanno compiuto diciotto anni, mentre i boomers della prima ondata hanno dovuto aspettare fino a ventuno per approfittare dei privilegi degli adulti. Per la maggior parte hanno perso la vita libera e gli alti tempi della gioventù del boom, grazie a PCP, cocaina, crack, War on Drugs, la rinascita delle malattie sessualmente trasmissibili e la scoperta dell’HIV/AIDS.

4. Sono i nati tra il 1965 ed il 1980 che hanno vissuto eventi storici epocali come la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. L’espressione “X” nasce nel 1991 da Doug Coupland nel famoso romanzo Generazione X. Vengono dopo i Boomers e restano “schiacciati” tra il sogno americano e l’incubo delle Torri gemelle. 5. Douglas Coupland (1961) , è uno scrittore, drammaturgo e sceneggiatore canadese. Esordisce nel 1991 con il romanzo “Generazione X”, forgiandone l’omonima definizione. Autore ed artista visivo postmoderno, assai vicino all’estetica avantpop, la maggior parte dei suoi lavori tende ad esplorare la realtà vissuta dalla sua generazione, tra cui l’intenso bombardamento di informazioni subito da parte dei media, la mancanza di valori religiosi e l’instabilità economica.


024 - 025 2. Sono i figli del “baby boomâ€?, coloro che hanno vissuto il periodo della ripresa economica e del boom demografico successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Sono i nati tra il 1945 ed il 1965. Ăˆ la generazione delle rivoluzioni culturali, delle lotte per i diritti civili, del movimento hippie, della rivoluzione sessuale, del pacifismo, del femminismo e del rock. Sono orientati al lavoro e alla carriera, ambiziosi, con redditi mediamente elevati, ma anche con una grande predisposizione al risparmio.


3. Hugh Hefner (1926-2017), editore statunitense, fondatore della rivista erotica Playboy.


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6. Esempio di annuncio di ricerca di forza lavoro pubblicato su un giornale americano.


In ogni gruppo di età c’erano atei e credenti, punti di vista politici che spaziavano dallo spettro dei marxisti ai John Birchers7, ai prudenti e ai libertini. L’utilità delle categorie di generazione deriva dalla loro adozione da parte di produttori, rivenditori, media e inserzionisti come mezzo per rivolgersi ai clienti. Gli stili degli anni ‘60 e ‘70 erano solo i segni visibili delle domande nella mente di tutti. Molti di loro si occupano degli aspetti più essenziali dei nostri esseri: sesso e genere. La musica, i vestiti e la letteratura dei ruggenti anni Venti celebravano una cultura giovanile sensuale ed edonista nata dall’orrore e dalla distruzione della Prima Guerra Mondiale, per poi essere nuovamente sommersa nella Grande Depressione (1873-1895). Lo studio accademico sul sesso continuò nei dipartimenti di biologia e psicologia, costruendo un corpo di lavoro che iniziò ad attirare l’attenzione del pubblico con la pubblicazione del 1948 di Alfred Kinsey “Il comportamento sessuale del maschio umano”, seguito nel 1953 da “Il comportamento sessuale della femmina umana“. Hugh Hefner ha scritto la sua tesi di master sul lavoro di Kinsey prima di lanciare Playboy. I casi di pornografia hanno aperto un mercato di romanzi filanti che sono diventati sempre più espliciti. Entro la metà degli anni ‘60, i ragazzi più curiosi potevano trovare qualsiasi tipo di informazione che potessero desiderare sul sesso, anche se probabilmente non in una biblioteca pubblica.

Il sesso extraconiugale esplicito nei libri e nei film è stato solo l’inizio. L’omosessualità, una volta nascosta e perseguitata, divenne, se non completamente aperta e ancora lontana dall’essere accettata, un soggetto titillante di conversazione e arte. Più comune era la bisessualità, che diversi osservatori culturali hanno identificato come l’ultima cosa interessante nei primi anni ‘70. Gran parte di questa libertà sessuale è stata facilitata dalla disponibilità, per la donna, della pillola (approvata nel 1960), che ha reso possibile la separazione del rapporto sessuale della riproduzione e anche lo sganciamento del concetto di “amore e matrimonio” (che, come appreso da Frank Sinatra nel 1955, “Vanno insieme come un cavallo e una carrozza”)8. I baby boomer sono più inclini ad ammettere di fumare droga piuttosto che a qualsiasi forma di sperimentazione sessuale al di là di “incastrarsi” prima del matrimonio. Questo sconvolgimento nelle relazioni intime viene solitamente definito come la “rivoluzione sessuale”. Il concetto di “identità di genere”- I tratti culturali acquisiti che derivano dal sesso biologico - era piuttosto nuovo, essendo stato appena introdotto nella letteratura scientifica nel 1955 dal sessuologo John Money.

7. La John Birch Society (JBS) è un’associazione politica statunitense ultraconservatrice che propugna ideali discriminatori e spesso d’estrema destra quali il razzismo, l’antisemitismo, l’omofobia, e l’anticomunismo.


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F R A N K

S I N A T R A

Love and marriage, love and marriage, Go together like a horse and carriage. This I tell ya, brother, you can’t have one without the other. Love and marriage, love and marriage, It’s an institute you can’t disparage. Ask the local gentry and they will say it’s elementary. Try, try, try to separate them, it’s an illusion. Try, try, try and you only come to this conclusion: Love and marriage, love and marriage, Go together like a horse and carriage. Dad was told by mother you can’t have one You can’t have none. You can’t have one without the other. Try, try, try to separate them, it’s an illusion. Try, try, try and you only come to this conclusion: Love and marriage, love and marriage, Go together like a horse and carriage. Dad was told by mother you can’t have one (You can’t have none.) You can’t have one without the other.


Nel 1963, il “ruolo sessuale” era il termine più comune, a significare la stretta relazione tra la biologia e le nostre vite come esseri sociali. La distinzione tra sesso e genere non è mai stata facile da cogliere o anche generalmente accettata. Indipendentemente da come gli studiosi abbiano cercato di spiegare la distinzione tra natura e cultura, i media popolari e la cultura del consumatore riflettono l’incertezza generale su quali tratti, gusti e comportamenti fossero culturali e quali fossero innati. Prima che John Money introducesse la nozione di una dimensione culturale chiamata “genere”, le variazioni nell’attività sessuale e nell’espressione umana potrebbero essere etichettate come naturali o innaturali, normali o anormali, legali o illegali. Ciò che era naturale, normale e legale era buono, il trattamento, la correzione o la punizione innaturale, anormale e illegale. Aggiungere influenza culturale al mix era brillante e chiaramente vero. Se l’espressione di genere di un individuo non corrispondeva al sesso biologico, era necessariamente il risultato di un’anomalia biologica o psicologica, un difetto di carattere o una criminalità incorreggibile?

La convenienza e la certezza attenuate dai contraccettivi orali non sarebbero state possibili senza un cambiamento culturale guidato da un desiderio tra giovani donne e uomini per vite diverse da quelle dei loro genitori. . Le visioni alternative includevano una vita con meno figli, o bambini più tardi nella vita, ma, cosa più importante, includevano una vita sessuale senza matrimonio, monogamia o persino impegno. Quando i commentatori sociali hanno lanciato l’allarme sulla rivoluzione sessuale, non era il tasso di natalità che li riguardava; era la libertà sessuale delle donne, al separazione delle connessioni tra sesso e amore, il declino della castità prematrimoniale. La rivoluzione di genere ha toccato anche uomini e donne omosessuali e in modi ancora più complessi. Nel 1960 l’omosessualità era ancora considerata una malattia mentale dall’American Psychological Association, e per essere un uomo o una donna omosessuale sessualmente attivi dovevi essere un fuorilegge. Nella comunità scientifica l’idea che il sesso e il genere potessero essere completamente separati era controverso,


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specialmente quando le donne cominciarono ad avere piena eguaglianza legale con gli uomini. Nel 1972 TIME pubblicò un articolo sul lavoro di John Money e la sua tesi secondo cui l’identità di genere poteva essere modellata indipendentemente dal sesso biologico. Un gruppo di esperti riuniti, tra cui Money, ha discusso la possibilità e l’opportunità di una “società unisex”. Hanno considerato le presunte differenze tra uomini e donne - abilità verbale, creatività, temperamento e così via - e sono giunti alla conclusione che la cultura ha avuto un ruolo più importante in tutti loro rispetto alla differenza biologica. Per la maggior parte degli uomini e delle donne, “le differenze biologiche sono totalmente irrilevanti”. Quando è stato chiesto se esistesse una società “unisex” veramente egualitaria, comunque, gli esperti sono stati unanimi nel dire che non era solo improbabile ma anche indesiderabile. Per gli esperti del primo campo, la modifica delle norme di genere era impossibile perché alla fine erano collegate alla realtà fisica. L’anatomia era ancora il destino.

“Ma dobbiamo chiederci se una società del. genere sarà soddisfacente per i suoi membri”. Lo psicanalista Martin Symonds ha concordato: “Il motivo fondamentale per cui l’unisex deve fallire è che nell’atto sessuale stesso, l’uomo deve essere assertivo, seppur teneramente, e la donna deve essere ricettiva. Ciò che dà fastidio è quando gli uomini vedono l’assertività come aggressività e le donne vedono la recettività come sottomissione. “Inoltre, una famiglia dove mamma e papà erano troppo simili sarebbe un ambiente privo di attriti in cui nessuno sarebbe in grado di crescere“, perché i bambini hanno bisogno di ruoli per identificarsi e ribellarsi. Insieme alla spinta per il progresso arrivò la resistenza.I biologi evoluzionisti hanno un concetto utile chiamato “equilibrio punteggiato”, che può essere applicato anche ai cambiamenti culturali. Invece del modello di Darwin di un’evoluzione liscia e costante, l’equilibrio punteggiato significa che ci sono lunghi periodi di stasi tra gli eventi di cambiamento improvviso quando il nuovo sistema ecologico si insedia.


I più evidenti punti di riferimento legati alla moda nella rivoluzione di genere sono i pantaloni per le donne; i capelli lunghi sono colorati, abiti sgargianti per gli uomini; e unisex per quasi tutti. Ma ci sono sia più che meno di quanto sembri in ciascuna di queste tendenze. Le donne e le ragazze avevano indossato i pantaloni in qualche modo per qualche tempo prima degli anni ‘60. I pagliaccetti e le tute per le bambine non erano eccezionali, così come i pantaloni e persino i pantaloncini e i jeans per le donne, nel momento e nel luogo giusto. Faceva parte della particolare costruzione dell’essere “da signora”, l’immagine che permetteva alle donne uno status e una protezione speciali, stratificata su regole riguardanti comportamenti formali e non. Quando la formalità dei primi anni ‘60 cominciò a rilassarsi, i pantaloni erano spesso consentiti se facevano parte di un tailleur con pantalone e se avevano la cerniera laterale o posteriore e la giacca o il top coprivano la parte posteriore di chi li indossava. La femminilità e la mascolinità non sono semplici opposti. Le regole della femminilità attribuiscono valori e comportamenti diversi rispetto alle regole della mascolinità.

Anche se sia gli uomini che le donne erano governati dagli standard formali/informali dell’abbigliamento e della toelettatura, le richieste di genere hanno prodotto effetti notevolmente diversi. Un uomo in abito formale era vestito in modo identico a tutti gli altri uomini nella stanza e completamente coperto dal collo ai piedi. Un abito formale per una donna era rivelatore (più o meno, a seconda della sua età e stato civile) e, come ci ricorda, l’umorismo popolare, si spera, unico. Per un’altra donna avere lo stesso vestito era motivo di mortificazione. Sia le donne che gli uomini potevano indossare pantaloncini e costumi da bagno, ma solo le donne dovevano radersi le gambe e le ascelle quando lo facevano. Le regole per le giovani donne dettavano un’attenta gestione di un’immagine che oscillava tra la gentilezza e la seduzione. Le regole avevano un significato diverso per le donne di colore e donne della classe operaia, per le quali un aspetto signorile e abbigliamento di qualità significavano accesso al rispetto e al privilegio. Per gli uomini c’era pochissimo spazio per la seduzione, o anche per l’espressione individuale.


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Ragazzi e uomini sono stati addestrati a operare con un raggio visivo molto limitato. Ancora una volta, queste restrizioni hanno giocato in modo diverso per gli uomini di colore. Il vestito da uomo afroamericano e latinoamericano illustra una tradizione di sfarzo o viene usato come risposta all’oppressione o allo status di sottomesso. La manifestazione più ovvia della rivoluzione di genere è l’unisex. Il termine “unisex”, riferito a stili intenzionalmente progettati per sfocare o incrociare linee di genere, risale alla metà degli anni ‘60. La tendenza raggiunse il picco negli anni ‘70 e colpì uomini, donne, ragazzi e ragazze, in tutti i modi diversi. Era un movimento generato da una serie di domande esistenziali sulla natura del sesso e del genere, su ciò che costituiva ruoli sociali appropriati per uomini e donne e su come crescere i bambini. L’unisex include molteplici stili per sfidare le regole di genere. Alcuni di questi sono descritti come “androgini”, combinando elementi di stile maschile e femminile (una ragazza con i capelli lunghi in minigonna, camicia a bottoni e cravatta).

