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LIBRO 1 : LE BASI SCIENTIFICO-CULTURALI

CORSO 1 FISICA E CHIMICA

PARTE 2 : Percorsi integrati per la professione ostetrica 2


CAPITOLO 1

FISICA PER L’OSTETRICIA

Gli argomenti sviluppati nel capitolo 1 riguardano alcuni concetti di fisica che hanno un riscontro e un’immediata applicabilità alla fisiologia e alla dinamica del corpo umano. Necessariamente sono illustrati soltanto i principi generali e si è tentato di presentare esempi e di svolgere esercizi relativi al corpo umano. Così per la dinamica si è fatto riferimento alla deambulazione, per la statica alle leve nel corpo umano, per i fluidi alla circolazione sanguigna, per la termodinamica ai meccanismi di regolazione della temperatura ed al funzionamento del corpo umano come “macchina ad energia chimica”. Nell’ultima parte del capitolo sono trattate le radiazioni ionizzanti e non ionizzanti con particolare riferimento alle loro applicazioni in medicina e sono presentate le principali apparecchiature che consentono l’applicazione delle radiazioni in ambito medico.

SEZIONE 1 - TEORIA DEGLI ERRORI. La sezione 1 è propedeutica alle altre sezioni e si apprendono i concetti di grandezze fisiche, di unità di misura e i metodi per valutare i risultati delle misure con un accenno alla teoria degli errori. La discussione sul metodo scientifico deve far comprendere la necessità di “misurare” le grandezze di interesse mentre la comprensione della la teoria degli errori deve far comprendere il concetto di variabilità e quindi di “incertezza “ delle misure, fondamentali in qualsiasi campo della fisica ma essenziale in ambito medico.

Lezione 1 – Misurare: perché e che cosa §1

GENERALITÀ

L’osservazione dei fenomeni fisici ed il desiderio di darne una spiegazione razionale ha contribuito alla nascita della Fisica, una disciplina che basa la sua metodologia su:  osservazione sperimentale dei fenomeni;  teorizzazione dei fenomeni;  verifica sperimentale della teoria mediante lo studio di nuovi fenomeni;  revisione della teoria;  verifica sperimentale della nuova teoria;  …e così di seguito. Secondo questa metodologia l’avanzamento delle conoscenze avviene soltanto mediante una continua verifica sperimentale ed un affinamento/modifica della teoria che abbraccia un numero sempre maggiore di fenomeni fisici. Alla base della disciplina c’è quindi la necessità di valutare in modo oggettivo quello che accade per esempio quando giochiamo a pallavolo, ci guardiamo allo specchio, o parliamo al cellulare. Dobbiamo in questi casi sempre ‘misurare’ qualcosa che ci permetta di quantificare il fenomeno e di prevedere, costruendo una teoria, che cosa potrà accadere in circostanze simili. Per esempio potremmo calcolare con quanta forza è necessario colpire la palla perché essa superi la rete ma non esca dal campo oppure come potrebbe essere la nostra immagine con uno specchio

ricurvo o quale potenza dovrà essere emessa da un cellulare affinché la conversazione si mantenga comprensibile. Quel qualcosa da misurare sono le “grandezze fisiche” mentre la teoria definisce la relazione matematica che le lega. Una grandezza fisica come la “Lunghezza”, ad esempio, è completamente definita soltanto se è possibile eseguire una misura che permetta di esprimere questa grandezza mediante un numero: “la lunghezza di una corda è di 2,6 metri”. Per poterci così esprimere abbiamo compiuto due operazioni: 1) abbiamo definito un campione, cioè quella “barra” la cui lunghezza è di 1 metro 2) abbiamo confrontato la lunghezza della corda con quella della barra campione e abbiamo visto che la barra campione è contenuta 2,6 volte nella corda. Lo stesso procedimento vale per ogni altra grandezza (tempo, massa, temperatura, ecc.) La scelta delle dimensioni del campione è totalmente arbitraria anche se storicamente è legata alle necessità pratiche dell’uomo. Culture e/o Stati diversi hanno così storicamente adottato campioni diversi (yard per metri, galloni per litri, ecc.) e soltanto con l’ultimo secolo, necessità e volontà di confrontare i risultati delle misure ha condotto alla adozione di un unico sistema di misura, il “Sistema Internazionale” che ha in gran parte - ma non completamente – sostituito, nelle pubblicazioni scientifiche, le classiche unità di misura del “Sistema Pratico”.

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Il sistema internazionale delle Unità di Misura (S.I.) Il S.I, definito ed approvato nella sua prima versione dalla Conferenza Generale dei Pesi e Misure (Parigi 1785) ed in un’ultima versione nel 1971, stabilisce le unità di misura di 7 grandezze fondamentali (Tab. 1-1) e di 2 grandezze supplementari (Tab. 1-2) e di tutte le grandezze derivate compresi i multipli e i sottomultipli. I campioni delle 7 grandezze fondamentali possono essere ridefiniti in funzione dello sviluppo scientifico e tecnologico per consentire una maggiore precisione della misura.

§2

IL METODO DELLA MISURA

Abbiamo visto che il processo di misura consiste nel determinare il rapporto fra le dimensioni di una grandezza e la sua unità di misura. Quando la misurazione riguarda la lunghezza o la massa il processo è intuitivo. Con un campione di “metro” a disposizione si controlla quante volte questo “è contenuto” nella lunghezza da misurare, oppure, su di una bilancia a “bracci uguali”, si aggiungono ad un piatto tanti “pesi campione” affinché questo si ponga in equilibrio con l’altro piatto sul quale avevamo posto la massa da misurare. Nella misura del tempo invece abbiamo bisogno di un orologio cioè di un congegno meccanico o elettronico che ci indichi il tempo trascorso da un certo istante in poi. In altri casi infine la grandezza è misurata attraverso i suoi effetti come la forza fra due fili paralleli percorsi dalla corrente elettrica oppure attraverso la misura di un’altra grandezza che in qualche modo sia correlata alla prima come facciamo quando misuriamo la velocità di un mezzo calcolando il rapporto fra la distanza percorsa ed il tempo impiegato a percorrerla. Grandezze scalari e grandezze vettoriali Grandezze scalari. Stabilita un’unità di misura, queste grandezze (volume, massa, energia, temperatura ecc.) sono completamente definite dal numero che rappresenta il rapporto tra la grandezza considerata e l’unità di misura. Grandezze vettoriali. Queste grandezze (velocità, accelerazione, forza ecc.) si considerano completamente definite solo se si stabilisce, oltre al “numero” che ne indica il modulo, la loro direzione ed il verso. Le grandezze vettoriali sono rappresentate graficamente da un vettore orientato la cui lunghezza indica il modulo della grandezza. In termini analitici il vettore può essere definito attraverso tre coordinate indipendenti. In questo testo troverete utilizzate soltanto grandezze scalari oppure moduli delle grandezze vettoriali. Incertezza della misura Naturalmente nelle situazioni pratiche non disponiamo del campione di riferimento definito dal S.I.. Dobbiamo quindi utilizzare dei campioni ‘certificati’ con i quali effettuare le misure. Tali campioni sono detti “secondari” e debbono essere determinati mediante confronto con i campioni primari. Si crea così una catena di confronti successivi attraverso i quali viene “costruito” il campione impiegato nelle misure pratiche. In tal modo il campione finale potrà non essere esattamente uguale al campione primario; ed il nostro processo di misura sarà esposto alla possibilità di errore. Se il metro è più corto, la lunghezza misurata sarà maggiore di quella reale, viceversa se il metro è più lungo. Gli errori

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commessi per questa ragione sono detti “Sistematici” e sono tanto più piccoli quanto più il campione secondario si avvicina al campione di riferimento. Durante il processo di misura si possono comunque commettere altri errori, principalmente legati: 1) ad una errata “lettura dello strumento” dovuta alle condizioni di misura 2) alla necessità di fornire un numero (stima del rapporto fra la grandezza e la sua unità di misura) che già risulta una approssimazione del vero rapporto che definisce la misura di una grandezza. Supponiamo infatti di misurare la temperatura di un corpo mediante un termometro. Se sul termometro sono indicati i gradi con delle linee e la colonnina di mercurio si stabilizza fra due linee successive, dovremo decidere a quale linea si avvicina maggiormente oppure approssimare la temperatura al mezzo grado. La misura sarà quindi più precisa se sono indicate anche le linee del decimo di grado poiché l’errore sarà minore. Anche se il mercurio dovesse però fermarsi esattamente in corrispondenza di una linea, la misura sarà sempre affetta da un’incertezza dovuta alle “dimensioni grafiche” della linea. Naturalmente ciò sarà vero anche utilizzando un termometro elettronico che fornisce una indicazione numerica della temperatura poiché l’incertezza, in questo caso, sarà legata all’approssimazione dell’ultima cifra indicata. Gli errori commessi per i due motivi sopraccitati possono influenzare la misura in un senso oppure nell’altro e sono perciò detti “casuali”. Per diminuire tali errori è necessario ripetere numerose volte la misura stessa determinando successivamente il valore medio delle misure ed un indice (DS) che ne indichi l’incertezza dove per “Valore Medio” si intende la somma dei valori delle misure fratto il numero delle misure. Quindi: date N misure V1, V2, V3, V4, V5, , , , ,VN, il Valore medio (Vm) è il seguente: N

Vm 

Vi i 1

N

V1  V2  ...  V N N

e l’indice che definisce la “Deviazione Standard” (DS) è: N

DS 

 V i 1

i

 Vm 

2

N

Il risultato delle misure si indica quindi con la formula: V = Vm  DS e sta ad indicare che Vm è la miglior stima del valore vero della grandezza da misurare e che con una probabilità del 68,3%, il valore vero è compreso nell’intervallo Vm – DS e Vm + DS, mentre la probabilità sale al 95,5% se l’intervallo considerato è Vm – 2DS; Vm + 2DS ed al 99,7% se l’intervallo considerato è Vm – 3DS; Vm + 3DS. L’incertezza della misura può inoltre essere indicata con il coefficiente di variazione CV dove:

CV % 

DS 100 Vm

La considerazione più importante che si può trarre da queste osservazioni è che da una misura o anche da una serie di misure non è possibile ottenere il valore “vero” di una grandezza. Misurando “bene”, con buoni strumenti e


ripetendo numerose volte le misure si ottiene, con buona approssimazione, una stima del valore vero affetta da una

incertezza “compatibile” con lo scopo delle misurazioni.

RIEPILOGO TEORIA DEGLI ERRORI. LEZIONE 1 Viene discusso il metodo scientifico e sono illustrate le grandezze fisiche con le rispettive unità di misura come previsto dal Sistema Internazionale delle Unità di Misura. Viene discusso il problema della misura e il significato degli errori o incertezze che necessariamente sono commessi; infine sono definiti i concetti di media, di deviazione standard e di coefficiente di variazione.

SEZIONE 2 – LA FISICA DEL CORPO UMANO. Nella sezione 2 si apprendono alcuni concetti della fisica e la loro applicazione al corpo umano con riferimento alla biomeccanica, alla circolazione del sangue e alla termoregolazione. L’applicazione della dinamica, della statica, della meccanica dei fluidi e dei principi della termodinamica al corpo umano consente di rendere immediatamente “concreti” e utilizzabili nella vita quotidiana concetti che sono solitamente presentati in modo astratto e di cui lo studente fatica ad comprendere l’utilità.

Lezione 2 - Solidi o Corpi rigidi 1-3 §1

GENERALITÀ

Nella descrizione del comportamento dei solidi (o corpi rigidi) risulta utile premettere due semplificazioni: 1) tutta la massa del corpo è concentrata in un punto detto baricentro. Il comportamento dinamico del corpo come “punto materiale” può essere studiato attraverso il comportamento del suo baricentro. 2) quando si devono tenere in considerazioni le dimensioni di un corpo (statica e dinamica dei corpi reali) si ritiene che questi sia indeformabile (corpo rigido). Naturalmente in natura non esistono né punti materiali né corpi assolutamente rigidi. Si tratta di approssimazioni utili perché permettono di semplificare notevolmente la trattazione dei problemi della fisica pur raggiungendo risultati in buon accordo con l’esperienza. Definizioni  Forza: azione di qualsiasi natura compiuta su di un corpo per alterarne lo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme.  Lavoro: effetto di una forza che agisce su una massa provocandone lo spostamento.  Energia: potenzialità di un corpo alle spese della quale il corpo produce lavoro. Esistono vari tipi di energia: cinetica, potenziale, termica, elettrica, luminosa, chimica, magnetica, nucleare, solare, eolica, delle maree, ecc.  Potenza: rapidità con cui viene compiuto un lavoro.

§2

LE LEGGI DELLA DINAMICA

Le leggi della dinamica si applicano a tutti i solidi per i quali è possibile la semplificazione n. 1. Questo non significa che si applica ai corpi ”piccoli”, ma che il corpo studiato si comporta “come un punto materiale”. Il corpo studiato può essere una minuscola palla da biliardo oppure un pianeta,

purché le dimensioni dello stesso non abbiano importanza per il problema considerato.  1° Principio: Principio di inerzia. Ogni corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché forze esterne ad esso non intervengano a modificarne lo stato.  2° Principio: L’accelerazione subita da un corpo è in ogni istante proporzionale alla forza agente su di esso. a) F = m  a newton (N) b) m = in kg c) a = in m/s2  3° Principio: Principio di azione e reazione. Dati due corpi A e B isolati, se il corpo A esercita una forza F sul corpo B, il corpo B esercita una forza uguale ed opposta (-F) su A. Lavoro, energia, potenza Lavoro. L = F s cos() [joule, J] con  = angolo fra la direzione della forza e quella dello spostamento s. Energia cinetica. Detta anche “energia di movimento”.

T

1 2 mv 2

[joule, J]

con m = massa in kg e v = modulo della velocità in m/s. In tal caso, l’energia cinetica è dovuta esclusivamente alla velocità della massa considerata. Energia potenziale. Riferibile all’energia dovuta alla presenza di campi di forza gravitazionale, elettrica, magnetica o meccanica. U [joule, J] Nel campo gravitazionale è valida l’equazione: U=mgh con g = 9,81 m/s2 (modulo dell’accelerazione di gravità) e h = altezza in metri.

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Potenza. W = L/t [joule/s = watt = W] con L = lavoro compiuto nell’intervallo di tempo t.

La leva. Un caso particolare di vincolo è la leva, composta da un’asta rigida vincolata in un punto detto fulcro. La condizione di equilibrio è così rappresentabile:

Principio di conservazione dell’energia In qualsiasi fenomeno fisico in cui vi sia una trasformazione di una forma di energia in un'altra (anche senza esecuzione di lavoro meccanico), l’energia totale si conserva. Se consideriamo solo l’energia meccanica e trascuriamo gli attriti si ha che l’energia totale di un corpo che cade al suolo è data, in qualsiasi punto, dalla somma dell’Energia cinetica e dell’Energia potenziale del corpo. In questo modo – nota, durante la caduta, la situazione energetica in qualsiasi istante o in qualsiasi punto del percorso - è possibile determinare altezza e velocità del corpo, in qualsiasi altro istante o punto. Infatti si avrà sempre: U + T = Costante Inoltre se: Uh = Energia potenziale all’inizio della caduta, con v = 0 e T = 0 e T0 = energia cinetica al suolo, con h = 0 e U= 0 si avrà sempre, durante la caduta: U h = T0 e quindi

con

mgh  gh 

§3

1 2 mv 2

e infine

1 2 v 2

CORPI RIGIDI IN EQUILIBRIO (STATICA)

È esperienza comune che l’applicazione di una forza ad un corpo reale non solo lo fa muovere di moto rettilineo, ma lo fa anche “ruotare” e questo perché la forza non è, generalmente, applicata al baricentro e pertanto il corpo non può essere soggetto semplicemente alle leggi del “punto materiale”. Ricordiamo, rispetto a questo concetto, alcune definizioni. Momento di una forza. F  dist  sen() = Fb con dist = distanza fra il punto di applicazione della forza ed il punto di riferimento e b = braccio della forza. (Fig. 2-1) Equilibrio di un corpo rigido. Per avere un corpo rigido in equilibrio non solo occorre che la somma delle forze sia uguale a zero ma che anche la somma dei momenti delle forze sia uguale a zero altrimenti il corpo continua a ruotare. Vincolo di un corpo rigido. Quando un corpo è “vincolato”, il suo movimento è limitato dal vincolo. Per un corpo rigido, la reazione del vincolo annulla la somma delle forze applicate - a vincolo integro - e la condizione di equilibrio deve essere verificata soltanto per la somma dei momentia.

bm  Fm  br  Fr  0 bm = braccio della forza motrice e Fm e bs = braccio della forza resistente Fs. Le leve vengono dette di 1° tipo, di 2° tipo o di 3° tipo in relazione alla posizione del fulcro (Fig. 2-2) (Fig. 2-3) (Fig. 2-4), mentre

G

Fr bm  Fm br

è detto “guadagno meccanico”.

§4

LA MECCANICA DELLA LOCOMOZIONE

Nel corpo umano troviamo numerosi esempi di leve. Il movimento della testa sul collo costituisce una leva di primo tipo con forza motrice costituita dalla muscolatura estensoria - muscoli splenici - tra nuca e base del collo e la forza resistente, ovviamente, dal peso della testa. Il movimento del piede in elevazione costituisce una leva di secondo tipo il cui fulcro è situato sulle dita con forza motrice costituita dai muscoli del polpaccio e forza resistente dal peso che grava sulla caviglia. Infine il sistema braccio-avambraccio costituisce una leva di terzo tipo dove il fulcro è situato nell’articolazione del gomito, con forza motrice costituita dal muscolo bicipite brachiale e forza resistente costituita dalla somma del peso sostenuto dalla mano e del peso dell’avambraccio. Durante la locomozione del corpo umano – deambulazione occorre che le articolazioni - o snodi - si trovino in condizioni di equilibrio determinato dall’azione delle forze peso, dalle reazioni dei vincoli e dalle azioni delle trazioni muscolari. In caso contrario - ed in particolare quando i vincoli non sono in grado di sostenere, per un cattivo posizionamento degli arti, le forze peso - si va incontro a cadute o, nei casi più gravi, anche a rottura. Alle sopraccitate componenti dell’equilibrio è necessario aggiungere le forze di attrito con il suolo - o con il punto di appoggio - senza il quale il movimento sarebbe impossibile. Infatti, quando si cammina su una superficie perfettamente levigata quale il ghiaccio, ogni variazione dell’equilibrio statico comporta una elevatissima probabilità di caduta, mentre sopra un terreno rugoso l’equilibrio viene mantenuto senza sforzo. Per non scivolare, infatti, è necessario che la forza di attrito - che si oppone al movimento del piede e quindi alla scivolata - sia superiore alla forza orizzontale, pari a circa il 15% del peso corporeo, che agisce sul piede stesso.

Lezione 3 - Meccanica dei fluidi 1, 2 §1

GENERALITÀ E DEFINIZIONI

a

Se consideriamo, infatti, un corpo di massa m fermo su un tavolo, il corpo non sarà sottoposto ad alcuna forza, poiché la forza peso è bilanciata dalla reazione del vincolo (tavolo). Se, però, aumentiamo progressivamente la massa, prima o poi, il tavolo cederà ed il corpo, sottoposto soltanto alla forza peso (dovuta alla gravità), cadrà al suolo.

4

I fluidi sono corpi deformabili, cioè corpi che oppongono scarsa resistenza al cambiamento di forma assumendo spontaneamente quella del recipiente che li contiene.


Rientrano in questa definizione i liquidi ed i gas, con la differenza che i liquidi hanno un volume proprio essendo, praticamente, incomprimibili, mentre i gas - facilmente comprimibili - acquisiscono il volume concesso dalla pressione a cui sono sottoposti. Trattiamo ora i fluidi liquidi. I liquidi In un fluido, per il principio di Pascalb, la pressione si trasmette invariata a tutti i punti ed in tutte le direzioni fino alle pareti del recipientec. Da tale legge derivano le principali proprietà che caratterizzano i fluidi. 1) Densità. La densità è il rapporto che intercorre fra la massa del fluido ed il volume da esso occupato e viene calcolata in kg/m3.

d 2)

m V

Pressione. La pressione è il rapporto fra la componente perpendicolare F(  ) di una forza e la superficie S sulla quale la forza si esercita e si calcola in N/m2, una unità di misura chiamata anche “pascal” [Pa].

p

F () S

dove

3)

F(  ) = F cos () con  = angolo fra la direzione della forza applicata e la perpendicolare alla superficie. Pressione idrostatica. La pressione idrostatica è la pressione esercitata dal peso del liquido. In ogni punto del liquido la pressione idrostatica dipende dalla profondità del punto (h) e dalla densità del liquido (d)d:

p  g d h

4)

§2

con g = accelerazione di gravità = 9,81 m/s2. Pressione totale in un punto del liquido. Tale pressione raggiunge un valore che è pari alla somma della pressione idrostatica e della pressione atmosferica in quel punto.

EQUILIBRIO DEI FLUIDI

Principio di Archimede Un corpo solido immerso in un liquido è soggetto ad una forza diretta dal basso verso l’alto - detta “Spinta di Archimede” - che è pari al peso del volume del liquido spostatoe. b

Una pressione esercitata in un punto di una massa fluida si trasmette in ogni altro punto e in tutte le direzioni con la stessa intensità (su superfici uguali). c Se si schiaccia, per esempio, una bottiglietta di plastica piena d'acqua, sul fondo, la pressione si trasmette fino in cima e fa salire il livello dell'acqua. d In particolare, va sottolineato che la pressione idrostatica non dipende dalla superficie del liquido che esercita la pressione, ma soltanto dalla profondità del punto su cui la pressione viene esercitata. e

Questo principio ci fa capire, ad esempio, come può galleggiare una nave composta principalmente di acciaio. Nel suo normale assetto, infatti, il

Se il corpo solido ha densità d1>d il corpo sprofonda. Se d1<d il corpo galleggia e la parte sommersa è data dalla seguente formula (Fig. 3-1):

h1  h

d1 d

Il moto dei fluidi Definizione: la portata di un fluido in movimento attraverso una sezione S è il volume di fluido che attraversa la sezione nell’unità di tempo (m3/s).

Q

V t

Se consideriamo un moto stazionario – cioè privo di turbolenze – che si svolga in un condotto rigido di sezione S, possiamo dire che la portata è costante e che vale:

Q

V  S  v  costante t

con v = velocità del fluido. Teorema di Bernoullì. Applicando il principio di conservazione dell’energia ad un “liquido perfetto” - cioè ad un fluido incomprimibile - che possa muoversi, senza attriti, con velocità v, si ottiene l’assunto del “Teorema di Bernoulli” secondo il quale, in qualsiasi punto del liquido, vale la relazione:

p v2   costante h dg 2 g dove le variabili assumono il seguente significato: h = altezza del fluido p = pressione idrostatica d = densità del fluido v = velocità del fluido g = accelerazione di gravità (9,81 m/s2). Una applicazione pratica del teorema di Bernoulli, ci permette di calcolare la velocità di un liquido che fuoriesce da un foro praticato sul fondo di un recipientef. In questo caso le variabili del sistema assumono i seguenti valori: v1=0; h1=h; p1=p0 mentre all’altro membro dell’equazione si ha: v2=v; h2=0; p2=p0. L’equazione di Bernoulli diventa quindi:

h

p0 p0 v 2   dg dg 2 g

da cui: volume dell’acqua che sposta, galleggiando, comprende tutto il volume della parte sommersa della nave, compresa la parte vuota - o meglio riempita d’aria. Complessivamente, quindi, il peso del volume di acqua che la nave dovrebbe spostare, affondando, risulta superiore al suo stesso peso e ciò le permette di galleggiare. Quando, però, per qualsiasi motivo, la nave imbarcasse acqua, il peso della nave tenderebbe progressivamente ad incrementare fino a raggiungere un peso superiore a quello del volume d’acqua che in quel momento sta spostando e quindi la nave scenderà inesorabilmente fino ad appoggiarsi sul fondo. f La stessa formula determina anche la velocità con cui un corpo di massa m arriva al suolo dopo una caduta da un altezza h. Naturalmente, nel caso del liquido, la velocità di uscita dal foro tende progressivamente a diminuire in quando, con la fuoriuscita del liquido si riduce proporzionalmente l’altezza h del liquido sovrastante rimasto nel recipiente.

5


v 2  2 gh

Q

e quindi:

v  2 gh  2  9,81  h  4,43 h Comportamento dei fluidi nel corpo umano Nella descrizione del sistema circolatorio si può assumere in prima approssimazione che il flusso sanguigno sia “stazionario”, che i vasi siano “rigidi” e che esso si comporti come un “liquido omogeneo perfetto”, cioè sia incomprimibile e privo di viscosità. In questo caso, considerando il volume del sangue fisso - circa 6 litri per una persona adulta - si può considerare la portata media una costante del valore di circa 5 litri/minuto. Ricordando la definizione di portata,

V Q   S v t si ricava che la velocità del sangue è inversamente proporzionale alla sezione del vaso sanguigno in cui scorre. Naturalmente, in caso di diramazioni “in parallelo”, l’area complessiva è la somma delle aree dei singoli piccoli vasi (arteriole, venule e capillari). È per questo motivo che passando dalle arterie alle arteriole e quindi ai capillari la velocità diminuisce nonostante diminuisca la sezione dei singoli vasi. Ciò che aumenta è il numero dei vasi e quindi l’area complessiva. Il contrario succede passando dai capillari alle venule ed infine alle vene. Applicando, infine, il teorema di Bernoulli ad una arteria stenotica - cioè ristretta - si calcola che: 2

2

p v p v h1  1  1  h2  2  2 dg 2 g dg 2 g e quindi, considerando h = costante, si conclude che: 2

Poiché v2 > v1, a causa del restringimento del vaso, consegue che p2 < p1, cioè che la pressione laterale, a livello della stenosi, diminuisce e favorisce così, ancora di più, il restringimento dell’arteria. Nell’aneurismag, al contrario, risultando v2 < v1 a causa dell’allargamento del vaso, consegue che p2 > p1 cioè che la pressione laterale, a livello dell’aneurisma, aumenta e favorisce così la rottura dell’arteria. Fluidi viscosi: moto reale del sangue A causa delle forze di attrito che si oppongono al moto del sangue inteso come liquido “viscoso”, il teorema di Bernoulli non è applicabile senza correzioni. In particolare risulta che per far scorrere il sangue in un condotto orizzontale con portata Q costante, occorre applicare agli estremi del vaso sanguigno una differenza di pressione Δp per superare le forze di attrito. La resistenza del vaso sanguigno R vale:

8   l  r4

con  = viscosità del sangue e l ed r, rispettivamente, lunghezza e raggio del vaso. La portata diventa, così: g

Dilatazione della parete dell’arteria.

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e quindi:

Q

 r4  p 8   l

cioè, a parità di resistenza - e aumentando la variazione di pressione, come avviene, ad esempio, sotto sforzo fisico aumenta la portata cardiaca. Risolvendo la stessa formula per la variazione di pressione, si ottiene:

p 

8   l Q  r4

Quest’ultima relazione dice che per mantenere costante la portata cardiaca, la variazione di pressione da applicare e quindi lo “sforzo” a cui è sottoposto il cuore dipende dalla resistenza dei vasi sanguigni. In particolare, in caso di stenosi di un’arteria - per esempio diminuendo il raggio del vaso del 10% - si ha la necessità di incrementare la pressione di oltre il 50%. Sempre utilizzando questa formulah si può vedere che, nel caso di uno sforzo fisico con necessità di una portata cardiaca Q1>Q, la variazione di pressione necessaria è molto maggiore nel caso di arteria con stenosi rispetto al caso di arteria pervia (Fig. 3-2).

Lezione 4 - Leggi dei gas1, 2 §1

TEMPERATURA E CALORE

2

p1 v1 p v   2 2 dg 2 g dg 2 g

R

p R

Il concetto di temperatura di un corpo è legato alle percezioni quotidiane di caldo e freddo. La temperatura è la grandezza fisica che descrive lo stato termico di un sistema e la sua capacità di scambiare energia sotto forma di calore espresso in calorie - con l'ambiente o con altri corpi. Dal punto di vista microscopico la temperatura di un corpo è legata all'energia cinetica media delle molecole che lo costituiscono che corrisponde al quadrato della loro velocità media. La misura della temperatura si ottiene, generalmente, attraverso gli effetti del riscaldamento - o del raffreddamento - di un corpo. Per esempio, nel termometro, l'allungamento della colonna di mercurio, all’interno del tubicino che lo contiene, è proporzionale alla sua temperatura che provoca un incremento del suo volume. Oppure, se si cede calore a un gas ideale contenuto in un recipiente a volume fisso, l'aumento di temperatura è proporzionale alla variazione di pressione nel recipiente. Nel Sistema Internazionale si utilizza la scala della temperatura assoluta T, misurata in gradi kelvin (K) mentre sono ampiamente utilizzate altre scale come quella celsius (°C) o quella fahrenheit (°F). Storicamente nella scala celsius la temperatura di equilibrio tra ghiaccio e acqua alla pressione di una atmosfera h

Diventa, quindi, estremamente importante agire sui fattori che possono provocare un restringimento dei vasi sanguigni (una delle più frequenti cause di ipertensione), in modo da non sottoporre il cuore ad uno sforzo eccessivo.


(ghiaccio fondente) è stata definita come punto 0°C e la temperatura di equilibrio tra l’acqua ed il suo vapore saturo alla pressione di una atmosfera (acqua che evapora) come punto 100°C. La corrispondenza fra le tre scale si basa sulle seguenti relazioni:

T (K)  t(C)  273,16 9 t ( F )  32  t (C ) 5 Quando due corpi a temperature diverse sono posti a contatto e sono isolati dall’ambiente esterno, il calore passa spontaneamente dal corpo a temperatura maggiore (t2) a quello a temperatura minore (t1), fino a che viene raggiunta una temperatura di equilibrio secondo la relazione: Q1 (calore ceduto) = Q2 (calore assorbito) e quindi

c1m1 (t1  t e )  c2 m2 (t e  t 2 ) con t1>t2 e C = calore specifico (in cal/g°C).

§2

MECCANISMI DI CONDUZIONE DEL CALORE

Lo scambio di energia necessario affinché due corpi, posti a contatto, raggiungano la temperatura di equilibrio, avviene attraverso tre meccanismi: Convezione. Attraverso questo primo meccanismo, la propagazione del calore avviene mediante trasporto di materia. Un meccanismo analogo si ha quando si fa circolare un fluido - come il sangue - attraverso zone a temperature diverse. La rapidità con cui il calore viene trasmesso dipende dalla superficie emittente e dalla differenza di temperatura fra il corpo più caldo e quello più freddo. Conduzione. La conduzione è un meccanismo che si verifica soprattutto nei solidi e non è accompagnato da trasporto di materia. Il passaggio del calore, infatti, avviene attraverso plurime collisioni molecolari lungo la superficie di contatto che provocano un trasferimento di energia cinetica dalle molecole “più calde” a quelle “più fredde”. La rapidità con cui il calore viene trasmesso dipende dalla superficie di contatto e dalla differenza di temperatura fra il corpo più caldo e quello più freddo. Irraggiamento. L’irraggiamento termico - che si affronterà nel dettaglio alla lezione 5 - è un fenomeno di trasmissione del calore che si manifesta per tutti i corpi in funzione esclusivamente della loro superficie.

§3

LEGGI DEI GAS PERFETTI

La pressione, così come definita nella lezione 3, nel caso dei gas può essere indicata in atmosfere (atm) o in torricelli (torr). La corrispondenza fra le due scale è regolata dalla formula: 1 atm = 760 torr =101325 Pa dove 1 atm è la pressione esercitata dalla colonna d’aria che ci sovrasta e 1 torr è la pressione esercitata da una colonna di mercurio alta 1 mm. Se consideriamo un gas composto da molecole puntiformi dotate soltanto di energia cinetica e che si urtano in modo perfettamente elastico - cioè senza dissipazione di energia in calore - abbiamo un “gas perfetto”. I gas reali si comportano con buona approssimazione come i gas perfetti quando sono piuttosto rarefatti. Per i gas perfetti vale la seguente legge:

pV  p0V0 (1    t ) con

1 (°C-1) 273,16 dove p0 e V0 rappresentano la pressione ed il volume a zero gradi °C, mentre P e V sono la pressione ed il volume alla temperatura t (°C). Considerando che, secondo la legge di Avogadro, una grammomolecola - 6,0231023 molecole - di un qualsiasi gas perfetto occupa, alla temperatura di 0°C ad alla pressione di una atmosfera, un volume V0 pari a 22,41 litri e considerando, inoltre, che T = t + 273,16 (K) è possibile scrivere la legge generale dei gas come: pV  p 0V 0  T  nRT con n = numero di grammomolecole, R = 0,082 litri atmosfera/(K mole) = 8,325 J/(K mole) e T = temperatura assoluta (K). Per cui: 1) se la temperatura rimane costante (Fig. 4-1) si ha la Legge di Boyle: pV  Costante 2) se la pressione rimane costante (Fig. 4-2) si ha la prima legge di Gay_Lussac: V  V0 (1    t ) 3) se il volume rimane costante (Fig. 4-3) si ha la seconda legge di Gay_Lussac:



p  p0 (1    t )

Per concludere, nel descrivere il comportamento dei gas reali si deve utilizzare una formula empirica detta “equazione di stato” di Van der Wall:

(p 

a )  (V  b)  nRT V2

dove sono state introdotte le costanti correttive a e b che sono, ovviamente, diverse per ogni gas.