L’approccio opposto al design androgino è uno stile neutro, privo di elementi maschili o femminili (un maglione a collo alto, abiti da jogging). Il terzo approccio all’unisex è meglio definito come “cross-dressing”, anche se il termine è inteso in un senso più ampio di quanto significhi popolarmente. Le regole della mascolinità raramente permettono il cross-dressing, e anche in quel momento di sfida farlo si limitava ai dettagli, non a interi outfit. Quando adolescenti e adulti indossavano abiti unisex, la confusione che ne derivava poteva essere l’effetto desiderato, un colpo nell’occhio dell’establishment. Se si chiedesse a qualcuno del settore, direbbe che l’unisex era una moda che andava e veniva in un preciso anno: il 1968. Per quel breve momento la stampa di moda accolse il gender blending come l’onda del futuro, e i grandi magazzini crearono sezioni speciali per l’abbigliamento unisex.


Il lavoro e il pensiero del designer Rudi Gernreich, il maestro visionario della moda unisex e il suo più famoso sostenitore, mostrano quanto fosse complessa la tendenza. Nato in Austria, Gernreich e sua madre erano fuggiti negli Stati Uniti da adolescente per sfuggire alla persecuzione nazista degli ebrei. Oltre ad essere uno dei principali designer americani, è stato anche un attivista per i diritti dei gay. La maggior parte del suo lavoro con diritti omosessuali era sconosciuta al grande pubblico fino alla sua morte, avvenuta nel 1985. Tuttavia, è chiaro che la sessualità e l’identità di genere hanno avuto un ruolo importante nella sua visione della moda. Pensava che i corpi nudi - sia femminili che maschili - fossero belli, un atteggiamento variamente attribuito alla sua formazione come ballerino e ad un lavoro notturno in cui lavava i corpi in un obitorio dell’ospedale. Disegni come il costume da bagno in topless e il “reggiseno senza reggiseno” morbido e trasparente erano pensati per emancipare i corpi delle donne dall’artificio del disossamento, del sollevamento e dell’elastico. Ma voleva dare uguale attenzione agli uomini, chiedendo stili futuristici firmati come i costumi per la serie TV SPACE: tute, dolcevita e tuniche.

Queste creazioni apparentemente opposte hanno rappresentato due importanti filoni nella rivoluzione di genere: un focus sui corpi “naturali” (non le versioni fasciate e spazzolate degli anni ‘50) e una visione futuristica di un mondo egualitario. Ironia della sorte, quest’ultimo minimizzava le differenze di sesso, con tessuti e silhouette che cancellavano le curve e persino i lineamenti del viso, mentre gli altri disegni di Gernreich non lasciavano nulla all’immaginazione, esponendo il seno e persino i peli pubici. Queste mode incapsulano perfettamente il conflitto centrale nelle mode di quest’epoca, tra la visualizzazione e la celebrazione del corpo umano e la minimizzazione o persino la cancellazione delle differenze che determinano la disuguaglianza di genere. Così abbiamo contraddizioni come il suo costume da bagno del 1974, “un indumento unisex che tuttavia ha migliorato la differenza tra i sessi”. La medicazione unisex o androgina, intesa a livellare il campo di gioco tra uomini e donne, era spesso percepita come sessualmente attraente e l’abbigliamento sessualmente attraente può essere potente. È proprio la tensione tra questi due impulsi che ha contribuito a guidare il cambiamento della moda in questo periodo e che lo ha reso molto complicato.


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#throwback

R U D I

G E R N R E I C H


Daphne Dayle in Rudy Gernreich Fotografia di Paul Schutzer per LIFE Magazine


036 - 037 Peggy Moffitt ha avuto uno dei look più distintivi nel settore, grazie al suo taglio di capelli asimmetrico e tagliente di Vidal Sassoon, al trucco ispirato a Kabuki e all’amore per la moda estrema. Nel 1964 si è conquistata apparizioni su numerose riviste internazionali indossando un costume da bagno monokini in topless creato dal suo caro amico Rudi Gerenreich in una fotografia apparsa su Women’s Wear Daily.


Modelli che indossano costumi da bagno perizoma disegnati da Rudi Gernreich. Gernreich si trova di fronte con l’hair stylist Vidal Sassoon, 1974


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Rudi Gernreich: Unisex Project, 1970 Fotografia di Patricia Faure


Le donne avevano iniziato a indossare i pantaloni prima degli anni ‘60. Le femministe della prima ondata avevano sfidato il diritto esclusivo dei pantaloni agli uomini nel diciannovesimo secolo, vincendo piccole ma significative vittorie: tute e pagliaccetti per abiti da gioco per bambini e mutandoni e mutande per abbigliamento sportivo da donna. Agli inizi degli anni ‘60, i pantaloni in molte forme - jeans, capri e pantaloncini - erano in stili adatti allo svago, accettabili per le donne americane, in particolare per i giovani. Tra il 1965 e il 1975 questa accettazione ha spinto oltre i confini esistenti sul posto di lavoro, nella scuola e anche in occasioni formali, al punto che i pantaloni non erano più considerati capi maschili, ma piuttosto neutri. Sebbene questo cambiamento sia stato incisivo negli atteggiamenti e nelle percezioni pubbliche, alla fine non ha prodotto stili di abbigliamento neutrali. Verso la fine degli anni ‘70 i pantaloni da donna stavano acquisendo dettagli femminili e si adattavano più strettamente ai fianchi e alle cosce, accentuando il sesso di chi li indossava piuttosto che creando un effetto neutro. Una volta che i pantaloni non erano più visti come intrinsecamente maschili, semplicemente diventavano un altro veicolo per mostrare il corpo femminile. I primi sostenitori della parità di diritti per le donne hanno preso atto della relativa libertà degli abiti maschili e femminili e hanno sostenuto la riforma dell’abbigliamento per cancellare la restrizione dell’abito alla moda femminile. Corsetti, strati di sottovesti e larghe gonne ampie erano tutti indicatori di uno status dipendente e sottomesso delle donne.

Negli anni ‘50 una donna in mutande non era più motivo di allarme o oggetto di ridicolo, purché osservasse le nuove regole. Ma nel 1965 la porta era già stata aperta da alcuni designer parigini, in particolare André Courrèges9, il cui spettacolo del 1 agosto 1964 era caratterizzato da musica rock e “pantaloni, pantaloni, pantaloni”, mentre il venerabile ma ancora iconoclastico Coco Chanel offriva pantaloni fluenti per la casa. Stanca dell’influenza generata da polemiche su pantaloni e minigonna, l’industria della moda francese ha contribuito a introdurre gonne a metà polpaccio (midi) nel Gennaio 1970, nel tentativo di forzare “il cambiamento dell’uccisione del guardaroba”, come Christian Dior aveva fatto con il suo New Look del 1947, che aveva reso le spalle squadrate e le gonne A-line obsolete in una sola stagione, sostituendole con stili voluminosi con un sensibilità vittoriana-revival. Il fascino dell’America per il sesso spingeva i confini del cinema e della letteratura, e tra COSMOPOLITAN e la pillola, la rivoluzione sessuale era incentrata sul declino della castità prematrimoniale e con essa l’illusione della “verginità tecnica”, che definiva tutto a corto di rapporti reali come “non sesso “. La pillola anticoncezionale ha reso possibile “l’amore libero”, la nuova musica lo ha reso attraente e le mode lo hanno reso visibile.


040 - 041 9 Il cappello che Audrey usava in “How to Steal a Million”, 1965, è stato, secondo Gertenchy Hubert, la vera ispirazione per lo stile futuristico di André Courrèges.


9. Abito di Andre courreges per la collezione “Space Era�, 1964.


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“Peacock revolution”: stili provenienti dai giovani designer londinesi di Carnaby Street, che hanno promesso di ripristinare la gloria perduta dell’abbigliamento maschile stravagante. Tavolozze di colori espanse, tessuti più morbidi e una profusione di dettagli decorativi rappresentavano una sfida diretta per la conformità e l’eleganza del menswear e della metà del secolo. Per i critici della moda dei nuovi uomini, camicie a fiori e mantelle di velluto hanno sollevato lo spettro della decadenza e dell’omosessualità, una paura che è stata rafforzata dall’emergenza del movimento di liberazione gay. Proprio come gli stili unisex delle donne dovevano bilanciare l’essere sexy e liberati, gli stili maschili tendevano a navigare nel territorio tra espressività ed effeminatezza. Come le riviste femminili, le riviste maschili di lifestyle dispensavano visioni di un moderno consumismo di genere adattato alle rispettive categorie demografiche. Invece della casalinga nella sua cucina, l’archetipo di Playboy era lo scapolo oscillante nel suo attico, confezionato per un pubblico giovane e istruito. Ci sono stati cambiamenti permanenti: negli anni ‘80, i prodotti di toelettatura e cosmetici per uomo costituivano un’aggiunta ampia e permanente alla scena americana. Ciò che stava cambiando durante questa era non era la mascolinità in sé, ma la mascolinità in relazione al femminile. La mascolinità in America aveva acquisito un’uniforme - il tailleur. I cambiamenti avvenuti negli anni ‘60 e ‘70 aggiunsero varietà all’abbigliamento da ufficio, limitarono gli elementi più formali a un minor numero di impostazioni e aprirono la porta a un’espressione più individuale. L’abito da uomo moderno è un paradosso: noioso ma interessante. Per almeno gli ultimi 150 anni è stato conservatore e resistente ai cambiamenti. Ciò contrasta con l’abito ornato ed espressivo indossato dagli uomini in altri periodi e altre culture. La “Rivoluzione del pavone” finì in ripudio e regressione.

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Confrontando un uomo in abito da lavoro con l’uomo più vistosamente vestito dei tempi passati e le società non industrializzate, sembra emergere che il business suit rappresentava il trionfo dell’intelletto sulle emozioni o della civiltà sul primitivismo. Per coloro che credevano che gli uomini fossero “più evoluti” rispetto alle donne, questo spiegava perché l’abbigliamento femminile fosse più ornamentale di quello maschile: o le donne erano meno “sviluppate” degli uomini, o funzionavano per essere ornamentali come mezzo per adempiere alle loro richieste, possedendo il destino biologico di attrarre un compagno e produrre prole. Le principali deviazioni di colore e taglio provenivano dai margini della società: musicisti jazz e beatnik10 con camicie a collo alto, abiti abbondantemente tagliati e cravatte “chiassose”. Mentre altri designer reinventavano la giacca o la scartavano del tutto, dall’altra par-

te dell’Atlantico un giovane venditore di cravatte di nome Ralph Lauren, dopo aver tentato invano di introdurre ampie cravatte alla sua compagnia, partì da solo nel 1966. Colpì il jackpot con un ordine di Neiman Marcus per cento dozzine di cravatte e fu in grado di aprire il suo primo negozio a New York nel 1967, stabilendo il marchio Polo con la sua nostalgica atmosfera inglese e una giovane inclinazione americana. Alcuni dei marchi più iconici nel menswear - tra cui Pierre Cardin - hanno fatto il loro debutto in questo periodo e hanno cavalcato verso il successo toccando il desiderio maschile di un design fresco. Cardin fu il più rivoluzionario, offrì altre forme di completi non ricostruiti e innovativi. Nel 1968, Playboy ha evidenziato il nuovo taglio associato ai disegni di Cardin: giromanica più alto, maniche più strette e giacche sagomate più lunghe.


Come l’abbigliamento femminile, l’abbigliamento maschile non stava solo cambiando l’aspetto dei corpi degli uomini, ma richiedeva anche che gli uomini rimodellassero il loro corpo in una versione più giovane e più sottile per indossare vestiti alla moda. La giacca Nehru11 era solo una delle numerose opzioni senza cravatta che Cardin rese popolare. Aveva il colletto rialzato e la costruzione morbida, ma non è a Cardin che bisogna attribuirne la creazione. Era basata su uno stile creato negli anni ‘40 e associato al primo ministro indiano Jawaharlal Nehru; i Beatles indossarono giacche in questo stile per il loro concerto allo Shea Stadium del 1965, due anni prima dell’interpretazione di Cardin in flanella grigia. Ma fu la versione di Cardin a lanciare la vera mania, che raggiunse il culmine nell’autunno del 1968. La giacca Nehru rappresentava un forte desiderio del momento, poiché offriva la possibilità di una maggiore espressione di sé, oltre al comfort. Il nuovo abbigliamento doveva essere sexy, in netto contrasto con il tailleur, che proiettava l’immagine di un affidabile capofamiglia.

Anche la definizione di “sexy” stava subendo cambiamenti. Women’s Wear Daily ha notato che le ragazze erano tutte pazze per i “fragili, inconfondibili” uomini magri, dai capelli lunghi, con i loro romantici velluti e volants. Rudi Gernreich ha offerto un abbigliamento maschile futuristico che è stato accorciato, reso attillato. Si chiedeva: “Perché il maschio non dovrebbe essere anche oggetto di desiderio sessuale?” Piuttosto che semplici opposti polari, gli abiti maschili e femminili cominciarono a mescolarsi lungo un continuum. Cardin e Gernreich offrivano gonne, vestiti e caffettani per gli uomini. All’estremo limite dello stile maschile della fine degli anni ‘60, gli hippie vanno alla ricerca di reperti in negozi di articoli da risparmio, stili militari e appropriazioni culturali esotiche. I membri della controcultura degli anni ‘60 rappresentavano uno sforzo per rompere con la cultura dominante12.

10. La parola beatnik è stata inventata dal giornalista Herb Caen, del San Francisco Chronicle, in un suo articolo del 2 aprile 1958, come termine denigratorio per riferirsi ai beats, ovvero ai membri della Beat Generation, come unione di parole con il satellite sovietico Sputnik, per sottolineare sia la distanza dei beat dalla società statunitense corrente, sia il fatto che erano vicini alle idee comuniste, in un’epoca in cui gli Stati Uniti vivevano un profondo sentimento di anticomunismo e una paranoica paura rossa durante il periodo maccartista della guerra fredda. Gli appartenenta questo gruppo beatnik hanno messo in discussione i canoni tradizionali di “rispettabilità”, ribellandosi al conformismo alienante della società dei consumi, al segregazionismo e alla disperazione del proletariato bianco agricolo, cercando alternative di vita nelle droghe, che avrebbero dovuto dare un approfondimento della consapevolezza interiore e nell’”attività sessuale” che avrebbe avuto una forza catartica di liberazione, la rivoluzione sessuale, secondo la teoria della funzione dell’orgasmo di Wilhelm Reich.


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In alto: 11. I Beatles con giacca Nehru in occasione del concerto allo Shea Stadium, New York, 1965. In basso: 12. ComunitĂ americana di Hippies negli anni ‘60.


Da dove vengono la mascolinità e la femminilità? Con il movimento femminista che sfida i ruoli femminili tradizionali e la cultura popolare che offre una gamma di nuove espressioni di mascolinità e femminilità moderne, sembra inevitabile che i bambini vengano trascinati nell’eccitazione e nella confusione. Mentre studiare l’espressione di genere nella moda per adulti può essere complicato, il compito è ancora più scoraggiante quando ci si rivolge ai vestiti per bambini. I bambini non scelgono i propri vestiti, il che riflette i gusti e le preferenze degli adulti. Le scelte detestabili dei bambini non sono semplicemente una questione di gusti - un colore preferito o un personaggio dei cartoni animati, un’antipatia per i tessuti graffianti - sono anche un modo in cui i bambini provano ed esprimono le loro identità nascenti. Anche i bambini di due anni hanno una comprensione rudimentale delle regole di genere prevalenti. La psicologia freudiana e il darwinismo sociale hanno rimpiazzato la visione largamente condivisa secondo cui l’identità era innata (o “naturale”), con l’opinione che mentre il sesso può essere innato, la sessualità viene appresa. C’è, tuttavia, un’ostinata insistenza culturale sulla riduzione della complessità alle scelte binarie (natura o cultura, maschile o femminile), che incoraggia un pensiero ancora più stereotipato.

Tutti gli uomini non sono aggressivi, tutte le donne non sono passive; la maggior parte degli uomini gay non sono effeminati e viceversa. All’interno delle categorie che abbiamo costruito c’è un’enorme varietà, che il pensiero binario e stereotipato ignora. Nella prima metà del ventesimo secolo, molte persone erano convinte che i comportamenti di genere erano presenti in una forma immatura alla nascita e si sviluppavano man mano che il bambino cresceva, e le nette distinzioni di genere potevano attendere. Secondo loro, i maschietti erano maschi ma non maschili, sebbene contenessero il germe del comportamento maschile. L’infantilismo diventerebbe fanciullesco quando il bambino matura, finendo inevitabilmente in virilità. Neonati maschi e bambini piccoli, non essendo fisicamente abbastanza maturi da vestirsi come uomini, indossavano abiti appropriati ai loro teneri anni e al loro status subordinato. L’uso diffuso dei colori pastello per l’abbigliamento per bambini riflette questa visione, così come l’integrazione di dettagli come colletti arrotondati e maniche a sbuffo. L’abbigliamento per bambini non retorizzati del diciannovesimo secolo fu gradualmente scartato a favore di un modello complicato e simbolicamente variabile da ragazzo a ragazza.


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L’uso iconico del rosa e del blu, ad esempio, si diffuse in modo disomogeneo negli Stati Uniti tra il 1900 e gli anni ‘40. Fino alla fine degli anni ‘30 il rosa era una scelta perfettamente accettabile per i maschietti in alcune parti del sud. Il rosa pastello e il blu usati insieme continuarono ad essere una combinazione tradizionale per i regali per bambini e gli annunci di nascita negli anni ‘60. Il rosa e il blu erano diventati simboli quasi universali della femminilità e della mascolinità. Gli articoli a prezzo più basso, spesso venduti in confezioni da due o tre, erano quasi sempre in stili neutri, e gli articoli più di genere erano probabilmente i più costosi. Parte del fascino della moda unisex per adulti era il contrasto sexy tra chi lo indossava e gli abiti, che in realtà richiamavano l’attenzione sul corpo maschile o femminile. Un uomo adulto con un brillante cappotto sportivo rosa può ancora apparire molto maschile, anche con un taglio di capelli lungo, perché anche la sua voce, la sua forma fisica ei suoi gesti trasmettono il genere. Se sfoggiava basette e altri peli sul viso, la contraddizione tra l’abbigliamento “femminile” e il fisico “maschile” creava in realtà la tensione e la novità desiderate. Allo stesso modo, le donne in pantaloni che appaiono nell’umorismo popolare venivano solitamente raffigurate come più attraenti a causa del modo in cui i pantaloni sottolineavano le loro curve.

Ironia della sorte, la moda unisex per gli adulti non ha davvero offuscato le differenze tra uomini e donne, ma li ha messi in evidenza. I minidress sulle giovani donne le hanno fatte somigliare a delle bambine. Questa tendenza ha suscitato una notevole discussione nell’editoria. Scrittori di moda e critici culturali hanno notato la tendenza della “bambina” per l’abbigliamento femminile con una certa confusione. Era asessuale perché era immaturo, o era super-sexy a causa di un effetto “Lolita”, che imitava la studentessa e alludeva alla pornografia? Quindi l’identità di genere è un effetto della natura o dell’educazione? La scienza ci dice che le basi del comportamento sessuale sono stabilite prima della nostra nascita e anche che la variazione umana è vasta e complessa. Sapendo che la maggior parte dei ragazzi si comporta in un modo particolare non ti dice come si comporterà tuo figlio, o spiegherà che tua figlia potrebbe preferire Barbie o i Transformers. Il consiglio professionale per i genitori è di guardare e aspettare; a volte è una fase e a volte non lo è, e gli interventi con l’obiettivo di “correzione” fanno più male che bene. La storia ci dice che i bambini possono indossare abiti o pantaloni, e possono indossare il rosa o il blu o entrambi insieme. La risposta più chiara, per ora, alle vecchie domande è che si tratta di natura e di educazione, imprevedibilmente.



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d.

stonewall riot la prima volta fu rivolta

1969 - 2019



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#throwback



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La notte del 27 giugno 1969 iniziava la protesta passata alla storia con il nome di Moti di Stonewall, con cui inaugurava il movimento di liberazione gay. Era la notte fra il 27 e il 28 giugno 1969 quando la polizia di New York irruppe allo Stonewall Inn, uno dei bar gay più famosi della città, punto di riferimento per tutta la comunità lgbt della Grande Mela. In un piccolo locale di Cristopher Street, pieno Greenwich Village, quella notte iniziarono i Moti di Stonewall, considerati il momento che segnò la nascita del movimento di liberazione gay in tutto il mondo. Le retate da parte della polizia nei locali gay non erano una novità. Spesso avvenivano a inizio serata, in modo che ci fosse possibilità di riaprirli nel corso della notte. Capitava pure che i gestori venissero avvisati prima delle visite. Ma non quella notte. Otto agenti della polizia, di cui solo uno in uniforme, arrestarono tutti coloro che furono trovati privi di documenti o vestiti con abiti del sesso opposto, oltre ad alcuni dipendenti del bar. La vulgata vuole che sia stata Sylvia Rivera, all’epoca diciassettenne, dopo essere stata pungolata con un manganello, a lanciare una bottiglia contro uno degli agenti e la folla si ribellò. Fu l’inizio del movimento di protesta gay che portò, a luglio, alla formazione del Gay Liberation Front, fondato da Craig Rodwell e Brenda Howardnell, mentre nei mesi successivi nacquero iniziative simili in tutto il mondo occidentale, dalla Gran Bretagna al Canada, passando per Francia, Belgio e Australia. L’anno seguente, proprio il Gay Liberation Front organizzò una marcia dal Greenwich Village a Central Park in commemorazione dei Moti di Stonewall; vi presero parte dalle 5mila alle 10mila persone e si trattò del primo gay pride della storia.


Marsha P. Johnson

Marsha cresce in una famiglia afroamericana di periferia, non benestante, numerosa e molto credente, realtà nella quale le identità LGBT+ difficilmente vengono accettate. Ciononostante, Marsha inizia presto a disobbedire alle gender rules indossando abiti femminili, esponendosi, così, alle molestie e agli abusi di cui sarà vittima negli anni dell’adolescenza. La svolta arriva dopo il diploma, quando si trasferisce a New York con soldi 15 dollari in tasca. Lì la sua vita di attivista comincia a prendere forma. Assume il nome con il quale l* conosciamo come Marsha P. Johnson (dove P sta per “pay it no mind!” - non farci caso - e si riferiva al suo genere, che oggi definiremmo “non binario”). Inizia a esibirsi come Drag Queen e di lì a poco diventerà un elemento fondamentale per la lotta per i diritti civili della comunità LGBT+. L’evento più significativo risale al 28 giugno 1969, quando la resistenza di Marsha, insieme a quella di moltissime altre persone, diede vita ai Moti di Stonewall, giornate di lotta contro le violenze omo-bi-transfobiche della polizia, che hanno avuto luogo proprio nel locale newyorkese Stonewall Inn.

Dopo aver preso parte, nel 1970, al Christopher Street Liberation Pride (quella che è poi diventata la parata dell’orgoglio con la quale ogni anno ricordiamo Stonewall), Marsha si unisce al Gay Liberation Front e, insieme a Sylvia Rivera, fonda la STAR (Street Transvestite Action Revolutionaries) con cui si impegnano nella lotta per i diritti umani e civili della comunità LGBT+ e a creare un rifugio per ragazz* queer in difficoltà. Per costruire e riuscire a mantenere una casa e una famiglia alla STAR house, Marsha inizia a prostituirsi, esponendosi agli abusi della polizia, tra i quali si contano più di cento arresti, violenza fisica e colpi di arma da fuoco. Contemporaneamente, almeno fino alla fine degli anni ’80, Marsha è una delle più importanti figure di riferimento per la lotta contro l’AIDS, in particolare come rappresentante dell’ACT UP (AIDS Coalition to Unleash Power), un’associazione impegnata per la prevenzione e l’abbattimento dello stigma che colpisce le malattie sessualmente trasmissibili e chi ne è affetto. Il suo profondo e costante impegno finisce il 6 luglio 1992, quando il suo corpo viene rinvenuto nelle acque del fiume Hudson.


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Sylvia Rivera Nata a New York in un taxi di fronte al Lincoln Hospital ma di origini portoricane e venezuelane, Sylvia Rivera viene abbandonata dal padre José Rivera quando era ancora neonata e diventa presto orfana dopo il suicidio della madre dopo tre anni dalla sua nascita. Da allora cresce con la nonna venezuelana che presto si accorge dei suoi modi femminili, e li disapprova, così all’età di 11 anni Sylvia inizia a vivere in strada ed entra in contatto con la comunità di Drag queen della sua città. Diviene nota dopo che, nella notte fra il 27 ed il 28 giugno 1969, allo “Stonewall Inn”, un locale gay di New York, partecipò alla rivolta contro la polizia ricordata ancora oggi in tutto il mondo con la marcia del Gay pride come l’inizio del Movimento di liberazione omosessuale. Fonda, insieme a Marsha P. Johnson, lo STAR (Street Transvestite Action Revolutionaries), un gruppo dedicato ad assistere ed aiutare le persone Trans di strada senzatetto, che aveva visto morire giovani per una coltellata o un’overdose, ma la mancanza di fondi e altri problemi portano alla sospensione del progetto. Fra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni novanta si trasferisce a Tarrytown, dove organizza degli spettacoli drag nei locali della zona. Pur rimanendo in contatto col movimento gay, da questo momento si limita a partecipare ai Gay Pride annuali.

Successivamente l’uso di sostanze stupefacenti determinano un tracollo nella sua vita ed il suo ritorno a New York, come senzatetto. Nel 1994, sempre più delusa dall’emarginazione delle persone transgender da parte della comunità gay, decide, durante il venticinquesimo anniversario della rivolta di Stonewall, di mettersi alla testa della cosiddetta marcia “illegale”, un gruppo di manifestanti respinti dagli organizzatori del Gay Pride (i gay non volevano marciare insieme all’associazione degli “amanti dei ragazzi” ovvero il NAMBLA, North American Man Boy Love Association). Il 24 maggio 1995 tenta il suicidio, camminando nel fiume Hudson. Sylvia Rivera è stata spinta al suicidio più volte, in seguito alle discriminazioni e alle forti delusioni, in particolare quelle dovute al movimento gay, che ha più volte preso le distanze da transessuali, travestiti e drag queen, che rappresentano talvolta nella comunità LGBT una sorta di minoranza nella minoranza. Nel 1997 si unì alla Transy House Collective. Nel 1999 venne invitata in Italia dal M.I.T. e partecipò al World Pride 2000 a Roma. Nel 2000, insieme ad altri attivisti, riattivò lo STAR. È morta a 50 anni, il 19 febbraio 2002, al St. Vincent’s Manhattan Hospital di New York, per un tumore al fegato. Nel 2005, durante il Transgender Day of Remembrance, New York le ha dedicato una strada.


Y’all better quiet down!

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Così inizia il discorso di Sylvia Rivera sul palco del Christopher Street Liberation Day rally nel 1973. L’attivista richiama gay e lesbiche sulla loro esclusione dei trans, travestiti e drag queen nei cortei di protesta. Eccone un estratto:

#throwback

“I have been beaten. I have had my nose broken. I have been thrown in a jail. I have lost my job. I have lost my apartment for gay liberation. And you all treat me this way? What the fuck’s wrong with you all?”