§ 4 LAVORO E PRINCIPI DELLA TERMODINAMICA Durante la trasformazione di un sistema termodinamico, le forze interne al sistema compiono o subiscono, in generale, un lavoro meccanico, a spese o a vantaggio dell’energia interna del sistema; così se il gas di un recipiente si espande muovendo un pistone, il lavoro compiuto sul pistone va a spese della temperatura del gas che diminuisce. Il lavoro compiuto o subìto da un sistema termodinamico è soggetto ai due principi della termodinamica. Primo principio. Il primo principio asserisce che: “la somma della quantità di lavoro Q e del lavoro L, scambiati da un sistema termodinamico con il proprio ambiente, è uguale alla variazione U dell’energia interna”. Secondo principio. Il secondo principio della termodinamica asserisce praticamente che “non è mai possibile - nemmeno in via teorica - trasformare tutto il calore ceduto da un sistema in lavoro meccanico, poiché una parte di questo calore, inevitabilmente, si disperderà”. Si ricorda che, invece, è possibile, anche se soltanto teoricamente, trasformare tutto il lavoro compiuto da un sistema, in calore.

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Il corpo umano è una macchina biologica ad “energia chimica” nella quale non tutta l’energia liberata dalle reazioni chimiche è disponibile per compiere un lavoro. Ciò significa che la nostra è una macchina a rendimento limitato sia perché gran parte dell’energia serve per “tenere in vita il motore” e sia perché parte dell’energia viene trasformata in calore all’interno dei muscoli.

§5

TERMOREGOLAZIONE DEGLI ANIMALI A SANGUE CALDO

Negli animali a sangue caldo, come gli uccelli ed i mammiferi, la temperatura del corpo, entro i limiti delle sue capacità fisiologiche, si mantiene praticamente costante ed indipendente dalle condizioni ambientali esterne. La circolazione del sangue, anche attraverso il meccanismo della convezionei, consente di ottenere all’interno del corpo una temperatura uniforme, ma, affinché la temperatura rimanga comunque costante, occorre che la quantità il calore prodotta all’interno sia uguale alla quantità di calore

eliminata verso l’esterno attraverso la superficie corporea. Nell’uomo - la cui temperatura interna è circa di 37°C - i principali meccanismi di dissipazione, a costante umidità relativa dell’aria, fino ad una temperatura ambientale di circa 30°C, sono la conduzione tra la pelle e l’aria e l’irraggiamento. Nel primo caso l’eliminazione del calore avviene attraverso il contatto diretto con trasferimento di parte dell’energia cinetica delle molecole della pelle alle molecole dell’aria. Nel secondo caso l’eliminazione del calore avviene per irraggiamento di energia elettromagnetica da parte della superficie cutanea. Se la temperatura ambientale supera i 30°C i meccanismi sopradescritti perdono progressivamente la loro efficacia e la dissipazione del calore avviene attraverso la respirazione e la sudorazione. In entrambi i casi il raffreddamento è ottenuto dalla evaporazione di liquido - quasi esclusivamente acqua dalla superficie del corpo. Diverso e spesso più drammatico è il fenomeno che conduce all’ipotermia. Quando il corpo non è più in grado di rigenerare il calore che viene disperso verso l’ambientej, la temperatura corporea diminuisce progressivamente. Già a partire da una temperatura interna attorno ai 32°C si ha una progressiva perdita di coscienza, mentre attorno ai 30°C

RIEPILOGO LA FISICA DEL CORPO UMANO. LEZIONE 2 Sono schematicamente presentati le leggi della dinamica e della statica; vengono poi definiti i concetti di energia, lavoro e potenza e viene discusso il principio di conservazione dell’energia. Sono poi trattate le condizioni di equilibrio dei corpi rigidi con riferimento alle leve presenti nel corpo umano. la religione e la storia hanno da sempre contribuito a ridurre nella donna il rapporto di accettazione e di stima nei confronti del proprio apparato enitale LEZIONE 3 Viene trattata la meccanica dei fluidi a partire dalla definizione di densità, pressione e pressione idrostatica ed è illustrato il principio di Archimede. Lo studio del moto dei fluidi considera dapprima un fluido ideale con l’enunciazione del teorema di Bernoulli e poi considera i fluidi reali fino allo studio della circolazione del sangue. La cultura, la religione e la storia hanno da sempre contribuito a ridurre nella donna il rapporto di accettazione e di stima LEZIONE 4 A partire dalle definizione di temperatura e calore, vengono presentate le leggi dei gas perfetti e le correzioni necessarie per lo studio dei gas ideali. I concetti di lavoro e temperatura sono poi estesi fino alla enunciazione del primo e del secondo principio della termodinamica. Infine vengono illustrati i meccanismi di termoregolazione degli animali a sangue caldo e gli effetti della mancata termoregolazione sull’uomo. possono intervenire problemi cardiaci e, successivamente, la morte.

j i

Scambio di calore mediante il movimento di un fluido in cui esiste una differenza di temperatura.

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Per esempio nel caso di immersione prolungata in acqua alla temperatura di 10-15°C o meno, oppure nel caso di pernottamenti o prolungate esposizioni in ambienti con temperature di diversi gradi sotto zero.


SEZIONE 3 – LE RADIAZIONI IN MEDICINA. Nella sezione 3 si apprendono i concetti relativi alle radiazioni ionizzanti e non ionizzanti e la loro applicazione in medicina. L’utilizzo delle radiazioni in medicina sia per scopi diagnostici che terapeutici apporta grandi benefici ai pazienti e il loro impiego è in continua espansione. Non va però dimenticato che le radiazioni di qualsiasi tipo possono avere effetti negativi e pertanto il loro utilizzo deve rispettare le normative in materia di protezione dei pazienti e degli operatori.

Lezione 5 - La Struttura della materia 1, 2 La composizione della materia Lo studio della struttura della materia è un valido mezzo per comprendere il mondo che ci circonda. Esistono però diversi gradi di profondità ai quali si può giungere studiando la struttura della materia, in funzione degli scopi, del tipo di radiazione o dei meccanismi di interazione. Per quanto interessa il nostro approfondimento e cioè l’interazione delle radiazioni ionizzanti - è possibile limitarsi ai seguenti aspetti. 1) La materia è composta da raggruppamenti di atomi - o nuclidi - i quali, da elemento ad elemento, sono diversi e rappresentano la più piccola struttura che ne conserva le proprietà chimiche. Di questi elementi diversi 91 esistono in natura, ai quali possiamo aggiungere una quindicina prodotti artificialmente dall’uomo: il tecnezio e tutti gli elementi transuranici (Tab. 5-1). 2) Ciascun atomo è composto da un nucleo centrale che contiene due tipi di particelle, protoni (p) e neutroni (n), ai quali si aggiunge una zona esterna che contiene elettroni (e) (Fig. 5-1). 3) I protoni ed i neutroni - detti nucleoni - hanno approssimativamente la stessa massa pari ad 1 u.m.a., cioè a 1/12 della massa del principale isotopo del carbonio (carbonio-12). I protoni possiedono una carica positiva, convenzionalmente unitaria (+1), pari a 1,60·10-19 Coulomb. I neutroni invece non possiedono alcuna carica e si suppone che abbiano la funzione di contribuire a mantenere compatto, con azioni a “corto raggio”, il nucleo che, in caso contrario, tenderebbe a disintegrarsi sotto l'azione repulsiva della carica positiva dei protoni. Gli elettroni, infine, hanno una massa di circa 1/1840 u.m.a. e portano una carica negativa unitaria (-1). Gli elettroni ruotano attorno al nucleo su orbite prefissate, dette orbitali, a ciascuno dei quali compete una determinata energia di legame pari alla forza necessaria per staccargli l'elettrone che lo percorre. Le dimensioni di un atomo misurano approssimativamente 10-8 cm, mentre quelle del solo nucleo, dove è praticamente concentrata tutta la materia, sono di circa 10-12 cm, (10000 volte più piccolo): ciò significa che gran parte dello spazio occupato da un atomo è in realtà vuoto. 4) In condizioni normali, infine, il numero di elettroni di un qualsiasi atomo è uguale al numero dei suoi protoni, condizione che crea un sistema elettricamente neutro.

2

La descrizione della materia Ciascun atomo, o più semplicemente nuclide - dato che, come si vedrà in seguito, esistono configurazioni nucleari diverse anche per gli atomi dello stesso elemento - può essere descritto con i simboli: A Z

X

dove X rappresenta l'elemento chimico, Z il numero di protoni o numero atomico e A il numero totale di nucleoni o numero di massa (A = Z + N; con N = numero di neutroni). Osserviamo tale configurazione nella figura 3 dove le lettere K, L, M, N, P, Q, etc. rappresentano gli orbitali occupati dagli elettroni. Ad ogni orbitale corrisponde una determinata energia di legame che però è atomo-specifica, incrementandosi - nel confronto fra orbitali omologhi - con il numero atomico Z. D’altra parte, per ciascun elemento - le cui proprietà chimiche sono definite unicamente dal numero atomico (Z) possono però esistere diverse configurazioni atomiche in relazione al numero – variabile - di neutroni contenuta nel nucleo, a parità di protoni (Z). I Nuclidi con tali proprietà sono detti “isotopi” dell'elemento X. Due isotopi dello stesso elemento saranno quindi descritti come: A1 Z

Xe

A2 Z

X

dove, essendo Z = costante e N1  N2, risulta essere A1=Z+N1A2=Z+N2 Per semplicità, poiché X e Z indicano lo stesso elemento cioè un nuclide con lo stesso numero di protoni, è sufficiente definire l’elemento utilizzando il simbolo: AX. Le radiazioni Le radiazioni si possono dividere in corpuscolari ed elettromagnetiche. Le radiazioni corpuscolari. Queste provengono esclusivamente dal nucleo durante il decadimento radioattivo oppure in seguito all’urto di atomi con altre particelle e comprendono: 1) particelle beta () che hanno la stessa massa degli elettroni ma possono avere carica +1 e –1; 2) particelle alfa () che sono composte da due protoni e due neutroni cioè da un atomo di elio senza elettroni; 3) protoni (p) che hanno carica +1 4) neutroni (n) che sono privi di carica; 5) prodotti di fissione. Le radiazioni elettromagnetiche. Queste radiazioni sono interamente comprese nel cosiddetto “spettro elettromagnetico” le cui caratteristiche sono illustrate nella figura 2 (Fig. 5-2).


L’interazione delle radiazioni corpuscolari con la materia provoca l’estrazione di uno o più elettroni dagli atomi colpiti determinando la “ionizzazione della materia” con formazione di ioni positivi - atomi privi di uno o più elettroni - e di ioni negativi – elettroni - strappati dall’atomo. L’interazione delle radiazioni elettromagnetiche con la materia dipende dal tipo di radiazione e le modalità di interazione possono molto schematicamente essere riassunte nella tabella 2 (Tab. 5-2). Da questa tabella si ricava che soltanto i raggi X, i raggi  e una piccola parte di radiazione ultravioletta è in grado di ionizzare la materia mentre tutta la restante porzione dello spettro elettromagnetico non ha energia sufficiente per strappare un elettrone da un atomo. L’emissione delle radiazioni Un corpo può emettere radiazioni sfruttando 4 principali meccanismi:  il decadimento radioattivo;  l’emissione di radiazione elettromagnetica;  l’emissione di raggi X caratteristici;  la produzione di raggi X. Studiamoli singolarmente. Decadimento radioattivo. Il decadimento radioattivo avviene perché il nuclide padre si trova in una condizione energetica instabile dalla quale esce emettendo radiazioni corpuscolari e, a volte, radiazioni elettromagnetiche sotto forma di radiazione . Nel corso di un decadimento radioattivo avviene la trasformazione di un elemento in un altro in quanto il numero atomico (Z) del nuclide figlio è diverso da quello del nuclide padre secondo la relazione: A Z

X  Z11Y  radiazione corpuscola re  γ A

potenza della temperatura del corpo (in K), mentre la distribuzione spettrale ha un massimo per una lunghezza d’onda (in metri) data dalla formula:

 max 

0,002897 T

Per temperature superiori a 5000 K il corpo emette radiazione elettromagnetica nel visibile e passa progressivamente ad essere incandescente fino al così detto color bianco. L’emissione di raggi X caratteristici (Fig. 5-3). In seguito alla ionizzazione, un atomo si trova privo di uno o più elettroni. Il ritorno allo stato normale avviene mediante la cattura di elettroni liberi provenienti dall’ambiente che circonda l’atomo stesso e susseguente emissione di radiazione elettromagnetica corrispondente alla energia di legame degli orbitali coinvolti nel processo di ionizzazione. Tale radiazione elettromagnetica prende il nome di “raggi X caratteristici” in quanto tipici di ciascun atomo o nuclide (definito da Z ad A). La produzione di raggi X. Qualsiasi carica che si muova di moto accelerato - cioè con variazione di velocità - emette radiazioni elettromagnetiche. Questo fenomeno è sfruttato per produrre raggi X a scopo diagnostico o terapeutico. Gli elettroni che fuoriescono da un filamento percorso da corrente per effetto termoionico, vengono accelerati da un elevata differenza di potenziale - alta tensione - e fatti urtare contro una superficie di materiale ad alto numero atomico (Z) che, generalmente, è rappresentato dal tungsteno. L’urto provoca una brusca frenata – decelerazione - con emissione di raggi X che vengono convogliati verso una apertura ed impiegati per uso clinico.

(correlazi one dipendente dal nuclide)

Se il nuclide figlio è stabile il decadimento si arresta; se invece il nuclide figlio è radioattivo si apre una reazione a catena radioattiva che si arresta soltanto quando l’ultimo “figlio” è stabile. Ogni nuclide radioattivo, oltre che dal tipo di radiazione emessa (, +n con eventualmente raggi ), è caratterizzato dal tempo di dimezzamento, un intervallo di tempo oltre il quale la radioattività del nuclide si dimezza. Il tempo di dimezzamento di ogni elemento è estremamente variabile come si vede negli esempi seguenti: 219 Fr  T1 / 2  21 ms 87

212 84 87 37

Po  T1 / 2  0,3 s

Rb  T1 / 2  47 miliardi di anni

14 C  T1 / 2  5730 anni 6 L’emissione di radiazione elettromagnetica. A qualsiasi temperatura, un corpo emette radiazioni elettromagnetiche dette radiazioni termiche in quanto provocate dall’agitazione molecolare termodipendente. Nelle condizioni ideali di un corpo con caratteristiche di radiatore/assorbitore perfetto, lo spettro di emissione non dipende né dalla sua composizione né dalla sua forma, ma esclusivamente dalla temperatura raggiunta. L’intensità della radiazione dipende dalla quarta

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Lezione 6 Radiazioni e Medicina 1-3 §1

L’IMPIEGO DELLE RADIAZIONI

L’impiego delle radiazioni in medicina è ritenuto, a ragione, di fondamentale importanza per la salute dei pazienti tanto che le loro applicazioni si moltiplicano, giorno dopo giorno, in contributi diagnostici e terapeutici in costante affinamento. Elenchiamo i loro principali impieghi in medicina nella tabella 1 (Tab. 6-1). Vediamo ora, in sintesi, le principali modalità di interazione dei vari tipi di radiazione per comprendere il loro uso diagnostico o terapeutico. I raggi X I raggi X che appartengono allo spettro elettromagnetico vengono utilizzati in radiodiagnostica in quanto il loro assorbimento, oltre che dall’energia, dipende principalmente dalla densità del corpo attraversato. Una radiografia ci permette quindi di distinguere organi, tessuti e/o strutture che hanno densità diversa. I raggi X che attraversano il corpo ed impressionano una pellicola radiografica ci danno, in seguito allo sviluppo del tutto simile a quello di una fotografia, una immagine “negativa” cioè la pellicola è tanto


più scura quanta più radiazione ha attraversato il corpo. Così i polmoni ci appaiono più scuri del tessuto molle che, a sua volta, risulta più scuro delle ossa. Il contrario accade quando l’immagine è formata sullo schermo di un monitor (radioscopia), infatti, in questo caso, l’immagine è tanto più chiara quanta più radiazione ha attraversato il corpo (immagine positiva). I raggi X ad alta energia sono impiegati anche in campo oncologico per la loro capacità di distruzione di tessuti tumorali posti in profondità nel corpo. Le radiazioni  e , provenienti da materiali radioattivi, sono impiegati prevalentemente per uso diagnostico e, più raramente, terapeutico, in campo oncologico. Le sorgenti di UVA Le sorgenti di UVA sono costituite essenzialmente da lampade contenenti vapori a bassa o ad alta pressione - neon, mercurio, idrogeno o xenon - funzionanti a scarica elettrica, che emettono una radiazione spesso focalizzata con sistemi ottici come paraboloidi, specchi od altre superfici riflettenti. Le lampade possono essere singole o installate in più unità vicine tali da formare delle vere e proprie batterie di irradiazione per l’intero corpo (“total body“). Fotodermatologia. In fotodermatologia l’esposizione di pazienti alla sola radiazione di specifiche bande UV fototerapia - è un trattamento altamente efficace e tollerabile per numerose dermatosi quali psoriasi, micosi fungoide, vitiligine e fotodermatosi. I raggi utilizzati possono essere: a banda stretta UVB o a banda larga UVB, UVA, UVA1 e UVAB. L’esposizione a UVA può inoltre essere associata alla somministrazione di farmaci, come gli psoraleni, il cui effetto viene stimolato o potenziato proprio dalla radiazione che investe la cute del soggetto trattato (fotochemioterapia o PUVA-terapia). In ortopedia, inoltre, vengono impiegate lampade a UV per indurire o saldare i composti chimici di cui sono fatte alcuni tipi di protesi ossee. Odontoiatria. Anche in odontoiatria vengono impiegate lampade a UV per indurire - provocando un cambio di stato fisico, detto polimerizzazione – le resine utilizzate per la ricostruzione dentaria. Laboratori. Nei laboratori di analisi e di ricerca si utilizzano lampade a radiazioni UVC per sterilizzare le colture cellulari da agenti patogeni sensibili a questo trattamento oppure le radiazioni UVA e UVB per studiare attraverso l’uso di sistemi ottici come i microscopi ed i diffrattometri - alcune strutture materiali o molecolari. L.A.S.E.R. L’acronimo L.A.S.E.R. deriva dalla espressione inglese “Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation” ovvero “amplificazione della luce mediante emissione stimolata di radiazione”. Il fascio LASER viene generato attraverso un processo di amplificazione, detto “emissione stimolata”, di un sistema atomico eccitato che costituisce il “mezzo attivo”. Il mezzo attivo può essere costituito da materiale solido, semiconduttore, liquido o gassoso. I mezzi attivi più utilizzati per i LASER medicali sono l’Anidride carbonica (CO2), l’Argon, il Kripton, il Neodimio-YAG, l’Holmio-YAG, l’Arseniuro di Gallio (Ga-As). L’emissione di luce LASER è caratterizzata da una lunghezza d’onda espressa in nanometri (nm) che determina anche il potere di assorbimento da parte dei tessuti e quindi il loro impiego. Le potenze emesse variano da pochi milliwatt fino ad un centinaio di watt. Inoltre l’emissione può essere continua o

pulsata. La luce LASER è fortemente direzionale e non perde la sua energia nel propagarsi anche per riflessione. Il fascio di radiazione LASER, visibile o invisibile, viene in genere utilizzato attraverso fibre ottiche e/o adeguati manipoli o sistemi di specchi che ne consentono l’applicazione nel sito richiesto. In alcune tecniche il fascio viene utilizzato attraverso sistemi di riflessione a specchio collegati a dei micro-manipolatori. In medicina sono prevalentemente utilizzati Laser di Classe 3B o 4 che sono quelli più pericolosi. Chirurgia riparativa. Le sue caratteristiche intrinseche ne consentono l’uso in chirurgia per il taglio, la coagulazione e la vaporizzazione di tessuti con estrema precisione ed in fisioterapia per la terapia dei dolori articolari e degli stati infiammatori muscolari. In chirurgia la possibilità di veicolare il fascio LASER attraverso una fibra ottica per via laparoscopica o endoscopica, all’interno del corpo umano, ha aperto nuovi orizzonti consentendo ai chirurghi di migliorare l’efficacia e l’efficienza del loro operato con grandi vantaggi per i pazienti. Per tali motivi - e anche per la facilità di impiego - i LASER chirurgici sono in crescente diffusione presso strutture sanitarie pubbliche e private in molte specialità, quali ginecologia, otorinolaringoiatria, oculistica, urologia, chirurgia vascolare, pneumologia, odontoiatria, dermatologia, ortopedia, neurochirurgia, cardiochirurgia, gastroenterologia. Chirurgia estetica. In campo estetico le sorgenti LASER vengono utilizzate per la depilazione cutanea, per l’eliminazione di piccole imperfezioni della cute o per la stimolazione dei tessuti superficiali in associazione a farmaci ad uso topico. Fisioterapia. In fisioterapia viene utilizzata sia la tecnica “a contatto” sia la tecnica “a scansione”a per la terapia di diverse patologie a carico di tendini ed articolazioni. Altri impieghi. Sono inoltre presenti in ambito sanitario:  sorgenti laser di classe 2, impiegate come sistemi di puntamento dei laser chirurgici o terapeutici e di posizionamento di pazienti in radiodiagnostica e radioterapia;  sorgenti laser di classe 3B, utilizzate come strumenti dissettori di campioni biologici per analisi di anatomia patologica o per indagini spettrometriche. Rischi. Il proliferare di queste sorgenti comporta la necessità di valutare attentamente i rischi per i lavoratori addetti ed i pazienti, in considerazione del fatto che si tratta di sorgenti classificate ad alto rischio da specifiche norme tecniche che richiedono l’impiego di occhiali protettivi (Fig. 6-1). Campi elettromagnetici In risonanza magnetica i campi elettromagnetici ed il campo magnetico statico sono sfruttati per avere un’immagine tomografica del corpo umano basato sulla densità protonica dei tessuti analizzati e sulle loro differenti risposte alle sollecitazioni del campo elettromagnetico. In terapia fisica le applicazioni dei campi elettromagnetici si possono distinguere in:  magnetoterapia;  marconiterapia;  radarterapia; a

Il fascio, in questo caso, viene riflesso da una serie di specchi in movimento sincronizzato per irradiare superfici corporee delimitate.

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 ipertermia. Le prime tre sono impiegate esclusivamente per la loro specifica azione sulla varie patologie per le quali è indicato il trattamento mentre la quarta è impiegata anche in campo oncologico in associazione con la chemioterapia e la radioterapia. Magnetoterapia. La magnetoterapia utilizza campi magnetici a bassa frequenza, in genere da 1 a 100 Hz, variamente modulati. Nel trattamento “total body” il paziente viene posizionato all’interno di bobine (fino a tre per lettino) oppure quasi a contatto con una serie di bobine inserite nel lettino per il trattamento. Nel trattamento “localizzato” sono impiegate bobine di varie forme e dimensioni che vengono posizionate in corrispondenza dei punti da trattare (Fig. 6-2). Marconiterapia. La marconiterapia utilizza campi elettromagnetici alle frequenze di 27,12 MHz e, più raramente, di 40,68 MHzb. L’apparecchiatura consiste di un generatore trasmettitore e di vari applicatori (antenne) - in funzione delle patologie da trattare – ed è capace di una potenza massima di 500 W (watt). Attualmente è sempre meno utilizzata. Radarterapia. L’apparecchiatura è costituita da un generatore ad emissione continua o pulsata, con potenze di picco che raggiungono i 1000 W e potenze medie di 250-300 W. La frequenza del campo elettromagnetico utilizzato è quasi esclusivamente di 2,45 GHz anche se, in alcuni centri, sono ancora in funzione apparecchiature alla frequenza di 915 MHz. A causa dell’alta frequenza, gli applicatori sono tutti di tipo “radiativo” anche se le forme e soprattutto le dimensioni possono essere notevolmente diverse in funzione dell’estensione della zona di trattamento. Ipertermia. Le apparecchiature per ipertermia utilizzano campi elettromagnetici alle frequenze fisse di 13,56 MHz, 27,12 MHz, 433,92 MHz, 915 MHz e 2,45 GHz (frequenze ISM) oppure con frequenza variabile da 1 MHz a 1 GHz. L’ipertermia può essere utilizzata per il trattamento di patologie muscolari, tendinee, articolari in alternativa alla radarterapia oppure per il riscaldamento di masse oncologiche.

§2

I RISCHI DELLE RADIAZIONI CON CENNI DI PREVENZIONE E DI

PROTEZIONE

L’utilità delle tecniche diagnostiche non deve farci scordare che le radiazioni possono avere effetti indesiderati o molto dannosi per il paziente e per il personale addetto al loro impiego. I Rischi per il paziente Soffermiamoci in particolare sugli effetti delle radiazioni ionizzanti, della radiazione ultravioletta e dei campi elettromagnetici illustrati nella tabella 2 (Tab. 6-2). È evidente che in nessun caso una indagine diagnostica può provocare effetti negativi su di un paziente. L’esposizione deve quindi essere mantenuta al livello più basso sufficiente a risolvere il quesito diagnostico senza il quale il paziente non solo sarebbe sottoposto ad una esposizione inutile, ma

b

Questa è la frequenza ISM, cioè quella consentita per applicazioni Industriali, Scientifiche e Mediche a norma della World Administrative Radio Conference di Ginevra -1979.

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incrementerebbe il proprio rischio clinico derivante da una diagnosi sbagliata o da una terapia incompleta. Radiazioni diagnostiche. Nella stragrande maggioranza dei casi il beneficio che deriva al paziente da una corretta diagnosi è molto maggiore del rischio di effetti indesiderati, anche se, a rigor di logica, ogni indagine diagnostica, merita l’effettuazione di un bilancio fra il beneficio ed il rischio a cui va incontro il paziente che prenda in considerazione l’opportunità di adottare altre tecniche meno pericolose. Radiazioni terapeutiche. Nel caso di impiego terapeutico delle radiazioni, occorre ancora considerare che la loro caratteristica essenziale sfruttata in clinica è proprio l’effetto destruente sulle cellule malate - radiazioni ionizzanti - o sulle cellule della cute – UV - od il riscaldamento prodotto nella profondità del tessuto - campi elettromagnetici. Le dosi somministrate sono quindi necessariamente elevate ed in tali condizioni occorre prestare la massima attenzione nell’esporre soltanto la parte del corpo interessata alla terapia e nel limitare la dose o l’intensità della radiazione al valore minimo necessario per ottenere l’effetto terapeutico. In molti casi l’effetto terapeutico si ottiene mediante un frazionamento della dose che viene somministrata in più sedute anche non consecutive. I Rischi per il personale I rischi sopraccitati possono naturalmente estendersi anche al personale che utilizza le apparecchiature emettenti radiazioni. Nel caso dei lavoratori - rischio professionale - l’esposizione deve essere sempre mantenuta ad un livello sufficiente per: 1) evitare qualsiasi danno che si manifesti soltanto al di sopra di una certa soglia di dose cumulativa assorbita (danno graduato); 2) ridurre al minimo la probabilità che si manifestino effetti a lungo termine o di tipo stocastico, come nel caso delle radiazioni ionizzanti e della radiazione UV, anche in seguito all’assorbimento di basse dosi (effetti probabilistici). La prevenzione e la protezione La prevenzione e la protezione dalle radiazioni si esercita mediante l’attuazione delle seguenti cinque fasi. 1) Individuazione dei pericoli attraverso il censimento delle apparecchiature che sono in grado di emettere radiazioni sia come agente necessario per la diagnosi o la cura sia come prodotto non voluto di un procedimento di diagnosi o di cura. 2) Determinazione del tipo e dell’intensità delle radiazioni emesse dalle sorgenti. 3) Determinazione del rischio mediante un confronto fra l’intensità delle radiazione emesse e i limiti previsti dalle normative nazionale, internazionali e dalle linee guida delle società scientifiche competenti. 4) Adozione di misure tecniche, organizzative e procedurali tali da consentire il rispetto dei limiti di esposizione previsti dalle normative vigenti e da ridurre al minimo i rischi professionali. Tali misure devono privilegiare gli interventi alla fonte per la riduzione del rischio e solo in secondo tempo prevedere l’adozione di mezzi di protezione individuale. 5) Sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti.


Nella figura 3 (Fig. 6-3) sono riportati il cartello segnaletico di pericolo per tubi radiologici ed il dosimetro per la

valutazione dell’inquinamento ambientale.

RIEPILOGO LE RADIAZIONI IN MEDICINA. LEZIONE 5 È discussa la struttura atomica della materia fino a considerare gli isotopi stabili e radioattivi dei vari elementi. Sono poi discussi i vari tipi di radiazioni suddivise in radiazioni corpuscolari e radiazioni elettromagnetiche e in radiazioni ionizzanti e non ionizzanti. Sono illustrati i meccanismi che portano al decadimento radioattivo, all’emissione di raggi X caratteristici, alla produzione di raggi X per uso diagnostico e all’emissione di radiazioni elettromagnetiche. LEZIONE 6 Sono presentati i vari impieghi delle radiazioni in medicina a partire dai raggi X utilizzati per diagnostica e terapia, le radiazioni UV utilizzate per fotodermatologia, odontoiatria e sterilizzazione, la radiazione Laser con svariate applicazioni in ogni settore della medicina, i campi magnetici utilizzati in risonanza magnetica e in fisioterapia. Per ogni tipo di radiazione vengono poi descritti i rischi per i pazienti e per gli operatori sono presentate le misure di prevenzione e protezione da indicare e rispettare.

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CAPITOLO 2

ELEMENTI DI CHIMICA E BIOCHIMICA PER L’OSTETRICIA

Gli elementi di base della Chimica e della Biochimica sono indispensabili alla comprensione della gran parte dei fenomeni vitali, che consistono in trasformazioni chimiche. Si evidenzia in modo particolare che la reattività delle diverse classi di composti organici, trasferita alle biomolecole che entrano nella costituzione della materia vivente, permette di interpretare a livello molecolare i processi metabolici del corpo umano, nella fisiologia e nella patologia della gravidanza e del parto.

SEZIONE 4 - LE BASI DELLA CHIMICA PER L’OSTETRICIA. Si apprendono i principi di Chimica generale. Deve essere posto dall’ostetrica particolare riferimento alla struttura ed alle proprietà dell’acqua ed all’equilibrio acido-base, poiché rappresentano aspetti rilevanti della Chimica nei processi che avvengono nell’organismo.

Lezione 7 – Il legame chimico §1

INTRODUZIONE

La Chimica La Chimica è la scienza che studia la struttura della materia e delle sostanze che la compongono, le sue specifiche proprietà e come le sostanze si trasformano le une nelle altre. La comprensione dei processi chimici è indispensabile per capire i processi legati all’esistenza. Le basi della vita sono chimiche.

§ 2 I costituenti della materia Definizioni (Lez. 1-5 - § 1) La materia. In relazione allo stato fisico, la “materia” - che è tutto ciò che ci circonda, che occupa uno spazio ed ha un peso - può essere classificata come solida, liquida o gassosa. Il passaggio da uno stato di aggregazione all’altro è possibile semplicemente variando la temperaturaa. In relazione, invece, alla sua composizione, la materia si distingue in “individui chimici” e “miscele”. Individuo chimico. Un individuo chimico è una porzione omogenea di materia che ha una composizione chimica definita ed invariabile e può presentarsi come “elemento” o come “composto”.  Elemento. Un elemento - o sostanza allo stato elementare - è una porzione di materia costituita da atomi tutti dello stesso tipo;  Composto. Un composto, o sostanza composta, è una porzione di materia costituita da atomi di più specie. Sono noti poco più di 100 elementi, ma innumerevoli composti hanno origine dalle loro combinazioni. Gli individui chimici hanno talora struttura molecolare, sono formati cioè da un insieme di particelle uguali dette “molecole”. Le molecole possono essere costituite da un solo “atomo” - si parla allora di molecole monoatomiche, a

Si parla, in questo caso, di “trasformazione fisica”.

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come quelle dell’elio (He) - da due - molecole biatomiche, come quelle dell’idrogeno (H2) o dell’acido cloridrico (HCl) - o da più atomi diversi uniti fra loro in modo definito molecole poliatomiche, come quelle dell’acido solforico (H2SO4). In altri casi le sostanze solide o liquide hanno struttura ionica, sono cioè formate da “ioni”, che sono particelle - atomi o gruppi di atomi - con cariche elettriche positive o negativeb. Miscela. Una “miscela” - o miscuglio - è l’insieme di più individui chimici, che possono essere separati fra loro singolarmente con metodi fisici. Miscela omogenea. Una porzione di materia è una miscela omogenea, se, in essa, è riconoscibile un’unica fase e che, entro un certo campo, mantiene una composizione costantec. Miscela eterogenea. Una miscela è eterogenea, se ha composizione diversa da punto a puntod. Gli atomi. Le sostanze allo stato elementare sono costituite da particelle che mantengono le proprietà chimiche dell’elemento e che vengono dette “atomi”. Gli atomi sono particelle estremamente piccolee di cui esistono più di 100 specie che corrispondono ad altrettanti elementi. Ciascun elemento viene rappresentato da un simbolo. Fra gli elementi essenziali, per i processi vitali, ricordiamo il carbonio (C), l’ossigeno (O), l’idrogeno (H) e l’azoto (N), costituenti, prevalenti, dei composti organici presenti nel corpo umano. Vi sono poi altri elementi quali:  il calcio (Ca), che è presente nelle ossa e nei denti, ma è anche correlato alla funzione nervosa, muscolare e alla mobilità cellulare;  il fosforo (P), che si ritrova nelle ossa e nei denti ed è anche correlato agli scambi energetici nella cellula;  il sodio (Na) ed il potassio (K), che rappresentano i principali cationi dell’ambiente, rispettivamente, extracellulare ed intracellulare. b

Il cloruro sodico NaCl o comune sale da cucina, ad esempio, è costituito dagli ioni Na+ e Cl- disposti ordinatamente a formare un cristallo. c L’aria, ad esempio, è una miscela omogenea di più gas. d Il latte, ad esempio, è una miscela eterogenea in cui si distinguono particelle di grassi sospese nell’acqua. e La loro massa è dell’ordine di 10-24 - 10-22 g.