“I BELIEVE

IN

GAY POWER”


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#throwback

Questa fotografia è apparsa sulla prima pagina del New York Daily News di domenica 29 giugno 1969, che mostrava i “ragazzi di stradaâ€? che erano stati i primi a combattere con la polizia fuori dallo Stonewall Inn.


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Primo Gay Pride a Napoli: 29 giugno 1996


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Mediterranean Gay Pride Napoli: 22 giugno 2019. Foto di Paolo Colucci


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Mediterranean Gay Pride Napoli: 22 giugno 2019. Foto di Antonio Mazza


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Mediterranean Gay Pride Napoli: 22 giugno 2019. Foto di Antonio Mazza


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Mediterranean Gay Pride Napoli: 22 giugno 2019. Foto di Alessia Vitale


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Mediterranean Gay Pride Napoli: 22 giugno 2019. Foto di Antonio Mazza


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Mediterranean Gay Pride Napoli: 22 giugno 2019. Foto di Paolo Colucci


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Mediterranean Gay Pride Napoli: 22 giugno 2019. Foto di Paolo Colucci


e.

“In ognuno di noi presiedono due forze, una femminile e una maschile.” Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé

Androginia: mix dei caratteri maschili e femminili nella stessa persona, creando un senso di ambiguità e di incertezza. Può essere vissuta come identità personale o come stile di vita, ovvero nell’abbigliamento o nello spettacolo. Ciononostante non parliamo di bisessualità o di individui ermafroditi, sfociando in un contesto di sessualità fisica. L’androgino è bisessuale in senso mentale; la persona androgina riesce a ritrovarsi nelle vesti mascoline o femminili all’interno della società, descrivendosi mentalmente a metà tra uomo e donna, senza alcuna separazione binaria di genere.


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L’analisi del concetto di androginia parte dal mito Greco-Romano del filosofo pilastro della cultura occidentale Platone, il quale mette in evidenza la distinzione tra “androginia” ed “ermafroditismo”. Ciò getta le fondamenta di un mondo che abbraccia la letteratura, la psicologia, le arti, uno stile che verrà trattato anche da fotografi e artisti/musicisti del ‘900, che si avvalgono dell’androgino come archetipo e come vera e propria icona. L’androgino è la metafora per eccellenza, per artisti, scrittori e studiosi, dell’unione degli opposti che crea il raggiungimento della perfezione. Nella storia della cultura occidentale sono soprattutto tre i miti che trattano l’androginia: il mito di Adamo androgino, gli androgini di Platone e l’ermafrodito di Ovidio nelle Metamorfosi.


Il saggio di Franca Franchi “L’immaginario androgino. Migrazioni di genere nella contemporaneità” (Sestante Edizioni, 2012) tratta l’androgino che rappresenta non più soltanto l’umana nostalgia dell’interezza, e nemmeno l’illusione dell’autosufficienza perfetta, ma l’immagine ideale per ripensare l’idea di confine tra maschile e femminile, dove il confine è il luogo mobile ed ambiguo, eletto a contestare la fissità della forma, della norma, dell’identità. L’autrice inizia la sua narrazione con un dubbio: tutto ha origine nel Simposio di Platone, dove l’androgino rappresenta il mito della perfezione incarnato dalla completezza dei corpi sferici descritti dal filosofo, oppure la sua vera essenza si cela nelle pagine delle Metamorfosi di Ovidio con il mito di Ermafrodito? La storia è suggestiva: quando il giovane Ermafrodito si reca alla fonte Caria, la ninfa Salmacide se ne innamora e cerca di sedurlo, ma di fronte al rifiuto di Ermafrodito, essa lo attira nelle acque, lo abbraccia e chiede agli dei che la stretta non possa più essere sciolta; da quel momento, Ermafrodito, che racchiude nel suo corpo quello della ninfa, diventa androgino, bisessuale.

Secondo Franchi, a sopravvivere nella contemporaneità, non sono più i corpi sferici e autosufficienti del mito platonico poi separati dall’ira divina, ma il mito ovidiano, quasi come un’immagine rovesciata della fantasia platonica: dalla fusione di due corpi – Ermafrodito e Salmacide – si genera una nuova creatura artificiale, paradigma di un corpo dagli attributi fluidi e informi. Nella seconda parte del saggio, l’idea di androginia si sposta dalla forme esterne del corpo a quelle dell’anima. Cosa significa avere una mente androgina? La scrittrice Virginia Woolf, in “Una stanza tutta per sé” scrive: “in ognuno di noi presiedono due forze, una maschile e una femminile” e Franca Franchi sostiene che la mente androgina sia metafora della creatività artistica sulla base di esempi quali quelli forniti dalla fotografia di Man Ray che immortala Marcel Duchamp nelle vesti di Rrose Sélavy1 e quelle in cui si può ammirare la metamorfosi in donna dell’acrobata trapezista Vander Clyde, alias Barbette2, dalla preparazione in camerino sino allo spettacolo che ha luogo sulla scena del Moulin Rouge nel 1926.

1. Rrose Sélavy apparve per la prima volta nel 1920. Poco dopo, ha iniziato a comparire in fotografie scattate da Man Ray, fotografo di moda, collega artista e informale Dada compatriota. Il perfetto personaggio duchampiano, Rrose ha riportato in vita l’uso simbolico e simbolico del linguaggio, nonché tutta la giocosità e l’ironia del dadaismo. Il suo nome, un gioco di parole sull’adagio francese “Eros, c’est la vie”, ha ispirato tutto, dalle raccolte di poesie surrealiste a un oyster bar di

Manhattan. 2. Nato in Texas, Vander Clyde ha avuto grande popolarità soprattutto a Parigi tra gli anni Venti e Trenta, a partire dal 1923 col suo debutto teatrale al Moulin Rouge. Barbette, bionda e dalla classica pettinatura anni Venti, entrava in scena avvolta in piume di struzzo e impreziosita da gioielli. Man mano, si toglieva il copricapo, il mantello e l’abito, restando semi-nuda. I suoi numeri da acrobata trapezista erano per definizione “mortali”, tra anelli e fili sospesi. Gli applausi finali erano sempre accompagnati dall’atto di togliersi la parrucca per rivelarsi al pubblico un uomo dalla testa calva. Gli intellettuali parigini impazzirono per The exquise Barbette, che divenne, ben presto, oggetto di studi per lo scrittore francese Jean Cocteau e per il surrealismo fotografico dell’americano Man Ray. Nel 1926, Man Ray, su commissione di Cocteau, seguì Barbette nel backstage dei suoi spettacoli, documentando fotograficamente la costruzione del suo personaggio. Il risultato è una fotografia queer che ritrae il passaggio e svela l’uomo e l’artista, Vander Clyde, in atto trasformativo: metà donna – trucco e parrucco – e metà uomo – torso nudo maschile.


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Marcel Duchamp nei panni di Rrose SĂŠlavy, fotografato da Man Ray.


Barbette fotografata da Man Ray, dal film “Blood of a Poet” di Jean Cocteau, 1926


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Persiste ancora oggi un’ambiguità di giudizio verso questa figura, interpretata di volta in volta come anomalia, inadeguatezza fisica che si diversifica dalla normalità di una struttura biologica che distingue nettamente il femminile dal maschile. L’attenzione va però spostata anche altrove, ovvero sui caratteri sociali, culturali e comportamentali: la convivenza dei due sessi può essere dovuta da un bisogno interiore, in un unico essere. Una denuncia contro le norme sessuali legate alle regole della binarietà può essere indizio di trasformazione più radicale o un ritorno a ciò che si è represso. Roland Barthes3 dedicò all’androginia un corso al collegio di Francia, intitolato “Le Neutre”.

Per Barthes, Neutro è un vettore di cambiamento simbolico: “Una miscela, un dosaggio, una dialettica, non dell’uomo e della donna (genitalità), ma del maschile e del femminile. O ancora meglio: l’uomo in cui c’è il femminile, la donna in cui c’è il maschile“. Neutro è ciò che rompe l’opposizione binaria tra i termini A e B assumendo la forma di “non A né B”, o “A + B”. E’ quindi un tentativo di eludere il dogma e tutti gli immutabili schemi binari del significato attraverso strategie linguistiche e retoriche come nomi e nomi epiceni, impersonali, un uso fluttuante di forme di genere, anfibologia, ironia, paradosso, parallelismo, antifrasia.

3. Roland Barthes (1915-1980) è stato un saggista, critico letterario, linguista e semiologo francese, fra i maggiori esponenti della nuova critica francese di orientamento strutturalista.


f.

“Capire la mescolanza significa perseverare e cambiare rotta nello stesso momento.” Tomaso Binga, Capire la mescolanza

La massima espressione artistica intorno alla figura dell’androgino avviene tra fine Ottocento e inizio Novecento, sostanzialmente divisa in tre filoni: il primo riguarda la simbologia dell’incontro tra maschile e femminile come combinazione delle due componenti di natura astratta; il secondo è quello che vede l’incontro tra maschile e femminile e la loro fusione in “bestia” che viene combattuta e allontanata; il terzo è quello più legato all’attualità che ragiona in termini concettuali come connessione , scambio e affermazione dell’identità di genere. Nell’ambito del simbolismo di fine Ottocento emerge prepotentemente la fusione tra maschile e femminile che rimarrà viva per tutta la durata del secolo successivo. Tra gli approfondimenti del Novecento, interessanate è quello di Jackson Pollock. L’artista tra il 1941 e il 1943 sviluppò dei lavori sul tema della dualità dove era presente un’allusione a una possibile fusione metafisica e metaforica del maschile e femminile. “Lo specchio magico”4 (1941), “Maschile e femminile”5 (1942) e “Due”6 sono dipinti nei quali la figura viene deturpata, trasformata e superata , nel segno di una ricerca di unità che scavalca le catene del sé.

Nel 1924 Man Ray lo fotografò vestito con abiti femminili: “Rrose Sélavy alias Marcel Duchamp” scrisse Man Ray sulla foto, dove centrale è lo scambio della natura tra maschile e femminile. “Volevo cambiare la mia identità e dapprima ebbi l’idea di prendere un nome ebraico. Io ero cattolico e questo passaggio di religione significava già un cambiamento. Ma non trovai nessun nome ebraico che mi piacesse, o che colpisse la mia immaginazione, e improvvisamente ebbi l’idea: perché non cambiare di sesso? Da qui il nome Rrose Sélavy”. Emblematico anche il caso di Bianca Pucciarelli Menna, nota esclusivamente come Tomaso Binga , pseudonimo maschile che si è data in modo provocatorio, polemizzando con i canoni maschili e aderendo al pensiero del movimento femminista.


084 - 085 4. Jackson Pollock, “Lo specchio magico” (1941).

6. Jackson Pollock, “Due” (1943).

5. Jackson Pollock, “Maschile e femminile” (1942).


TOMASO BINGA


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“Attratta fin da bambina dal fascino della parola, ho coltivato questa mia passione nella prima giovinezza piluccando nell’affollata biblioteca paterna, da Boccaccio a Baudelaire, da Dante a Marinetti che mi affascinò subito per quel suo modo di utilizzare il linguaggio, per la dispersione della parola sulla pagina, per la grafica delle parole. Da Baudelaire traevo versi che mescolavo tra loro per ottenere sequenze stranianti, pensate per scandalizzare, ma soprattutto per divertire parenti, amici e compagni di scuola. La passione della lettura non mi ha impedito di cimentarmi anche nel disegno, che eseguivo sotto l’accorto occhio di mio padre, pittore e mentore. Negli anni Sessanta ho iniziato a lavorare con più sistematicità, producendo una serie di disegni e sculture di stampo geometrico/ cubista che firmavo, per gioco, con il nome Binga. Solo nel 1971 sono uscita allo scoperto per dare inizio alla mia avventura artistica assumendo, a ricordo di Marinetti, un nome maschile che giocando sull’ironia e lo spiazzamento mettesse a nudo il privilegio maschile nel campo dell’arte.”

7. Tomaso Binga (Bianca Pucciarelli in Menna) è un’autrice di poesia visiva, sonora e performativa. L’esordio avviene nel 1971 con la personale allo Studio Oggetto di Caserta, intitolata “L’oggetto reattivo”. In quest’occasione l’artista usa per la prima volta lo pseudonimo «Tomaso Binga».


Il tema dell’androgino ha origine anche dal travestimento (come precedentemente esplicato con Marcel Duchamp), spesso utilizzato a dimostrazione della difficoltà di accettazione di una fusione dei sessi. Un esempio è quello di Cesare Viel8, che in molti suoi lavori, a partire da “Androginia”, propone riflessioni sul tema, anche operando performativamente, attraverso vestimenti o identificazioni. Di queste, una dedicata a Virginia Woolf e una a Emily Dickinson. Il suo lavoro si pone specificatamente come riflessione sull’identità molteplice, nella quale il rapporto dei ruoli del maschile e del femminile salta e si aprono nuove vie di interpretazione. I suoi lavori sono certamente tra le migliori visualizzazioni dell’insieme dei problemi che la comprensione contemporanea della figura androgina propone. Della stessa generazione è anche Daniela Comani, che in diverso modo propone considerazioni sul ruolo maschile e femminile. È particolarmente significativo un progetto avviato nel 2003 intitolato “Un matrimonio felice”9: un consistente lavoro fotografico e installativo, nel quale l’artista mostra scene di un matrimonio in cui la coppia è costituita da un doppio sé, maschile e femminile. Comani non aspira ll’unità, ma dimostra nella duplicazione la persistenza di stereotipi e modelli: solo esteriormente l’immagine ci riconduce al tema del confronto e dell’incontro di generi.