Infine, altri elementi, presenti in tracce, come il ferro (Fe), il rame (Cu), lo zinco (Zn), il manganese (Mn) ed il molibdeno (Mo), sono necessari per l’attività di molti enzimi. L’atomo è, a sua volta, costituito da tre tipi di particelle subatomiche:  Protoni (p). I protoni hanno una carica positiva di +1,602 . 10-19 coulomb, che si assume come unità di carica elettrica positiva.  Elettroni (e). Gli elettroni hanno una carica negativa di -1,602 . 10-19 coulomb, che si assume come unità di carica elettrica negativa.  Neutroni (n). I neutroni non hanno carica. Protoni e neutroni sono presenti nel nucleo, che è diverso da atomo a atomo. Attorno al nucleo, ad una distanza relativamente grande, si muovono gli elettroni, che sono nello stesso numero dei protoni, perché l’atomo è una particella neutra. La quasi totalità della massa dell’atomo si concentra nel nucleo. Ogni atomo è caratterizzato dal “numero atomico” (Z), che indica il numero dei protoni presenti nel nucleo dell’atomo. Ciò comporta che atomi della stessa specie hanno lo stesso numero di protoni con altrettanti elettroni. Il numero atomico viene indicato come pedice a sinistra del simbolof. Il numero corrispondente alla somma dei protoni e dei neutroni di un atomo è detto “numero di massa” (A = Z+N). Il numero di massa viene indicato come apice a sinistra del simbolog. Il numero atomico determina le proprietà chimiche dell’atomo, cosicché tutti gli atomi con lo stesso numero atomico appartengono allo stesso elemento che, però, può presentare numeri di massa diversi a causa di un diverso numero di neutroni. Un atomo contrassegnato da Z e da A si dice “nuclide”h. Nuclidi con lo stesso Z, ma diverso A, appartengono quindi allo stesso elemento, ma si definiscono correntemente “isotopi”. In natura gli elementi si presentano in genere come miscele di isotopii. Solo gli isotopi dell’idrogeno hanno un proprio nome, tutti gli altri si indicano aggiungendo, al simbolo dell’atomo, il numero di massaj. Gli Ioni. Gli ioni hanno un ruolo essenziale nei processi chimici che avvengono nell’organismo. In particolare molte reazioni intracellulari avvengono tra ioni. Un atomo può perdere o acquistare elettroni in una reazione chimica, trasformandosi in uno ione monoatomico che sarà detto:  catione, se si è formato perdendo elettroni ed acquisendo una carica positiva;  anione, se se si è formato acquistando elettroni ed acquisendo una carica negativa. Uno ione monoatomico si indica con il simbolo dell’atomo a cui si aggiungono tante cariche positive o negative, come apice a destra, a secondo della perdita o dell’acquisto di elettroni. Il catione più semplice è lo ione H+ che è detto anche protone perché l’atomo di idrogeno, composto da un protone e da un elettrone, si trasforma nel protone che costituisce il nucleo nel caso di perdita dell’elettrone. Esistono, oltre agli ioni monoatomici, ioni poliatomici, cioè f

H, 6C, 8O. H, 12C, 16O. h1 12 16 1H, 6C, 8O. i Ad esempio, l’idrogeno è costituito dalla miscela degli isotopi 1H, chiamato prozio, 2H, chiamato deuterio e 3H, chiamato trizio. j 14 C è chiamato “carbonio 14”. g

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costituiti da più atomik. Durante una reazione chimica, il nucleo non viene mai modificato poiché le trasformazioni chimiche intervengono sull’assetto elettronico più esterno degli atomi. Peso atomico e mole. Più che le masse atomiche assolute interessano i rapporti con cui i vari atomi si combinano. Nei comuni calcoli chimici si usano pesi atomici relativi a un atomo di riferimento che è il carbonio 12, a cui si è attribuita una massa pari a 12 unità di massa atomica. L’unità di massa atomica è definita come la quantità di materia corrispondente a 1/12 della massa del nuclide 12C e si indica con a.m.u o Dalton ed è pari a 0,166 . 10-23 g. Come per un elemento si parla di peso atomico, così, per una molecola, che è costituita da più atomi, si definisce “peso molecolare” (PM) la somma dei pesi atomici dei singoli atomi, ricavabili dalle relative tabelle. Riferendosi ad una quantità in grammi di un composto corrispondente al suo peso molecolare si può calcolare, sulla base delle masse dei singoli elementi, quante molecole sono contenute in tale quantità. L’analisi conferma che si ottiene lo stesso numero per qualunque composto calcolato. Tale numero - detto “numero di Avogadro” - è pari a 6.023 x 1023 (reciproco della a.m.u.). Una quantità in grammi di un certo composto pari al suo peso molecolare è chiamata “mole”. Si può quindi conoscere il numero di moli presenti in una certa quantità in grammi di una sostanza dividendo il peso in grammi di quella sostanza per il suo peso molecolare. Configurazione elettronica degli atomi Gli elettroni si muovono intorno al nucleo in porzioni di spazio definite “orbitali” descritte con funzioni matematiche contenenti tre parametri, i cosiddetti numeri quantici:  n - che individua il livello energetico,  l - che individua la forma,  ml - che indica l’orientamento nello spazio. Disponendo gli orbitali su una scala energetica avremo una situazione simile a quella descritta nella figura 1 (Fig. 7-1).

E 3d 3p 3s 2p 2s 1s

Figura 7-1 dove i numeri interil 1,2,3 ecc., indicano il livello energetico. Gli orbitali di tipo s hanno forma sferica, gli orbitali di tipo p hanno forma bilobata e gli orbitali di tipo d sono più complessi. Ogni orbitale può contenere al massimo due elettroni che differiscono tra loro solo per il movimento di rotazione su sé stessi. Gli elettroni si dispongono negli opportuni orbitali secondo regole precise che ci consentono di descrivere la “configurazione elettronica” di ogni k l

Ad esempio PO43, ione fosfato o NH4, ione ammonio. Non sono permessi livelli intermedi.

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elementom. Gli elementi con lo strato più esterno completo di elettroni - detti “gas nobili” - sono caratterizzati da una grande stabilità e da una scarsa tendenza a combinarsi con gli altri elementi. Tutti gli elementi tendono a trasformarsi fino ad assumere la configurazione elettronica del gas nobile a loro più simile. Le energie degli orbitali aumentano a partire dall’orbitale 1s, che è quello a minima energia, secondo la sequenza: 1s < 2s < 2p < 3s < 3p < 4s < 3d < 4p < 5s < 4d < 5p < 6s, e così via. Attraverso questo schema distributivo fisso è così possibile prevedere la disposizione degli elettroni in qualsiasi atomo. Tavola periodica degli elementi. La conoscenza della struttura elettronica degli atomi permette di disporre gli elementi, secondo il numero atomico crescente, in una tabella detta “tavola periodica degli elementi”, ove è possibile individuare le loro proprietà chimiche e fisiche sulla base della struttura elettronica esterna degli elementi stessi (Tab. 7-1). Gli elementi sono disposti in righe orizzontali, definite “periodi”, perché alcune delle loro proprietà chimico-fisiche variano periodicamente lungo tali righe orizzontali. Ne risulta che gli elementi che sono disposti lungo le 18 righe verticali, dette “gruppi”, costituiscono famiglie di elementi con proprietà simili. L’analogia delle proprietà chimiche è dovuta alla analogia della configurazione elettronica dei sottolivelli più esterni degli atomi. Ogni periodo corrisponde al riempimento completo di uno strato, per cui si passa, procedendo verso destra, da elementi con pochi elettroni nello strato più esterno - I e II gruppo - fino ad elementi a cui mancano pochi elettroni per raggiungere la “configurazione otteziale”n, arrivando, infine, ai gas nobili del gruppo 18, in cui l’ottetto è completo. La formazione di un legame chimico porta gli elementi a raggiungere la configurazione otteziale stabile dei gas nobili. Ogni casella del sistema periodico corrisponde ad un elemento. Nella casella, sopra al simbolo dell’elemento, si indica il numero atomico e, sotto il simbolo, il peso atomico dell’elemento. Gli elementi del sistema periodico vengono quindi divisi in 4 classi: “gas nobili”, “metalli”, “semimetalli” e “non metalli”.  Gas nobili. Questi atomi hanno il livello energetico più esterno occupato da otto elettroni, ad eccezione dell’elio il cui livello esterno può contenere solo due elettroni. A questa configurazione elettronica esterna corrisponde una particolare stabilità e una notevole inerzia chimica.  Metalli. Questi atomi hanno pochi elettroni nello strato esterno, che tendono a perdere per raggiungere la struttura elettronica esterna del gas nobile che li precede, dando ioni positivi; sono malleabili, duttili, hanno elevata conducibilità termica ed elettrica. Sono generalmente solidi a temperatura ambiente.  Semimetalli. Questi atomi costituiscono elementi di passaggio tra metalli e non metalli ed hanno, quindi, caratteristiche intermedie.  Non metalli. Questi atomi mancano di pochi elettroni per completare lo strato più esterno, tendono a dare ioni negativi. Possono essere solidi a m

Ad esempio il fluoro (9F) sistemerà due elettroni nell’orbitale 1s, due nel 2s e cinque nei 2p e la sua configurazione elettronica si potrà scrivere 1s22s22p5. Per il sodio (11Na) potremo invece scrivere 1s22s22p63s1. n Ciò si riferisce agli otto elettroni, due di tipo s e sei di tipo p, presenti nello strato esterno.

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temperatura ambiente - come il carbonio - o liquidi come il bromo - oppure gassosi - come l’ossigeno e l’azoto. Non sono buoni conduttori.

§3

I LEGAMI CHIMICI

Presupposti per la formazione del legame chimico La capacità degli atomi di legarsi con formazione di un legame chimico e la natura del legame che si instaura dipendono dalla configurazione elettronica degli atomi stessi. La formazione di un legame chimico porta gli elementi a raggiungere la configurazione elettronica esterna stabile dei gas nobili. Tutti gli elementi, esclusi i gas nobili, interagendo fra loro o con atomi diversi, raggiungono configurazioni elettroniche che spesso sono quelle dei gas nobili, quindi di maggior stabilità. Le interazioni tra atomi, che portano al legame chimico, implicano scambi o compartecipazioni di elettroni. Legame ionico. Il legame ionico si forma quando gli atomi di un metallo - cioè di un elemento con uno, due o tre elettroni nello strato più esterno - trasformandosi in cationi per perdita di uno, due o tre elettroni - interagiscono con gli anioni che hanno avuto origine da un non metallo - cioè da un elemento con sei o sette elettroni nel livello più esterno che ha acquistato uno o due elettroni. Consideriamo la reazione fra sodio e cloro per produrre cloruro di sodio (NaCl):

Na

Na+

+ Cl

1

+

5

Cl

2

Cl

3s 3s 3p 2s 2p 3s23p6 Entrambi gli elementi raggiungono la configurazione più stabile - tipo gas nobile - che è, per il sodio, quella del Neon e, per il cloro, quella dell’Argo. L’attrazione elettrostatica che si esercita tra gli ioni Na+, carichi positivamente e gli ioni Cl, carichi negativamente, nel composto cloruro di sodio NaCl, rappresenta il legame ionico. Nei composti ionici allo stato solido e liquido non esistono molecole, ma ogni ione è in relazione “elettrostatica” con un definito numero di altri ioni, all’interno di un cristallo. La formula NaCl indica semplicemente il rapporto fra Na+ e Cl nel cristallo e non esistono molecole discrete di NaCl. Il legame ionico è rappresentato quindi da una interazione di tipo elettrostatico non direzionata poiché tale interazione non interessa un definito ione Na+ ed un altrettanto definito ione Cl. Legame covalente. A differenza del legame ionico, il “legame covalente” prevede la compartecipazione di almeno due elettroni, tra due atomi, per dare origine ad una molecola, cioè al più piccolo aggregato di atomi con caratteristiche chimico-fisiche dell’individuo chimico e capace di esistenza indipendente. Nella molecola del cloro (Cl2), ad esempio, ciascun atomo di cloro ha sette elettroni nello strato esterno e condivide, con l’altro atomo, l’elettrone spaiato:

Cl

2

6

Cl

Cl

3s23p5 3s23p5 3s23p6 3s23p6 in modo tale da raggiungere, complessivamente, la configurazione otteziale dell’Argo. Se si tralasciano gli elettroni non coinvolti nel legame covalente, la molecola Cl2 si può rappresentare come Cl-Cl,


in cui il trattino indica solo un doppietto elettronico e quindi un “legame semplice”. In un altro esempio, sempre tralasciando gli elettroni non coinvolti nel legame, la molecola dell’anidride carbonica CO2 può essere rappresentata come O=C=O, in cui i doppi trattini indicano due “legami covalenti doppi”. Il “legame covalente triplo” - presente, ad esempio, nella molecola biatomica di azoto N2 e rappresentato come NN indica che tre coppie di elettroni sono condivise fra due atomi di azoto. Il legame covalente costituito da una o più coppie di elettroni è direzionato ed è localizzato fra due atomi ben definiti. Un legame covalente in cui entrambi gli elettroni del legame derivano da un unico atomo è detto “legame dativo” o “coordinativo”. Legami dativi sono presenti nello ione ammonio NH4+ (1) e nello ione idrossonio H3O+ (2): +

NH3 + H

H + H N H

(1)

H H

H O H

+

+ H

O H

+

(2)

H

Nello ione ammonio o nello ione idrossonio il legame dativo, una volta formato, è indistinguibile dagli altri legami covalenti presenti, anche se talvolta viene indicato con una freccia che va verso l’atomo che accetta gli elettroni. I composti che presentano più di un legame dativo sono detti di “coordinazione” o “complessi”. Esempi di composti di coordinazione sono il gruppo eme presente nell’emoglobina, la clorofilla e la vitamina B12 nei quali gli orbitali vuoti sono messi a disposizione dallo ione di un metalloo. Ogni molecola ha una sua forma, a seguito della disposizione spaziale dei legami che contiene. Una molecola formata da due atomi, come H2 o O2 è lineare, mentre molecole contenenti atomi di carbonio hanno un assetto in cui la geometria tetraedrica rappresenta il motivo ricorrente. La forma molecolare ha grande importanza in ambito biologico; spesso, infatti, l’interazione fra due molecole richiede la loro complementarietà affinché possano adattarsi l’una all’altra. Con “energia di legame” si intende l’energia necessaria per rompere un legame, cioè per allontanare infinitamente gli atomi in una mole di composto. L'energia di legame è espressa in [kjoule · mole-1] ed è correlata alla “lunghezza di legame”, cioè alla distanza tra i nuclei di due atomi legati. La lunghezza di un legame è tanto minore quanto maggiore è l'energia di legame. Si dice perciò che un legame è tanto più corto quanto più è forte. La lunghezza del legame, inoltre, dipende sia dal tipo di legame che dal tipo di atomi legatip. Elettronegatività. Quando gli atomi sono interessati alla formazione di un legame di tipo covalente per dare una molecola, l’elettronegatività rappresenta la tendenza di un atomo ad attirare su di sé gli elettroni di legame. Ad ogni elemento è stato attribuito un numero che misura questo o p

Fe++, Mg++ e Co++, rispettivamente.

Ad esempio, è di 0,074 nm per il legame H–H, 0,097 nm per il legame H– O e 0,11 nm per H–C. I legami C–C e C=C hanno rispettivamente lunghezze di 0,154 e 0,134 nm; corrispondentemente l'energia di legame aumenta da 349 a 617 kjoule · mole-1.

potere di attrazione e che colloca gli elementi in una scala di elettronegatività. Gli elementi più elettronegativi si trovano in alto a destra nella tavola periodica e quelli meno elettronegativi in basso a sinistra. La differenza di elettronegatività fra due atomi diversi fa sì che un legame covalente possa essere “polare” ove il grado di polarizzazione si può dedurre dalla differenza di elettronegatività fra gli atomi coinvolti nel legame. Il legame covalente presente nell’acido cloridrico H-Cl, a causa della maggiore elettronegatività del cloro rispetto all’idrogeno, è fortemente polarizzato e, quindi, gli elettroni di legame sono più vicini al cloro che all’idrogeno: H : Cl Ciò si evidenzia collocando una parziale carica negativa sul cloro ed una parziale carica positiva + sull’idrogeno:   H Cl In presenza di un legame covalente polare si ha una maggiore densità elettronica sull’atomo più elettronegativo e, in tal caso, la molecola costituisce un “dipolo”q. Per indicare il dipolo si utilizza una freccia che punta verso la parte negativa e che è somma dei singoli dipoli.  O  H H  Interazioni elettrostatiche deboli. In ambito cellulare, quando molecole - o molecole e ioni - entrano in contatto, possono rimanere temporaneamente vicini fra loro ad opera di legami molto più deboli dei legami covalenti, in continue associazioni e separazioni. Le molecole polari si attraggono dando “interazioni dipolo-dipolo” - dette forze di Van der Waals - con energia compresa fra 2 e 20 Kjoule/mole, che non sono direzionali. Si possono avere “interazioni ionedipolo”, a energia di circa 15 Kjoule/mole, responsabili dell’idratazione, cioè della solubilizzazione delle sostanze ioniche in soluzione acquosa per dare “acquoioni”. In tal caso, un catione attrae la parziale carica negativa di un dipolo oppure un anione attrae la parziale carica positiva del dipolo. Esistono anche deboli forze di attrazione elettrostatica attribuibili al continuo cambiamento di posizione che gli elettroni realizzano all’interno di una molecola, creando i cosiddetti “dipoli temporanei” o “Forze di London”. In queste condizioni, il nucleo positivo di una molecola attrae gli elettroni di un’altra determinando così una associazione temporanea delle singole molecole, come succede nelle associazioni di catene idrocarburiche. Più sono grandi le molecole e, quindi, più numerosi sono i nuclei e gli elettroni, maggiori sono le forze di London. Queste interazioni, come accade con le proteine, possono formarsi anche fra regioni diverse di una stessa macromolecola, stabilizzandone, conseguentemente, la forma tridimensionale. Legame di idrogeno. Un altro tipo di attrazione intermolecolare che permette di spiegare perché alcuni composti abbiano punto di ebollizione notevolmente superiore rispetto a composti con peso molecolare simile è il “legame di idrogeno”. Il legame di idrogeno è un legame di natura elettrostatica in cui un atomo di idrogeno fa da ponte q

Caso classico è quello dell’acqua, con parziale carica negativa sull’ossigeno e parziale carica positiva sull’idrogeno.

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fra due atomi molto elettronegativi quali il fluoro, l’ossigeno e l’azoto. Nei composti in cui è presente un legame covalente tra un atomo di idrogeno ed uno dei tre atomi suddetti – detto “atomo donatore” - il legame è fortemente polarizzato con una frazione di carica + sull’idrogeno ed una frazione di carica negativa - sull’atomo vicino. Tra l’atomo di idrogeno di una molecola e l’atomo elettronegativo di un’altra molecola – detto “atomo accettore” - viene a esercitarsi una forte “attrazione elettrostatica direzionata” con energia di circa 20 Kjoule/mole. Questo legame viene chiamato “legame di idrogeno” e viene rappresentato graficamente con dei puntini o dei trattini. Classico esempio è quello del legame di idrogeno nell’acqua (Fig. 7-2), che spiega l’alto punto di ebollizione dell’acqua rispetto a sostanze con peso molecolare paragonabile. L’acqua (H2O), con peso molecolare 18, bolle infatti a 100°C, mentre il metano CH4, con peso molecolare 16, bolle a -161°C. Legami di idrogeno possono instaurarsi anche tra molecole diverse come ad esempio acqua e alcol metilico o nell’ambito di una stessa molecola, come nel caso delle proteine. In quest’ultimo caso si parla di legame di idrogeno “intramolecolare”, mentre nel caso del coinvolgimento di due molecole distinte il legame si definisce “intermolecolare”. Gli organismi viventi sono costituiti in gran parte da acqua e da sostanze in essa disciolte. I composti ionici interagiscono con l’acqua formando interazioni ione dipolo, nelle quali la parte positiva dell’acqua interagisce con gli ioni negativi e la parte negativa con gli ioni positivi. Le sostanze molecolari, invece, si possono sciogliere in acqua formando legami di idrogeno direttamente con l’acqua stessa. In generale, la struttura delle macromolecole biologiche - quali proteine ed acidi nucleici - è stabilizzata dalla presenza di numerosi legami di idrogeno.

Lezione 8 – Proprietà delle soluzioni1-4 §1

MISCELE OMOGENEE

Le soluzioni Gran parte delle reazioni che avvengono negli organismi viventi si realizzano in soluzione acquosa. Una soluzione è definita come una “miscela omogenea”, in cui vi è un componente preponderante liquido, detto “solvente” – nell’organismo è costituito dall’acqua - e un componente minoritario sciolto nel solvente, detto “soluto”, che può essere liquido, solido o gassoso. Le soluzioni possono avere composizione variabile, perché quantità diverse di soluto e di solvente possono miscelarsi per dare origine a soluzioni diverse degli stessi componenti. Le soluzioni sono limpide, cioè trasparenti alla luce. In generale i liquidi polari (Lez. 17 - § 3) sciolgono i composti polari ed i liquidi non polari sciolgono i composti apolari. Vale quindi la regola: il simile scioglie il suo simile. L’acqua è un solvente polare e quindi ottimo solvente per i composti ionici. La dissoluzione in acqua di un solido ionico, come il cloruro sodico NaCl, avviene perché gli ioni Cl, localizzati alla superficie del

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reticolo cristallino, vengono attratti dalla parziale carica positiva del dipolo H2O, circondandosi di molecole di H2O. L’acqua ha una costante dielettrica elevata e riesce a vincere il legame fra gli ioni e a portarli in soluzione, dando “ioni idrati”. Contemporaneamente gli ioni Na+ attraggono il dipolo H2O dalla parte negativa, se ne circondano e passano in soluzione come ioni idrati. Le sostanze apolari, organiche ed inorganiche, sono solubili nei solventi apolarir, mentre quelle che possono dare legami ad idrogeno sono solubili in acquas. Queste sostanze contengono parti polari, solubili in acqua, che sono dette “idrofile” ed una parte idrocarburica apolare R, a comportamento idrofobo, che è detta “lipofila” perché si mescola facilmente con sostanze non polari come i grassi. Tanto più le catene idrocarburiche sono lunghe e tanto minore è la solubilità in acqua della molecola a cui appartengono. La solubilità. Si definisce “satura” quella soluzione in cui è sciolta la quantità massima di soluto che può sciogliersi in quel volume di solvente a quella temperatura. Si definisce come “solubilità” di un composto ad una certa temperatura, la concentrazione della soluzione satura a quella temperatura. La solubilità di un certo soluto in un dato solvente dipende dalla natura del soluto e del solvente. Può variare con il variare della temperatura e, generalmente, per un soluto solido in un liquido, aumenta con l’aumentare della temperatura. Viceversa, la solubilità di un gas in un liquido è inversamente proporzionale alla temperatura e direttamente proporzionale alla pressione parziale del gas sul liquido, secondo la “legge di Henry”, per cui aumentando la temperatura e/o diminuendo la pressione, la concentrazione del gas nel liquido diminuisce. La concentrazione. Generalmente la concentrazione di una soluzione si esprime come “molarità” (M) che indica il numero di moli di soluto per litro di soluzione. Più comunemente, la concentrazione delle soluzioni biologiche si esprime come millimolarità, cioè il numero di millimoli (10-3 moli) di soluto per litro di soluzione. Un modo diverso per esprimere la concentrazione di una soluzione, utilizzato in campo medico, è la “percentuale in peso”, che rappresenta la quantità in peso di soluto in 100 parti in peso di soluzione. Le proprietà colligative. Alcune proprietà delle soluzioni, che dipendono solo dalla concentrazione delle particelle di soluto e non dalla natura delle particelle stesse sono dette “proprietà colligative”. Un importante esempio di proprietà colligativa è la “pressione osmotica”.

§ 2 OSMOSI L’acqua è in grado di muoversi liberamente attraverso le membrane cellulari, che però impediscono il passaggio della maggior parte delle altre sostanze, trasferendosi da uno all’altro dei tre compartimenti corporei formati principalmente da acqua. Pressione osmotica. Si definisce “membrana semipermeabile” una membrana permeabile ad alcune molecole e non ad altre. Si può pensare che funzioni come un setaccio attraverso cui passano solo le molecole più piccole dei fori. Un solvente come l’acqua è in grado di attraversare una membrana semipermeabile. Il “fenomeno r

Benzene, idrocarburi e tetracloruro di carbonio. gli acidi carbossilici R-COOH, gli alcoli R-OH, le ammine R-NH2, le aldeidi R-CHO ed i chetoni R-C=O Vedi (Lez. 1-12 - § 1-4). s


dell’osmosi” è rappresentato dal passaggio di acqua da una soluzione più diluita ad una più concentrata, attraverso una membrana semipermeabile, fino a raggiungere un equilibrio dinamico per cui il flusso del solvente nei due sensi sia lo stesso. Sulla membrana viene a crearsi - per effetto degli urti dovuti alle particelle di soluto che non passano attraverso la membrana - una pressione, detta “pressione osmotica”, che equivale alla pressione che si deve applicare alla soluzione più concentrata in modo tale da impedirne la diluizione ad opera del solvente. Il valore di questa pressione è legato solo alla concentrazione delle particelle di soluto attraverso una legget analoga a quella che regge i gas ideali e non alla loro identità chimica. Soluzioni isotoniche. Due soluzioni si dicono “isotoniche” se hanno la stessa pressione osmotica, quindi la stessa osmolarità del soluto. Una soluzione si dice “ipotonica” rispetto ad un’altra se ha minore pressione osmotica ed “ipertonica” se ha maggiore pressione osmotica. La pressione osmotica influenza il comportamento dei globuli rossi, che all’interno della membrana cellulare contengono concentrazioni abbastanza elevate di glucosio e di sali. Se un globulo rosso viene posto in una soluzione ipotonica, o addirittura in acqua, l’acqua passerà dalla soluzione esterna all’interno del globulo che scoppierà. Il processo è detto “emolisi”. Se invece un globulo rosso viene posto in una soluzione ipertonica, l’acqua passerà dal globulo alla soluzione esterna più concentrata ed il globulo avvizzisce. Il processo è detto “crenazione”. Per questi motivi è essenziale che le soluzioni iniettate endovena siano isotoniche con il plasma sanguigno. Soluzioni di questo tipo sono le “soluzioni fisiologiche” che contengono cloruro sodico NaCl allo 0.9% in pesou e che vengono abitualmente somministrate al paziente quando questi ha perso molti liquidi.

§3

MISCELE ETEROGENEE

Sospensioni Una “sospensione” è costituita da un solido insolubile disperso in un liquido. Essendo, queste, miscele eterogenee, non si presentano limpide e tendono a sedimentare, ma, in particolare, non passano attraverso filtri e membrane. Soluzioni colloidali Le “soluzioni colloidali” sono miscele eterogenee in cui le particelle, essendo di dimensioni più piccole rispetto a quelle presenti nelle sospensioni, appaiono distribuite uniformemente e non tendono a sedimentare,. Queste soluzioni sono torbide e, anche se sufficientemente diluite, disperdono la luce e rendono visibile un raggio di luce che le attraversi. Tale fenomeno viene chiamato “effetto Tyndall” e permette di distinguere se si è in presenza di una soluzione vera e propria o di una soluzione colloidale. Le particelle si muovono con un movimento rettilineo spezzato che è detto “moto browniano”. I colloidi attraversano la carta da filtro, ma non le membrane semipermeabili e possono essere

purificati dalle specie ioniche e dalle piccole molecole presenti nella soluzione mediante “dialisi”, utilizzando una “membrana dializzante”, cioè una membrana con fori di dimensioni tali da che consentire il passaggio, oltre che del solvente anche delle molecole del soluto, mentre trattengono i colloidi, cioè le particelle disperse in soluzione. Nell’organismo umano le membrane presenti nel rene permettono di eliminare, attraverso le urine, i materiali di rifiuto solubili, mentre trattengono le proteine, che in ambiente acquoso danno luogo a colloidi. Un “rene artificiale” ha una funzione dializzante dello stesso tipov, a patto che la soluzione esterna sia cambiata più volte durante la dialisi per evitare che l’accumulo dei prodotti di rifiuto la renda ipertonica rispetto al sangue, invertendo, così, il processo di filtrazione.

Lezione 9 Le reazioni chimiche1-5 §1

LE REAZIONI CHIMICHE

Una “trasformazione chimica” implica variazioni profonde nella natura della materia. Le particelle, infatti, interagiscono tra loro, determinando la rottura di legami chimici preesistenti e la formazione di nuovi legami. Ogni trasformazione chimica viene detta “reazione”. Per rappresentare una reazione chimica si utilizza una “equazione di reazione”, del tipo: A + B = C + D, in cui, a sinistra del segno di eguaglianza - che può essere qualora la anche rappresentato mediante una freccia reazione vada a compimento o da due frecce sovrapposte qualora la reazione sia di equilibrio - vengono indicati i “reagenti”, cioè i composti che subiscono la trasformazione,; mentre, a destra, vengono indicati i “prodotti”, cioè i composti che sono il risultato della trasformazione chimica. Le formule chimiche. Reagenti e prodotti sono individui chimici (Lez. 1-7 - § 2) e vengono rappresentati con “formule chimiche” in cui compaiono i simboli degli atomi che compongono la sostanza, ove il numero di atomi di ogni elemento presenti nella formula viene indicato in basso a destra del simbolo dell’elemento. Nelle “formule molecolari”, che si utilizzano nell’equazione di reazione, gli atomi vengono indicati in ordine di elettronegatività crescente (H2SO4, CO2). Fanno eccezione i composti contenenti idrogeno- come ad esempio CH4, NH3, OH.- in cui l’idrogeno segue l’elemento con elettronegatività maggiore, a meno che tali composti non siano degli acidi, in tal caso l’idrogeno è sempre il primo elemento indicato (HCl, HNO3). I composti ionici - in cui non si individuano molecole discrete - si rappresentano con la “formula minima”, nella quale si indicano i rapporti minimi fra gli

t

 = osmRT, dove con  si indica la “pressione osmotica” espressa in atm, con osm l’osmolarità - cioè la molarità della soluzione moltiplicata per il numero di particelle che si originano da ogni molecola di soluto - con R la “costante dei gas” che assume il valore di 0,082 l atm K-1mole-1 e con T la “temperatura assoluta” espressa in gradi Kelvin. u 0,9 grammi di NaCl in 100 grammi di soluzione.

v

Il sangue viene prelevato e fatto passare attraverso un tubo dializzante immerso in una soluzione isotonica con il sangue del paziente. Le particelle solubili diffondono attraverso la membrana, mentre le cellule del sangue e le proteine plasmatiche vengono trattenute.

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ioni di segno opposto (NaCl, Na2SO4) e ove il catione precede sempre l’anione. L’equazione di reazione. In ogni reazione chimica deve essere rispettata la “legge di conservazione della massa” che afferma che la massa dei reagenti è uguale alla massa dei prodotti. Le energie in gioco nelle reazioni chimiche sono, infatti, troppo piccole perché, secondo la legge di Einstein: E = mc2, si abbiano variazioni apprezzabili della massa e, quindi, appare sperimentalmente e biologicamente valido il principio della conservazione della massa. L’equazione di reazione non è, quindi, solo un’espressione qualitativa, ma anche quantitativa, in quanto, come conseguenza della legge di conservazione della massa, la formula rappresenta una uguaglianza di specie e di numero di atomiw ed indica, quindi, i “rapporti stechiometrici” - cioè quantitativi – che esistono fra i relativi reagenti ed i loro prodotti. La “stechiometria” è la parte della chimica che studia gli aspetti quantitativi delle reazioni. I numeri che precedono le formule dei reagenti e dei prodotti sono denominati “coefficienti di reazione” ed indicano le quantità in “moli” dei reagenti e dei prodotti. L’espressione 2 H2 + O2 = 2 H2O indica, infatti, che 2 moli di idrogeno reagiscono con 1 mole di ossigeno per dare 2 moli di acqua. Poiché una mole di un determinato composto rappresenta un quantità in g pari al suo peso molecolare, l’equazione sopra scritta significa anche che: 4 g di idrogeno reagiscono con 32 g di ossigeno per dare 36 g di acqua. L’operazione con cui si rendono uguali il numero e il tipo di atomi dei reagenti rispetto al numero e tipo di atomi dei prodotti, viene detta “bilanciamento dell’equazione di reazione”x. Reazioni di ossidoriduzione. Mediante l’equazione di reazione, nota la quantità di uno dei reagenti o di uno dei prodotti, si possono ricavare le quantità delle altre specie che partecipano alla reazione. É questo il caso di reazioni che decorrono senza variazione del numero di ossidazione degli elementi presenti in reagenti e prodotti. Esistono, però, anche reazioni che decorrono con variazione del numero di ossidazione di alcuni atomi nel passaggio da reagenti a prodotti - dette “reazioni di ossidoriduzione” - in quanto durante il loro svolgimento avvengono contemporaneamente una reazione di ossidazione ed una di riduzione. Sono note regole semplici per determinare il numero di ossidazione di un atomo in un composto. Si definisce “ossidazione” una reazione in cui un elemento subisce una perdita di elettroni e, quindi, aumenta il suo numero ossidazione. Si definisce “riduzione” una reazione in cui un elemento acquista elettroni e, quindi, diminuisce il suo numero di ossidazione. Si definisce “ossidante” quella sostanza che provoca l’ossidazione e quindi si riduce, acquistando gli elettroni che vengono ceduti dal riducente. Si definisce “riducente” quella sostanza che provoca una riduzione e quindi si ossida cedendo elettroni all’ossidante.

w

Infatti, le specie ed il numero di atomi che compongono i reagenti devono ritrovarsi inalterati nei prodotti. x Ad esempio, la reazione di formazione dell’acido fosforico così rappresentata: P2O5 + H2O = H3PO4, non è bilanciata perché il numero degli elementi a sinistra non corrisponde al numero degli stessi elementi a destra. Moltiplicando per il coefficiente 2 il numero di moli di acido fosforico e per il coefficiente 3 il numero di moli di acqua: P2O5 + 3 H2O = 2 H3PO4 si ottiene il bilanciamento dell’equazione stessa.