L’arte quindi aiuta la presa di coscienza di questo fenomeno, in quanto pur seguendo le caratteristiche dei modelli sociali e delle differenti affermazioni di identità, riesce a esprimere e a rappresentare artisticamente altre forme di riflessione e temi sensibili. La fotografia del ‘900 adotta e rende l’androgino una vera e propria icona, non solo attuando l’abbinamento uomo-donna come affermazione di molteplici identià, ma andando oltre, usa la figura dell’androgino come archetipo trasgressivo, capace di mettere in crisi, o addirittura sovvertire, le regole comunemente accettate. La fotografia diviene messa in scena di un mondo che va oltre il quotidiano. L’androgino diventa un pretesto, l’annullamento di una specifica identità, come se fosse una miriade di spettri che cercano di identificarsi continuamente, contro una società che scappa di fronte al “dubbio” e all’”incertezza”. Il clima effervescente del surrealismo fu capace di offrire i casi più interessanti di “androginia psichica”, soprattutto in ambito fotografico. Celebri sono anche tutte le immagini in cui il corpo viene rappresentato attraverso una delle sue parti, consentendo così l’esaltazione dell’indeterminatezza e della confusione di genere che si presta ad un taglio androgino: “I nudi” di Brassaï, il “Minotaure” di Man Ray10, i “Manichini informi” di Hans Bellmer e più tardi il lavoro di Pierre Molinier, incentrato sulla ridefinizione al femminile della propria persona.

8. Protagonisti delle opere di Cesare Viel sono le parole e il corpo, accompagnati da diversi mezzi espressivi, tra cui prosa, performance, video, fotografia e disegni. Nella sua ricerca artistica assume particolare importanza il coinvolgimento emotivo tra il narratore e l’osservatore, attraverso un percorso fatto di pensieri e racconti. Sin dai primi anni Novanta le performance, il travestimento, le trasformazioni, il trucco, le recite o le canzoni hanno rappresentato per Viel un processo di trasmissione di sé agli altri. Addentrandosi in altri corpi e altre storie, l’artista immagina forme di soggettività altre che interpretano l’arte come momento di scambio emozionale e di relazione con la collletività.


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Sotto il segno della sfocatura, dell’alterazione, dell’informe, l’artista Claude Cahun, nipote di Marcel Schwob, mette in scena la cancellazione e la reinvenzione della sua identità femminile, mediante maschere e travestimenti, che negano “il mito del Narciso”, in nome di una perenne metamorfosi. Tutte le opere di Cahun (anche quelle letterarie come “Eroine”) è tesa alla comprensione e alla rappresentazione dell’identità in mutamento, all’ambiguità che si presenta in questa ricerca, una nostalgia del corpo doppio, di una simbiosi amorosa. Importante la collaborazione con la compagna Suzanne Malherbe, il cui sguardo costituisce lo specchio in cui riflettersi. Non meno interessante appare il lavoro grafico di Unica Zürn (compagna diu Hans Bellmer, morta suicida nel 1970) dove “occhi, seni, fluidi, sessualità femminili e maschili, nel loro avvolgersi verso l’origine”, “danno vita a una metamorfosi in migrazione che rinvia al simbolo della fusionalità” e quindi alla compresenza di opposti elementi. In ambito cinematografico gli esempi sono molto celebri e fanno ormai parte della nostra memoria: Helmut Berger nei panni di Marlene Dietrich, i travestimenti del “Rocky Horror Picture Show” (1975), o il volto mascolino di Charlotte Rampling, nel film “Il portiere di notte” (1979).

Ma è nell’atto della performance e nella fotografia intesa come instantanea di una messa in scena o di un travestimento, che la predilezione per lo sconfinamento e l’eccesso emergono in maniera dirompente. Nel 1968, circa dieci anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, l’artista giapponese Yayoi Kusama entra in contatto col movimento degli hippie, le cui abitudini, i comportamenti e il modo in cui vivevano la sessualità non erano estranei ai suoi audaci sex happening, rammenta l’artista nella sua autobiografia “Infinity Net”. Dal 1967 sino al 1971 ne organizza tantissimi, alcuni dei quali nei luoghi simbolo della cultura americana: a Wall Street, davanti alla Statua della Libertà, nel giardino del MoMA. Si chiamano “Anatomic Explosion”. Nella performance a Central Park, di fronte alla statua di Alice nel paese delle meraviglie, l’happening viene tematizzato tramite un raffinato gioco di specchi: una sessualità del corpo contraddetta dalla maschera e dalla gestualià.


9. Daniela Comani, “Un matrimonio felice” (2003) “Sono io stessa il soggetto del lavoro, autoritratta due volte: nel ruolo di marito e di moglie, rappresentati come felice coppia sposata”


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10. Man Ray, “Minotauro” (1934)


g.

Auguri e figli maschi!

Fin dai loro primi istanti di vita i neonati, volenti o nolenti, entrano in quel sistema sociale che chiamiamo binarismo di genere, ovvero un meccanismo culturale che ci induce ad associare semplici colori a caratteristiche biologiche umane: un fiocco azzurro per i maschietti e uno rosa per le femminucce. Da piccoli impariamo che nel mondo che ci circonda esistono cose “da maschio” e altre “da femmina”, per il semplice fatto che le norme sociali che regolano i nostri comportamenti spesso ci inducono a confondere il sesso con il genere, e viceversa. Per quanto la distinzione possa risultare piuttosto banale, di frequente si rivela sconosciuta ai più. Il settore moda è l’unico che da circa un secolo cerca di uscire dalle suddette norme, provando a mettere in discussione la netta suddivisione tra i generi. Con l’espressione anglofona “gender blurring” si definisce quella linea che separa i generi che, nel mondo della moda in particolare, risulta sempre meno marcata. Gli esempi di gender blurring già agli inizi del secolo scorso sono molteplici: basti pensare al modello di donna androgina, longilinea e piuttosto priva di forme, che caratterizzò gli anni ‘20. L’indiscussa icona di stile dell’epoca, Louise Brooks1, giocò spesso sull’ambiguità di genere, non soltanto sullo schermo, ma altrettanto nella vita privata. Allo stesso modo, la modella Twiggy2 negli anni ‘70 incarnò lo stile androgino e dopo

poco tempo divenne la musa della stilista britannica Mary Quant. Nonostante la moda metta ormai da tempo in discussione il cosiddetto binarismo di genere, soltanto oggi stiamo entrando in una vera e propria rivoluzione culturale: la percezione della società è ciò che realmente sta cambiando negli ultimi anni. Un fenomeno in particolare ha caratterizzato il settore moda nel corso degli ultimi vent’anni. Numerosi stilisti e case di moda hanno cominciato ad interessarsi ai modelli androgini e ad assumerli per sfilare sia per le collezioni maschili che per quelle femminili. Parliamo di persone che sfidano i cliché di genere, tanto nella vita di tutti i giorni quanto in ambito lavorativo, identificandosi al di fuori del binarismo. Inoltre, per fare ciò, spesso utilizzano pronomi neutri come l’inglese “they”, al fine di evitare la trappola del genere in ambito linguistico. Una sorta di provocazione alla quale raramente si rimane indifferenti e di conseguenza, dato che fin da bambini ci inculcano che la realtà può essere di color azzurro o di colore rosa, immediatamente sorge il dubbio: “sarà uomo o donna?”. Tra i modelli più noti oggi Rain Dove, Stav Strashko e Elliott Sailors3. Eppure, nella società occidentale del XXI secolo, resta remota l’idea di poter esprimere la propria identità di genere


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liberamente senza creare scalpore (soprattutto quando non si tratta di top model o star del cinema), nonostante la fine del secolo scorso si sia contraddistinta per le lotte sociali all’insegna dell’uguaglianza e della libera espressione. Nel corso della storia, secondo il senso comune, il maschile in quanto tale è sempre stato collegato a caratteristiche positive, mentre al femminile spesso sono state attribuite connotazioni negative: “auguri e figli maschi” potrebbe essere un esempio a sostegno. Di conseguenza, un uomo che idossa abiti femminili e che rinuncia al suo status sarà facilmente percepito dalla società in maniera negativa; contrariamente, la donna “mascolina”, indossando determinati capi, migliora la sua posizione avvicinandosi allo status maschile. Non c’è alcun dubbio che, a fronte di tali rappresentazioni culturali dei generi, ancora oggi risulti anormale trovarci davanti ad un uomo coi tacchi o ad una donna con giacca e cravatta senza porci le solite domande. Così come nel corso della storia l’abito ha sempre rispecchiato i ruoli sociali, oggi continua inesorabilmente a rispecchiare le differenze di genere.

Nonostante le critiche alle collezioni unisex come semplici adattamenti dei capi maschili per entrambi i generi, esse rappresentano il vero punto di partenza per un cambio sociale di tipo bottom-up in merito ai cliché nel settore. Da tempo la moda, in particolare l’alta moda, gioca sugli stereotipi di genere, tuttavia la percezione del pubblico non specialista rimane piuttosto invariata sul fatto che esistano abiti “da uomo” e altri “da donna”. È alla fine degli anni Settanta che la moda inizia a codificare quello che allora si chiamava abbigliamento unisex che, attraverso grandi nomi come quello di Giorgio Armani – vero antesignano nel proporre giacche fluide e decostruite nelle sue collezioni femminili – e film come “Una donna in carriera”, segnano l’estetica in tema di abbigliamento almeno fino alla metà degli anni Ottanta. All’epoca l’attenzione degli stilisti era puntata principalmente sul cambiamento dei codici del vestire femminile: il lady suit diventava simbolo e divisa di una donna non più relegata al ruolo di moglie e madre, ma pronta a “prendersi il mondo”, soprattutto quello del lavoro, adattando e adottando i simboli e gli stilemi del vestiario maschile. Nel corso degli anni l’abbigliamento gender neutral diventa la norma, i reparti di abbigliamento maschile e femminile diventano sempre più indistinguibili e i capi senza connotazioni di genere ottengono l’imprimatur del mainstream quando prima Zara e poi H&M lanciano le loro collezioni agender. Con qualche anno di ritardo, però.


Se da un lato viene apprezzata l’intenzione, dall’altro il modo di intendere la moda è andato avanti: le collezioni dei due giganti del fast fashion vengono criticate per non aver osato, per essersi limitate a un’ennesima interpretazione dell’unisex, per aver ancora una volta messo i pantaloni alle ragazze, quando ormai da un po’ le passerelle erano calcate da una popolazione androgina nell’aspetto e negli abiti, con buona pace dei timorosi della cosiddetta teoria gender. È durante la stagione Autunno/ Inverno 2015, quando Alessandro Michele fa il suo debutto come Direttore Creativo di Gucci, che gli esterni al fashion system si accorgono che qualcosa è cambiato nel modo di intendere la moda maschile. Le stampe a fiori, le camicie con collo a fiocco, le gonne, sono indossate indifferentemente da uomini e donne che non soltanto sfilano insieme in passerella, ma attingono allo stesso guardaroba secondo il gusto e l’estro del momento, bypassando con naturalezza la dicotomia maschio/femmina.

E se le sfilate co-ed (quelle che vedono insieme in passerella uomini e donne) possono essere un espediente per attirare l’attenzione sul menswear e ridurre i costi degli show, la persistenza del fenomeno è un segnale che qualcosa è cambiato nel modo in cui le generazioni più giovani percepiscono i codici del genere. Le stampe floreali di Gucci disegnate da Michele, però, non sono che una delle mille interpretazioni che i designer danno dell’abbigliamento gender fluid: le linee di J.W.Anderson, i colori di Thom Browne, i cache-coeur in satin del brand Neith Nyerùà e le trasparenze e i crop top del duo tedesco Eckhaus Latta interpretano sui catwalk di tutto il mondo la moda libera dagli schemi di genere così tipica della generazione dei millennials.


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1. Louise Brooks (1906-1985) ballerina e attrice statunitense.


TWIGGY

2.Capelli corti, lentiggini e look denutrito, Twiggy diventa l’idolo di stilisti, cineasti e fotografi della “Swinging London”, rivoluzionando i canoni internazionali della bellezza, prima di lei tondi e voluttuosi. È tra le prime famose topmodel della storia,

è il simbolo di un’epoca in via di cambiamento, un periodo di rivoluzione in termini di stile. Nata a Londra il 19 settembre 1949, Twiggy è una ragazza timida ed impacciata ma con grande vena creativa, gli amici la chiamano “stecchino” per la magrezza.

L’anno della svolta è il 1966 quando viene scelta come modella per le copertine di alcune importanti testate. Questo attira l’attenzione della stilista Mary Quant che cerca una giovane ragazza alla quale far indossare la sua nuova invenzione: la minigonna.


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3. Originaria del Vermont, classe 1989, Rain Dove Dubilewski - questo il suo nome completo - è una modella, attrice e attivista statunitense che si dichiara androgina. La ventottenne, che si definisce “una modella strana ed esteticamente non conformeâ€?, sfila sia per collezioni femminili sia per quelle maschili sfidando tutti gli stereotipi di genere.


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3. Stav è infatti un modello ucraino ha 21 anni la cui fisicità gli permette di essere quello che vuole.


3. Elliott Sailors esordisce come modella. Dodici anni fa veniva descritta come uno dei «volti più freschi» della rinomata agenzia di modelle Ford, fintantoché, con l’avanzamento di età, le sue occasioni di lavoro cominciavano a scarseggiare. Elliott, a 31 anni, ha deciso di reinventarsi e ha iniziato a cercare ingaggi come modello. «Ricomincio da capo per avere una lunga carriera», ha raccontato al New York Post. «Gli uomini non hanno bisogno di sembrare molto giovani, quindi ora ho parecchio tempo».


h. 100 - 101

“La giacca è stata il mio punto di partenza” Giorgio Armani, Made in Milan

Come spiega Blonsky, professore di sociologia che gli ha dedicato un capitolo del suo libro “American Mythologies”, al New York Times, “il caso di Armani è una rarità. Non è un intellettuale eppure gli piace giocare con le idee”. La prima idea, fondamentale, definitiva, è che l’abbigliamentol moderno sia un linguaggio, un’espressione della nostra individualità. Dopo Giorgio Armani, è un principio noto che la diversità e l’individualità non derivano dall’appartenenza a un determinato sesso, ma dalla capacità di esprimere sentimenti, passioni, intenzioni. Oggi che le identità sono liquide e frutto di una scelta culturale, si può affermare che è stato Armani a far emergere queste nuove individualità, alternando il maschile e il femminile in una fusione inedita. E offrendo alle donne blazer e giacche che avevano l’aspetto, i movimenti e la sensazione tattile di quelle degli uomini. Il corpo femminile risultava così lievemente, quasi impercettibilmente corazzato, mentre quello maschile era più esposto, più visibile, più sensuale. Arturo Carlo Quintavalle, storico dell’arte, afferma:

“Se scorriamo questi disegni scopriamo subito che Armani...fa violenza alle figure; che...la dimensione delle gambe oppure delle braccia o di una parte del corpo è come dissociata dal resto; intendo dire che Armani, progettando il corpo intende staccarne singole sezioni, evidenziarle, dare loro diversa durata, intende uggerire fin dal disegno, un comportamento, un racconto, una ‘recita’, se si preferisce, differente”. Il termine unisex applicato il modo di vestire è stato coniato nella seconda metà degli anni 60 per indicare un abbigliamento che andasse bene o fosse disegnato specificatamente sia per gli uomini che per le donne. Prima c’era una demarcazione della identità sessuale degli abiti attraverso l’affermazione dell’identità di genere. Le donne indossavano le gonne e gli uomini pantaloni. Il decennio che ha portato il terremoto giovanile ha consolidato l’idea di abiti universali. Jeans in Denim e T-shirt che sono stati resi popolari negli anni 50 andar cinema Hollywoodiano, hanno inaugurato la democratizzazione dell’abbigliamento. Fino a quel punto erano stati utilizzati come indumenti per la classe lavoratrice, identificativi di un preciso ceto sociale.


Per coinvolgere la generazione più giovane fondamentale fu il fascino seduttivo di giovani attori come Marlon Brando e James Dean, combinati con il potentissimo veicolo del cinema che ha trasformato jeans e T-shirt e non solo in un fenomeno di moda, ma forse nei primi veri capi unisex. Nell’accezione più ovvia, unisex significa liberazione del genere, ma ancora più importante e la sua associazione con il futuro nella misura in cui era presentato una rottura con le gerarchie del sistema old fashion rafforzando la potenza del fenomeno moda. L’uomo che ha rivoluzionato l’immagine della donna, a cominciato il suo percorso occupandosi dell’abbigliamento maschile. Tra le prime in brillanti intuizioni di questo ragazzo acuto, silenzioso, sensibile, cioè quella di imporre i gilet gialli, da indossare sotto le giacche di tweed secondo un gusto molto British, che prima di allora si trovava soltanto a Londra. Nino Cerruti è il primo ad immaginare un pret-à-porter maschile sartoriale, nel momento in cui l’alternativa era farti fare l’abito su misura dal sarto uscire vestiti rigidi, standardizzati, banali, offerti dalla confezione. L’imprenditore chiede ad Armani di scegliere quelli che preferisce tra i campioni disposti sul tavolo. D’istinto Armani scegli più corposi, insoliti, sofisticati. Lo stilista intuisce che nel grande disordine di ideologie, immagini, rivendicazioni femministe e aneliti terzomondisti, nascerà il desiderio di un ordine così diverso da suscitare scandalo, perché irride al conformismo e alla formalità.

Inventando per l’uomo un modo di vestire che, per certi versi, recuperasse qualcosa di femminile e inventando per la donna un’uniforme stilizzata di tipo maschile. Si trattava di un cambiamento epocale, un pogetto che dona rigore estetico a valori etici. È il luglio 1975 quando Armani presenta la sua prima collezione maschile nel piccolo atelier di Corso Venezia. La collezione era piccola, ma aveva un carattere preciso. I pantaloni erano morbidi, le giacche mostravano un segno diverso. Jay Cooks scrive su “Time”: “ spostò i bottoni, abbassò i revers, inclinò le spalle e cambiò strategicamente la struttura interna...Fu come se avesse tagliato i lacci e tolto i rinforzi a una camicia di forza”. Tre mesi dopo presenta la sua prima collezione donna. Il perno è la giacca maschile, fluida, su pantaloni dinoccolati che per la prima volta, nella moda femminile, sono modellati dalle pinces e danno un senso di libertà. È stato lo stesso Armani a confermare: “ la mia prima giacca da donna era una giacca maschile in taglia piccola, femminile. Trovavo che erano state un po’ ridicolizzate, quasi sempre rese un po’ bambole, a tutti i costi sfavillanti, sovraccariche e tali da suscitare pensieri di letto. Il che va anche bene. Ma non per le donne che lavorano, che hanno ormai una vita identica a quella dell’uomo e, nel vestire, esigenze uguali: bisogno di praticità nell’eleganza, di essenzialità”.


102 - 103 Disegno di Giorgio Armani per la collezione autunno-inverno 1982-83. In Giorgio Armani, catalogo della mostra, New York, Solomon R. Guggenheim Museum, a cura di Germano Celant e Harold Koda, New York 2000.


Giorgio Armani, campagna pubblicitaria primavera-estate 1992. Foto di Aldo Fallai.


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Emporio Armani, “Emporio Armani Magazine”, n. 5 “Cinema”, marzo-agosto 1991. Foto di Aldo Fallai.



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i.

“There should be no boundaries, no hierarchy, no violence. Men and women are equal.” Alessandro Michele

A gennaio del 2015, durante le sfilate maschili milanesi, debutta da direttore creativo di Gucci un nome sconosciuto: Alessandro Michele. Allo chic anodino e levigato di chi l’aveva preceduto, Michele oppone una visione personale, chiara, lucida, nuova e colta. Che, piaccia o meno, pone di nuovo la moda al centro dei temi culturali sulla contemporaneità. Alessandro Michele si può definire una crasi di barocco e punk, rinascimentale e caotico, vintage e modernità. Nerboruto sostenitore della parità di genere, lancia nel 2013, assieme all’artista italiana MP5, nota per il suo incisivo stile di disegno in bianco e nero, un nuovo capitolo per la campagna Gucci Chime, “To Gather Together”, asserendo: “Ogni persona è creata alla pari, in ciò in cui crediamo. Quando raccogliamo generazioni e comunità, abbiamo l’opportunità di creare un vero cambiamento”.

Forte dell’esperienza degli ultimi sei anni, che ha visto ‘Chime for Change’ sostenere oltre 425 progetti non-profit in collaborazione con 156 partner in 89 Paesi - progetti che hanno aiutato in maniera diretta oltre 570.000 donne e ragazze in tutto il mondo, e raggiunto oltre tre milioni di famiglie e membri di comunità locali - ‘Chime for Change’ annuncia il proprio sostegno per nuovi progetti con partner globali che lavorano per permettere alla futura generazione di leader di affermarsi e realizzare un mondo più equo. Per l’occasione è nato anche il cortometraggio The Future is Fluid, di Jade Jackman e Irregular Labs, che è stato proiettato in anteprima al Sundance Film Festival a Park City, USA. Il film esplora il significato di “genere” per la Gen Z, con giovani protagonisti provenienti da Italia, Brasile, Canada, India, Singapore, Sudafrica, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti.

A sinistra: Emporio Armani, campagna pubblicitaria autunno-inverno 1994-95. Foto di Aldo Fallai.



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TO GATHER TOGETHER


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“Tutti nasciamo uguali. Abbiamo tutti il potere di far sentire la nostra voce per sostenere ciò in cui crediamo. Quando intere generazioni e comunità si uniscono, al di là delle differenze, il cambiamento diventa possibile. Il coraggio dimostrato da questa generazione nell’esprimersi liberamente mi induce a sperare che un futuro di libertà e uguaglianza sia possibile”

Alessandro Michele


“The Future is Fluid” racconta la storia di una generazione che si batte per la libertà. Il film, diretto da Jade Jackman e Irregular Labs, ruota attorno al concetto di fluidità di genere attraverso gli occhi di 13 persone provenienti da tutto il mondo. I giovani adulti vanno dai 15 ai 25 anni e provengono da Brasile, Canada, India, Italia, Emirati Arabi, Regno Unito, Stati Uniti, Singapore e Sud Africa. Una storia raccontata dalla voce della prossima generazione che sta ri(definendo) il nostro mondo attraverso un prisma di fluidità.


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Gucci Spring Summer 2019 Ready-to-Wear Collection


Gucci Pre-Spring 2020 Collection, Roma


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Gucci Spring Summer 2019 Ready-to-Wear Collection


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“You get to wear exactly what you want” Telfar Clemens

Telfar Clemens vede la moda come orizzontale, un veicolo per creare relazioni tra le persone mettendo sempre in discussione giudizi e pregiudizi, siano essi sociali, razziali o economici. Il suo lavoro combatte i modi verticali di relazionarsi tipici del sistema moda, che con ritmi quasi bulimici divora ed espelle senza neanche metabolizzare. Clemens ha lanciato la sua linea unisex nel 2005, quando era ancora un adolescente, costruendo la propria reputazione nel fashion business grazie a capi ricchi di elementi decostruiti, abiti genderless e collaborazioni con artisti e musicisti. I suoi vestiti sono forniti presso rivenditori di prestigio tra cui Opening Ceremony, Colette a Parigi e Selfridges a Londra. L’approccio alla moda del designer liberiano-americano Telfar Clemens è sintetizzato nello slogan della sua attuale collezione: “Non per te, per tutti”. L’inclusione è stata il principio organizzativo delle sue collezioni da quando è iniziato nel 2006, ma il panorama sociale e politico sta aiutando la sua sfida al genere, alla razza e alla classe risuona ampiamente.


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Telfar Clemens Spring Summer 2016 Ready-to-Wear Collection


Telfar Clemens Spring Summer 2017 Ready-to-Wear Collection


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Telfar Clemens Spring Summer 2017 Ready-to-Wear Collection


k.

Eckhaus Latta

Il brand Eckhaus Latta nasce nel 2011 dall’unione artistica tra Mike Eckhaus e Zoe Latta. Sono diventati rapidamente figure di riferimento nella moda «downtown» newyorchese con la loro idea di moda giovane pensata su misura per i ragazzi, abiti in cui la semplicità dello streetwear si abbina allo spirito eccentrico degli artisti delle piccole gallerie dell’East Village e di Brooklyn. Il marchio è noto per il suo uso di materiali inaspettati, esplorando la trama e la tattilità nei loro progetti e per incorporare la scrittura, le prestazioni e il video nella loro pratica.


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Eckhaus Latta Spring Summer 2019 Ready-to-Wear Collection


Per la collezione della primavera 2017, il duo ha cercato coppie di giovani modelli, etero e omosessuali, che hanno accettato di fare sesso nelle loro camere da letto di fronte all’obiettivo della fotografa Heji Shin. Il risultato vede le coppie ritratte nei loro momenti più intimi, con indosso solo alcuni capi della collezione e la maggior parte del corpo nudo, con una pixelatura a coprire solo gli organi genitali, come si può vedere nella gallery. “Viviamo in un’epoca in cui c’è ancora tensione tra la libertà di espressione individuale (soprattutto online) e alcuni approcci puritani al sesso che sono profondamente radicati nella cultura”, hanno dichiarato gli autori. L’uso di immagini esplicite sarebbe quindi una celebrazione del fatto che “il sesso vero e proprio, dopo tutto, è bello”, e “una parte accettabile e fondamentale di un essere umano”. “Doveva essere autentico,” ha detto Eckhaus, “Non credo che l’idea di simulare il tutto ci sia mai passata per la testa. Per noi, è stato molto importante pensare al sesso come qualcosa di veramente naturale e non qualcosa di finto, ipersessualizzato o tabù”. “Volevamo davvero giocare con le regole della pubblicità, ma doveva essere qualcosa di autentico e doveva essere con persone vere. Se fosse stato simulato, avrebbe davvero perso l’intera intenzione dietro alla campagna”, ha aggiunto Latta.


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l.

“I don’t see things with gender, race and culture.” Rad Hourani

Rad Hourani è un designer (ma anche fotografo e videomaker) che ha già nella propria origine (giordana, siriana e canadese) i tratti di un’identità composita. Nel 2007 ha creato la collezione UNISEX, nata, nelle sue parole, da “un’osservazione attenta dell’umanità“: “Ho iniziato a creare con una sensazione di curiosità e di innocenza guidato dal mio backgorund/ non-background: nessuna scuola, nessun insegnante, nessuna nazione, delimitazione o formazione. Mi piace l’idea di un mondo che potremmo vivere e modellare su noi stessi soltanto osservandoci fra di noi. I miei progetti visivi scaturiscono da questo mio mondo. Sono genderless, ageless e limiteless e non derivano da nessuna nazione, razza o religione, anche se possono trovare casa ovunque. Rivelano uno stile senza tempo per individui non conformisti”.

Una visione che è anche uno statement, e trova riscontro in percorsi analoghi nell’arte, nel costume, nella musica e nel video, artisti che rivedono le basi dei nostri sistemi sociali, religiosi, sessuali e politici perché, proponendo la neutralità come una nuova visione universale, ci mostrano che esistono ancora corpi, culture e musiche “scandalosi” e destabilizzanti. Il corpo queer, per parte dell’opinione pubblica, costituisce ancora un “problema”, e parte del problema è anche ciò che questo corpo indossa.