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Qualsiasi reazione di ossidoriduzione, quindi, deriva dalla combinazione delle due semireazioni generiche, una di ossidazione ed una di riduzione: red1 + ox2 +ne- = ox1 + ne- + red2 che portano a “coppie redox”, costituite dalla coppia elemento in forma ossidata/elemento in forma ridotta che si comportano quindi come ossidante/riducente. In molti processi metabolici sono coinvolte reazioni di ossidoriduzioney catalizzate da enzimi specifici che richiedono la presenza di un coenzima - spesso un “coenzima nucleotidico” – che, vista la complessità della struttura di base, si scrive in forma abbreviata evidenziando solo la funzione ossidoriduttiva,. Considerando che le forme ossidate di tali coenzimi si rappresentano come FAD, NAD+, NADP+, possiamo, così, scrivere le semireazioni di riduzione: FAD + 2H+ + 2eFADH2 NAD+ + 2H+ + 2eNADH + H+ + + NADP + 2H + 2e NADPH + H+ Le reazioni opposte, da destra a sinistra, sono ovviamente le corrispondenti semireazioni di ossidazione che portano dalla forma ridotta alla forma ossidata dei tre coenzimi ossidoriduttivi. In una reazione di ossidoriduzione i due processi, ossidazione e riduzione, avvengono sempre contemporaneamente cosicché non si può mai avere una ossidazione se non è presente un elemento in grado di ridursi, acquistando elettroni. Facendo avvenire le due semireazioni in due recipienti - o fra due elettrodi o semielementi - diversi, collegati in modo opportuno, l’energia chimica liberata può essere trasformata in energia elettrica ed il sistema costituisce una “pila”. Ogni semielemento possiede un proprio potenziale elettrico caratteristico della coppia presente - ad esempio Zn/Zn++ o Cu/Cu++ - e che varia al variare della concentrazione e della temperatura. Anche due elettrodi uguali che, però, presentino concentrazioni diverse dello stesso ione, mostrano una differenza di potenziale che può dar luogo a passaggio di corrente. Su questo principio si possono spiegare i potenziali di membrana responsabili della trasmissione degli impulsi nervosi.

§2

VELOCITÀ DI REAZIONE ED EQUILIBRIO CHIMICO

Velocità di reazione L’equazione chimica indica i rapporti ponderali fra reagenti e prodotti, ma non indica in quanto tempo la reazione avviene e se tale reazione va a compimento. Si definisce come “velocità di reazione” la variazione di concentrazione dei reagenti o dei prodotti in un tempo determinato. Teoria della collisione. Il verificarsi delle reazioni chimiche si può spiegare con la teoria della collisione, che chiarisce come la natura dei reagenti, la loro concentrazione e la temperatura influenzino la reazione. Perché avvenga una reazione fra due particelle, esse devono collidere in modo che si rompano i legami preesistenti e si formino nuovi legami. Le collisioni debbono verificarsi con una energia sufficiente a vincere le forze di repulsione tra gli elettroni che sono intorno ai due nuclei ed a rompere i legami che debbono essere rotti. Non tutti gli urti sono quindi “efficaci”, y

Come nella glicolisi, nel ciclo di Krebs, lungo la catena respiratoria o nella beta-ossidazione degli acidi grassi (Lez. 1-13 - § 2) (Lez. 1-14 - § 3).


e quindi non tutti permettono di ottenere i prodotti dai reagenti. La velocità di una reazione dipende, d’altra parte, dalla concentrazione dei reagenti: maggiore è la loro concentrazione, tanto maggiore è la velocità di reazione, deducibile dal fatto che quanto più grande è la concentrazione, tanto più elevato è il numero di collisioni per unità di tempo e, quindi, anche la probabilità che si verifichino urti efficaci. Occorre poi tener conto anche di un “effetto sterico”, cioè della necessità che le particelle interagiscano con la giusta orientazione. Meccanismo di reazione. Generalmente tutte le reazioni sono il risultato di reazioni più semplici, dette “reazioni elementari” che, nell’insieme, individuano il cosiddetto “meccanismo di reazione”. La velocità della reazione globale è determinata dal processo elementare – chiamato “stadio” - che avviene con minor velocità. Un processo che definiremo “stadio limitante” la velocità di una reazione e che è caratterizzato da una velocità talmente piccola rispetto alle altre reazioni elementari, da condizionare la velocità della reazione complessiva. Energia di attivazione. La minima quantità di energia necessaria per superare la barriera energetica fra reagenti e prodotti – e, quindi, fare avvenire la reazione - è la “energia di attivazione”. Solo le molecole che possiedono una energia cinetica maggiore di una energia di soglia hanno la possibilità di reagire. Quando due molecole si avvicinano fra di loro, esse si distorcono e formano quello che si chiama “complesso attivato”, una specie intermedia, molto ricca di energia, che può evolvere o verso i prodotti oppure riformare i reagenti. L’energia di attivazione è la differenza fra l’energia che possiede il complesso attivato e l’energia potenziale che possiedono i reagenti. Se l’energia potenziale dei prodotti è inferiore a quella dei reagenti, la reazione avviene con svolgimento di energia e si parla di “reazione esoergonica”, mentre, se i prodotti hanno energia potenziale maggiore di quella dei reagenti, si parla di “reazione endoergonica”. Inoltre, se tale energia viene scambiata solo sotto forma di calore, si parla di reazione eso o endotermica. A tale proposito, si ricorda che la velocità di reazione è direttamente proporzionale alla temperatura, tanto che, per un innalzamento di 10 °C, il suo valore più o meno raddoppiaz. Catalizzatori. La velocità di alcune reazioni aumenta per aggiunta di determinate sostanze che partecipano alla reazione e che si trovano inalterate alla fine della reazione stessa. Tali sostanze sono denominate “catalizzatori”. Generalmente un catalizzatore agisce in quantità molari molto più piccole - quantità catalitiche - rispetto ai reagenti. I catalizzatori determinano un aumento della velocità di una reazione in quanto provocano una diminuzione dell’energia di attivazione della reazione stessa. Si può immaginare ad esempio che il catalizzatore si leghi ai reagenti dando un complesso attivato con una energia inferiore rispetto a quella del complesso attivato della reazione non catalizzata. z

Ad esempio, un aumento di temperatura, comune nella febbre, provoca un aumento della velocità delle reazioni chimiche che avvengono nel corpo umano: aumenta il battito cardiaco, la frequenza del respiro, si hanno anomalie nel sistema nervoso. Viceversa, riducendo la temperatura, il metabolismo viene rallentato e, ad esempio, è possibile arrestare la circolazione del sangue a 18-20°C anche per un’ora senza che il cervello subisca danni per la carenza di ossigeno, danni che invece si evidenziano a temperatura normale dopo soli 3 minuti.

Catalizzatori biologici ad elevata attività e ad altissima selettività sono gli “enzimi”, proteine che presentano sulla loro superficie un “sito attivo” che rappresenta lo spazio dove avviene la reazione. Il “substrato”, cioè la molecola che reagisce, si combina in modo complementare col sito attivo, che deve avere una ben precisa disposizione spaziale per accoglierlo. Nel sito attivo, la molecola del reagente è attivata dal catalizzatore vero e proprio - ad esempio, un gruppo acido dell’enzima - e viene poi rilasciata nell’ambiente di reazione dove viene trasformata. Equilibrio chimico Reazioni di equilibrio. Esistono reazioni che non vanno a compimento anche in presenza di significative quantità di reagenti. Queste reazioni vengono denominate “reazioni di equilibrio” e si possono indicare genericamente come: C+D. A+B La doppia freccia fra reagenti e prodotti sta a significare che la reazione è reversibile, cioè che A e B reagiscono a dare C e D e che, contemporaneamente, C e D reagiscono per riformare A e B. Lo stato di equilibrio è descritto - ed individuato, ad una determinata temperatura - dal valore della costante di equilibrio Keq, che è definita dalla seguente espressione, derivata dalla “legge di azione di massa”: [C][D] K eq  [A][B] I sistemi chimici in equilibrio obbediscono al “principio di azione e reazione” o “principio di Le Chatelier–Brown” che prevede che quando si altera l’equilibrio di un sistema, il sistema stesso reagisce all’alterazione imposta in modo tale da minimizzarla. L’applicazione del principio dell’equilibrio mobile consente quindi di indirizzare una reazione di equilibrio nel modo desiderato. Infatti se sulla generica reazione di equilibrio: C+D A+B si interviene aumentando la concentrazione di uno dei reagenti, il sistema reagisce in modo tale da rendere minima la variazione introdotta dall’esterno, consumando il reagente introdotto in eccesso e formando così i prodotti. Lo stesso risultato si ottiene se si elimina uno dei prodotti man mano che questo si forma. L’utilizzo di un catalizzatore in una reazione di equilibrio non altera il valore della costante di equilibrio e quindi la posizione dell’equilibrio stesso, ma determina solo un aumento della velocità di reazione, in quanto il catalizzatore agisce diminuendo l’energia di attivazione sia della reazione diretta che di quella inversa. Reazioni enzimatiche. Le reazioni enzimatiche che avvengono negli organismi viventi sono reversibili, ma raramente portano ad un vero stato di equilibrio perché i prodotti, man mano che si formano, vengono ulteriormente trasformati mediante un’altra reazione enzimatica, oppure vengono spazialmente allontanati dall’enzima. Nelle cellule avvengono migliaia di reazioni chimiche catalizzate da enzimi, che si possono però ricondurre a cinque grandi classi.  Ossido-riduzione. Comuni sono le “reazioni di ossidoriduzione”, che, come si è già visto, avvengono con trasferimento di elettroni da un atomo ad un altro.

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Il carbonio presente nelle biomolecole può avere diversi stati di ossidazione; la sua forma più ossidata è quella dell’anidride carbonica OCO che è il prodotto finale di molti metabolismi cellulari.  Scissione o formazione di legami carboniocarbonio. I legami carbonio-carbonio si possono rompere e formare; uno degli atomi interessati al legame può trattenere il doppietto di legame generando un “carbanione”, mentre, sull’altro atomo, si ha una deficienza di elettroni, con formazione di un “carbocatione”. La formazione di legami carboniocarbonio avviene spesso tramite reazioni tra “nucleofili” - donatori di doppietti elettronici - ed “elettrofili” - accettori di doppietti elettronici.  Riarrangiamento intramolecolare. Una ridistribuzione degli elettroni nell’ambito di una molecola porta a “isomerizzazioni”, “trasposizioni” o “riarrangiamenti”.  Trasferimento di gruppi. Per procedere lungo una via metabolica, un intermedio metabolico deve spesso venire attivato per la successiva reazione. Esempi di gruppi attivanti sono l’ortofosfato inorganico indicato con il simbolo Pi, (vedi glucosio 6-fosfato nel metabolismo degli zuccheri) - ed il gruppo tioestere COSR (vedi l’acetiCoA, CH3COSCoA nella biosintesi degli acidi grassi).  Reazioni di condensazione. Le reazioni di “condensazione” - in cui monomeri si uniscono in biopolimeri con eliminazione di una molecola d’acqua - sono coinvolte nella biosintesi di polisaccaridi, proteine d acidi nucleici. Per contro, la somma di una molecola d’acqua - reazione di idrolisi - permette di demolire le macromolecole biologiche, spiazzando un’unità monomerica o piccoli frammenti del polimero. Gli enzimi sono quindi divisi in 6 classi in base al tipo di reazione chimica catalizzata.  Ossidoreduttasi. Trasferimento di elettroni.  Transferasi. Trasferimento di un gruppo da una molecola ad un’altra.  Idrolasi. Reazioni di idrolisi.  Liasi. Rottura non idrolitica di legami.  Isomerasi. Riorganizzazione molecolare.  Ligasi. Formazione di legami covalenti. Ogni classe è poi divisa in sottoclassi in riferimento al substrato utilizzato dall’enzima. Nonostante queste classificazioni, bisogna comunque ricordare che molti enzimi continuano, tuttora, ad essere indicati con i vecchi nomi d’uso.

§3

ASPETTI ENERGETICI DELLE TRASFORMAZIONI CHIMICHE

Trasformazione dell’energia Durante una reazione si realizza la trasformazione di energia chimica in altre forme di energia: lo studio termodinamico consente di stabilire la “spontaneità” di una trasformazione, la “energia” che si può ottenere dalla stessa per compiere un lavoro e quanta di questa energia viene dissipata in forma di “calore”. L’energia chimica, che si libera, ad esempio, nelle reazioni del metabolismo cellulare, può essere impiegata per compiere un lavoro meccanico - quale la contrazione muscolare - o un lavoro elettrico - quale la generazione di una differenza di potenziale attraverso una membrana

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cellulare. Il nostro organismo è un “sistema aperto” perché può scambiare energia e materia con il suo ambiente circostante. Il sistema e il suo ambiente circostante costituiscono l’Universo. Il “primo principio della termodinamica” - che vale anche per i sistemi biologici - si può così enunciare: “l’energia dell’Universo è costante”. Ciò significa che cambia il tipo di energia, ma essa non si perde e non può essere misurata in valore assoluto. Le cellule sono ottimi trasduttori di energia, in grado di trasformare, l’una nell’altra, l’energia chimica, l’energia elettromagnetica, l’energia meccanica e l’energia osmotica. L’energia interna ad un sistema Passando dall’Universo ad un “sistema” - cioè ad una porzione dell’Universo stesso - la somma di tutte le energie che caratterizzano il sistema viene definita come “energia interna E”, che non è misurabile, ma nella quale si può determinare la variazione introdotta in seguito a una trasformazione chimica che, in pratica, dipende dall’energia ceduta e/o assorbita dal sistema stesso. Ad esempio, in un sistema che assorbe calore Q e compie lavoro W possiamo affermare che: E = QASSORBITO - WCOMPIUTO. Il segno positivo di QASSORBITO significa che l’assorbimento di calore provoca un aumento dell’energia interna, mentre il segno negativo di WCOMPIUTO sull’intorno del sistema provoca una diminuzione dell’energia del sistema stesso. Considerando che la maggior parte delle reazioni avviene a pressione costante all’interno delle cellule dell’organismo possiamo segnalare alcune definizioni. Entalpia (H). Si chiama “entalpia” il calore di reazione Q, la cui variazione, durante la reazione, viene indicata con H. In relazione al calore scambiato, il H ha segno positivo o negativo.  Reazioni endotermiche. In queste reazioni, che avvengono con assorbimento di calore, il H è positivo;  Reazioni esotermiche. In queste reazioni, che avvengono con sviluppo di calore, il H è negativo. La conoscenza della variazione di entalpia di una reazione consente di determinare la quantità di calore connessa con la trasformazione, ma non consente di stabilire se la reazione stessa sia “spontanea”. Si potrebbe pensare che la spontaneità di una trasformazione sia connessa alla cessione di calore all’intorno del sistema. Si possono però osservare trasformazioni spontanee, come ad esempio la miscelazione di due gas, che si verificano senza variazioni di entalpia, così come esistono reazioni spontanee sia esotermiche che endotermiche. Entropia (S). Quando non si verificano variazioni dell’energia di un sistema - come nel caso del mescolamento di due gas - ciò che si realizza è un aumento delle possibilità di movimento delle particelle componenti il sistema stesso e, quindi, un aumento del disordine del sistema. Il grado di disordine è fornito dalla “entropia”. L’entropia aumenta con l’aumentare del disordine del sistema e, infatti, il “II° principio della termodinamica” prevede che “qualsiasi processo naturale evolve spontaneamente nella direzione che comporta un aumento del disordine dell’Universo”. Valutando alcune reazioni chimiche spontanee, come, ad esempio, la sintesi dell’acqua a partire dagli elementi: H2 + ½ O2 = H2O


si osserva che la variazione di entropia, ad essa connessa, è negativa. Evidentemente, l’acqua – che è un liquido - ha un grado di disordine minore delle molecole dei due gas da cui viene prodotta. In queste reazioni la variazione di entropia, S, riflette la quantità di calore assorbito dal sistema, ad una certa temperatura T, per aumentarne il disordine: Q S = e quindi Q = TS T TS è la frazione del calore scambiato che, aumentando il disordine dell’Universo, rappresenta la quota di energia degradata che non si può utilizzare per compiere un lavoro. Energia libera. Né la variazione di entalpia né la variazione di entropia di una reazione, considerate separatamente, sono quindi sufficienti per prevederne la spontaneità. In una trasformazione spontanea si devono dunque verificare variazioni di entalpia e di entropia tali che si determini la diminuzione di una grandezza termodinamica denominata “energia libera di Gibbs”, indicata dalla lettera G. In pratica, ogni reazione chimica è accompagnata da una variazione G dell’energia libera: G = H - TS Solo una parte dell’entalpia di reazione è utilizzabile per produrre lavoro perché è necessario sottrarre all’entalpia la quota di calore scambiato che produce la variazione di entropia. Analogamente a quanto definito per il H anche per le variazioni G possiamo distinguere:  reazioni esoergoniche, ove si verificano trasformazioni spontanee con la produzione di G “negativi” attraverso la liberazione di energia sfruttabile per compiere un lavoro;  reazioni endoergoniche, ove si verificano trasformazioni non spontanee con la produzione di G “positivi” attraverso un apporto di energia dall’esterno del sistema. Per G = 0, invece, le trasformazioni si trovano in uno stato di equilibrio. Il “G” di una reazione, dunque, rappresenta l’energia scambiata dal sistema con il suo intorno e, in caso di trasformazioni spontanee, cioè con G negativo, rappresenta il “lavoro massimo” che il sistema può produrre, il “-G” quindi è il “lavoro utile” prodotto dalla reazione. Sono stati tabulati i valori delle variazioni di energia libera prodotti in condizioni standard dalle varie reazioni chimiche, definiti, per ciascuna di esse, G° e corrispondenti a condizioni in cui sono presenti i reagenti ed i prodotti nel loro stato standard, in concentrazioni molari unitarie, alla temperatura di 25°C ed alla pressione di 1 atm. Negli organismi viventi una reazione esoergonica può essere accoppiata a un processo endoergonico in modo da rendere termodinamicamente possibili processi che, altrimenti, non potrebbero avvenire. Tale accoppiamento è uno degli aspetti essenziali negli scambi energetici delle cellule. La demolizione dell’adenosina trifosfato, ATP, è la principale reazione esoergonica che favorisce la maggioranza dei processi endoergonici delle cellule.

Lezione 10 Acidi e Basi1-5 Definizioni La descrizione del comportamento degli acidi e delle basi è estremamente importante in quanto fenomeni acido/base, che rappresentano un esempio dell’applicazione della legge dell’equilibrio chimico, sono largamente diffusi in ambito biologico. Le definizioni di acido e di base che si possono utilizzare sono correlate al fenomeno acido/base che si vuole descrivere.  Definizione di Arrhenius. Un “acido” è un composto che, in soluzione acquosa, si dissocia generando ioni H+. Una “base” è un composto che, in soluzione acquosa, si dissocia generando ioni OH-. HCl ed NaOH si comportano rispettivamente da acido e base di Arrhenius.  Definizione di Broensted-Lowry. Un “acido” è un composto capace di donare ioni H+ a un’altra sostanza. Una “base” è un composto capace di accettare ioni H+ da un’altra sostanza. L’ammoniaca è una tipica base di Broensted, infatti dà luogo alla reazione: NH3 + H+ = NH4+, mentre il suo comportamento non si può spiegare con la definizione di Arrhenius.  Definizione di Lewis. Un “acido” è un accettore di un doppietto elettronico. Una “base” è un donatore di un doppietto elettronico. L’acqua L’acqua è un composto che, comunque venga purificato, mantiene una, sia pur piccola, conducibilità elettrica. La sua conducibilità è dovuta alla presenza di ioni che non possono che provenire dall’acqua stessa. L’acqua - composto a legami covalenti - subisce una dissociazione del tipo: H3O+ + OH 2H2O La reazione di dissociazione dell’acqua è una reazione di equilibrio, la cui costante a 25°C è: [H O  ][OH  ] Keq  3  1,82 ·10 -16 2 [H 2 O]

Il bassissimo valore di K indica che solo un piccolissimo numero di molecole d’acqua, rispetto al totale di molecole presenti, subisce la dissociazione e che, quindi, la concentrazione dell’acqua indissociata, all’equilibrio, è, con buona approssimazione, uguale alla concentrazione totale dell’acqua. Poiché un litro d’acqua contiene: 1000 g /18 = 55,5 moli di acqua, al termine [H2O] può essere attribuito questo valore, che, introdotto nell’espressione della costante di equilibrio, dà una costante di equilibrio modificata, che chiameremo “prodotto ionico dell'acqua” ed indicheremo con il simbolo Kw: +

–14

Kw = [H3O ] · [OH ] = 1,0 . 10 moli l-1 oppure, sostituendo, per semplicità, allo ione idrossonio lo ione H+, anche se questo non esiste in forma libera: +

–14

Kw = [H ] · [OH ] = 1,0 . 10 moli l-1 A 25° il prodotto ionico è sempre uguale a 10-14 moli l-1 qualunque sia il tipo di sostanza disciolta. Per l’acqua pura o per soluzioni acquose di sostanze che non siano né acide né

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basiche, secondo la definizione di Arrhenius o di Broensted, risulta che: [H+] = [OH-] = 10-7 moli l-1. Tale condizione corrisponde alla condizione di neutralità. Una soluzione si definisce “acida” quando [H+] > 10-7 e “basica” quando [H+] < 10-7. Poiché la concentrazione di H+ viene espressa da numeri piccoli ed è di difficile gestione, nei calcoli si è introdotto il seguente operatore matematico: pH = - log [H+]. Una soluzione è “neutra” quando pH = 7, “acida” quando pH < 7, “basica” quando pH > 7. In termini di logaritmi negativi l’espressione del prodotto ionico dell’acqua è la seguente: pKw = pH + pOH = 14 I fenomeni acido/base che riguardano l’ambiente biologico avvengono generalmente in soluzione acquosa e si possono descrivere utilizzando la definizione di Broensted. Forza di acidi e basi Coppie coniugate acido-base. Secondo Broensted un acido è un donatore di protoni ed una base un accettore di protoni. Risulta, quindi, che una sostanza funziona da acido di Broensted solo se è contemporaneamente presente un accettore di protoni, cioè una base di Broensted. Se si scioglie acido cloridrico in acqua si verifica la reazione: HCl + H2O = H3O+ + Cl Secondo Broensted, HCl è un acido in quanto dona un protone all’acqua, che è quindi una base secondo Broensted in quanto accetta un protone esattamente come nel caso di: CH3COOH + H2O = CH3COO + H3O+ dove l’acido acetico cede un protone alla base acqua. Se si considera la relazione inversa, l’acido H3O+ cede un protone alla base CH3COO-. CH3COOH/ CH3COO e H3O+/ H2O costituiscono, quindi, due “coppie coniugate acido/base”. Lo ione acetato CH3COO è, infatti, la “base coniugata” dell’acido acetico e lo ione H3O+ è un “acido coniugato” della base acqua. Nella reazione: NH3 + H2O = NH4+ + OH la base ammoniaca accetta un protone dall’acido acqua, trasformandosi nello ione ammonio, suo acido coniugato, mentre l’acqua origina la sua base coniugata OH. L’acqua, quindi, potendosi comportare sia come acido che come base, viene anche definita una sostanza “anfiprotica”. Secondo Broensted, la forza di un acido è la tendenza dell’acido a cedere il protone alla base, mentre la forza della base è la tendenza della base stessa a coordinare il protone. Con questo quadro, si può parlare di “dissociazione” - o di “ionizzazione” - di un acido o di una base. In una coppia coniugata acido/base, tanto più forte è l’acido, tanto più debole è la base coniugata e viceversa. L’acido cloridrico acido molto forte - genera la base coniugata Cl estremamente debole – e, quindi, con scarsissima tendenza a coordinare un protone per formare HCl indissociato. L’acido acetico - acido debole – genera, invece, lo ione CH3COO - base coniugata abbastanza forte – la quale possiede una elevata tendenza a coordinare il protone per dare origine ad acido acetico indissociato. Ciò significa che una reazione tra un acido ed una base avviene spontaneamente solo quando un acido ed una base più forti reagiscono per formare un acido e una base più deboli.

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Costanti di dissociazione degli acidi e delle basi Consideriamo la reazione tra un generico acido HA e l’acqua. L’equilibrio della dissociazione è: HA + H2O H3O+ + A con: [H O  ][A  ] K eq  3 [HA][H 2 O] Considerando la concentrazione dell’acqua, costante, possiamo conglobarla nella Keq ed il prodotto Keq [H2O] è una nuova costante Ka, definibile come “costante di dissociazione acida”. Sostituendo, ora, allo ione idrossonio lo ione H+ avremo: [H  ][A  ] Ka  [HA] Analogamente, per una generica base B: B + H2O HB+ + OH avremo una costante di dissociazione basica Kb: [HB  ][OH  ] Kb  [B] Ka e Kb esprimono in modo quantitativo la forza dell’acido e della base. Maggiore è il valore della K, tanto maggiore sarà la forza dell’acido o della base che, tanto più, quindi, saranno dissociati. Salificazione. Acidi e basi possono reagire tra loro per formare sali come, ad esempio, avviene con le seguenti reazioni: a) HCl + NaOH = NaCl + H2O; b) CH3COOH + KOH = CH3COOK + H2O; c) NH3 + HCl = NH4Cl; d) NH3 + CH3COOH = CH3COONH4. Le reazioni tra acidi e basi vengono denominate “reazioni di salificazione” o “reazioni di neutralizzazione” poiché lo ione H+, ceduto dall’acido, viene neutralizzato grazie alla coesistenza della base. I sali si formano con qualsiasi rapporto di forza; avremo, quindi, reazioni tra acidi e basi forti, tra acidi forti e basi deboli, tra basi forti ed acidi deboli e tra acidi deboli e basi deboli. Idrolisi dei sali. Diverso è il comportamento, in soluzione acquosa, dei sali derivati da acidi forti e basi forti rispetto a quelli derivati da acidi deboli e basi deboli. In queste condizioni, infatti, i sali derivati da acidi forti e basi forti si dissociano completamente non dando luogo ad altre reazioni e le loro soluzioni si presentano, quindi, neutre:

NaCl + H2O = Na+ + Cl + H2O I sali derivati, invece, da acidi deboli o basi deboli - dopo la dissociazione, che pure è completa - subiscono il cosiddetto fenomeno di “idrolisi” e danno luogo, in genere, a soluzioni acide o basiche. 1) CH3COONa + H2O = CH3COO + Na+ + H2O 2) CH3COO + H2O = CH3COOH + OH soluzione basica + 1) NH4Cl + H2O = NH4 + Cl- + H2O 2) NH4+ + H2O = NH3 + H3O+ soluzione acida


Soluzioni tampone Le soluzioni tampone presentano una rilevante importanza in campo biomedico in quanto il mantenimento di un pH costante è un requisito fondamentale per i liquidi biologici. Si definisce “soluzione tampone” una soluzione il cui pH non varia in modo apprezzabile per moderata diluizione o per aggiunta di piccole quantità di acidi forti o basi forti. Le soluzioni tampone di interesse biologico e che funzionano a valori di pH non molto lontani dai valori di neutralità sono costituite da una coppia coniugata acido/base secondo Broensted. Sono, ad esempio, soluzioni tampone soluzioni acquose di:  acido acetico (acido) e ione acetato (base coniugata);  acido carbonico (acido) e ione idrogenocarbonato (base coniugata);  ammoniaca (base) e ione ammonio, eventualmente derivato da cloruro d’ammonio (acido coniugato). In particolare il tampone acido carbonico/ione idrogenocarbonato è il tampone caratteristico del sangue. La soluzione tampone è, in genere, costituita da un acido o da una base debole, in presenza del proprio sale rispettivamente con una base forte o con un acido forte. Quando in acqua si disciolgono acido acetico ed acetato sodico le specie presenti sono CH3COOH, CH3COO e Na+ e, quindi, è presente, come richiesto, la coppia coniugata CH3COOH/ CH3COO. Qualora ad una soluzione tampone contenente, ad esempio, CH3COOH e CH3COO - si aggiunga una piccola quantità di acido forte, come HCl, si verifica la reazione fra l’acido introdotto e la base presente: HCl + CH3COO = CH3COOH + Cl In questo caso avviene la trasformazione di un acido forte come HCl in un acido debole come CH3COOH che, essendo pochissimo dissociato, determina effetti molto limitati sul pH della soluzione. Se, ora, alla stessa soluzione si aggiunge una piccola quantità di base forte, come NaOH, si verifica la reazione fra la base introdotta e l’acido presente: CH3COOH + NaOH = CH3COO + Na + H2O In tal caso, avviene la trasformazione di una base forte, come NaOH, in una base debole, come CH3COO, che determina ancora effetti molto limitati sul pH della soluzione. In tutti e due i casi, evidentemente, viene solo alterato il rapporto fra l’acido debole e la sua base coniugata, entrambi presenti nella soluzione tampone. Equazione di Henderson-Hasselbach. La formula matematica che permette di calcolare il pH di una soluzione tampone costituita da un acido debole con costante Ka e con concentrazione ca e da un suo sale con un acido forte con concentrazione cS, è nota come “equazione di HendersonHasselbach” ed è:

pH = pKa + log

cs ca

Nel caso di una soluzione tampone costituita da una base debole con costante Kb e con concentrazione cb e da un suo sale con un acido forte con concentrazione cS si avrà: pH = 14 - pKb + log

cb cs

Dall’esame della equazione di Henderson-Hasselbach si comprende come il pH di una soluzione tampone non cambi in seguito a moderata diluizione, in quanto, variando allo stesso modo ca e cs, il loro rapporto rimane costante. Infatti,

se, ad esempio, si diluisce la soluzione, raddoppiandone il volume, entrambe le concentrazioni si dimezzano, ma il loro rapporto non cambia. Quando l’acido debole ed il suo sale sono presenti nella stessa concentrazione il loro rapporto è uguale a 1 e, quindi, l’equazione di Henderson-Hasselbach diventa: pH = pKa + log 1 = pKa il pH della soluzione è uguale al pKa dell’acido debole. La scelta di un tampone dipende dal pH che si deve mantenere e si deve selezionare un agente tamponante con un pK prossimo a quel valore di pH. Il plasma sanguigno è un esempio di soluzione tampone nella quale la coppia coniugata acido/base è costituita dalla “coppia acido carbonico/ione idrogenocarbonato” H2CO3/HCO3. Il pH del plasma ha un valore compreso fra 7,35 e 7,45 ed esso può variare senza che insorgano stati patologici in questo breve intervallo. A valori di pH inferiori a 7,35 si determina uno stato che viene definito “acidosi”, mentre a pH superiori a 7,45 si determina uno stato che viene definito “alcalosi”. La CO2 prodotta dal metabolismo penetra all’interno dei globuli rossi dove, per effetto dell’enzima anidrasi carbonica, viene trasformata in acido carbonico: H2CO3 CO2 + H2O L’acido carbonico, a sua volta, si dissocia secondo l’equilibrio: HCO3- + H3O+ H2CO3 + H2O Per l’equazione considerata, la pKa è 6,1 e, quindi, l’equazione di Henderson-Hasselbach è: [HCO 3  ] pH = 6,1 + log [H 2 CO 3 ] La coppia H2CO3/ HCO3 è nel sangue in concentrazione abbastanza elevata, con un rapporto HCO3/ H2CO3 intorno a 20. Se si producono sostanze acide in eccesso – acidosi - la loro produzione viene contrastata dal tampone che sposta il suo equilibrio verso sinistra, diminuendo la concentrazione di HCO3 ed aumentando quella di H2CO3. Se il pH aumenta - con produzione di OH o di NH3 da degradazione proteine H2CO3 reagisce, producendo altro ione HCO3- e spostando l’equilibrio verso destra. Infine, se si ha aumentata eliminazione di CO2 con la respirazione - iperventilazione l’equilibrio del sistema tampone continua a spostarsi a sinistra - per effetto dell’allontanamento della CO2 - fino all’esaurimento della capacità del tampone. Misura del pH Il pH di una soluzione può essere calcolato e può essere misurato sperimentalmente. La misura del pH di una soluzione può essere effettuata mediante l’uso di “indicatori”, oppure mediante l’uso di un “piaccametro”. Nel primo caso, si ottengono misure approssimate del pH; nel secondo caso, misure con elevata precisione. Il piaccametro è, sostanzialmente, una pila la cui tensione varia col variare del pH della soluzione. Comprende un elettrodo a vetro la cui parte sensibile è immersa nella soluzione di cui si vuole misurare il pH. Gli indicatori sono acidi deboli o basi deboli che presentano una colorazione dipendente dalla forma in cui si presentano: dissociata o indissociata. Un solo indicatore non consente di avere una indicazione anche approssimata del pH; infatti un solo

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indicatore ci consente di dire solo se il pH della soluzione è maggiore o minore del pK dell’indicatore stesso, che, a sua volta, dipende dal pKa dell’acido debole o dal pKb della base debole contenute nell’indicatore. Miscele di indicatori consentono invece di arrivare a determinazioni approssimate di pH. In pratica si imbibisce una striscia di carta con una

soluzione della miscela di indicatori: la colorazione ottenuta dopo immersione nella soluzione a pH incognito consente l’individuazione del pH per confronto con una scala di colori e di corrispondenti valori di pH, forniti dai produttori dell’indicatore stesso.

RIEPILOGO LE BASI DELLA CHIMICA PER L’OSTETRICIA. LEZIONE 7 Gli atomi si combinano fra di loro per formare molecole o composti ionici. Molecole (e ioni) possono esser coinvolti in interazioni elettrostatiche deboli (dipolo – dipolo, ione – dipolo, legame a idrogeno....). Il legame a idrogeno è particolarmente significativo per spiegare le proprietà dell’acqua e dei polimeri biologici (proteine e acidi nucleici). LEZIONE 8 Una soluzione è una miscela omogenea di un soluto in un solvente (l’acqua per i liquidi biologici). Per uno stesso composto si possono preparare soluzioni acquose di diversa concentrazione fino ad arrivare a una soluzione satura. La solubilità di un composto in acqua è differente a seconda della natura del composto stesso. Il passaggio del solvente acqua attraverso una membrana semipermeabile, da una soluzione più diluita ad una più concentrata, viene detto osmosi. La pressione esercitata durante il fenomeno dell’osmosi è detta pressione osmotica. LEZIONE 9 In una reazione chimica i reagenti interagiscono fra loro a formare i prodotti. Una reazione chimica è rappresentata mediante una equazione in cui si utilizzano le formule chimiche di reagenti e prodotti e coefficienti di reazione che rappresentano le moli di reagenti e prodotti. Ogni reazione chimica procede con una certa velocità di reazione. Buona parte delle trasformazioni chimiche sono reazioni di equilibrio. Qualsiasi trasformazione chimica è associata a una variazione di energia. I catalizzatori aumentano la velocità di una reazione poiché provocano una diminuzione dell’energia di attivazione della reazione stessa. Le reazioni biologiche che avvengono nell’organismo sono catalizzate da catalizzatori biologici detti enzimi. LEZIONE 10 Un acido è un donatore di protoni e una base è un accettore di protoni. Esistono acidi (e basi) forti o deboli a seconda della loro tendenza a donare (o accettare) protoni. Acidi e basi interagiscono fra di loro formando i sali. Il mantenimento di un pH costante è requisito fondamentale per i liquidi biologici. A questo provvedono le soluzioni tampone. Il principale tampone del sangue è il tampone H2CO3/HCO3 (acido carbonico/ione idrogeno carbonato).

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SEZIONE 5 –PROPRIETÀ E REATTIVITÀ DEI

COMPOSTI ORGANICI. CHIMICA E METABOLISMO DELLE BIOMOLECOLE.

Si apprende che i composti caratteristici della materia vivente, dai più semplici alle biomolecole complesse, sono composti del carbonio, cioè composti organici. La reattività e le proprietà chimico-fisiche dei composti organici si trasferiscono alle biomolecole, per poter comprenderne il metabolismo. La quasi totalità della materia vivente è costituita per il 99% da quattro elementi, idrogeno, ossigeno, carbonio e azoto, che formano legami fra di loro. Questi elementi sono responsabili della complessità strutturale e funzionale delle biomolecole, e quindi della vita, che non sarebbe possibile senza proteine e senza acidi nucleici.

Lezione 11 – La chimica dei composti organici: 1-3

idrocarburi e stereoisomeria

§1

LA CHIMICA ORGANICA

Generalità La Chimica Organica studia i composti organici, cioè i composti del carbonio, tra i quali si classificano tutti i composti caratteristici della materia vivente. I composti del carbonio sono innumerevoli in quanto questo elemento presenta la proprietà, assolutamente peculiare, di dar luogo a legami covalenti con sé stesso originando, a temperatura e a pressione ambiente, composti inerti all’azione dell’acqua e dell’ossigeno. Fra i componenti della materia vivente è sempre presente l’idrogeno e largamente diffusi sono l’ossigeno, l’azoto, il fosforo e lo zolfo. Degli altri elementi, è nota la presenza nell’uomo di non più di venticinque di essi. Il comportamento dei composti organici dipende dalla presenza nella molecola di particolari raggruppamenti di atomi detti “gruppi funzionali”. Composti con lo stesso gruppo funzionale appartengono alla stessa classe e sono caratterizzati da proprietà e reattività simili. Spesso i composti organici presentano più di un gruppo funzionale e sono detti composti “polifunzionali”. Nella tabella 1 (Tab. 11-1) sono riportati i principali gruppi funzionali presenti all’interno dei composti biologici. I legami del carbonio Il carbonio non dà luogo alla formazione di legami covalenti nella sua configurazione fondamentale, utilizzando i suoi orbitali 2s e 2p come tali, ma l’esame della composizione e della struttura dei composti del carbonio indica che esso forma sempre quattro legami covalenti. Perché ciò avvenga occorre che il carbonio presenti una struttura elettronica esterna con quattro elettroni spaiati, diversa da quella 2s22p2 descritta per l’elemento nel suo stato fondamentale. Tale struttura viene raggiunta portando uno dei due elettroni 2s dello stato fondamentale al livello 2p e ibridizzando gli orbitali singolarmente occupati dando così “orbitali ibridi” della stessa energia. Il carbonio presenta tre possibili stati di ibridazione degli orbitali, a seconda che dia luogo a legami covalenti semplici, doppi o triplia. Nel caso in cui il carbonio dia luogo a “legami covalenti semplici” l’orbitale 2s ed i tre orbitali 2p si combinano in modo tale da dar luogo a quattro orbitali ibridi sp3 equivalentib. Questi orbitali si dispongono a

Questi non verranno qui trattati in quanto di scarso interesse biologico. Tutti questi avranno la stessa energia e ciascuno di essi presenterà 1/4 di caratteristica s e 3/4 di caratteristica p.

simmetricamente nello spazio secondo le direzioni dei vertici di un tetraedro di cui il carbonio occupa il centro e formano tra loro angoli di 109°28’. I legami covalenti, che si ottengono per sovrapposizione di questi orbitali ibridi sp3, sono legami semplici - denominati “legami ” - simmetrici rispetto all’asse del legame e attorno ai quali è possibile la rotazione. Quando il carbonio dà luogo a “doppi legami”, gli orbitali subiscono l’ibridizzazione sp2; questo significa che, dei quattro orbitali 2s e 2p, solamente l’orbitale 2s e due dei tre orbitali 2p si combinano a formare tre orbitali ibridi sp2 ciascuno con 1/3 di caratteristica s e 2/3 di caratteristica p mentre il quarto orbitale esterno del carbonio non si ibridizza e rimane un orbitale p. I tre orbitali ibridi sp2 si dispongono in un piano formando, tra loro, angoli di 120°, mentre l’orbitale p si dispone perpendicolarmente rispetto al piano individuato dai tre orbitali ibridi sp2. I tre orbitali ibridi sp2 danno luogo a “legami di tipo ”, mentre l’orbitale p, per sovrapposizione laterale con un orbitale p di un altro atomo di carbonio pure ibridizzato sp2 dà luogo ad un “legame ”. Il doppio legame carbonio-carbonio è costituito da due legami, uno  ed uno . Attorno al doppio legame non è possibile la rotazione in quanto si verrebbe a rompere il legame .

§2

GLI IDROCARBURI

Gli idrocarburi sono composti formati solamente da carbonio e da idrogeno e si classificano - in relazione allo stato di ibridizzazione del carbonio ed alla presenza, nella molecola, di cicli di atomi di carbonio - in “alcani”, “cicloalcani”, “alcheni”, “cicloalcheni”, ed “areni” o “idrocarburi aromatici”. Alcani Gli alcani sono idrocarburi saturi, in cui è presente il carbonio nello stato di ibridizzazione sp3, a catena aperta e caratterizzati dalla formula generale CnH2n+2. Gli alcani sono composti poco polari e perciò praticamente insolubili in acqua e solubili nei solventi organici. I primi quattro termini lineari della serie, “metano”, “etano”, “propano” e “butano” sono gassosi a temperatura ambiente. I composti lineari, con numero di atomi di carbonio fra 5 e 16, sono liquidi, mentre i termini superiori sono solidi. Per quanto riguarda la denominazione degli alcani, dopo i primi quattro, che hanno i nomi d’uso sopra citati, i composti contenenti cinque e più atomi di carbonio ed a catena lineare si denominano anteponendo la radice greca della parola indicante il numero di atomi di carbonio e aggiungendo la desinenza “–ano”c.

b

c

Ad esempio, “pentano”, “esano” e “eptano”.

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Se l’idrocarburo è ramificato, si individua la catena più lunga di atomi di carbonio presente nella molecola, denominandola; si numerano poi gli atomi di carbonio di questa catena a partire dall’estremità più vicina a una ramificazione e si individuano infine i sostituenti presenti indicando la loro posizione con numeri i più bassi possibili. Tali sostituenti, che vengono genericamente chiamati “alchili” e indicati con la lettera R, si denominano facendo riferimento all’idrocarburo ad ugual numero di atomi di carbonio e mutando la desinenza “-ano” in “-ile”a. Nell’organismo sono poco diffusi gli alcani come tali, mentre si ritrovano moltissime catene alchiliche, più o meno lunghe, come ad esempio le lunghe catene lineari degli acidi grassi. Il primo termine della serie degli alcani è il “metano”, di formula CH4, rappresentato strutturalmente come: H C H

H H

Il metano come tutti gli alcani presenta una reattività molto scarsa ed è praticamente inerte agli acidi, alle basi ed ai riducenti. La reazione più importante del metano, come del resto di tutti gli alcani, è la “reazione di combustione”: CH4 + 2 O2 = CO2 + 2 H2O Questa reazione è fortemente esotermica ed il metano viene perciò largamente usato come combustibile per produrre calore. La reazione costituisce inoltre un esempio di reazione ad elevata energia di attivazione, infatti miscele aria/metano sono stabili a temperatura e pressione ambiente. La combustione si innesca solo fornendo una piccola quantità di energia iniziale, ad esempio accendendo la miscela stessa con un fiammifero, poi l’elevata energia che si libera dalla reazione la fa procedere fino all’esaurimento dei reagenti. Se consideriamo “etano” e “propano”: CH3-CH2-CH3 CH3-CH3 etano propano si può osservare che gli atomi di carbonio non possono che concatenarsi come sopra indicato: esistono, cioè, un solo etano ed un solo propano. Se, invece, prendiamo in considerazione il butano C4H10 si può osservare che i quattro atomi di carbonio si possono concatenare in due modi diversi dando origine a due composti con la stessa composizione, ma con strutture diverse: CH3 CH3

CH2 CH2 butano

CH3

CH3

CH

CH3

2-metil-propano

Il butano ed il 2-metilpropano, avendo la stessa composizione ed una diversa struttura, sono due “isomeri”. In particolare, questi due isomeri si definiscono “isomeri di catena”, in quanto la differenza strutturale risiede appunto nella catena di atomi di carbonio. Elementi di stereoisomeria Nel caso di alcuni alcani, oltre all’isomeria di catena si può osservare un altro tipo di isomeria, la “stereoisomeria” ed in particolare la “enantiomeria” e la “diastereoisomeria”.

Stereoisomeri. Vengono detti stereoisomeri i composti che hanno uguale struttura molecolare, ma diversa disposizione spaziale degli atomi costituenti. Prendiamo in considerazione il composto: CH3 CH3

Ad esempio, il sostituente o radicale CH3 si denomina “metile”.

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CH CH2 * 3 -m e tile s a n o

CH2

CH3

L’atomo di carbonio contrassegnato dall’asterisco lega a sé quattro sostituenti l’uno diverso dall’altro. Il 3-metilesano può essere rappresentato con due strutture diverse proprio perchè non sono sovrapponibilib. CH3 H5C2

C

CH3 C3H7

H7C3

H

C

C2H5

H

Se dal caso particolare del 3-metilesano si passa al caso generale e si considera una generica molecola nella quale sia presente un atomo di carbonio che lega quattro sostituenti, diversi l’uno dall’altro, che denominiamo “a, b, c, d”, si può osservare che esistono due diverse disposizioni di “a b c d” intorno all’atomo di carbonio. Le due strutture, così ottenute, non sono sovrapponibili tra loro. a c

a

C b d

C b

c

abcd

d

enantiom eri

Infatti le due molecole hanno la proprietà delle nostre mani che non sono sovrapponibili e sono una l’immagine speculare dell’altra. Quando una molecola ha queste proprietà si dice “chirale”. L’atomo di carbonio tetraedrico, legato a quattro sostituenti diversi, si definisce, invece, “asimmetrico” o “stereogenico”. Enantiomeria. Nel caso in cui si consideri un composto che presenti un solo atomo di carbonio stereogenico, questo può dar luogo a due stereoisomeri non sovrapponibili - e ad immagine speculare - che vengono definiti “enantiomeri”. Questo particolare tipo di stereoisomeria viene denominato quindi “enantiomeria”. Le caratteristiche chimico-fisiche di due enantiomeri sono identiche, salvo la diversa reattività degli stessi quando fungono da reagenti in reazioni catalizzate da enzimi e la diversa “attività ottica”, cioè la proprietà di ruotare il piano della luce polarizzata. Per questa ultima proprietà gli enantiomeri vengono anche definiti “isomeri ottici”. Se una forma dello stesso composto causa una deviazione del piano della luce polarizzata in senso orarioc, quella speculare - il suo enantiomero determina la stessa rotazione in senso antiorariod. La miscela equimolecolare di due enantiomeri, definita “racemo”, è priva di attività ottica. Le considerazioni qui anticipate per l’enantiomeria degli idrocarburi sono valide per tutte le altre classi di composti organici, purché questi contengano un atomo di carbonio stereogenico. La configurazione di un enantiomero - cioè la reale disposizione dei sostituenti intorno ad un carbonio stereogenico - deve essere sperimentalmente determinata attraverso l’analisi difrattometrica ai raggi X, ma è comunque necessario poter b

a

CH2

Due strutture si dicono uguali solo quando sono sovrapponibili. Angolo di rotazione positivo con simbolo (+). d Angolo di rotazione negativo con simbolo (-). c


descrivere la configurazione di un carbonio stereogenico utilizzando delle convenzioni. Nel capitolo dedicato ai carboidrati verrà accennata la convenzione che si riferisce al sistema D.L, ancora oggi utilizzata sopratutto per composti biologici quali i carboidrati e gli amminoacidi. Diastereoisomeria. Quando in un composto sono presenti due o più atomi di carbonio stereogenici - e molti dei composti di origine naturale, come carboidrati, lipidi o nucleotidi, ne contengono più di uno - un numero superiore di stereocentri permetterà l'esistenza di più di due stereoisomeri e, in tal caso, indicando con n il numero di atomi di carbonio stereogenici in una molecola il numero di stereoisomeri non potrà essere superiore a 2n. Gli stereoisomeri che si originano comprendono sia “enantiomeri” (stereoisomeri ad immagine speculare) che “diastereoisomeri” (stereoisomeri ad immagine non speculare). Non sempre avviene, però, che il numero degli stereoisomeri corrisponda al massimo possibile. Nel caso di composti che contengono più di un carbonio stereogenico - e che presentano un piano di simmetria - il numero degli stereoisomeri risulta minore, perché alcune strutture sono equivalenti. In alcuni casi, si ottengono, insieme agli altri, anche stereoisomeri non otticamente attivi detti “forme meso”. Cicloalcani Si definiscono “cicloalcani” gli idrocarburi saturi la cui molecola si chiude a formare un anello di atomi di carbonio riconducibili tutti alla composizione CnH2n. I cicloalcani più semplici sono: CH2

CH2 CH2

CH2

ciclopropano

CH2

CH2 CH2

ciclobutano

CH2

CH2 CH2 CH2

CH2 CH2

ciclopentano

CH2

CH2

CH2

CH2 CH2

cicloesano

Spesso quando queste porzioni cicliche fanno parte di strutture più complesse si indica, più semplicemente, la figura del poligono che corrisponde al numero di atomi di carbonio.

attorno al doppio legame. Questi vengono chiamati “isomeri cis” ed “isomeri trans” e differiscono fra loro per le rispettive proprietà chimiche e fisiche: a

a

a

b

b

b

b

a

cis

H

ciclobutano

ciclopentano

cicloesano

I più importanti, fra questi, sono i cicli a 5 e a 6 atomi di carbonio. Tre cicli a 6 atomi ed uno a 5 atomi, condensati fra loro, costituiscono lo scheletro degli steroidi. D’altra parte i più comuni carboidrati sono costituiti da cicli a 6 o a 5 atomi, in cui un atomo di ossigeno sostituisce un atomo di carbonio. Alcheni Gli alcheni sono idrocarburi a catena aperta di formula generale CnH2n che presentano un doppio legame carboniocarbonio nella molecola. La presenza di un doppio legame rende la molecola piana nella zona del doppio legamee e più rigida la sua struttura nella zona che lo contiene. La presenza del doppio legame determina un altro tipo di isomeria, detta “isomeria geometrica” o “cis-trans”, che si presenta quando due atomi o radicali sono legati agli atomi di carbonio impegnati nel doppio legame. Si hanno così stereoisomeri che differiscono tra di loro per la disposizione dei sostituenti

H

H

H

Il nome degli alcheni deriva da quello degli alcani ad uguale numero di atomi di carbonio mutando la desinenza da “-ano” in “–ene”. Le proprietà fisiche degli alcheni sono simili a quelle degli alcani; generalmente, gli isomeri cis presentano punto di ebollizione maggiore e punto di fusione minore dei corrispondenti isomeri trans. Come gli alcani, gli alcheni sono composti a bassa polarità e perciò insolubili in acqua e solubili nei comuni solventi organici poco polari. Gli alcheni, più reattivi degli alcani per la presenza del doppio legame, danno luogo a reazioni di somma al doppio legame, trasformandosi in composti saturi in cui tutti gli atomi di carbonio presentano lo stato di ibridazione sp3 con legami di tipo . Molte sostanze possono addizionarsi agli alcheni, come ad esempio gli alogenig, l’idrogeno e l’acqua. Frequentemente, in biochimica, si incontra l’addizione di acqua al doppio legame, che, in presenza di catalizzatori acidi, introduce una funzione alcolica nella molecola. Così, l’etilene viene trasformato in alcol etilico od etanolo: CH2

ciclopropano

trans

Il legame  è perpendicolare al piano della molecola e quindi si definisce “cis” lo stereoisomero che ha i sostituenti uguali dalla stessa parte rispetto al piano del legame  e “trans” quello che ha i sostituenti uguali da parti opposte rispetto al piano del legame . Gli isomeri cis-trans sono stereoisomeri ad immagine non speculare e, quindi, sono diastereoisomeri. Nei processi metabolici spesso viene utilizzato - o viene formato - uno solo dei due isomerif. L’alchene più semplice - “etilene” o “etene” - ha la seguente struttura:

CH2

+

H2O

H+

CH3

CH2OH

Quando la reazione di somma di acqua ad un doppio legame carbonio-carbonio si verifica in ambiente biologico, intervengono, come catalizzatori, gli enzimi che, a pH praticamente neutro, danno origine alla reazione, possedendo gruppi donatori di protoni sulla loro catena proteica. Gli alcheni possono, inoltre, essere ossidati dando così origine a prodotti che:  possono mantenere lo stesso scheletro di atomi di carbonio dell’alchene;  possono derivare dalla rottura della molecola dell’alchene realizzata tra i due carboni che erano uniti da un doppio legame. Idrocarburi aromatici Gli idrocarburi fino ad ora considerati vengono definiti “alifatici”. Esiste, d’altra parte, un’altra classe di idrocarburi, definiti “aromatici” o “areni”, interamente f

e

2

Ciò dipende dal fatto che gli orbitali ibridi sp giacciono su di un unico piano con angoli tra loro di 120°.

Vedi, ad esempio, l’introduzione del doppio legame a configurazione “cis” in posizione 9 nella biosintesi degli acidi grassi insaturi.

g

Cloro e bromo.

29


ciclici ed aventi proprietà chimiche del tutto diverse da quelle descritte fin qui. Il “benzene” è il termine fondamentale della classe; è un composto ciclico di composizione C6H6 in cui tutti gli atomi di carbonio presentano lo stato di ibridazione sp2 e la cui struttura può essere così rappresentata:

Il cerchio iscritto nell’esagono simboleggia la delocalizzazione dei 6 elettroni , cioè un legame , a sei elettroni, che si estende ai sei carboni che compongono l’anello. La struttura del benzene può, quindi, essere rappresentata mediante la teoria della “risonanza” - come la combinazione - detta “ibrido di risonanza” - delle due strutture sopra riportate, che vengono, per questo, definite “forme limiti di risonanza”:

Le due forme limiti di risonanza non sono reali, ma rappresentano modelli la cui combinazione descrive bene il comportamento del benzene. I doppietti elettronici sono delocalizzati, cioè distribuiti su più di due atomi. Il legame  (pi greca) che ne risulta non è localizzato tra due atomi di carbonio, come negli alcheni, ma è delocalizzato su tutti i sei atomi di carbonio. In tutti i composti che vengono definiti aromatici - e che sono tutti ciclici e planari - si verifica una delocalizzazione di elettroni  simile a quella osservata per il benzene. Altri esempi di idrocarburi aromatici policiclici sono le “naftaline”, il “fenantrene” e l’“antracene”. In condizioni di cattiva combustione di qualunque composto del carbonio, si formano sempre alcuni idrocarburi aromatici e, in particolare, i policondensati a 4-6 cicli. Essi sono considerati come possibili agenti cancerogeni per l'uomo, per gli effetti dimostrati "in vitro".

NH

N H pirrolo (nell' eme)

S

N

N

N

O

imidazolo (nell'istidina)

tiazolo

furano

antracene

fenantrene

Composti eterociclici aromatici I composti eterociclici aromatici mostrano un struttura ciclica in cui sono presenti uno o più eteroatomi come ossigeno, azoto o zolfo. Scheletri eterociclici aromatici sono molto diffusi nelle molecole naturali, come si può vedere nell’esempio qui riportato:

30

piridina pirimidina (nel NAD+e NADP+) (nei nucleotidi)

alcoli, ammine, composti carbonilici e acidi carbossilici 1-3

§1

ALCOLI E TIOLI

Gli alcoli Struttura. Gli alcoli sono composti caratterizzati dalla presenza, nella molecola, del gruppo funzionale OH legato ad un atomo di carbonio nello stato di ibridizzazione sp3; tale gruppo viene denominato “gruppo alcolico” od “ossidrile”. Gli alcoli possono essere rappresentati dalla formula generale ROH nella quale R rappresenta un generico residuo. Gli alcoli, inoltre, si distinguono in “primari”, “secondari” e “terziari”, in relazione al tipo di atomo di carbonio che si lega all’ossidrile. Come si vede nella illustrazione sottostante, potremo così avere:  alcol primario, quando l’atomo di carbonio è legato a due atomi di idrogeno (carbonio primario);  alcol secondario, quando l’atomo di carbonio è legato a un solo atomo di idrogeno (carbonio secondario);  alcol terziario, quando l’atomo di carbonio non reca atomi di idrogeno (carbonio terziario). H

H

C

R

OH

R

R

C

OH

R

R

C

OH

R

alcol secondario

alcol primario

naftalene

N

Lezione 12 – La chimica dei composti organici:

H

Gli idrocarburi aromatici non danno luogo a reazioni di somma, come gli alcheni, ma a reazioni di sostituzione nelle quali uno o più atomi di idrogeno vengono sostituiti da altri atomi o gruppi di atomi senza determinare la perdita delle caratteristiche aromatiche della molecola. Anelli aromatici sono presenti in molte molecole biologiche, tra cui alcuni amminoacidi, conferendo a questi spiccate proprietà idrofobiche.

N

alcol terziario

Gli alcoli derivano il loro nome dall’idrocarburo ad ugual numero di atomi di carbonio aggiungendo la desinenza “-olo”: C H 3C H 2O H

C H 3O H

e tan olo

m etan o lo

Proprietà. Gli alcoli - che possono considerarsi formalmente derivati dall’acqua per sostituzione di un atomo di idrogeno con un residuo organico - danno, esattamente come l’acqua stessa, “legami di idrogeno intermolecolari”: R

R O

O H

H

H

O R

Ciò spiega gli elevati punti di ebollizione se confrontati con quelli di idrocarburi a peso molecolare paragonabile e fa sì che anche gli alcoli più semplici siano liquidi, diversamente dagli alcani corrispondenti che sono gassosi. Gli alcoli sono quindi composti liquidi per i termini inferiori della serie e solidi per i termini a peso molecolare più elevato. Metanolo, etanolo e propanolo sono solubili in acqua a causa della


polarità del gruppo OH. Procedendo, però, dal butanolo ai termini successivi, la solubilità in acqua decresce rapidamente a causa del prevalere delle caratteristiche idrofobiche del residuo idrocarburico sul gruppo polare OH. Comportamento acido. Come l’acqua, gli alcoli si comportano da “acidi debolissimi”, con un valore di Ka di circa 10-16: R

OH

O-

R

+

H+

Gli alcoli, come acidi, possono dar luogo alla formazione di sali denominati “alcossidi” e stabili al di fuori del contatto con l’acqua, che è un acido più forte degli alcoli: CH 3 OH

+

CH 3 O - Na +

Na

CH 3 O - Na +

+

H 2O

+

CH 3 OH

1/2 H 2 Na + OH-

+

Comportamento basico. Gli alcoli, in presenza di acidi forti, si comportano da “basi debolissime” secondo Brönsted, dando luogo alla formazione di “sali di ossonio”: H CH 3 CH 2 OH + H

+

+ Cl

-

CH3CH2

O +

H Cl -

Reattività. Gli alcoli danno luogo a “reazioni di disidratazione” in ambiente acido formando “alcheni”: H+ CH2

CH3CH2OH

CH2

+

H2O

Reazioni di disidratazione avvengono anche in ambiente biologico a pH neutro attraverso una catalisi enzimatica. Sempre in ambiente acido, due molecole di alcol danno luogo ad una reazione di eliminazione di una molecola d’acqua con formazione di composti denominati “eteri”: CH3 CH2 OH

H+

H O CH2 CH3

calore

CH3CH2 OCH2CH3

I fenoli reagiscono con gli ossidanti dando origine ai “chinoni”: O

OH

[O ] p -b e n z o c h in o n e

O

Nei sistemi biologici, i chinoni agiscono da ossidanti e, per questa loro capacità che innesca i processi ossidoriduttivi necessari alla vita, rivestono, per la sopravvivenza dell’organismo, una enorme importanza funzionale. Tioli I “tioli” o “mercaptani” sono composti in cui è presente il gruppo funzionale “tiolico” o “sulfidrile SH”, hanno una reattività simile agli alcoli e possono formare tioesterih intermedi di rilevante interesse metabolico. L’ossidazione di due gruppi SH porta alla formazione di un “ponte disolfuro” “–S-S-”, uno dei legami responsabili della struttura terziaria delle proteine, che deriva nelle catene proteiche dall’ossidazione dell’amminoacido cisteina, che porta, sulla catena laterale, un gruppo SH.

§2

LE AMMINE

Struttura Le ammine sono composti formalmente derivati dall’ammoniaca NH3 per sostituzione di uno, due o tre atomi di idrogeno con residui organici alchilici od arilici. Le ammine si distinguono in “primarie”, “secondarie” e “terziarie” in relazione al numero di atomi di idrogeno dell’ammoniaca che vengono sostituiti da residui organici. Le ammine hanno la seguente formula generale: R

etere dietilico

Ossidazione. Gli alcoli danno luogo a reazioni di ossidazione, mostrando un diverso comportamento a seconda che siano primari, secondari o terziari: O

[O] R

CH2OH

R

O

[O]

C

R H

C OH

acido carbossilico

aldeide

R

NH 2

R NH

R am m ine prim arie

R

N R

am m ine secondarie

am m ine terziarie

dove i residui R possono essere uguali tra loro o differenti. Le ammine primarie vengono denominate facendo seguire al termine “ammino” il nome dell’idrocarburo corrispondente al residuo Ri.

[O] R

R CH R

R C

R

O chetone

OH

R

C

Proprietà Riassumiamo alcune delle proprietà chimiche delle ammine. Legami a idrogeno. Le ammine primarie e secondarie formano “legami a idrogeno intermolecolari”:

[O]

R

OH

In ambiente biologico si verificano reazioni di ossidazione degli alcoli ad opera di enzimi denominati “deidrogenasi” od “ossidoriduttasi”. I composti ossidrilati in cui un gruppo ossidrilico OH è direttamente legato ad un anello aromatico vengono denominati “fenoli”. Questi hanno un comportamento debolmente acido, con una pKa di 10. L’acidità dei fenoli riveste una importanza notevole in biochimica poiché in un discreto numero di reazioni catalizzate da enzimi, i gruppi ossidrilici, legati ad anelli aromatici, rappresentano la principale fonte di protoni.

H

H

R

N

H

N

R

H

Questi legami non sono così forti come quelli che intervengono tra molecole di alcol, in quanto l’atomo di azoto è meno elettronegativo dell’ossigeno e pertanto l’amminometano è gassoso. Solubilità in acqua. Le ammine alifatiche, a basso peso molecolare, sono solubili in acqua, mentre i termini a peso molecolare elevato e le ammine aromatiche sono praticamente insolubili in acqua. h i

R-CO-SR. Ad esempio, il composto CH3NH2 viene denominato “amminometano”.

31


Comportamento basico. Le ammine, come l’ammoniaca, si comportano da “basi” secondo Brönsted, prendendo un protone dall’acqua: +

R

+

NH2

RNH3 + OH -

H 2O

Le ammine primarie alifatiche sono più basiche dell’ammoniaca, le ammine secondarie alifatiche sono più basiche delle primarie mentre le terziarie presentano una basicità paragonabile a quella dell’ammoniaca. Le ammine aromatiche, il cui capostipite è la “anilina”, sono un milione di volte meno basiche dell’ammoniaca e ciò a causa dell’influenza dell’anello aromatico. Le ammine, come basi, reagiscono con gli acidi per formare “sali di alchilammonio”: +

R NH2 +

§3

HCl

=

RNH3 +

Struttura I composti carbonilici - “aldeidi” e “chetoni” – contengono, nella molecola, il gruppo C=O che è denominato “carbonile”. Aldeidi. Nelle aldeidi il gruppo C=O si lega ad un residuo organico e ad un atomo di idrogeno - il gruppo CHO - e viene definito “gruppo aldeidico”. Il nome delle aldeidi deriva dal nome dell’idrocarburo, ad ugual numero di atomi di carbonio, aggiungendo la desinenza “-ale”j. Il composto citato nella nota in calce, viene però spesso indicato anche come “aldeide acetica”, posponendo al termine “aldeide” l’aggettivo che designa l’acido ad ugual numero di atomi di carbonio. Chetoni. Nei chetoni il gruppo C=O è legato a due residui organici. Il nome dei chetoni deriva dal nome dell’idrocarburo che possiede un uguale numero di atomi di carbonio al quale si aggiunge la desinenza “-one”k. Il composto citato nella nota in calce, viene, però, comunemente individuato col nome d’uso di “acetone”; le aldeidi ed i chetoni più comuni, per altro, vengono spesso identificati con nomi d’uso. Proprietà Il gruppo carbonilico è polarizzato come qui indicato: 

CH3

CH3 C

+

O

OH

C 2H 5OH

H

Cl-

I COMPOSTI CARBONILICI

 C

Reattività Aldeidi e chetoni mostrano una reattività del tutto simile con differenze dovute quasi solo alla maggiore reattività delle aldeidi rispetto ai chetoni. Questi composti danno luogo ad un gran numero di reazioni, alcune delle quali di rilevante interesse biologico. Il gruppo carbonilico, essendo piano - in quanto il carbonio è nello stato di ibridizzazione sp2 - viene facilmente attaccato da molti reattivi e può dare sia reazioni di somma che di sostituzione. Reazioni di somma. Un tipico esempio di reazione di somma è l’addizione di alcoli ad aldeidi e chetoni che porta alla formazione di “semiacetali” e di “semichetali”:

H

OC2H5

semiacetale

Questa reazione di equilibrio è spostata prevalentemente verso i reagenti mentre la presenza di alcol in eccesso e di acidi comporta la formazione di “acetali” e di “chetali”: CH3 C

+

O

C 2 H 5 OH

H+

OC2H5

CH3

H

H

OC2H5

acetale

La reazione di semiacetalizzazione riveste grande importanza, nella chimica dei monosaccaridi (Lez. 1-13) poiché questi si presentano preferenzialmente in forma semiacetalica. Reazioni di sostituzione. Tra le reazioni di sostituzione che procedono sul gruppo carbonilico è da ricordare la reazione con ammoniaca o con ammine primarie che porta alla formazione di “immine” o “basi di Schiff”: CH3

CH3 C O

+

H2N CH2 CH3

CH3

C CH3

N

CH2CH3

+

H2 O

immina

I gruppi amminici – come, ad esempio, quelli degli amminoacidi – reagiscono, in ambiente biologico, sia con gruppi aldeidici che con gruppi chetonici per dar luogo, in modo analogo, a reazioni di transamminazione catalizzate da enzimi denominati “transamminasi”. Reazioni di riduzione. Aldeidi e chetoni vengono ridotti dall’idrogeno - in presenza di catalizzatori metallici - e dagli idruri misti dei metalli (LiAlH4, NaBH4), rispettivamente, ad “alcoli primari” e ad “alcoli secondari”:

 O

O CH3

[H] CH3

C

C H 2O H

H

perciò tra le molecole delle aldeidi o dei chetoni si creano attrazioni elettrostatiche più deboli del legame di idrogeno. Aldeidi e chetoni mostrano, quindi, temperature di ebollizione maggiori di quelle degli idrocarburi, ma minori di quelle degli alcoli con pesi molecolari simili. Solo il “metanale” - o “aldeide formica” - è gassoso a temperatura ambiente; tutte le altre aldeidi o chetoni sono liquidi o solidi in relazione al loro peso molecolare. Tutti questi composti sono inoltre solubili nei comuni solventi organici e solo i termini a peso molecolare più basso - come metanale, etanale e propanone - sono solubili in acqua.

j k

Ad esempio, CH3CHO viene denominata “etanale”. Ad esempio, CH3COCH3 viene denominato “propanone”.