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Rad Hourani, “Unisex” Collection #7


Rad Hourani, “Unisex” Collection #9


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Rad Hourani, “Unisex” Collection #9


m.

LGBTQ+ humans

EDITORIALE “L’idea di ‘identità’ è nata dalla crisi dell’appartenenza e dallo sforzo che essa ha innescato per colmare il divario tra «ciò che dovrebbe essere» e «ciò che è», ed elevare la realtà ai parametri fissati dall’idea, per rifare la realtà a somiglianza dell’idea.” Zygmunt Bauman


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Mediterranean Gay Pride Napoli: giugno 2015. Foto di Raffaele Mastroianni


#1 interview

rosa rubino

la donna transgender scelta da Liberato


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Chi eri prima di essere Rosa Rubino? “Allora, io nasco come Rubino Salvatore; ma sai, fin da quando avevo 5-6 anni ho iniziato a capire di non identificarmi in Salvatore. Poi, man mano crescendo, con le elementari, mi accorsi di essere attratto dai maschietti, mentre tutti i miei amici si facevano la fidanzatina, io no. Capivo già di non essere Salvatore. L’adolescenza è stata critica per il conflitto con me stessa in cui ero entrata, non mi identificavo nel mio corpo ma pretendevo di appartenere al mio sesso biologico. Fu però un combattimento breve, finché poi non iniziai ad innamorarmi platonicamente di qualche mio amico. Intanto scorreva la vita, fino all’età di 16 anni, quando mi fidanzai col mio primo ragazzo.” Quando nasce Rosa? “Lui aveva avuto un breve fidanzamento con una ragazza che si chiamava Rosa, e mi chiamava cosi. La cosa mi piaceva e da li nasce Rosa, con tutti gli anni di adesso.” Come si è rivelato esporsi nel contesto familiare? “Non è stato facile perché ho avuto un padre molto severo. Ha cercato sempre di rimettermi nel binario, che poi in realtà non esiste veramente. Ci sono stati conflitti tra me e lui, ma sono andata sempre per la mia strada, ho detto “io sono cosi, sono questa, non ci posso fare niente! colpe non ne ho, così come non ne attribuisco a te”.

Però c’è stata sempre fra me e lui una discordia. Alla fine ho vinto io.” Dal punto di vista sociale come si riesce ad affermare la propria identità? “Da premettere che io ho terminato gli studi con la terza media, dopo la quale mio padre mi chiese cosa volessi fare. A me all’epoca piaceva tantissimo fare la sterodattilografa. Mio padre, bidello, unico a portare lo stipendio a casa, si oppose e mi mise alle strette dicendo “tu o fai l’ellettrotecnico o niente” e io scelsi niente. Diceva che la segretaria era per donne, quindi lasciai. Iniziai a lavorare nella cartoleria di mio nonno, ma quando lui morì chiuse e mi ritrovai senza niente a 23 anni. Ho fatto vari lavori fino all’età di 54 anni, alché è capitata l’occasione di riprendre i miei studi. Ho studiato, nel frattempo mi diplomavo ed ero chiamata a prendere parte a dei pogetti di attivismo da parte di Arcigay e dalla mia cooperativa, la Dedalus. Studiavo e lavoravo, così ho pian piano cominciato a riprendermi la mia vita. Un giorno Dedalus mi offre un lavoro come segretaria, guarda caso si stava avverando ciò che io volevo - sorride - sarà stato un caso, però penso sia stato un sogno conservato nel cassetto, finché al momento opportuno l’ho aperto e si è realizzato. Oggi ho un contratto a tempo indeterminato come segretaria di azienda per la Dedalus, nel frattempo mi sono iscritta all’università, spero di laurearmi al più presto perché è anche questo uno dei sogni che voglio realizzare.”

#1 unlocked In cosa? “Scienze dei servizi sociali.” Qual è il luogo in cui esprimi meglio la tua soggettività? “Diciamo che questa cosa non la sento, riesco ad essere me stessa ovunque. Ho un certo carisma, non per vantarmi, riesco a presentarmi e ad essere sempre una persona amabile, quindi non ho questi problemi. Io penso che l’educazione in cui ti poni sia quella che ti apra tutte le porte.” Cosa significa transgender? “Transgender è quella persona che sta facendo un transito, poi ci sono persone che fanno il cambio totale, quindi anagrafico e chirurgico, fino a definirsi “femmine” o “maschi”. Transgender è la persona che, come me, è in transito. Io per esempio ho da poco fatto il mio cambio anagrafico, ma non chirurgico. Non mi sono operata, non mi sono sottoposta a quell’assurda mutilazione, ho fatto tutto con gli ormoni. Oggi la legge consente di non fare l’operazione chirurgica e riconosce ugualmente l’identità, fra 60 giorni ho la sentenza, dopo la quale sarò Rosa Rubino anche sui documenti.” La moda ti ha aiutato? Certo che si! Mi vesto esclusivamente con capi femminili, non ho mai acquistato capi maschili, non mi piace!


Rosa Rubino, la donna transgender protagonista dell’apertura del video musicale di Liberato - “Me staje appennenn’ amò”


Che cosa dici a tutti quei Salvatore che non hanno il coraggio di diventare Rosa? “Dico che la vita è una e che devono farlo, se lo vogliono veramente. Assolutamente devono diventare Rosa. La vita è una e va vissuta per quello che tu desideri, per quello che vuoi essere. Non fatevi mettere i piedi in testa e non abbiate paura, soprattutto paura, di nessuno! Ognuno ha la sua vita da porre. Fatelo con estrema spensieratezza, perché magari tu vedi qualcosa che gli altri non vedono. Siate sempre ‘io’!”.


#2 interview

barbara peluso la ragazza transgender scelta da Liberato


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Chi eri prima di essere Barbi?

si identifica con l’idea che la società ha di essa. Il problema “Io oggi sono sono Barbara, è come tu vuoi che la socieà ho 19 anni e sono una donna ti identifichi. Spesso si tende transessuale in terapia ormo- a pensare che una persona nale. Nasco come Ciro.” transessuale “voglia cambiare sesso”. Mi fanno domande Come si è rivelato esporsi nel tipo “Ma si fa il trapianto?”, contesto familiare? stendiamo un velo pietoso mentre sorseggia uno Spritz. “La famiglia ti vive, dal mo- Il problema è come la società mento in cui nasci. Dopo vie- ci percepisce. Chi vuoi esseni scaraventata nella società, re? Come vuoi apparire? La ma la famiglia è il tuo primo società ti identifica, è sistemanucleo. Naturalmente la per- tico. Si tende sempre a creare sona transessuale nascendo un’etichetta. A me sta bene la in un modo e poi mutando, mia etichetta, Barbara, 19 anni lascia un minimo di sconvolgi- eterosessuale transessuale, io mento, per quanto la tua fami- mi sento così dentro e fuori e glia possa essere emancipata, cosi voglio essere identificata.” per quanto tu possa avere lo zio gay accettato, i tuoi geni- Dal punto di vista sociale tori avranno sempre una com- come si riesce ad affermare prensibile difficoltà nell’accet- sé stessi? tarti. Personalmente avevo i miei 13 anni quando ho con- “E’ difficile. Perché la società è fessato a mio padre “Babbo piena di stereotipi. C’è sempre io non sono gay, non ti sba- un limite. Mi guardano, sono gliare. Io sono trans, è n’ata alta, vado bene finché non si cos! Al di la del fatto che a me accorgono che sono trans. Ti piacciano o meno i maschi, io guardano le mani, le dita, però mi sento donna!” E’ difficile. se hai qualcosa fuori posto ti Però se oggi io sono qui e mi paragonano ad una figura mavedi così, a 19 anni, e stiamo schile. Il numero delle scarconversando è perché mio pa- pe...c’è un limite massimo: 41. dre, per quanto possa all’inizio Se hai più di 41 hai il piede di non averlo accettato, poi ha un uomo. Affermarsi è difficicapito. “Uagliù così è! C’amma lissimo. Al di la dell’orgoglio di fa!” ha detto. “Vuoi diventare essere transessuale, il main femmina? Ok, a chi ci dobbia- goal è quello di non sembrarmo rivolgere?” Sono stat for- lo. Raggiungo il mio benessetunatissima. Sarei bugiarda a re psicologico quando le perdire di aver sofferto, è venuto sone affermano di non essersi accorte della mia transessuatutto natuale e spontaneo. lità. Personalmente non mi sono mai sentita cosi tanto in Cosa significa transgender? difficoltà, perché a me fortuna“Transgender è una persona tamente è sempre stato detto che nasce in un corpo biolo- ciò. Conosco persone, però, gico che non gli appartiene, o che uscendo di casa si beccomunque, per essere specifi- cano scherni di ogni tipo. Purci, la persona transgender non troppo è così, se si nota, per gli altri “hai il problema”.

#2 unlocked A livello scolastico com’è andata? Ai miei 12-13 anni, quando terminarono le medie, ero terrorizzata all’idea di andare al liceo. Mi sarebbe piaciuto fare un classico, un linguistico, ma decisi di fare l’artistico. Ho frequentato il Palizzi qui a Napoli. Rivedevo in quel tipo di indirizzo una mentalità più aperta, dove avrei avuto meno difficoltà ad affermarmi. Andò male. Per una serie di motivi decisi di cambiare istituto. Andai al SS Apostoli, sempre qui a Napoli. Non posso mai dimenticarlo, era il primo giorno di orario definitivo, era ottobre. Prima ora, matematica, tutto ok. Seconda ora, fummo lasciati scoperti, si avvicina una ragazza per chiedermi “Scusa ma sei gay?” - ride - le dissi “Si, diciamo di si”. E li mi sono sentita perfettamente a mio agio. Al terzo anno è cominciato a uscire tutto fuori. Sentivo l’esigenza di esternare chi ero, mi rapportavo con le persone non essendo me stessa, non sentendomi a mio agio. Sembrava di vivere una vita parallela.

keep on unlocking


Quali sono stati i gli step iniziali del nuovo percorso? “Avevo i miei 16 anni e una zia che mi è sempre stata vicina alla quale confessai il mio disagio. Si mobilitò immediatamente per farmi conoscere l’Associazione Transessuali di Napoli, che ci indirizzarono al Policlinico, dove cominciai effettivamente il cammino della transizione insieme a mio padre. Si comincia con un persorso psicologico, io ero ancora minorenne e la cosa veniva affrontata in maniera diversa rispetto a come la affronterebbe un maggiorenne. Compii 17 anni e cominciai a mettere un po’ di trucco, iniziai ad indossare outfit genderless, pantaloni larghi, lupetti... Cominciai a non tagliarmi più i capelli. Piano piano, le cose succedono piano piano. Prima il correttore, poi inizi col fondotinta, poi con la ricostruzione delle unghie, la prima borsa.. Ricordo tragicamente l’estate, non sapevo come andare al mare, ero senza seno! Ho dovuto imbottire il reggiseno con dei calzini. La trerapia ormonale, comunque, ho dovuto cominciarla dopo i 18 anni. Era settembre quando feci la mia prima seduta dall’endocrinologo e nessuno mi credeva. Mi guardavano e pensavano tutti, medico compreso, che avessi preso farmaci ormonali sotto banco. Sembravo già una donna, lì ebbi il mio boost di autostima e mi convinsi che quello era ciò che volevo realmente. Sono passati 7 mesi con una compressa al giorno ed eccomi qua.”

Ora com’è la tua vita? “La mia vita va avanti, prima di incontrare te ero dall’avvocato, perché a breve andremo in tribunale e mi farò cambiare il documento. Se prima avevo vergogna di approcciare e mostrarmi, ora non più.”

#2 unlocked

Barbara Peluso, la ragazza transgender protagonista del video musicale di Liberato - “Me staje appennenn’ amò”


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Che cosa dici a tutti quei Ciro che non riescono a diventare Barbara? “Mi sento di dire che non è mai troppo tardi, qualsiasi cosa tu senta la necessità di diventare, diventerai! Ci vuole solo un po’ di coraggio...”