32

CH3

[H] C

CH3

CH3

O

CH

OH

CH3

La stessa reazione di riduzione procede anche nei sistemi biologici, con catalisi enzimatica da parte delle “ossidoreduttasi”, in presenza di opportuni coenzimi nucleotidici che forniscono lo ione idruro. Reazioni di ossidazione. Solamente le aldeidi danno luogo a reazioni di ossidazione con ossidanti blandi, mentre i chetoni non reagiscono permettendo, in tal modo, la distinzione tra aldeidi e chetoni. Gli ossidanti tipici delle aldeidi sono il reattivo di Tollensl ed il reattivo di Fehlingm. l

Soluzione fortemente basica contenente ioni [Ag(NH3)2]+.


L’ossidazione procede formando il sale dell’acido carbossilico ad ugual numero di atomi di carbonio dell’aldeide ossidata. Nell’ambiente biologico si incontrano, frequentemente, composti portatori del gruppo carbonilico che danno origine alle sopradescritte reazioni.

§4

GLI ACIDI CARBOSSILICI E I LORO DERIVATI

Struttura Si definiscono “acidi carbossilici” i composti che contengono il gruppo carbossilico COOH. La formula generale degli acidi carbossilici è:

CH 3COOH + Na + + OH -

CH 3COO

-

+ Na

+

+ H 2O

La reazione diretta è la “reazione di salificazione” mentre l’inversa è la “reazione di idrolisi”. L’equilibrio, comunque, si instaura, ma è nettamente spostato verso i prodotti per cui, nei liquidi biologici, gli acidi sono sempre presenti come sali. Esteri. Reazione caratteristica è la reazione tra acidi carbossilici ed alcoli con formazione di “esteri” e di acqua. La “reazione di esterificazione” che può essere schematizzata: H+ CH3COOH + C2H5OH

CH3COOC2H5

+ H2O

O R

C OH

in cui R rappresenta un atomo di H, oppure un residuo alifatico od aromatico. I termini più comuni della serie hanno nomi d’uso di largo impiego. Le regole di nomenclatura, però, prevedono che il nome degli acidi carbossilici derivi dal nome dell’idrocarburo, con ugual numero di atomi di carbonio, aggiungendo la desinenza “-oico”n. L’atomo di carbonio del gruppo carbossilico viene generalmente considerato il primo della catena. Proprietà Il confronto tra i valori dei punti di ebollizione degli acidi e quelli degli alcoli, a peso molecolare paragonabile, mostra chiaramente che gli acidi sono meno volatili presentando temperature di ebollizione significativamente più alte. La scarsa volatilità degli acidi è dovuta, essenzialmente, alla formazione di legami ad idrogeno che individuano dimeri stabili anche in fase di vapore: O R

O

O

C H

R

C

O O

Tra queste, sono di rilevanza biologica le “anidridi miste” fra acidi carbossilici ed acido fosforico: O R

C OPO3H

O C

O

SR'

+ H 2O

R C O O - + H 3O +

La KA ha valori di circa 105 e, quindi, gli acidi carbossilici possono definirsi “acidi deboli”. Il residuo RCOO che si ottiene in seguito alla dissociazione di un protone viene denominato “ione carbossilato”. Sali. Gli acidi carbossilici reagiscono con le basi per formare i “sali”, ad esempio:

m

C

R

R

I termini a peso molecolare più basso sono, inoltre, solubili in acqua. Molti acidi hanno un caratteristico sapore aspro, mentre gli acidi “formico” (HCOOH), “acetico” (CH3COOH) e “propionico” (CH3CH2COOH) possiedono odori penetranti e peculiari. I termini alifatici, con un numero di atomi di carbonio compreso tra quattro e nove, hanno, invece, odori nauseanti e persistenti, mentre i termini alifatici superiori e gli acidi aromatici, di solito, non esalano alcun odore. Acidi di Brönsted. Gli acidi carbossilici, in acqua, danno luogo alla reazione di dissociazione: RCO O H

O R

Tioesteri:

H

C

è una reazione di equilibrio che richiede la presenza di acidi minerali forti come catalizzatori e che avviene per eliminazione di una mole d’acqua tra una mole di acido ed una di alcol. La reazione inversa è la “reazione di idrolisi” degli esteri. Alcuni esteri - come ad esempio i lipidi - sono importanti composti naturali. Anidridi. Altri derivati degli acidi carbossilici sono le “anidridi”:

Soluzione fortemente basica contenente il complesso tra lo ione rameico e l’anione dell’acido tartarico. n Ad esempio, CH3COOH viene denominato “acido etanoico” o, più comunemente, “acido acetico”.

Ammidi, primarie o sostituite: O

O R

R

C NH 2

a. primaria

O

C

R

C

NHR

NR 2

a. secondaria

a. terziaria

Il legame ammidico. Il “legame ammidico” è quello che interviene nella formazione delle proteine dagli amminoacidi: O C

_ NHR

Le ammidi non si comportano da basi come l’ammoniaca e le ammine in quanto la struttura delle ammidi è un ibrido di risonanza così rappresentato: O C R

_ H N H

-

O

+

C R

H

N H

che non prevede più la presenza del doppietto elettronico sull’atomo di azoto. A causa della risonanza, le ammidi sono planari intorno al legame tra il carbonio carbonilico e l’azoto.

33


Lezione 13 – Glucidi e loro metabolismo1-7 §1

I CARBOIDRATI

I “carboidrati” - detti anche saccaridi, zuccheri o glicidi sono “poliidrossialdeidi” o “poliidrossichetoni” otticamente attivi di formule molecolari Cx(H2O)y, o sostanze otticamente attive che possono essere trasformate in poliidrossialdeidi o poliidrossichetoni per idrolisi. I carboidrati si dividono in due classi principali:  monosaccaridi - o carboidrati semplici - che non si scindono per idrolisi in composti più semplici e si presentano generalmente come sostanze cristalline, solubili in acqua e di sapore dolce  polisaccaridi, che sono sostanze complesse, polimeri di elevato peso molecolare che, per idrolisi, danno i monosaccaridi.

glicerica”. Tutte le sostanze che si possono ricondurre all'aldeide D(+)-glicerica o alla L(–)-glicerica, si dicono appartenenti rispettivamente alle “serie D” o alla “serie L”. In particolare, tutti i monosaccaridi, nella cui proiezione di Fischer lo stereocentro al carbonio a più elevato numero d'ordine è nella stessa configurazione della D-gliceraldeide, sono definiti “D-monosaccaridi”, mentre quelli nella cui proiezione di Fischer lo stereocentro al carbonio a più elevato numero d'ordine è nella stessa configurazione della L-gliceraldeide sono definiti “L-monosaccaridi”. Generalmente i monosaccaridi naturali appartengono alla serie D. 1

1

CHO

CHO

(CHOH)n H

C

OH

CHO H

C

CHO OH

C H 2O H D-gliceraldeide

HO

C

H

La gliceraldeide è la sostanza di riferimento utilizzata per definire la stereochimica di tutti gli altri monosaccaridi, secondo il “sistema D,L”p nel quale il composto di riferimento è l'aldeide (+) glicerica, che viene rappresentata convenzionalmente - secondo la proiezione di Fischer – collocando: in alto, il gruppo aldeidico CHO che rappresenta il carbonio con numero di ossidazione più elevato;  verticalmente, la catena di atomi di carbonio;  rivolti verso l’osservatore, i legami orizzontali;  a destra rispetto all'osservatore, il gruppo ossidrilico OH. A questo composto si assegna arbitrariamente la “configurazione D”. Esso è perciò denominato “aldeide D(+)-glicerica”. L'enantiomero opposto avrà quindi “configurazione L” e sarà denominato “aldeide L(–)

o

Ad esempio, un monosaccaride a tre atomi di carbonio è genericamente detto “trioso”, uno a cinque “pentoso” ed uno a sei “esoso”. p Il sistema D, L assegna arbitrariamente la configurazione dello stereocentro di un determinato composto e a questo riferisce la configurazione degli stereocentri che si devono individuare.

34

C

H

CH2OH L-monosaccaridi

Un altro composto di rilevante interesse fisiologico che, pur non essendo otticamente attivo è considerato uno zucchero, è il “diidrossiacetone”, un chetotrioso presente, come estere fosforico accanto alla gliceraldeide 3-fosfato, nel processo di glicolisi. CHOH C

O

CH2OH diidrossiacetone

Pentosi. Fra gli “aldopentosi” - per i quali sono possibili otto stereoisomeri poiché, nella molecola, sono presenti tre carboni stereogenici - i più importanti sono, senza dubbio, il “D-ribosio” ed il “2-desossi-D-ribosio”, costituenti di nucleosidi, di nucleotidi e di acidi ribonucleici e desossiribonucleici.

C H 2O H L-gliceraldeide

HO

CH2OH D-monosaccaridi

Monosaccaridi Struttura. La denominazione dei monosaccaridi è caratterizzata dalla desinenza “-oso” od “-osio” e tiene conto del tipo di funzione carbonilica presente nella molecola. Si definiscono quindi “aldosi” i monosaccaridi aldeidici e “chetosi” quelli chetonici. Il numero di atomi di carbonio della molecola viene indicato dal corrispondente prefisso al termine greco indicante il numero stessoo e, fra i carboni, al gruppo carbonilico compete il numero d'ordine più basso. Considereremo ora gli elementi della serie che risultano più importanti per l'uomo. Triosi. Tra i triosi è molto significativa la “gliceraldeide” o “aldeide glicerica”. La gliceraldeide è un aldotrioso che contiene un atomo di carbonio stereogenico e di cui, per questo, esistono due enantiomeri:

(CHOH)n

CHO

CHO

H

C

OH

H

C

OH

H

C

OH

H

C

OH

H

C

OH

CH2

C H 2O H

C H 2O H

D-ribosio

2-desossi-D-ribosio

Esosi. Per gli “aldoesosi” sono possibili sedici stereoisomeri, poiché nella molecola sono presenti quattro atomi di carbonio stereogenici. Fra questi sono da ricordare “D-glucosio”, “D-mannosio” e “D-galattosio”: CHO

CHO OH

HO

C

C

H

HO

C

OH

H

C

OH

H

H

C

HO H H

CHO H

H

C

OH

C

H

HO

C

H

C

OH

HO

C

H

C

OH

H

C

OH

CH 2O H

CH 2 O H

CH 2 O H

D(+)-glucosio

D(+)-mannosio

D(+)-galattosio

Il “D-glucosio” è il monosaccaride più diffuso in natura e si trova comunemente nella frutta – in particolare nell'uva – ed è chimicamente definito “destrosio” perché è destrorotatorio. La maggior parte dei carboidrati complessi assunti con la


dieta vengono convertiti nell'organismo umano in Dglucosio attraverso opportune vie metaboliche. Il D-glucosio è il monosaccaride presente nel circolo sanguigno dei mammiferi e il sangue umano, in particolare, ne contiene circa 100 mg in 100 ml. Gli stereoisomeri, che differiscono tra loro per la configurazione di un solo stereocentro, si dicono “epimeri”. La designazione ha rilevanza per gli epimeri del glucosio, in particolare il “galattosio” - epimero nella posizione 4 – ed il “mannosio”, epimero nella posizione 2. Il “D-galattosio” non si trova comunemente come monosaccaride, ma combinato nei glicosidi o negli oligosaccaridi. La sua presenza è necessaria all'uomo sia per la sintesi del “lattosio” - zucchero del latte – e sia quale costituente dei glicolipidi attivi nel cervello e nel sistema nervoso. Esso viene biosintetizzato dall'organismo per conversione enzimatica del D-glucosio. L'unico chetoesoso naturale importante è il “fruttosio”, denominato anche “levulosio” perché è fortemente levorotatorio. Il fruttosio è il più dolce dei monosaccaridi. CH 2OH C

O

HO

C

H

H

C

OH

H

C

OH

CH 2OH D-fruttosio

Monosaccaridi modificati. Esistono anche alcuni monosaccaridi modificati che contengono nella molecola, accanto alle funzioni alcoliche e carboniliche, altre funzioni quali la funzione amminica o la funzione carbossilica, come, rispettivamente, la “galattosammina” o l’“acido glucuronico”. Proprietà. Sinora si sono considerati i monosaccaridi come composti a catena aperta, contenenti una funzione carbonilica. In realtà, le loro proprietà chimiche e chimicofisiche indicano chiaramente che le strutture predominanti, per i monosaccaridi a cinque e sei atomi di carbonio, sia in soluzione che allo stato solido, sono cicliche, con cicli a 5 o a 6 atomi. Nel glucosio, ad esempio, la funzione carbonilica interagisce con il gruppo ossidrilico legato all'atomo di carbonio in posizione 5 che risulta assai vicino nello spazio per dare un semiacetale. Generalmente i semiacetali non sono particolarmente stabili, ma, nel caso dei monosaccaridi, si formano semiacetali ciclici stabili. La stabilità è dovuta in parte alla formazione di cicli ed in parte al fatto che i due gruppi che interagiscono sono legati alla stessa catena di atomi di carbonio. Per il glucosio, la reazione intramolecolare tra il gruppo alcolico in posizione 5 ed il gruppo aldeidico conduce ad un semiacetale ciclico stabile che prevale nettamente sulla forma aldeidica aperta con cui è in equilibrioq:

CH2OH O H

5

H

OH OH H

H

OH H

OH

CH2OH OH H

O

5

H

OH OH

C H

OH OH

H

H

CH2OH O H

5

H

H

H

OH

-D-glucopiranosio

H OH

OH

-D-glucopiranosio

Nel semiacetale è presente un nuovo atomo di carbonio stereogenico in posizione 1, il che rende possibili due diastereoisomeri per il D-glucopiranosio ai quali viene attribuito il termine di “anomero”: l’anomero  e l’anomero . L’anomero  del glucosio presenta l’ossidrile in posizione 1 dalla parte opposta del gruppo CH2OH, rispetto al piano dell’anello. L’anomero  presenta sempre l’OH in posizione 1, ma dalla stessa parte del gruppo CH2OH. È bene ricordare, però che, nella realtà, le forme cicliche dei monosaccaridi non sono piane, contenendo atomi in ibridazione sp3, ma vengono, per la suddetta opportunità descrittiva, rappresentate come tali. In soluzione, è presente una miscela delle due forme, come si può riscontrare con la misura del potere ottico rotatorio, che è diverso rispetto a quello dei due anomeri purir. I due anomeri del glucopiranosio vengono utilizzati in modo diverso dagli esseri viventi: l’ -D-glucopiranosio è costituente di amido e glicogeno, e rappresenta il combustibile da cui gli organismi superiori traggono l’energia necessaria; il -D-glucopiranosio è costituente della cellulosa e non può essere utilizzato dagli organismi che non possiedono gli enzimi necessari all’idrolisi dei legami -glucosidici. Anche gli aldopentosi esistono prevalentemente in forma semiacetalica ciclica: in questo caso la chiusura dell'anello avviene tra il gruppo aldeidico e l'ossidrile in posizione 4, con formazione di eterocicli a cinque atomi riconducibili al “furano”. Queste forme cicliche si definiscono, quindi, “furanosiche”: HOH2C O H 4 H OH HH OH

OH

-D-ribofuranosio

HOH2C

O

OH

HH OH

H

CH

OH

HOH2C

O

HH OH

OH HH OH

-D-ribofuranosio

Reattività. I carboidrati danno luogo alle reazioni caratteristiche della funzione alcolica e della funzione carbonilica. Per azione di blandi ossidanti un aldoso subisce l'ossidazione del gruppo aldeidico e viene trasformato nel corrispondente “acido aldonico”s. Trattandosi di composti aldeidici, l'ossidazione procede con ossidanti anche molto blandit. Tutti i carboidrati che subiscono questa ossidazione vengono definiti “riducenti” e danno origine, quando si ossida il gruppo alcolico in posizione 6, agli “acidi uronici”u. Una reazione caratteristica degli zuccheri riducenti è la trasformazione della funzione semiacetalica o semichetalica in acetalica o chetalica. I composti acetalici o chetalici che r

Fenomeno della “mutarotazione” Il glucosio, ad esempio, viene ossidato ad “acido gluconico”. t Ad esempio, i monosaccaridi ed alcuni oligosaccaridi sono in grado di ridurre gli ioni complessi del Cu (II) in soluzione alcalina (soluzione azzurra, reattivo di Fehling) ad ossido di rame monovalente Cu2O (colore arancio): la reazione rappresenta un metodo semplice e rapido per la determinazione del glucosio nel sangue e nelle urine. u Nel caso del glucosio, si origina l’acido glucuronico. s

q

La forma semiacetalica del glucosio viene anche definita “piranosica”, in quanto si considera derivata dal composto eterociclico a sei termini contenente cinque atomi di carbonio ed un atomo di ossigeno, denominato “pirano”.

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si ottengono prendono la generica denominazione di “glicosidi” – glucosidi nel caso del glucosio – oppure, per evidenziare che il legame avviene attraverso un atomo di ossigeno, di “O-glicosidi”. La reazione è catalizzata dagli acidi - come la normale reazione di formazione di acetali e chetali – e, in natura, viene promossa da opportuni enzimi. Esistono anche “N-glicosidi” che si formano per reazione tra semiacetali o semichetali ed ammine. Fra questi, è di notevole interesse biologico il legame N-glicosidico tra il D-ribosio o il -D-2-desossiribosio ed una base purinica o pirimidinica, che si trova nei nucleosidi, nei nucleotidi e negli acidi nucleici. Disaccaridi Fra i “disaccaridi”, composti che derivano da due molecole di monosaccaride unite attraverso un legame glicosidico, hanno notevole importanza il “saccarosio”, il “lattosio” ed il “maltosio”. Saccarosio. Il saccarosio - o semplicemente lo zucchero – è, commercialmente, il più importante composto di origine naturale e viene ottenuto dalla canna o dalla barbabietola da zucchero. È uno zucchero non riducente che per idrolisi dà luogo a una molecola di D-glucosio e ad una di D-fruttosio. L'organismo umano non è in grado di utilizzare direttamente né il saccarosio né alcun altro disaccaride, in quanto questi composti non attraversano le membrane cellulari; quindi il saccarosio viene previamente idrolizzato nelle due unità monomeriche ad opera di enzimi durante la digestione. Lattosio. Il lattosio è noto anche come “zucchero del latte” perché è presente nel latte dei mammiferi nella proporzione di circa il 5%. Il lattosio, uno dei pochi carboidrati tipici del regno animale, è uno degli zuccheri meno dolci che si conoscano ed è riducente. Per idrolisi - processo che può avvenire ai pH fisiologici, in presenza dell'enzima “lattasi” – il lattosio dà luogo ad una molecola di D-galattosio e ad una di D-glucosio. Maltosio. Il maltosio non si trova libero in natura in grandi quantità, ma costituisce il principale zucchero formato, negli organismi animali, per idrolisi dell'amido. Per idrolisi – catalizzata, ai pH fisiologici, dall’enzima “maltasi” - il maltosio genera una doppia molecola di D-glucosio. Polisaccaridi La maggior parte dei carboidrati è presente in natura sotto forma di “polisaccaridi”, ottenuti dalla policondensazione di unità di monosaccaridi attraverso legami glicosidici. I polisaccaridi, detti anche “glicani”, si distinguono in polisaccaridi di riserva - che costituiscono la forma di immagazzinamento cellulare dei carboidrati - e polisaccaridi strutturali che fanno parte delle membrane cellulari cui conferiscono forma, elasticità o rigidità. L'unità monomerica prevalente nei polisaccaridi naturali è il D-glucosio; le cellule non possono accumulare grandi quantità di questo monosaccaride, che altererebbero l’osmolarità del contenuto della cellula e interferirebbero con numerose reazioni chimiche. Le unità di glucosio sono quindi legate fra loro in grosse molecole poco solubili che vengono conservate in aree ove non interferiscono con i processi chimici che si svolgono nella cellula. Polisaccaridi di riserva. I principali polisaccaridi di riserva sono l'amido negli organismi vegetali ed il glicogeno in quelli animali. Quando nelle cellule è presente glucosio in eccesso, questo viene legato alla catena polimera o

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dell'amido o del glicogeno, mentre, quando sopravviene una richiesta di energia, le molecole di glucosio vengono progressivamente staccate dal polisaccaride di riserva e metabolizzate. Amido. L'amido è un polimero del D-glucosio e costituisce la più importante fonte di carboidrati per l'uomo, il quale, da esso, trae gran parte delle calorie necessarie alla sua alimentazione. L'amido è una miscela di due diversi tipi di polimero denominati “amilosio” e “amilopectina”. L'amilosio è costituito da catene polisaccaridiche lineari, in cui le unità di D-glucosio sono unite tra loro mediante un 4)-glucosidico. L'amilopectina (Fig. 13-1) legame alfa(1 è un polisaccaride a catena ramificata, costituito da molecole 4)-glucosidici. Si di D-glucosio legate con legami alfa(1 forma così una catena, dalla quale si originano ramificazioni 6)-glucosidici. Le dovute alla formazione di legami alfa(1 ramificazioni si ripetono ogni 25-30 unità di glucosio. L'amilosio può venire idrolizzato, dall'alfa-amilasi della saliva o del succo pancreatico, a D-glucosio e maltosio e, dalla beta-amilasi, selettivamente a maltosio. L'alfa- e la beta-amilasi degradano anche l'amilopectina con formazione di glucosio e maltosio oppure di solo maltosio. Si originano, comunque sempre, le “destrine”, polimeri che si formano per azione delle amilasi che possono catalizzare la scissione dei 4)-glucosidici, ma non di quelli legami alfa(1 6)-glucosidici. Le destrine vengono, a loro volta, alfa(1 idrolizzate a glucosio e maltosio, in presenza di enzimi 6)-glucosidici. Le capaci di scindere i legami alfa (1 destrine sono più facilmente digeribili dell'amido, perciò sono largamente usate in preparazioni alimentari soprattutto per la prima infanzia. Glicogeno. Il glicogeno, carboidrato di riserva della cellula animale, è presente in notevole quantità soprattutto nel fegato e nei muscoli. Il glicogeno, che presenta legami 4) e alfa(1 6)-glucosidici, è strutturalmente alfa(1 molto simile all'amilopectina, pur offrendo un maggior numero di ramificazioni con la frequenza di una ogni 8-12 unità di glucosio. Il glicogeno può essere idrolizzato enzimaticamente o chimicamente a maltosio e D-glucosio, mentre una fosforilasi ne catalizza la scissione con formazione di glucosio 1-fosfato. Il glicogeno epatico, liberando - o acquistando - molecole di glucosio è in grado di mantenere il corretto valore della glicemia nel sangue. Polisaccaridi strutturali. Con la denominazione polisaccaridi strutturali si indicano quei polisaccaridi che fanno parte delle strutture delle membrane cellulari, degli spazi intercellulari e del tessuto connettivo degli organismi animali e vegetali. Essi costituiscono anche i principali componenti organici dell'esoscheletro di molti invertebrati, come ad esempio la “chitina”, omopolimero di unità di Nacetil-D-glucosammina. Cellulosa. La “cellulosa” è il polisaccaride strutturale più diffuso nel regno vegetale, ma è anche la sostanza organica più abbondante in natura essendo il principale componente del legno (50%) e del cotone (~100%). La cellulosa è costituita da catene lineari di 2.000-3.000 residui di D4)-glucosidici (Fig. 13glucosio uniti con legami beta(1 2). Sebbene la cellulosa possa produrre glucosio per idrolisi chimica completa, l'uomo e gli animali carnivori, in genere, non riescono ad utilizzarla come fonte di glucosio, infatti, nel loro tratto digestivo, non sono presenti enzimi capaci di catalizzare la scissione dei legami beta-glucosidici tipici


della cellulosa, che viene quindi escreta, quasi totalmente inalterata, con le feci. Nell'uomo, però, una piccola quantità di cellulosa può venire metabolizzata da alcuni microrganismi - presenti nel suo tratto digestivo - che possiedono enzimi capaci di favorire la scissione dei legami beta-glucosidici. Mucopolisaccaridi. Altri polisaccaridi strutturali componenti della matrice extracellulare degli animali e dell'uomo sono i “mucopolisaccaridi” o “glicosamminoglicani”. Essi costituiscono un gruppo di eteropolisaccaridi lineari formati dalla ripetizione di unità disaccaridiche che contengono una glicosilammina insieme ad un altro monosaccaride che, generalmente, è rappresentato da un acido uronico. L'“acido ialuronico”, il più abbondante tra i mucopolisaccaridi, è presente nelle membrane cellulari, nel liquido sinoviale e nell'umor vitreo dell'occhio ed è costituito da acido D-glucuronico ed N-acetil D-glucosammina. Il “dermatan solfato” - un eteropolimero formato dalla ripetizione di unità di N-acetil-D-galattosammina 4-solfato legate ad acido L-iduronico - e il “cheratan solfato” - un eteropolimero formato da D-galattosio e N-acetil-Dglucosammina 6-solfato - sono mucopolisaccaridi della pelle e del tessuto osseo. L'“eparina” - che contiene D-glucosammina, acido Dglucuronico e acido L-iduronico variamente sostituiti con gruppi solfato - è presente nei polmoni e nelle pareti delle arterie e mostra, nei confronti del sangue, attività anticoagulante.

§2

METABOLISMO DEI CARBOIDRATI

Generalità sui processi biochimici Il metabolismo. La chimica della vita è organizzata in vie metaboliche. Il metabolismo è l’insieme delle reazioni chimiche che avvengono in una cellula o in un organismo con il compito di fornire sia i componenti della cellula che l’energia necessaria alla vita cellulare (Fig. 13-3). Il metabolismo si distingue in “catabolismo”, che comprende i processi (vie cataboliche) che portano alla degradazione dei composti complessiv a sostanze più sempliciw e “anabolismo” - chiamato anche “biosintesi” - che comprende i processi metabolici (vie anaboliche) che, a partire dalle sostanze più semplici, portano alla sintesi di sostanze complesse. Le reazioni cataboliche, generalmente di natura ossidativa, rilasciano energia, sono cioè esoergoniche e quindi spontanee. Le reazioni anaboliche, generalmente di natura riduttiva, richiedono energia, sono cioè endoergoniche e quindi non spontanee. Le reazioni anaboliche sfruttano l’energia prodotta dalle reazioni cataboliche, costituendo “reazioni accoppiate”. In alcuni stadi catabolici l’energia libera coinvolta viene conservata sotto forma di ATP e di NADPH, mentre nelle vie anaboliche l’energia libera richiesta viene fornita dall’ATP (che si trasforma in ADP e fosfato Pi) e dal NADPH. Si possono individuare tre stadi principali del catabolismo aerobico:  1° Stadio. Le molecole dei nutrienti vengono degradate nelle loro unità costituenti. Dai polisaccaridi si ottengono esosi e pentosi; dalle

proteine si ottengono gli amminoacidi e dai lipidi glicerolo, acidi grassi ed altri componenti.  2° Stadio. I prodotti del primo stadio vengono trasformati in molecole più piccole e, in particolare, nel piruvatox che poi dà origine al gruppo acetiley dell’acetil-coenzimaA. L’acetilCoA è il prodotto finale comune del secondo stadio del catabolismo.  3° Stadio. L’acetilCoA entra nel ciclo di Krebs che termina l’ossidazione dei vari nutrienti producendo biossido di carbonio ed acqua. La respirazione cellulare. La “respirazione cellulare” comprende tutti i processi molecolari in cui sono coinvolti il consumo di O2 e la produzione di CO2 da parte delle cellule. In una prima fase le sostanze provenienti dai nutrienti monosaccaridi, alcuni amminoacidi ed acidi grassi - vengono ossidate ad acetil-CoA. Nella seconda fase, attraverso il ciclo di Krebs, l’acetil-CoA viene ossidato a CO2 con formazione di NADH + H+ e FADH2. Nella terza fase - detta catena respiratoria - i coenzimi ridotti reagiscono con l’O2 producendo H2O e rigenerando coenzimi in forma ossidata Infine, attraverso la fosforilazione (NAD+ e FAD). ossidativa, l’energia liberata lungo la catena respiratoria viene utilizzata per la sintesi della maggior parte dell’ATP necessario alla cellula (Fig. 13-4). La digestione. Gli alimenti che vengono introdotti con la dieta devono venire trasformati in composti assorbibili dal tratto gastrointestinale e, successivamente, utilizzabili dalle cellule dell’organismo. Il processo si chiama digestione ed è costituito da più processi meccanici e chimici. Il processo meccanico consiste nella masticazione, che riduce le dimensioni dei cibi e li espone all’azione degli enzimi digestivi, mentre, attraverso i processi chimici, l’idrolisi enzimatica porta a molecole piccole che vengono quindi assorbite, attraverso la mucosa intestinale, per passare, infine, nel sistema circolatorio. Digestione e assorbimento dei carboidrati. Le cellule intestinali sono in grado di assorbire solo monosaccaridi ed è quindi necessario che i polisaccaridi della dieta vengano trasformati nei loro monomeri (Fig. 13-5). La digestione dei carboidrati inizia in bocca, ad opera dell’enzima salivare 4) glucosidici degli amilasi, che idrolizza i legami alfa(1 amidi, trasformando i polisaccaridi in molecole più piccole. Saccarosio, lattosio e cellulosa non sono invece attaccati dalla amilasi salivarez. Gli amidi, parzialmente digeriti, attraversano lo stomaco - in cui non sono presenti enzimi digestivi - e si mescolano, nell’intestino tenue, con le secrezioni del pancreas che, a pH 7-8, contengono ioni bicarbonato insieme con l’enzima amilasi pancreatica che permettono la continuazione dell’idrolisi dei carboidrati parzialmente digeriti producendo destrine, maltosio e maltotriosio. Questi composti verranno poi trasformati in glucosio da enzimi intestinali specifici che agiscono anche sui disaccaridi lattosio e saccarosio. I monosaccaridi prodotti - o ingeriti come tali - vengono assorbiti nella regione digiunale dell’intestino e, immessi nel circolo portale, vengono quindi trasportati a tutto l’organismo.

x

CH3COCOO- a 3 atomi di carbonio. CH3CO a 2 atomi di carbonio. z Questo enzima agisce a pH neutro e viene inattivato dal pH acido (intorno a 2) dello stomaco. y

v w

Come polisaccaridi, lipidi e proteine. Come biossido di carbonio, acqua e ammoniaca.

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Il metabolismo del glucosio Il metabolismo dei carboidrati si identifica con il metabolismo del glucosio, in quanto, nel fegato, tutti gli altri carboidrati vengono convertiti in glucosio. Il ruolo del metabolismo dei carboidrati è quello di mantenere sotto controllo la concentrazione ematica del glucosio (glicemia). Nell’organismo, in relazione alle esigenze energetiche, il glucosio segue tre destini principali (Fig. 13-6):  può essere conservato in forma di glicogeno;  può essere ossidato a piruvato nella glicolisi;  può essere ossidato a pentoso (ribosio 5-fosfato), attraverso la via del pentosio fosfato. Glicolisi. Il processo. La “glicolisi” è la via principale del catabolismo del glucosio e, in alcune cellule, è la sola fonte di energia metabolica. Attivandosi in ambiente anaerobico, questo processo è considerato il meccanismo biologico attraverso il quale i primi organismi comparsi sulla terra hanno prodotto energia vitale. La degradazione del glucosio, che avviene nella frazione citosolica delle cellule, procede in 10 tappe di cui le cui prime nove sono distribuite in:  una fase preparatoria, durante la quale, da una molecola di glucosio a 6 atomi di carbonio (C6H12O6) - attivato come glucosio 6-fosfato - e con l’utilizzo di 2 molecole di ATP, si formano 2 molecole, a 3 atomi di carbonio, di gliceraldeide 3-fosfato;  una fase di recupero energetico, durante la quale la gliceraldeide 3-fosfato viene trasformata in acido 3fosfoglicericoaa, ad opera del NAD+, con la produzione di 2 NADH e di 2 ATP. Le altre 2 molecole di ATP si formano nella tappa 10 per reazione fra ADP e fosfoenolpiruvato, con produzione di piruvato, l’ultimo prodotto della glicolisi (Fig. 13-7). Bilancio energetico. Il bilancio complessivo indica un guadagno netto di energia: Glucosio + 2 ADP + 2 NAD+ + 2Pi ---> 2 piruvato + 2 ATP + 2 NADH + 2 H+ + 2 H2O Negli organismi superiori, per ripristinare NAD+, le 2 molecole di NADH che si formano vengono riossidate, all’interno dei mitocondri e in condizioni aerobiche, mediante il trasferimento di elettroni alla catena respiratoria: reazione (1) 2 NADH + 2 H+ + O2 -> 2 NAD+ + 2 H2O Negli organismi anaerobici - o in condizioni di temporanea carenza di ossigeno - il NAD+ viene invece rigenerato dal NADH attraverso la fermentazione lattica, una fermentazione anaerobica che trasforma il piruvato in lattato (Fig. 13-7): 2 CH3COCOO- + NADH + H+ -> 2 CH3CHOHCOO-+ 2NAD+

Questo processo può avvenire nelle cellule muscolari durante lo sforzo fisico prolungato – con debito di ossigeno provocando un accumulo di acido lattico nel muscolo e, per questo, sensazioni dolorose. In alcuni microrganismi, il piruvato può venire trasformato in etanolo - anche in condizioni anaerobiche - attraverso la fermentazione alcolica che prevede decarbossilazionebb ad acetaldeide e riduzione ad alcol etilico con rigenerazione di NAD+ dal NADH (Fig. 13-7).

aa bb

L’unica reazione di ossidazione dell’intera via. Perdita di CO2.