#3 interview

tommaso pezzella alias ines rodriguez un padre cross dresser


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Come ricordi la tua infanzia?

discoteca senza il biglietto, il proprietario mi notò e mi chie“Qualsiasi cosa mi sia prefis- se se fossi italiano. Risposi che sato nella vita, con tempo e ero spagnolo e che il mio nome sacrficio ci sono sempre ar- fosse Tomas Duarte. Quella fu rivato. Mai avrei pensato che la mia prima identità, e da li un giorno mi sarei travesti- ne ebbi sempre una parallela. to da donna. La cosa è nata Capìì che avere una seconda per gioco. Ogni persona ha identità mi avrebbe concesun lato femminile, non sono so una seconda opportunità, io a dirlo, ma la scienza, c’è una seconda vita, nella quale chi lo ammette e chi no. Io ho mettere solo le cose belle. La un lato maschile ed uno fem- cosa straordinaria del mio laminile come tutte le persone, voro è che mi permette poi di c’è chi la esterna, chi la repri- essere una persona comune, me...io mi sono sempre sen- quando non sono Ines sono tito diverso dagli altri, perché Tommaso, con tutte le mie reandavo oltre. Fin da piccolino sponabilità. Indosso la tuta e sono sempre andato a fondo, mantengo la barba, se voglio. adoravo tutto ciò che era co- Odio tutto ciò che è femminile, lorato, ciò che era curato nel perché ormai ne ho fatto una dettaglio, ciò che era musica, carriera. Dopo Tomas Duarl’arte, lo spettacolo. Da pic- te ho fatto il presentatore per colo mi ispiravo alle dive del emittenti locali, avevo 17 anni, passato, alle soubrette di un ricordo che andavo accompatempo, le ammiravo. Ho inizia- gnato da mio padre e dovevo to da bambino un percorso di fingere di averne 19, altrimenti non accettazione di me stes- non potevo lavorare. Mi piaso, non sapevo ancora bene ceva, il mio sogno era quello cosa volessi, cosa fossi. A 14 di fare il presentatore. Dopo anni i miei genitori mi iscrisse- un po’ mi licenziarono, perché ro all’Istituto Geometra per far- parlavo “troppo italiano” menmi continuare l’attività avviata tre presentavo dei cantanti neda mio padre, io l’ho vissuta omelodici. Feci diversi lavori come un trauma, era un am- finché non rimasi affascinato biente prettamente maschile dal mondo delle drag queen, ed io già con il mio solo modo quando ancora si trattava di di parlare correttamente l’ita- esaltare al massimo la femliano, non riuscivo a sentirmi minilità e del divismo. Capitò parte del gruppo. Il mio sogno l’occasione di organizzare una era fare il liceo artistico, e l’ho festa di capodanno dove c’efatto, contro la volontà dei miei ra bisogno di tre drag queen e genitori.” pensai di cimentarmi in questa nuova avventura. Lo spettacoCome è cominciata la tua lo piacque molto e da li iniziai carriera? questo nuovo percorso lavorativo e creando questo nuovo “Era il periodo del boom di Ri- personaggio: Ines Rodriguez.” cky Martin con “Un, dos, tres, Maria” quando iniziai a muovere i primi passi nel mondo dello spettacolo. A me piaceva ballare, mi intrufolai in una

#3 unlocked Perché Rodriguez? “Rodriguez perché all’epoca, dopo aver fatto un viaggio in Brasile, conobbi quel cognome decisamente molto versatile. In Italia fu affermato da Maurizio Costanzo, perché mi chiamò per fare quello che sarebbe stato il primo programma trasmesso in rete. Da li è iniziata la mia carriera.” Cosa non ti piace del tuo lavoro? “La cosa triste di questo lavoro è che sei portato a dare solo l’1% di quello che in realtà puoi dare. Ancora oggi mi chiamano e mi chiedono “Ma allora allo spettacolo ti metterai seminuda?”, quindi vieni ricordata per il tuo aspetto fisico, quando in realtà dietro c’è tutto un mondo. Agli esordi ricordo che le emittenti locali che anni prima mi avevano chiuso le porte in faccia mi ricontattarono e li pensai che Ines non sarebbe diventata mai un fenomeno da baraccone. A dire la verità il termine “drag queen” mi sta un po’ stretto, perché la drag queen è colei che si traveste e ti fa ridere. keep on unlocking


La mia trasformazione deve stupire, Ines deve essere ammaliante, il pubblico deve restarne affascinato per la donna che è, che poi in realtà non è. Molti credono sia una donna transessuale, ma il segreto del mio spettacolo è fare una rappresentazione perfetta della femminilità, al di la della bellezza fisica. E’ la femminilità che trasmetto, soprattutto senza esser dovuto ricorrere ad interventi chirurgici. Chi fa un percorso di transizione è perché si sente donna e si vuole sentire donna in ogni contesto della sua vita, da quello sociale a quello domestico; personalmente se dovessi travestirmi da Ines per andare a fare la spesa non lo farei, perché mi sento appagato dall’essere donna quando sto sul palco e faccio il mio spettacolo. Ho associato la figura della donna a quella di una diva, Ines è una diva, poi nella realtà Tommaso è il ragazzo della porta accanto e la cosa mi piace. Se hai notato parlo di Ines in terza persona, perché lei sta li, ferma, quando sono Tommaso è come se realmente avessi un’identità differente. Quando io divento Ines, c’è un momento in cui inizio a ragionare secondo Ines, ed è quando metto le ciglia finte. La ciglia finta ti da un peso sull’occhio, e ogni volta che le indosso inizio a vederci male, appannato. La mia mente associa questo disagio all’aver incarnato perfettamente il personaggio e all’essere diventato, quindi, Ines a tutti gli effetti. Per assurdo la prima cosa che faccio dopo ogni spettacolo non è togliere le scarpe o la parrucca, ma le ciglia finte.

Io non farei mai uno spettacolo senza ciglia finte, non riuscirei ad essere Ines al 100%, è una cosa da ricovero - ride - però è così.”

#3 unlocked

Finora hai parlato di Ines, chi sei invece nella vita di tutti i giorni? “Io ho avuto una figlia quando ero giovanissimo, avevo 19 anni. All’epoca, per l’età che avevo, fu un trauma, ma fortunatamente ho avuto la maturità di assumermene fin da subito la responsabilità. Oggi è la ragione della mia vita. Oggi mi occupo di cross dressing, di uomini che si sentono donne ma hanno condotto una vita eterosessuale. Vengono da me perché io sono la loro musa ispiratrice, aprii una scuola da cross dresser che poi ho chiuso. La cross dresser soffre di un binarismo di genere, quindi si sente donna da sempre ma ha condotto una vita da uomo. Venivano da me per vivere liberamente 2-3 ore di femminilità, anche solo prendendo un caffè insieme, ma vestite e truccate da donna. La maggior parte dei clienti erano grandi di età, e ne ricordo uno in particolare che aveva il desiderio di farsi chiamare “nonna” dai suoi nipoti. Quando mi confronto con queste storie mi ritengo fortunato, perché è solo grazie al coraggio che da giovane ho avuto di sovvertire gli schemi che oggi posso parlare liberamente della mia duplice vita.”

Come hai vissuto la sfera sentimentale? “Io mi innamoro della persona, sono sicuramente un caso da manicomio - dice ridendo - ma nella mia vita mi sono affiancato sia a uomini che a donne. Premetto che la trasformazione in Ines non è a carattere sessuale.” Come ti ha vissuto tua figlia? “Mia figlia, come tutti i bambini, quando era piccola aveva l’innocenza infantile, che è meravigliosa, perché non esiste malizia. Per cui a cinque anni non si chiedeva perché io mi vestissi da donna, perché fin da subito si era abituata a vedermi anche sotto altre vesti. Per lei era normale, quindi nella sua infanzia l’ha vissuto come una cosa bella. Io poi facevo spettacoli anche per i bambini, quindi ero amato da tutti. Lei vedeva suo padre che, anziché tornare stanco a casa la sera, era sempre sorridente, con qualche piuma e paillette in più. Oggi vive con me e prima degli spettacoli mi trucca anche!”


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“Siamo tanto più autentici quanto più ci avviciniamo all’idea che abbiamo sognato di noi stessi.”

Tommaso Pezzella nelle vesti di Ines Rodriguez.


bibliografia. Bencivenga R., Genere e tecnologia: nuove capacitazioni o antichi pregiudizi mascherati?, in AG AboutGender: International journal of gender studies, Bosco F., Pozzolo S., Vol. 5 N° 9 anno 2016, pp. I-XIV

Perilli P., Tomaso Binga alias Bianca Menna, Tra immagini e parole: il corpo del linguaggio e il linguaggio del corpo, in “ Retididedalus”, Agosto 2014

Butler J., Questione di genere : il femminismo e la sovversione dell’identità, Traduzione di Sergia Adamo, Roma, Bari, GLF Editori Laterza, 2013

Petroni M., Reinventare la Rete. Il saggio di Jessa Lingel, in “Artribune”, 24 agosto 2017

Ferré G., Giorgio Armani: il sesso radicale, Biografia e bibliografia a cura di Manuela Soldi, Venezia, Marsilio, 2015

Serra S., Ecco perché la moda è all’avanguardia con il gender fluid, in “Junglam!”, 2019

Franchi F., L’ immaginario androgino: migrazioni di genere nella contemporaneità, Bergamo, Sestante, 2012

Vinai B., Quando la moda sfida gli stereotipi di genere, in “Thefashiontheorem”, 18 febbraio 2019

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Woolf V., Una stanza tutta per sé, Introduzione di Marisa Bulgheroni, Traduzione di Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, Milano, Il saggiatore, 1963


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sitografia. Arcigay, Associazione LGBTI italiana, https://www.arcigay.it/

Gay.it!: make it as you like, https://www.gay.it/

Rad Hourani, https://www.radhourani.com/

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Wired, https://www.wired.it/

Eckhaus Latta, https://eckhauslatta.com/

Marie Claire, https://www.marieclaire.com/it/

Facebook, https://www.facebook.com/

Osservatoriogender, https://www.osservatoriogender.it/


ringraziamenti. Marcel Proust disse: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d’altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è.” Ed è proprio ai diversi che va il mio primo ringraziamento, perché senza i diversi avrei avuto meno occhi, avrei osservato meno universi. Grazie a chi, durante la costruzione di questo progetto, mi ha aperto le porte di casa insieme a quelle dell’anima. Grazie a chi ci ha creduto più di quanto non ci abbia creduto io, perché mi ha spinto a proseguire. Grazie a chi ama, incondizionatamente, imprescindibilmente, infinitamente. Grazie a chi è sbloccato e grazie a chi, dopo aver letto questa tesi, si sbloccherà. Grazie a chi ha il coraggio di essere come vuole. Grazie alle persone che hanno contribuito alla stesura di questa tesi, e quindi grazie a: Rosa Rubino, per la nobiltà d’animo e la fiducia con cui ha accolto la mia idea accettando di raccontarsi; Prof. Paolo Valerio, per la bontà, la disponibilità, l’ascolto e la condivisione; Barbara Peluso, per la fiducia e la leggerezza con cui ha raccontato il suo percorso; Tommaso Pezzella, per la disponibilità e la simpatia con cui ha condiviso la storia della sua vita; Daniela Lourdes Falanga, per avermi aperto le porte di Arcigay, dandomi la possibilità di vedere da vicino la bellezza della varietà; per il calore, la saggezza, l’empatia e la delicatezza con le quali sostiene ogni giorno decine di persone. Grazie a mio padre, per avermi sempre spinta a superare i miei limiti e a puntare in alto, per la costanza e la fermezza di tutti i “ce la devi fare”, per la fiducia riposta in ogni mia iniziativa, anche quando non condivisa, per tutti i “no” detti a sé stesso per qualche “si” in più detto a me. Senza di lui non avrei mai intrapreso questo percorso. Grazie a mia madre, per tutte le volte che è stata anche mia amica e tutte quelle in cui ci siamo concesse la possibilità di abbracciare le nostre fragilità, perché è così che nasce la forza. Per averne sempre voluto capire di più, sbloccando i suoi pensieri. Grazie per la perseveranza con cui mi invita a togliere le armature, quando poi non ci riesco mai. Grazie ai miei genitori anche per quando non ci hanno creduto, perché per convincere loro, convincevo sempre di più me stessa.


Grazie a “Zia Tì”, perché non c’è chiamata alla quale non abbia risposto e non c’è risata che non mi abbia contagiato ogni volta che ne ho avuto bisogno. Grazie perché fin da subito ha creduto nel mio progetto, supportandomi e suggerendomi le strade da seguire; per la semplicità con la quale riesce a far fermare il tempo ogni volta che ci confidiamo, mentre i mille pensieri viaggiano a velocità incontrollabile.

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Grazie a Tonia, cuore mio. Per l’indescrivibile complicità; per la costanza con cui l’ho avuta con me in ogni momento di questo percorso; per il perenne supporto, gli interminabili incoraggiamenti, le puntuali telefonate post esame e per tutte le volte che ha ascoltato le mie gioie e le mie nevrosi. Grazie perché non c’è legame di parentela che possa reggere di fronte ad un’unione come la nostra e non ci sono parole che rendano giustizia a tutto il bello che che ci siamo date, che ci diamo e che continueremo a darci, ad infinitum. Grazie ad Antonio per l’Amico e il fratello che è. Questa tesi è anche sua, per tutte le occasioni di ricerca che non ho affrontato da sola e per le esperienze condivise. Grazie per la semplicità e la purezza con cui è sempre rimasto al mio fianco, nonostante tutti i miei ossimori e tutti i miei spigoli. Grazie per l’unicità con cui ha saputo restare in silenzio, accanto a me, ad ammirare il mare, lasciandoci per brevi, intensi momenti, la frenesia alle spalle. Grazie per il supporto, il conforto e la dolcezza con le quali solo e soltanto lui ha saputo rincuorarmi. E soprattutto, grazie per avermi sempre riservato empatia. Grazie a Nicola e grazie a Luca. La combo perfetta. Le prime persone in assoluto con le quali ho varcato l’ingresso di questa Facoltà, le stesse insieme alle quali ne varco l’uscita. Grazie per i boost di allegria, la naturalezza con cui ci siamo detti ogni cosa e il costante sostegno reciproco. Grazie per essersi presi cura delle mie confidenze e per avermi affidato le loro. Grazie per la condivisione, i consigli, i rimproveri e gli abbracci, per le chiamate ogni sera e per la chiarezza e l’onestà con cui, ogni volta, mi hanno invitata a riflettere. Grazie a Napoli, la mia città, la prima fonte d’ispirazione per ogni progetto; il mio nido, il mio rifugio, il mio tempo libero. I miei più profondi sospiri di libertà. Infinita scatola di anime, storia e cultura, della quale non avrò mai abbastanza. Se solo esistessero parole adatte a definire così tanta Bellezza... Qualcuno ha detto che la casa è dove si trova il cuore, ed il mio cuore appartiene a questa città. Alessia Vitale Aversa, 24 giugno 2019.


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