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Ciclo di Krebs. Per gli organismi aerobici la glicolisi rappresenta solo la prima tappa del metabolismo del glucosio: il piruvato che si forma nella glicolisi passa dal citosol al mitocondrio e viene ossidato a CO2 e H2O attraverso il “ciclo di Krebs” – detto anche “ciclo dell’acido citrico” o “ciclo degli acidi tricarbossilici”. Nel ciclo di Krebs convergono tutte le vie demolitive di carboidrati, acidi grassi e di numerosi amminoacidi, che portano, come intermedio comune, all’acetil coenzima A (CH3CO-SCoA) L’acetil-CoA si ottiene dal piruvato con una reazione di decarbossilazione ossidativa catalizzata dal complesso della piruvato deidrogenasi (Fig.13-8):

CH3COCOO- + HS-CoA + NAD+ ----> CH3CO-SCoA + CO2 +NADH reazione (2) Il NADH che si forma contiene uno ione idruro H (H) i cui 2 elettroni vengono ceduti alla catena respiratoria che li trasporta poi all’ossigeno [reazione (1)]. La decarbossilazione del piruvato [reazione (2)] è, per la cellula, una reazione irreversibile. Ne consegue che i carboidrati, attraverso l’acetil-CoA, si possono trasformare in acidi grassi e, quindi, in lipidi, mentre questi ultimi non possono essere trasformati in glucosio. I livelli di acetil-CoA derivano, quindi, dal bilancio tra quello prodotto nella betaossidazione degli acidi grassi e nella decarbossilazione ossidativa del piruvato - all’interno dei mitocondri - e quello consumato per la biosintesi di acidi grassi e di colesterolo nel citoplasma - o nella sua ossidazione a CO2 e H2O, nei mitocondri. Il catabolismo dell’acetil-CoA avviene essenzialmente nei mitocondri, attraverso una serie di reazioni catalizzate da enzimi - presenti in gran parte nella matrice - che si ripetono ciclicamente attraverso il ciclo di Krebs. Una molecola di acetil-CoA dona il suo gruppo acetile CH3CO all’ossalacetato - un composto a 4 atomi di carbonio - dando origine al citrato a 6 atomi di carbonio. Come è illustrato nella figura 12 (Fig. 13-8), il citrato viene trasformato in una serie di composti fino alla nuova produzione di ossalacetato, il composto con cui inizia nuovamente il ciclo. Durante il ciclo si ha la produzione di 2 molecole di CO2 e 4 molecole di coenzimi ridotti (Stadi 3 e 4) (Fig. 13-8), 3 di NADH + H+ (Stadi 3, 4 e 8) (Fig. 13-8) e 1 di FADH2 (Stadio 6) (Fig. 13-8). Questa via metabolica produce solo una piccola quantità di energiacc, ma i coenzimi ridotti entrano nella catena respiratoria a produrre grandi quantità di ATP. Il ciclo dell’acido citrico produce, infatti, una sola molecola di ATP per giro, ma, nelle 4 reazioni di ossidazione del ciclo, viene prodotto un flusso di elettroni che entrano nella catena respiratoria, portando alla formazione di un gran numero di molecole di ATP nella fosforilazione ossidativa (Tab. 13-1). Dalle 2 molecole di piruvato provenienti dalla glicolisi si formano 6 molecole di CO2: 2 dalla reazione della piruvato decarbossilasi e 4 dal ciclo di Krebs. Gli elettroni provenienti dalle ossidazioni vengono quindi trasferiti alla catena respiratoria - in cui operano trasportatori di elettroni – e, tramite la fosforilazione ossidativa, si ottengono 32 molecole di ATP per mole di glucosio che entra nella glicolisi, con produzione di energia corrispondente a: cc

Una molecola di GDP nella conversione da succinil-CoA a succinato (stadio 5) che viene successivamente trasformato in ATP


32 x 30,5 kJ/mole = 976 kJ/mole. Il ciclo dell’acido citrico è una via “anfibolica”, cioè una via che serve, oltre che per il catabolismo, anche per i processi anabolici. Gli intermedi a 4 e 5 atomi di carbonio del ciclo possono essere infatti utilizzati per varie vie anaboliche. Il citrato, passando nel citosol e riconvertendosi in acetil-CoA, viene usato per la biosintesi di colesterolo e di acidi grassi. Molti amminoacidi derivano dall’-chetoglutarato e dall’ossalacetato, che possono dare origine anche ai nucleotidi purinici e pirimidinici; l’ossalacetato, infine, viene convertito in glucosio nel processo della gluconeogenesi. Attraverso reazioni di riempimento - dette “anaplerotiche” le cellule provvedono a sostituire gli intermedi del ciclo quando questi vengono utilizzati in maniera alternativa. In particolare, l’acido ossalacetico, essenziale per l’inizio del ciclo di Krebs, può venir prodotto dal piruvato con una reazione di carbossilazione da parte della CO2, catalizzata dall’enzima piruvato carbossilasi, che viene attivato dalla presenza di acetil-CoA che, se presente in eccesso, stimola la formazione di ossalacetato, in modo da poter essere consumato nel ciclo. Glicogenosintesi. Il processo anabolico. La biosintesi del glicogenodd - “glicogenosintesi” - è una via, alternativa alla glicolisi, di utilizzo del glucosio 6-P e corrisponde alla formazione della riserva di energia da parte dell'organismo. Il glucosio 6-P viene isomerizzato a glucosio 1-P, che viene poi attivato, con l’intervento dell'uridina trifosfato UTP, per formare l'uridindifosfoglucosio, UDPG, che costituisce il donatore di unità di glucosio al glicogeno attraverso l'intervento dell’enzima “glicogeno sintasi”. Il residuo di glucosio dell’UDPG viene trasferito all’estremità non riducente di una catena di glicogeno, con formazione di un nuovo legame. Si ottiene così la catena costituita da unità di 4)-glucosidici. Quando la glucosio unite da legami (1 catena ha raggiunto circa undici unità, interviene l’ “enzima ramificante” che catalizza il trasferimento di frammenti, costituiti da 6-7 residui di glucosio, all'ossidrile in posizione 6 di un residuo di glucosio, dando così luogo alle 6). ramificazioni (1 Glicogenolisi. Il processo catabolico. La demolizione del glicogeno (Fig. 13-9) - “glicogenolisi” - consiste nel distacco di unità di glucosio dall’estremità non riducente di una ramificazione ad opera della “glicogeno fosforilasi”, che 4)catalizza la rottura fosforolitica dei legami alfa( 1 glucosidici all'estremità non riducente della catena del polimero con formazione di glucosio 1-fosfato, il quale può, poi, essere isomerizzato a glucosio 6-P, entrando, così, nella glicolisi per produrre energia. La glicogeno fosforilasi è inoltre associata all’enzima “deramificante” che catalizza 6). l’idrolisi dei legami alfa(1 Via del pentoso fosfato. Il glucosio può essere utilizzato per vie alternative alla glicolisi ed alla glicogenosintesi. Ciò succede soprattutto nella via del pentoso fosfato che è presente nei tessuti in cui è particolarmente attiva la biosintesi degli acidi grassi e degli steroliee. Con questa via (Fig. 13-10) , un atomo di carbonio del glucosio viene

dd

Polisaccaride di riserva degli organismi animali, depositato nel fegato e nei muscoli. ee Nel fegato, nella corteccia surrenale, nel tessuto adiposo e nella ghiandola mammaria.

ossidato a CO2, con formazione di 2 molecole di NADPHff e di ribosio 5-fosfato, utilizzato per la sintesi dei nucleotidi e la produzione di fruttosio 6-P. Gluconeogenesi. Le cellule possono sintetizzare glucosio anche a partire da precursori non glicidici. La “gluconeogenesi” è la via metabolica che può produrre glucosio da esportare ad altri tessuti quando le fonti sono state esaurite. Gli amminoacidi delle proteine – detti anche “amminoacidi glucogenici” - che, per transamminazione o deamminazione ossidativa, producono “ossalacetato”, sono i precursori principali della gluconeogenesi (Fig. 13-11). Fra gli intermedi del metabolismo dei trigliceridi, in realtà, solo il glicerolo può essere trasformato in glucosio. Molte reazioni della gluconeogenesi sono inverse a quelle della glicolisi, ma catalizzate da enzimi differenti, che permettono così la regolazione indipendente delle due vie. Sommario delle vie metaboliche del glucosio. Riassumendo, il glucosio, dopo essere entrato nel fegato, viene trasformato in glucosio-6 fosfato e, in relazione alle richieste organiche, può prendere cinque vie metaboliche diverse: 1) può essere ossidato per produrre energia nella glicolisi, seguita dalla decarbossilazione del piruvato ad acetato, che entra nel ciclo di Krebs; essere incorporato nel glicogeno 2) può (glicogenosintesi); 3) può essere ossidato nella via del pentoso fosfato; 4) può essere degradato attraverso la via glicolitica e trasformato in acetil-CoA, da utilizzare come precursore per la sintesi di acidi grassi e quindi di lipidi; 5) può essere defosforilato dalla glucosio 6-fosfatasi in modo da formare glucosio libero che viene liberato in circolo. La concentrazione ematica del glucosio (glicemia) viene mantenuta costantegg da diversi ormoni che agiscono attivando o disattivando vie metaboliche per mantenere costante la glicemia. In particolare:  il “glucagone”hh segnala bassi livelli di glucosio nel sangue ed è il principale antagonista dell’insulinaii; attiva i processi che sono responsabili di un aumento di glucosio ematicojj e disattiva la glicogeno sintasikk. Il glucagone, inoltre, agisce sul metabolismo dei lipidi liberando, dai triacilgliceroli, gli acidi grassi.  la “insulina” viene rilasciata dal pancreas quando il livello di glucosio ematico è alto; stimola l’assunzione del glucosio da parte delle cellule ed attiva la glicolisi e la sintesi di glicogeno e di triacilgliceroli inibendo la glicogenolisi e la gluconeogenesi.

ff

Il coenzima di riduzione necessario per ridurre i doppi legami ed i gruppi carbonilici in alcune vie biosintetiche come, ad esempio, quelle che presiedono alla biosintesi del colesterolo e degli acidi grassi. gg Intorno ai valori di 70-100 mg di glucosio in 100 ml di sangue. hh Ormone iperglicemizzante che agisce principalmente nel fegato. ii Ormone ipoglicemizzante. jj Glicogenolisi e gluconeogenesi. kk Enzima preposto alla sintesi di glicogeno.

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Lezione 14 Lipidi e loro metabolismo1-6 §1

CLASSIFICAZIONE DEI LIPIDI

Con il termine di “lipidi” si indicano quei composti di origine naturale solubili in solventi organicill e poco o per nulla solubili in acqua. La notevole solubilità dei lipidi nei solventi organici è dovuta alla presenza, nelle molecole di questi composti, di una parte idrocarburica preponderante come una lunga catena di atomi di carbonio - o di un sistema policiciclico, recanti, di solito, una o più funzioni - come ossidrili, carbonili o carbossili - alle quali possono legarsi altre sostanze attraverso legami esterei, ammidici e glicosidici. Nella tabella 1 (Tab. 14-1) sono riportate le classi dei lipidi più significativi. Una categoria così strutturalmente eterogenea è difficile da classificare. Una prima suddivisione si effettua riferendosi al comportamento dei lipidi rispetto alla “idrolisi” - cioè alla reazione con acqua catalizzata da acidi - od alla “saponificazione”, cioè alla reazione con acqua e basi forti. Rispetto all'idrolisi ed alla saponificazione si distinguono i “lipidi semplici” ed i “lipidi complessi”. Lipidi semplici. I lipidi semplici sono quei composti che non subiscono alcuna azione idrolitica e non sono, quindi, saponificabili. Tra i lipidi semplici si annoverano alcuni idrocarburi di cui ricordiamo, in particolare, lo “squalene”mm, il “beta-carotene”nn ed il “colesterolo”, gli “acidi grassi” ed i loro derivati, come, fra i più importanti, le “prostaglandine”. Come già accennato, infine, i termini delle classi principali dei lipidi semplici possono contenere varie funzioni, come quelle carbossilica, ossidrilica e carbonilica. Lipidi complessi. I lipidi complessi – o saponificabili - sono composti derivati dal “glicerolo” o dalla “sfingosina” che danno origine, per idrolisi, a due o più di due tipi di sostanze, più frequentemente ad uno o più lipidi semplici di un tipo determinato e al glicerolo o alla sfingosina. HOCH2–CHOH–CH2OH glicerolo H3C(CH2)12–CH=CH–CHOH–CHNH2–CH2OH sfingosina

§2

Acilgliceroli: oli e grassi Struttura. Gli “acilgliceroli” naturali sono esteri degli acidi grassi con il glicerolo. Per la presenza del glicerolo vengono detti “gliceridi”. Esistono, nei sistemi viventi, “mono-”, “di” e “tri-acilgliceroli”, che sono i composti di gran lunga più diffusi. In generale, i residui acilici, legati alle posizioni 1, 2 e 3 del glicerolo, derivano da acidi grassi diversi, per cui si hanno “acilgliceroli misti”, detti anche “trigliceridi misti”. I trigliceridi sono la classe di lipidi più rappresentata nell’organismo e costituiscono una importante fonte energetica per l’uomo.

I PRINCIPALI LIPIDI

Acidi grassi Struttura. Si definiscono “acidi grassi” gli acidi monocarbossilici naturali a più di tre atomi di carbonio. Gli acidi grassi più frequentemente presenti nei tessuti dei mammiferi sono acidi monocarbossilici a catena lineare e a numero pari di atomi di carbonio. La catena può essere satura o insatura e, in quest'ultimo caso, i doppi legami hanno configurazione “cis”. Gli acidi grassi più comuni hanno nomi d'uso, che sono riportati nella tabella 2 (Tab. 14-2). Si utilizzano spesso abbreviazioni, in cui compare il numero di atomi di carbonio come deponente di una C separata con due punti dal numero dei doppi legami. La posizione nella catena idrocarburica ll

compare in alto a destra. L'abbreviazione C18:29,12 indica, per esempio, l'acido grasso a 18 atomi di carbonio contenente due doppi legami rispettivamente nelle posizioni 9 e 12, in configurazione “cis”. Proprietà. Nei sistemi viventi, soltanto una piccola frazione degli acidi grassi si trova nella forma dei corrispondenti anioni. Gli acidi grassi liberi si ritrovano prevalentemente nel sangue come espressione degli scambi tra il tessuto adiposo - in cui vengono immagazzinati come trigliceridi ed il fegato, l’organo prioritario in cui vengono utilizzati. Per la gran parte, gli acidi grassi sono esterificati o legati con legame ammidico nei diversi lipidi ai quali conferiscono molte delle caratteristiche di idrofobicità. La reattività degli acidi grassi è corrispondente a quella degli acidi carbossilici ed i loro “sali”, combinati con i cationi metallici, si definiscono “saponi”. La lunga catena idrocarburica e lo ione carbossilato assimilano i saponi alle tipiche molecole anfipatiche. Nell’uomo e nei mammiferi alcuni acidi grassi poliinsaturioo sono indispensabili per il corretto metabolismo e, non potendo essere direttamente sintetizzati dall’organismo, devono essere introdotti con la dieta, venendo così definiti “acidi grassi essenziali”. Gli acidi grassi insaturi risultano sensibili alle reazioni di “ossidazione”, in quanto contengono doppi legami. Un particolare interesse riveste, in questo caso, l'interazione con l'ossigeno atmosferico detta “autossidazione”. Il processo è molto complesso e decorre con formazione intermedia di diverse specie ossigenate, risultanti dall’attacco al legame , seguita da scissione del legame semplice tra gli atomi di carbonio, recanti le funzioni ossigenate, con formazione finale di composti carbonilici.

Ad esempio, il cloroformio, il metanolo e l’etere di etilico. Precursore biologico di “steroli” e “steroidi”. nn Idrocarburo da cui deriva la vitamina A.

O CH2 O C R HOCH CH2OH monoacilgliceroli

O

O CH2 O C R

R C O CH

O

R C O CH

CH2OH diacilgliceroli

O

CH2 O C R triacilgliceroli

Proprietà. A causa del carattere lipofilo della catena degli acidi grassi, tutti i trigliceridi sono insolubili in acqua. Gli “oli” ed i “grassi” sono sostanze costituite principalmente da miscele di triacilgliceroli misti e si differenziano, tra loro, perché, negli oli, prevalgono residui di acidi grassi insaturi, mentre, nei grassi, prevalgono residui di acidi saturi. La presenza dei residui insaturi conferisce agli oli punti di fusione inferiori a quelli dei grassi, per questo, nelle nostre condizioni ambientali, gli oli sono liquidi ed i grassi sono solidi. L' “autossidazione” degli acilgliceroli è il processo

mm

40

O CH2 O C R

oo

Acido linoleico, linolenico ed arachidonico.


responsabile dell’odore e del gusto sgradevoli che caratterizzano i grassi irranciditi, in modo analogo a quanto già descritto per gli acidi grassi insaturi. La idrogenazione catalitica dei doppi legami permette di ottenere, dagli oli vegetali, le “margarine”, particolarmente apprezzate nell’alimentazione umana. In tal caso, la somma di idrogeno si conduce in modo che non tutti i doppi legami vengano saturati. La gran parte dei catalizzatori agisce anche trasformando i doppi legami dalla naturale configurazione “cis” alla non naturale “trans”, dando luogo a prodotti il cui valore alimentare è tuttora dubbio. La “idrolisi” degli acilgliceroli decorre sul legame estere, che viene scisso con liberazione di glicerolo. La reazione è lenta a temperatura ambiente e, quando è catalizzata da acidi forti, non va a compimento, mentre risulta completa operando con una base forte, come l’idrossido di sodio. L'idrolisi prende, allora, il nome di “saponificazione” poiché, nel suo evolversi, produce saponi. O

O CH2 O C R

R C O CH

O

CH2 OH +

3 NaOH

CH2 O C R

HO CH CH2 OH

O + 3 R C

- Na+ O

Steroidi e colesterolo Struttura. Gli “steroidi” sono importanti composti biologicamente attivi appartenenti alla classe dei lipidi semplici. Hanno scheletro tetraciclico, cioè formato da tre anelli di cicloesano e da uno di ciclopentano condensati come illustrato nella figura 1 (Fig. 14-1).

strutture degli steroidi più significativi per l’organismo umano sono riportate nella figura 3 (Fig. 14-3). Lipidi complessi Struttura. Le strutture dei “lipidi complessi” sono particolarmente complicate e si dà qui solo un cenno delle più significative. Come già accennato, i lipidi complessi sono derivati del glicerolo o della sfingosina e possono quindi suddividersi in “glicerolipidi” e “sfingolipidi”. Tuttavia, si preferisce, generalmente, la suddivisione, biologicamente più significativa, nelle due classi dei “fosfolipidi” e dei “glicolipidi”, che indica, rispettivamente, la presenza di residui contenenti fosforo oppure carboidrati legati al glicerolo o alla sfingosina. Fosfogliceridi. Tra i fosfolipidi, i “fosfogliceridi” sono i classici costituenti delle membrane cellulari. La struttura di base è quella dell’acido fosfatidico, in cui due ossidrili del glicerolo sono esterificati con acidi grassi, mentre la terza funzione alcolica è esterificata con l’acido fosforico. Quando l’acido fosforico è esterificato con un ossidrile alcolico della molecola organica “colina”, si produce la “fosfatidilcolina”. Sfingolipidi. Gli sfingolipidi sono costituenti delle membrane cellulari degli organismi eucarioti che contengono, invece del glicerolo, la sfingosina. Se alla sfingosina - ammidata con un acido grasso a dare la “ceramide” - si legano una o più molecole di zuccheri, si parla di “glicosfingolipidi”, particolarmente abbondanti nel tessuto nervoso. Proprietà. I lipidi complessi comprendono composti nelle O H2C CH H2C

Figura 14-1 Sono, inoltre, biologicamente rilevanti, alcuni composti che, formalmente, sono derivabili dall'idrocarburo a 27 atomi di carbonio, chiamato “colestano”. Tra questi, il derivato più significativo è sicuramente il “colesterolo” illustrato nella figura 2 (Fig. 14-2).

HO

Figura 14-2 Proprietà. Gli esteri del colesterolo con gli acidi grassi - il cui residuo è legato all’ossidrile in posizione 3 del colesterolo stesso - rivestono un importante ruolo fisiologico, in quanto costituiscono la forma di riserva di questo lipide nella cellula. Nei tessuti dei mammiferi il colesterolo funge da precursore biosintetico di tutti gli steroidi. La scissione della sua catena laterale porta alla formazione di “progestinici” e di “estrogeni”pp, oppure di “androgeni”qq, di “corticoidi”rr o di “acidi biliari”. Le pp qq

Ormoni sessuali femminili. Ormoni sessuali maschili.

OC

O R

H2C

OC R O O O P

CH O-

-

O

acido fosfatidico

H2C

OC

R

OC R O O O P

CH3 O

-

O

CH2

CH2

N CH3 CH3

fosfatidilcolina

cui molecole sono presenti, accanto alla porzione idrocarburica classica dei lipidi, gruppi dotati di cariche elettriche intere, come gli ioni carbossilato, fosfato, solfato o alchilammonio, oppure residui contenenti molti ossidrili, come i monosaccaridi, i quali possono interagire con l'acqua. Tali composti vengono definiti “anfipatici” e vengono classificati come “lipidi polari”. Le loro singole molecole hanno una limitatissima solubilità in acqua, non superiore a 10-4 M. Oltre a un certo valore della concentrazione, detta “concentrazione micellare critica”, si osserva la formazione di aggregati di più molecole, chiamati “micelle”, in cui le porzioni idrofobe idrocarburiche delle diverse molecole si avvicinano il più possibile tra loro, facendo sì che la porzione idrofila sia rivolta verso il mezzo acquoso. Le dimensioni delle micelle sono quelle delle particelle colloidali; ne consegue che i lipidi polari si trovano in acqua sotto forma di dispersioni colloidali micellari. Quando ad una dispersione colloidale di un lipide polare si aggiunge una sostanza non polare, quest'ultima viene inglobata e si formano “micelle miste”. In tal modo, si riescono a disperdere in acqua composti anche non polari. Si conoscono rr

Ormoni corticosurrenali.

41


e si possono addirittura ottenere sospensioni stabili di lipidi non polari in acqua, ove le molecole si aggregano tra loro a causa di forze di attrazione di tipo idrofobico. I lipidi polari, inoltre, fungono da tensioattivi e si dispongono attorno alla goccia dispersa del lipide non polare, orientando i gruppi idrofobi verso il lipide e quelli idrofili verso l'acqua. Con questo processo i saponi agiscono da detergenti nei confronti dei grassi.

§3

IL METABOLISMO DEI LIPIDI

Digestione e assorbimento dei lipidi I lipidi dell’alimentazione sono costituiti prevalentemente dai triacilgliceroli degli oli e dei grassi, da colesterolo e da lipidi polari. In media, più del 40% dell’energia richiesta dall’organismo umano deriva dai triacilgliceroli della dieta. I triacilgliceroli vengono idrolizzati ad acidi grassi, glicerolo e monoacilgliceroli solo nell’intestino tenue, mentre il colesterolo, che è un lipide semplice - e quindi non subisce idrolisi - viene assorbito come tale (Fig. 14-4). I lipidi, non essendo solubili in acqua, formano gocce macroscopiche nel tratto gastrointestinale e devono, quindi, venir emulsionati in micelle finemente disperse per venire a contatto con gli enzimi idrolitici. Ciò avviene ad opera dei “sali biliari”, molecole anfipatiche a natura lipofilass ed idrofilatt, che formano micelle miste composte da sali biliari e da triacilgliceroli. I sali biliari sono sintetizzati nel fegato, immagazzinati nella colecisti e secreti nell’intestino tenue secondo necessità. La digestione dei triacilgliceroli implica l’idrolisi, da parte delle “lipasi pancreatiche”, dei legami esterei fra acido grasso e glicerolo, mentre i fosfolipidi vengono idrolizzati dalla “fosfolipasi” secreta dal pancreas. I prodotti della degradazione vengono assorbiti dalle cellule della mucosa intestinale. In queste cellule si risintetizzano triacilgliceroli che, insieme al colesterolo, – legati in aggregati lipoproteici detti “chilomicroni” – raggiungono il sistema linfatico, quindi il sangue e, infine, il muscolo ed il tessuto adiposo. Nei capillari di questi tessuti la “lipoproteina lipasi” idrolizza i triacilgliceroli a glicerolo ed acidi grassi, che entrano nelle cellule dei tessuti bersaglio. Nel muscolo, gli acidi grassi vengono ossidati per produrre energia, nel tessuto adiposo le cellule adipose (“adipociti”) risintetizzano i triacilgliceroli e li immagazzinano. Quando viene richiesta energia, la lipasi delle cellule adipose idrolizza i trigliceridi immagazzinati e gli acidi grassi vengono rilasciati nel sangue, dove si legano all’albumina serica con interazioni idrofobiche e vengono distribuiti ai tessuti secondo necessità. Il fegato ha, infine, il compito di assorbire i residui di chilomicroni - che contengono ancora colesterolo – e di rimuoverli dal circolo entro due-tre ore dal pasto. Beta-ossidazione degli acidi grassi Il catabolismo degli acidi grassi (R-COOH) prevede, preliminarmente, la loro attivazione come acil-CoA, secondo la reazione:

R-COOH + HS-CoA + ATP RCO-SCoA + AMP + PPi

ss tt

Natura dovuta allo scheletro steroidale carbonioso. Per la presenza di un gruppo carbossilato e di tre ossidrili alcolici.

42

catalizzata da acil-CoA sintetasi, con formazione di un legame tioestere fra il carbossile dell’acido grasso ed il gruppo tiolico del coenzima A. Il catabolismo degli acidi grassi avviene, all’interno dei mitocondri, con un processo ossidativo detto betaossidazione e porta alla cessione, per ogni ciclo ossidativo, di frammenti a 2 atomi di carbonio di acetil-CoA con formazione dell’acido grasso con 2 carboni in meno. La beta ossidazione avviene in 4 reazioni enzimatiche:  nella prima, che è una deidrogenazione FAD dipendente, si introduce un doppio legame “trans” in alfa al carbossile;  nella seconda reazione la somma di acqua al doppio legame porta ad un -idrossi-acil-CoA che viene, nella terza reazione, ossidato a chetone con produzione di NADH;  nella quarta reazione, infine, si ottiene dalla scissione del -cheto-acil-CoA, con l’intervento del coenzima A, una molecola di acetil-CoA e una di acil-CoA con 2 atomi di carbonio in meno. Il termine “beta-ossidazione” è spiegato dal fatto che tutte le reazioni descritte coinvolgono l’atomo di carbonio in beta rispetto al gruppo tioestereo. Per il palmitil-CoA, ad esempio, l’equazione complessiva è così configurata: Palmitil-SCoA + HS-CoA + FAD + NAD+ + H2O + (C16) Miristil-SCoA+FADH2+NADH + H+ + CH3COSCoA (C14) La sequenza beta-ossidante è ciclica poiché le quattro reazioni si possono ripetere, accorciando la catena di due atomi di carbonio per volta (Fig. 14-5). Attraverso la beta-ossidazione non viene prodotto direttamente ATP, ma acetil-CoA, FADH2 e NADH, la cui successiva ossidazione nella catena respiratoria mitocondriale provoca la produzione di grandi quantità di ATP. L’acetil-CoA formatosi viene ossidato a CO2 nel ciclo di Krebs, producendo ulteriore FADH2 e NADH per la catena respiratoria e quindi altro ATP: l’energia rilasciata nella beta-ossidazione viene quindi conservata sotto forma di ATP. Anche gli acidi grassi insaturi possono venir ossidati attraverso la beta-ossidazione - con isomerizzazione enzimatica da “cis” a “trans” del doppio legame - perché l’enzima idratasi, che catalizza la somma di acqua al doppio legame, riconosce solo i legami “trans”. Corpi chetonici L’acetil-CoA, che si forma nel fegato dalla beta-ossidazione degli acidi grassi, oltre ad essere ossidato nel ciclo di Krebs, può essere trasformato in “corpi chetonici”uu (Fig. 14-6), che vengono esportati ad altri tessuti. L’acetone viene eliminato con la respirazione, mentre l’acetacetato ed il -idrossi-butirrato vengono trasportati dal sangue ai tessuti extraepatici, dove vengono ossidati per soddisfare la richiesta energetica di questi tessuti. Anche il cervello, in condizioni di digiuno, può utilizzare come combustibile i corpi chetonici e, quindi, indirettamente, anche gli acidi grassi che, come tali, in condizioni fisiologiche, non passano la barriera ematoencefalica.

uu

Acetone, acetacetato e β-idrossi-butirrato.


Biosintesi del colesterolo Anche il colesterolo viene sintetizzato prevalentemente nel fegato a partire da acetil-CoA, con enzimi situati nel citosol, tramite reazioni che, nei primi stadi, portano alla formazione dell’intermedio dei corpi chetonici, il -idrossi--metilglutaril-CoA, che viene poi ridotto, dalla idrossimetilglutaril-CoA redattasi, ad acido mevalonico, da cui, in una serie di passaggi, si ottiene lo scheletro steroidico del colesterolo a 27 atomi di carbonio. Biosintesi degli acidi grassi La degradazione e la sintesi degli acidi grassi sono regolate in modo che, quando è attiva una, l’altra è bloccata. La biosintesi degli acidi grassi avviene nel citosol, a partire da acetil-CoA ed è una via energeticamente costosa perchè determina il consumo di NADPH + H+. Il processo consiste in una sequenza ciclica di reazioni che producono, ad ogni passaggio, l’aggiunta di 2 atomi di carbonio alla catena molecolare. L’acetil-CoA usato nella biosintesi degli acidi grassi deriva prevalentemente dalla decarbossilazione ossidativa del piruvato formato nella glicolisi o nel metabolismo degli amminoacidi. Data l’irreversibilità della reazione che porta ad acetil-CoA ad opera dell’enzima piruvato decarbossilasi, i grassi non possono essere trasformati in carboidrati, mentre carboidrati ed amminoacidi possono fornire grassi all’organismo. L’acetil-CoA è un intermedio chiave del metabolismo (Fig. 14-7), perchè è il prodotto comune del catabolismo di carboidrati, lipidi ed amminoacidi e, da esso, vengono sintetizzati acidi grassi, colesterolo e corpi chetonici, prima che sia degradato, nel ciclo di Krebs, a CO2. L’acetil-CoA fuoriesce dai mitocondri sotto forma di “citrato” - un intermedio del ciclo di Krebs - che passa nel citosol mediante un trasportatore e, per intervento di una liasi, rigenera l’acetil-CoA necessario per la via biosintetica. Attraverso una serie di reazioni catalizzate da un complesso multienzimatico, che si ripetono ciclicamente, viene costruita la molecola di acido grasso (Fig. 14-8). Il processo si ferma dopo 7 cicli, quando si è formato l’acido grasso a 16 atomi di carbonio, il palmitil-CoA, che si stacca dal complesso enzimatico. L’acido palmitico, che ne risulta, può essere allungato ulteriormente ad acido stearico C18 oppure può essere modificato con l’introduzione in catena, non oltre il C-9, di doppi legami a configurazione “cis”. Acido linoleico, linolenico e arachidonico, acidi poliinsaturi che non possono essere sintetizzati dall’organismo, devono essere quindi introdotti con la dieta.

Lezione 15 Amminoacidi e proteine1-6 §1

AMMINOACIDI

Struttura Il termine “amminoacido” è riferito a strutture formalmente contenenti nella molecola un gruppo amminico e un gruppo acido. Questi due gruppi, in realtà, non possono coesistere come tali; sia allo stato solido che in soluzione acquosa, si

trasformano immediatamente nel corrispondente sale. Gli amminoacidi sono quindi composti salini che contengono nella molecola uno “ione ammonio”, NH3+ - eventualmente sostituito - ed uno “ione carbossilato”, COO. Se i due gruppi funzionali sono legati allo stesso atomo di carbonio i composti si denominano “-amminoacidi”; se sono separati da uno o due atomi di carbonio vengono denominati, rispettivamente, -aminoacidi o -amminoacidi. Tratteremo ora solo gli -amminoacidi, poiché sono gli unici che entrano nella costituzione delle proteine. In tutti gli organismi viventi sono presenti le proteine, caratterizzate da una elevatissima varietà di strutture e funzioni biologiche. Le proteine sono tipici polimeri biologici, risultanti dalla polimerizzazione di non più di venti unità monomeriche appartenenti alla classe degli “L-amminoacidi”. Solo alcuni di questi vengono sintetizzati direttamente dall'organismo e, per questo, la specie umana deve assumere, con la dieta, da otto a dieci -amminoacidivv – in relazione all’età del soggetto - necessari per la costruzione delle sue strutture proteiche. I monomeri costituenti delle proteine sono -amminoacidi, portano cioè il gruppo ammonio NH3+, eventualmente sostituito, in posizione , ossia sul medesimo atomo di carbonio al quale è legato lo ione carbossilato e si può loro assegnare la formula generale:  NH3+CHRCOO All'atomo di carbonio dello ione carbossilato si assegna il numero 1, quindi il carbonio  è anche indicato con il numero 2. Classificazione Gli -amminoacidi differiscono tra loro per la natura della catena laterale dell'amminoacido di solito indicata con R. Poiché molte delle loro proprietà – in particolare quando si trovano legati nelle catene proteiche - dipendono dalla natura della catena laterale, si usa suddividere gli -amminoacidi in classi, distinte sulla base della diversa polarità della catena laterale. Tutti i composti che contengono, nella molecola, un solo gruppo NH3+ e un solo gruppo COO, vengono denominati “amminoacidi neutri”. Quando è presente un secondo gruppo COO si usa la denominazione di “amminoacidi acidi” o “anionici”. Se è presente un secondo gruppo basico si usa la denominazione di “amminoacidi basici” o “cationici”. Gli amminoacidi neutri sono ulteriormente suddivisi in “amminoacidi polari” e “non polari” in relazione alla natura polare o apolare delle catene laterali. Le figure 1, 2 e 3 (Fig. 15-1), (Fig. 15-2) e (Fig. 153) mostrano le strutture dei 20 amminoacidi presenti nelle proteine. Poiché gli -amminoacidi sono uniti in lunghe catene proteiche, per brevità, ad ogni singolo amminoacido è stata attribuita una sigla di tre lettere derivata dal nome in lingua inglese. Le catene sono a volte tanto lunghe che anche l'uso delle sigle richiede troppo spazio; si adotta allora una simbologia, nella quale ogni amminoacido è indicato con una sola lettera dell'alfabeto. Abbreviazioni e lettere sono riportate nella tabella 1 (Tab. 15-1) dove sono elencati i nomi degli amminoacidi con le relative abbreviazioni a tre e a una lettera. vv

Questi sono detti “amminoacidi essenziali”.

43


In alcune proteine, oltre ai 20 amminoacidi citati, compaiono anche amminoacidi modificati, derivanti da variazioni successive alla formazione della catena proteicaww. Negli -amminoacidi, costituenti delle proteine degli organismi superiori - con l'unica eccezione della glicina, NH3+CH2 COO - l'atomo di carbonio  è stereogenico e presenta la configurazione L che, nella configurazione molecolare definita convenzione di Fischer, appare con il gruppo NH3+ disposto a sinistra. COO+

H3N

C

H

R

Proprietà Gli -amminoacidi – fisicamente solidi e ad elevato punto di fusione - a causa della struttura salina, sono quasi tutti molto solubili in acqua, mentre lo sono poco o nulla nei solventi organici. La struttura:  NH3+CHRCOO che presenta sia una carica positiva che una carica negativa prende il nome di “anfione” o “ione dipolare”. Poiché nella molecola è presente uno ione carbossilato, l'anfione può anche comportarsi da base, legando un protone secondo l'equilibrio: NH3+CHRCOOH NH3+CHRCOO + H+ catione amminoacido + Il gruppo NH3 può però anche eliminare un protone, manifestando quindi un tipico comportamento da acido, secondo l'equilibrio: NH3+CHRCOO H+ + NH2CHRCOO anione amminoacido In soluzione acquosa, un amminoacido si presenta quindi come “catione amminoacido”, come “anfione” e come “anione amminoacido”, mantenendo un costante equilibrio tra le tre forme. L'equilibrio si sposta in un senso o nell'altro in relazione alla concentrazione degli ioni idrogeno ed in funzione della natura dell'amminoacido. Nel caso degli amminoacidi neutri, in ambiente acido - cioè a bassi valori di pH - predomina l'amminoacido catione. In ambiente alcalino - cioè a valori elevati di pH - prevale l'amminoacido anione. Il catione amminoacido è un “acido biprotico”, in quanto presenta due idrogeni dissociabili. La prima dissociazione riguarda il gruppo COOH: NH3+CHRCOO + H+ (1) NH3+CHRCOOH con un pKCOO– della reazione di dissociazione inferiore a quello dei comuni acidi carbossilicixx. Ciò significa che i cationi amminoacidi sono acidi più forti degli acidi carbossilici e che gli anfioni che ne risultano sono i sali di acidi medio forti. L'anfione subisce una seconda dissociazione che riguarda il gruppo ammonico che dà luogo all’anione amminoacido:

ww

Ad esempio, la 4-idrossiprolina o la 5-idrossilisina che si ritrovano nel collagene. xx Il pK ha valore intorno a 2.

44

NH2CHRCOO + H+ (2) NH3+CHRCOO Il pK di questa dissociazione viene designato come pKNH3+ e, di solito, mostra un valore lievemente inferiore a 10, minore di quello che caratterizza la dissociazione dei sali delle comuni ammine (Lez 1-12 § 2). Il valore del pKNH3+

indica che il gruppo NH3+ dell’anfione è un acido di poco più forte dello ione RNH3+ che si genera dalle comuni ammine. Gli equilibri delle reazioni (1) e (2) dipendono dalla concentrazione di ioni idrogeno della soluzione. Punto isoelettrico e punto isoionico. Si può determinare, per ogni singolo amminoacido, il “punto isoelettrico” pI, definito come il valore del pH al quale, in soluzione, corrisponde la massima concentrazione possibile dell'anfione a carica nulla. La definizione si riferisce al fatto che l’amminoacido, posto in un campo elettrico, a questo pH, non migra preferenzialmente verso alcun elettrodo: un comportamento peculiare degli anfioni. Il valore del punto isoelettrico dipende dalle costanti di equilibrio delle reazioni (1) e (2), ma anche da tutti i fattori che fanno variare le attività delle specie in soluzione, in particolare la natura degli eventuali altri ioni in soluzione, che possono interagire o con l'anione amminoacido o con il catione amminoacido. Il pI deve quindi essere sempre determinato sperimentalmente, individuando, con sistemi opportuni, il valore di pH al quale l’amminoacido non migra verso alcun elettrodo. Quando siano noti i valori delle costanti di equilibrio delle reazioni (1) e (2) è possibile calcolare, in modo approssimativo, il valore del pH che corrisponde al punto isoelettrico. Si definisce come “punto isoionico pIs” di un amminoacido il valore calcolato del pH al quale la concentrazione del catione amminoacido è uguale a quella dell'anione amminoacido. Le formule seguenti permettono di calcolare il valore del punto isoionico dei diversi tipi di aminoacidi. Amminoacidi neutri: pIs = ½ (pKCOO– + pK NH3+ )  6 Amminoacidi acidi: Amminoacidi basici:

pIs = ½ (pKCOO– + pK A)  3 pIs = ½ (pK NH + + pK A)  11 3

Nelle ultime due espressioni per pKA si intende il pK del secondo gruppo acido degli amminoacidi acidi o il pK del secondo gruppo ammonico degli amminoacidi basici. Si può dimostrare infine che ai pH fisiologici - intorno a 7,4 - per un amminoacido neutro l'anfione è la forma largamente preponderante, mentre per l’amminoacido acido lo è la forma anionica e per l’amminoacido basico lo è la forma cationica. Per tale ragione gli -amminoacidi acidi si dicono anche “anionici” e vengono indicati con la denominazione dell'anione (glutammato, aspartato) e, parimenti, gli amminoacidi basici sono detti “cationici”. Reattività. Per quanto attiene alla reattività, si ricorda una reazione estremamente importante nell’ambiente biologico, quale è la formazione di immine - o basi di Schiff - tra il gruppo amminico dell’amminoacido ed un gruppo carbonilico. Questa reazione è particolarmente diffusa nei processi enzimatici che portano sia alla sintesi sia alla degradazione degli amminoacidi ed è il primo stadio della “reazione di transamminazione”:


COO(CH2 ) 2 C O

COO-

COO+

H2N

C

H

-

H2O

(CH2 ) 2 COO C

R

-

COO

§2

-

N

C

-

R

COO

H

PROTEINE

Struttura e funzioni Le proteine sono sostanze di estrema importanza biologica e, con esclusione dell’acqua, sono le sostanze più diffuse nelle cellule animali. Sono polimeri – cioè macromolecole - di grandi dimensioni e di elevato peso molecolareyy. Le loro funzioni biologiche vanno dalla “protezione”, quando sono presenti all’interno della cute, al “sostegno”, quando sono nei muscoli, fino al “contributo energetico”, quando le ritroviamo nel cibo. All’interno della cellula, però, le proteine svolgono i loro ruoli più importanti, sia come enzimi - catalizzando con estrema specificità ed efficienza le reazioni che avvengono nell'organismo - sia come anticorpi reagendo assai specificamente con gli antigeni – sia, infine, come costituenti delle membrane cellulari, dove contribuiscono, attraverso l'assorbimento ed il trasporto selettivo delle molecole, ad assicurare lo scambio tra ambiente cellulare ed extra cellulare e, fra l’altro, a rendere, così, possibili:  la contrazione muscolare;  il passaggio degli alimenti dall'intestino al sistema venoso e linfatico;  la trasmissione dell'impulso nervoso;  la ricezione e la risposta allo stimolo luminoso. Proteine “semplici” sono quelle che contengono solo amminoacidi, mentre si chiamano proteine “coniugate” quelle che incorporano anche una parte non proteica, detta “gruppo prostetico”, unita alla catena, di solito, con un legame covalente. Più in generale, per gruppo prostetico di una proteina si intende una sostanza indispensabile per una determinata azione biologica della proteina stessa. In relazione al gruppo prostetico che le costituisce, si distinguono:  metalloproteine, se contengono ioni metallici;  lipoproteine, se legano lipidi;  glicoproteine, se si associano a carboidrati;  fosfoproteine, se contengono gruppi fosfato;  proteine emiche, se incorporano l’“eme”. Le proteine si formano da combinazioni variabili, per numero e qualità, di unità monomeriche costituite dai venti L--amminoacidi già descritti e ciò crea infinite possibilità di variabili. Chimicamente, si definiscono “peptidi”, “polipeptidi” o “proteine” i composti derivati dalla policondensazione degli L--amminoacidi, i quali sono uniti tra loro con legame ammidico (-CO-NH-) - detto “peptidico” - che si instaura tra il gruppo carbossilato di una molecola ed il gruppo ammonio di un'altra. In relazione al peso della catena, si chiamano genericamente peptidi i composti contenenti da 2 a 100 residui di amminoacidi ed “oligopeptidi” quelli da 2 a 20, mentre assumono il termine di “polipeptidi” o proteine i composti costituiti da cento e più unità monomerichezz. yy zz

Da meno di 10.000 a oltre 100.000. Fino a centinaia di migliaia di unità monomeriche.

In relazione ai singoli residui – NHCHRCO – degli amminoacidi, viene detto amminoacido “N-terminale” quello che contiene il gruppo ammonico alla fine della catena e “C-terminale” quello che contiene, a quel livello, il gruppo carbossilato. NH3+-CHR-CO-NH-CHR-CO-NH-CHR-COO tripeptide In un peptide il numero dei residui si indica premettendo la radice greca del loro numero al termine peptide. Ogni singolo residuo deriva il suo nome da quello del corrispondente amminoacido in cui la desinenza è sostituita da “il”, mentre l'amminoacido C-terminale conserva il suo nome. Nelle rappresentazioni delle strutture, di solito, non si indicano quelle dei singoli residui degli amminoacidi, ma si usano le loro sigle separate da trattini orizzontali che rappresentano i legami peptidiciaaa. Quando, però, è necessaria una numerazione dei singoli residui, essa inizia dall'amminoacido N-terminale. Proprietà Il legame tra il carbonio carbonilico e l'atomo di azoto non è un legame semplice. Ciò ha conseguenze sia sulle proprietà chimiche, sia sulla struttura dei polipeptidi. Come avviene per il legame ammidico, l'atomo di ossigeno fortemente elettronegativo attira verso di sé il doppietto elettronico del doppio legame tra carbonio ed ossigeno, provocando lo spostamento del doppietto dell'azoto verso il carbonio. Il legame peptidico deve quindi essere rappresentato come un ibrido tra due strutture limite: 

_ C

O  C

C

-

 O

N H

C C

+ C N

H

La molecola risulta rigida e piana intorno al legame tra il carbonio carbonilico e l'azoto ammidico, proprietà caratteristica del doppio legame. L'ossigeno carbonilico e l'idrogeno ammidico sono in configurazione “trans” e ciò si verifica perché, in questo modo, i gruppi più ingombranti cioè i residui R degli amminoacidi – risultano, per quanto possibile, lontani tra loro. Data questa struttura del legame ammidico, l'atomo di azoto del legame peptidico risulta assai più povero di elettroni di un azoto amminico. Conseguentemente, in ambiente acquoso, esso non lega protoni e non genera sali neppure in presenza di acidi forti. Come per le ammidi, l'idrolisi a pH 7 è così lenta che richiederebbe molto tempo per avvenire; l'idrolisi, infatti, decorre in tempi accettabili solo ad alta temperatura ed in presenza di acidi o di basi forti, ma può avvenire in acqua ed ai pH fisiologici, quando sono presenti enzimi - come le “proteasi” - capaci di catalizzare la scissione del legame peptidico. In tal modo, l'organismo ottiene, dalle proteine, gli amminoacidi essenziali che non è capace di sintetizzare. Livelli strutturali. Le proteine possiedono più livelli strutturali. La struttura “primaria” e “secondaria” - derivanti, rispettivamente, dalla configurazione sequenziale e spaziale della molecola in ragione dei diversi legami peptidici che si configurano in essa e che spiegano la profonda variabilità biologica delle principali funzioni proteiche - e la struttura aaa

Ad esempio, Gly-Gly-Gly - o G-G-G - indica il tripeptide glicilglicilglicina.

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“terziaria” e “quaternaria” – derivanti, rispettivamente, dalla conformazione tridimensionale e multi-polipeptidica della molecola, in ragione di legami covalenti e non covalenti che si vengono a creare fra catene diverse o aree diverse e distanti della stessa catena e che spiegano gran parte delle caratteristiche chimico-fisiche della molecola e le sue funzioni biologiche più complesse e specifiche. Struttura primaria. La struttura primaria di una proteina è la sequenza con cui i residui di amminoacidi, legati con legame peptidico, si succedono lungo la catena polipeptidica ed è determinabile effettuando, in modo sequenziale e con particolari metodologie, l'idrolisi della catena polipeptidica oppure utilizzando la spettrometria di massa. Se si modifica la struttura primaria di un peptide – cioè, se si altera chimicamente la sequenza sostituendo uno o più amminoacidi della catena con amminoacidi diversi - può modificarsi notevolmente anche l’attività biologica. I livelli strutturali superiori determinano la forma tridimensionale della proteina, essenziale per la sua attività biologica. Struttura secondaria. La struttura secondaria di una proteina è dovuta all'instaurarsi di un gran numero di legami di idrogeno che si originano dai suoi legami peptidici. Si verifica spesso che la catena polipeptidica, notevolmente irrigidita a causa del carattere di doppio legame del legame peptidico, formi legami di idrogeno all'interno della catena. Supponendo che la catena polipeptidica si disponga con l'amminoacido N-terminale all'estremità inferiore, essa si avvolge, come una scala a chiocciola, su se stessa - in senso destrorso o antiorario, guardando dal basso - per l'instaurarsi di legami di idrogeno tra l'atomo di ossigeno del gruppo carbonilico dell'amminoacido N-terminale e l'idrogeno del gruppo NH del quinto residuo amminoacidico. Il legame si ripete per tutte le coppie costituite dagli ossigeni dei successivi gruppi CO e dagli idrogeni dei successivi quinti gruppi NH. Ne risulta una spirale, cioè una struttura ad “alfaelica”, in cui ogni spira corrisponde a 3,6 residui di amminoacidi con le catene laterali sporgenti verso l'esterno. La catena polipeptidica può anche formare legami di idrogeno con altre catene polipeptidiche. Ad esempio, può costituire una struttura a “beta-foglietto” con catene parallele o antiparallele, la cui associazione viene stabilizzata da legami di idrogeno fra i gruppi C=O di una catena ed i gruppi NH dell'altra e viceversa, mentre le catene laterali dei singoli residui risultano alternativamente da parti opposte rispetto al piano individuato dal legame peptidico. Molte proteine alternano tratti ad alfa-elica con tratti a betafoglietto oppure con tratti in cui non è riconoscibile alcuna struttura regolare. Struttura terziaria. Le proteine possono presentare una grande varietà di forme, essendo sottoposte ad un gran numero di interazioni all'interno della molecola, con altre molecole proteiche o con il solvente acqua. Si definisce struttura terziaria la conformazione tridimensionale assunta dalla catena polipeptidica, a causa delle interazioni che si verificano tra le catene R dei diversi amminoacidi costituenti la proteina. Le interazioni possono realizzarsi anche tra residui molto distanti nella catena polipeptidica, determinandone, quindi, il ripiegamento. Le principali interazioni in ordine di energia decrescente - ma non necessariamente in ordine di importanza, sono i seguenti. 1) Legami covalenti. Il più tipico per le proteine è il “ponte disolfuro” fra due residui di cisteina. Esso avvicina due residui che, nella struttura primaria,

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possono essere anche molto lontani. Un altro legame covalente che si ritrova più raramente nella struttura terziaria è il “legame estere” tra un carbossile di un amminoacido e un ossidrile di uno dei vari amminoacidi ossidrilati. 2) Interazioni ioniche. I residui degli amminoacidi cationici ed anionici portano cariche che tendono a neutralizzarsi a vicenda. 3) Legami di idrogeno. Questo tipo di interazione è frequente nelle proteine poiché sei dei venti residui amminoacidici portano catene polari. Il legame di idrogeno può stabilirsi all'interno della catena polipeptidica, come succede, ad esempio, tra un ossidrile della serina, della treonina o della tirosina ed un atomo di ossigeno carbonilico del gruppo ammidico dell'asparagina o della glutammina. Questi legami, però, possono formarsi anche tra i residui della catena e l'acqua. 4) Interazioni idrofobiche. Le catene idrocarburiche degli amminoacidi non polari non hanno alcuna tendenza a porsi a contatto con l'acqua e in una struttura ad alfa-elica i vari residui non polari interagiscono tra loro attraverso interazioni di van der Waals molto deboli, ma non trascurabili, specie a piccole distanze interatomiche. La struttura terziaria assunta dalla molecola, in seguito allo stabilirsi delle varie interazioni, rappresenta un minimo di energia per la molecola, quindi una conformazione stabile in cui i residui più polari sono rivolti verso l'acqua e proteggono dall'azione del solvente le porzioni meno polari spesso avvolte ad alfa-elica. La determinazione della struttura terziaria può essere effettuata solo con metodi chimico-fisici, in particolare con la diffrazione dei raggi X di un cristallo di proteina o mediante tecniche di risonanza magnetica nucleare. In molte strutture la molecola assume una conformazione essenzialmente sferica. In tal caso, le proteine che la presentano sono dette “globulari” e sono le più disperdibili in acqua. La conformazione globulare, infatti, presenta all'esterno i residui polari che favoriscono la dispersione e racchiude i residui non polari che, grazie ad interazioni idrofobiche, si avvicinano tra loro. Si sono, infine, osservate anche conformazioni allungate a sigaro o a lancia e, in tal caso, le proteine che le presentano sono dette “fibrose”. Struttura quaternaria. Per una gran parte delle proteine l'azione biologica è legata ad una particolare organizzazione strutturale che può comprendere più di una catena polipeptidica con propria struttura terziaria. Si definisce struttura quaternaria di una proteina, biologicamente attiva, l'insieme delle singole catene polipeptidiche dette subunità. Le singole subunità si uniscono per azione di legami ionici o di idrogenobbb, piuttosto che attraverso legami covalenti, tipici degli oligomericcc. In ambiente acquoso ogni proteina si comporta da “anfolita” – cioè, come una base in ambiente acido e come un acido in ambiente basico - proprio come gli amminoacidi.

bbb

Le quattro subunità della emoglobina, proteina che lega l'ossigeno e che contiene ferro, sono unite tra loro con legami di idrogeno. ccc A volte, però, come se nel caso dell'insulina, le due catene sono unite con legame disolfuro.


Di ogni proteina, inoltre, si può misurare un punto isoelettrico pIddd. Al punto isoelettrico, la proteina si comporta come gli anfioni degli amminoacidi. In particolare presenta il minimo di solubilità, perché l'acqua deve vincere le forti interazioni dei legami ionici per inserirsi tra le molecole, mentre, se i gruppi acidi o basici non sono ionizzati, il solvente deve superare solo le più deboli interazioni del legame di idrogeno. Denaturazione delle proteine. L'attività biologica delle proteine in generale è strettamente dipendente dalla loro conformazione e bastano piccole modificazioni della struttura tridimensionale per osservare notevoli variazioni delle proprietà biologiche. La struttura tridimensionale viene persa in parte o completamente se i deboli legami che la stabilizzano si rompono. Gli agenti che modificano la struttura spaziale di un peptide possono provocarne la “denaturazione”, cioè il passaggio da un assetto ordinato ad uno disordinato e casuale, senza peraltro dar luogo alla scissione di alcun legame covalente. Il processo decorre spontaneamente perché, nel suo evolversi, l'entropia del sistema aumenta modificando, progressivamente, le condizioni che favorivano energeticamente la struttura ordinata. Una proteina può essere denaturata con: 1) aumento di temperatura, che è, probabilmente, il mezzo più comune per la denaturazione delle proteine alimentari; gli enzimi proteolitici, infatti, esplicano assai meglio la loro azione idrolizzante sulla struttura disordinata delle proteine denaturate - risultanti dalla cottura dei cibi - che sulla struttura globulare; 2) acidi o basi, che provocano variazioni delle cariche elettriche della molecola; come avviene, ad esempio, per l'acido cloridrico nello stomaco che ha la funzione, tra le altre, di denaturare le proteine alimentari; 3) sostanze attive, che possono causare: a) formazione di legami di idrogeno, che possono essere molto forti come con l’urea, NH2CONH2, b) interazione con l'acqua, come succede con i solventi organici ed i tensioattivi, c) competizione con i gruppi ionizzati del peptide, come avviene con le soluzioni saline concentrate. La denaturazione di una proteina è normalmente irreversibile, ma, in alcuni casi, la proteina riesce a tornare alla struttura ordinata, a patto che il “denaturante” venga tempestivamente rimosso dalla soluzione. Metabolismo delle proteine Per questa trattazione si rimanda alla lezione 23 di questo stesso corso (Lez. 1-23 - § 1 e § 2)

Lezione 16 Nucleotidi ed acidi nucleici1- 6 §1

NUCLEOTIDI

Strutture e ruolo biologico I “nucleotidi” rivestono vari ed importantissimi ruoli nell'organismo. Essi rappresentano, infatti, le unità monomeriche degli acidi nucleici ed alcuni di essi sono promotori della gran parte dei processi energetici ed ossidoriduttivi della cellula (Lez. 1-9 § 1). La struttura dei nucleotidi comprende tre parti fondamentali:  una “base nucleotidica”, che è una base eterociclica aromatica;  un “monosaccaride”, che può essere il D-ribosio o il 2-desossi-D-ribosio;  un “gruppo fosfato”. La base nucleotidica è legata con legame -N-glicosidico all'atomo di carbonio 1 del monosaccaride, mentre il gruppo fosfato forma un legame estere con l’ossidrile alcolico in posizione 5 del monosaccaride. Quando il monosaccaride è il ribosio, il nucleotide viene detto “ribonucleotide”; quando, invece, è presente nella molecola il 2-desossiribosio il composto prende il nome di “desossiribonucleotide”. Come si nota nella figura 1 (Fig. 16-1), inoltre, gli atomi di carbonio del monosaccaride sono indicati aggiungendo un apice al numero progressivo (1’, 2’, 3’, ecc.), per distinguere questa dalla numerazione degli atomi di carbonio della base. base N

O

base N

O

5'

HO

P

5'

CH2

O

HO

O

P

1'

4'

OH

H H

OH

H OH

3'

O

CH 2 4'

H

H

3'

2'

OH

OH

O

H

H

OH

ribonucleotide

1'

OH

2'

desossiribonucleotide

Fig. 16-1 Il catabolismo dei nucleotidi, nell'uomo, prevede, come primo stadio, l'eliminazione del fosfato. Ne derivano composti denominati “nucleosidi” o, più precisamente, ribonucleosidi e desossiribonucleosidi, che sono costituiti dal monosaccaride legato alla base con legame -Nglicosidico (Fig. 16-2). base

HO

P

base

N

O O

OH

CH2 H

H

H

OH

OH

nucleotide

N H OC H 2

O OH

H

O

H

H

OH

OH

OH

nucleoside

Fig. 16-2 Nella maggior parte dei casi le basi eterocicliche dei nucleotidi sono derivati della “purina” e della “pirimidina” (Fig. 16-3): N

N

N 9

N

N H

purina

3

N pirimidina

Fig. 16-3 Il legame -N-glicosidico nei nucleotidi si forma con l'atomo di azoto 3 - nei derivati pirimidinici - e con quello 9, nei derivati purinici. Le basi più comunemente presenti nei ddd

Valore del pH che corrisponde a una carica totale nulla.

47


nucleotidi sono indicate nella figura 4 (Fig. 16-4), con i rispettivi nomi d'uso e con le abbreviazioni ad una lettera. NH2

O

O CH3

N

CH

HN

CH O

HN

C

CH

O

C it o s i n a ( C )

O

N H

a d e n o s il

N H

O

P

P

O

O-

U r a c i le ( U )

T i m in a ( T )

O

O

CH

CH

N H

idrolisi. Si noti che la reazione utilizza come reagente l'acqua, il composto presente in maggior quantità nell'organismo e decorre sempre in presenza di adatti enzimi. Per l'ATP il trasferimento di energia avviene in reazioni nelle quali si ha formazione di ADP o AMP (Fig. 16-7). O O

O-

P

H 3P O 4 + H 2O

O-

O-

-

AT P O

NH2

O

N

N

CH

CH C

HC

N H

N

H 2N

L'ATP La cellula richiede per la sua sopravvivenza e la sua riproduzione un continuo apporto di energia, la cui fonte, per gli esseri viventi, è rappresentata principalmente da zuccheri e grassi. Infatti, l'energia libera, prodotta nella degradazione di questi composti, è utilizzata per il lavoro muscolare, per la sintesi delle macromolecole o di altri composti necessari alla sopravvivenza cellulare e, in generale, per ogni processo di tipo endoergonico. Il trasferimento di energia nella cellula si attua con formazione di composti intermedi contenenti legami altamente energetici. Il principale composto di questo tipo è l’“adenosintrifosfato” (ATP), mononucleotide in cui il gruppo alcolico legato all'atomo di carbonio 5’ è esterificato con acido trifosforico (Fig. 16-6). 2

N N

C C H

O -

O

P O

-

O O

P O

-

O O

P O

-

H C

C

N

N O

C H H

2

O

H

H

O H

O H

H

Fig. 16-6 Nelle cellule si trovano anche trifosfati di altri nucleosidi, come il guanosintrifosfato GTP, l'uridintrifosfato UTP ed il citidintrifosfato CTP. L'ATP - la cui caratteristica strutturale consiste nei legami, di tipo anidride, altamente energetici rappresenta il più significativo prodotto del metabolismo energetico dell'organismo. Per comprendere cosa si intende per legame altamente energetico è opportuno considerare la “variazione della energia libera dell'idrolisi”. Ci si riferisce a questa reazione, in quanto il trasferimento di energia è sempre associato ad una scissione del legame tipo anidride o estere così come avviene nel caso della vera e propria

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P

O

ADP

Figura 16-4 Le formule, nella figura 16-4, sono quelle comunemente utilizzate per rappresentare la struttura delle basi nucleotidiche. In realtà le loro strutture sono meglio descritte considerandole come ibridi di risonanza di diverse forme limite che qui non si indicano. Nella doppia elica del DNA, ad esempio, esistono basi puriniche e pirimidiniche accoppiate con una stretta specificità. Ciò significa che una adenina (A) può appaiarsi solo con una timina (T) oppure che una guanina (G) interagisce solo con una citosina (C) e viceversa, attraverso i legami di idrogeno che si formano in misura di due - tra ogni coppia A-T - e di tre, tra ogni coppia C-G (Fig 16-5).

N H

O

O-

G u a n i n a (G )

A d e n in a ( A )

a d e n o s il

N H

N

O -

HN

N

P O-

O

H 3P O 4

O-

a d e n o s il

O

+ H 2O

P

O-

OAM P

Fig. 16-7 La variazione di energia libera G’° di idrolisi dell'ATP in condizioni fisiologiche (pH  7) vale –30,5 kj/mole per ogni residuo di acido fosforico (Pi) eliminato. L'elevato valore della variazione di energia libera di idrolisi dell'ATP può interpretarsi osservando che nella molecola sono presenti due legami polarizzati tra ossigeno e fosforo, in modo che allo stesso atomo di ossigeno risultano uniti due atomi che portano cariche frazionarie dello stesso segno. La molecola ha perciò un elevato contenuto energetico che perde all'atto della scissione dei legami tra gli atomi di fosforo polarizzati e l'ossigeno, come avviene nella reazione di idrolisi. Sappiamo, dalle leggi della termodinamica, che una reazione è spontanea quando presenta un G° negativo. Ciò significa che l'energia immagazzinata nell'ATP è sufficiente a far procedere un gran numero di reazioni biologiche. In particolare, possiamo affermare che la variazione di energia libera, associata all'ATP, è sufficiente a far procedere qualsiasi reazione con G° inferiore a +30,5 kj/mole.

§2

ACIDI NUCLEICI

Struttura Gli “acidi nucleici”, responsabili a livello molecolare del mantenimento della vita e della riproduzione della specie vivente, sono polimeri di condensazione dei nucleotidi, legati fra loro con un legame fosfodiestere che interessa l’ossidrile alcolico in 5’ del ribosio - o 2-desossiribosio - di un nucleotide e quello in 3’ dell’altro nucleotide al quale si lega (Fig. 16-8). I ribonucleotidi sono componenti dell’acido ribonucleico RNA, mentre i desossiribonucleotidi lo sono dell’acido desossiribonucleico o DNA. Come per le proteine, la sequenza dei singoli monomeri costituisce la “struttura primaria” degli acidi nucleici. Data la presenza di molti gruppi contenenti atomi di idrogeno legati ad elementi elettronegativi, possono instaurarsi legami di idrogeno tra i vari monomeri. I legami di idrogeno non si formano solo tra residui di una singola catena, ma anche tra due catene diverse. Un acido nucleico presenta quindi una “struttura secondaria”, determinata dall'instaurarsi di legami di idrogeno che si originano dai gruppi elettronegativi delle basi. La struttura tridimensionale degli acidi nucleici è dovuta, invece, all'instaurarsi di legami deboli o ad interazioni ioniche o dipolari tra i singoli residui e ne rappresentano la “struttura terziaria”.


RIEPILOGO PROPRIETÀ E REATTIVITÀ DEI COMPOSTI ORGANICI. CHIMICA E METABOLISMO DELLE BIOMOLECOLE. LEZIONE 11 La chimica organica è quella parte della chimica che studia i composti del carbonio. Il comportamento dei composti organici dipende dalla presenza nella molecola di gruppi funzionali, raggruppamenti di atomi che sono responsabili della reattività del composto. Gli idrocarburi sono composti poco reattivi, formati solo da carbonio e idrogeno. Lunghe catene idrocarburiche si trovano nei trigliceridi. Il termine fondamentale tra gli idrocarburi aromatici è il benzene. Vengono detti stereoisomeri i composti che hanno uguale struttura molecolare, ma diversa disposizione degli atomi costituenti nello spazio. Un atomo di carbonio legato a quattro sostituenti diversi viene detto asimmetrico (o stereogenico) e la molecola che lo contiene è una molecola chirale. Uno stereoisomero e la sua immagine speculare vengono detti enantiomeri. I diastereoisomeri sono stereoisomeri che contengono due o più atomi di carbonio stereogenici e non sono immagini speculari. E’ il caso dei monosaccaridi. Spesso in ambito biologico un solo stereoisomero viene trasformato da un enzima. Solo gli L-amminoacidi entrano nella costituzione delle proteine. LEZIONE 12 Gli alcoli sono composti caratterizzati dalla presenza del gruppo ossidrile (-OH). I tioli sono composti in cui è presente il gruppo tiolico (-SH). Le ammine sono formalmente derivate dall’ammoniaca NH3 per sostituzione di uno (ammine primarie), due (ammine secondarie) o tre (ammine terziarie) atomi di idrogeno con residui organici. I composti carbonilici sono aldeidi e chetoni, caratterizzati dal gruppo carbonile (C=O). Gli acidi carbossilici sono sostanze a carattere acido in cui è presente il gruppo carbossile (-COOH). I derivati degli acidi carbossilici, in particolare esteri, ammidi, anidridi e tioesteri rivestono grande importanza in biochimica. LEZIONE 13 Nell’organismo i carboidrati hanno funzione energetica e strutturale. Si distinguono in monosaccaridi, oligosaccaridi e polisaccaridi. I monosaccaridi, o zuccheri semplici, sono poliidrossi aldeidi o poliidrossi chetoni che sono definiti come aldosi o chetosi e divisi in base al numero degli atomi di carbonio che contengono (triosi, tetrosi, pentosi, esosi). Il monosaccaride più significativo è il D-glucosio, un aldoesoso noto come zucchero d’uva. Tutti i monosaccaridi contengono uno o più atomi di carbonio stereogenici. Le proprietà dei monosaccaridi a 5 e 6 atomi di carbonio indicano per i composti una struttura emiacetalica ciclica stabile. Dall’unione di due monosaccaridi tramite legame glicosidico si ottiene un disaccaride, dalla policondensazione di numerose unità monosaccaridiche si ottiene un polisaccaride. Il glicogeno, polimero ramificato del glucosio, è il polisaccaride di riserva delle cellule animali. Nel metabolismo dei carboidrati viene mantenuta costante la concentrazione ematica del glucosio. Nella glicolisi, il glucosio, attivato come glucosio 6-fosfato, viene trasformato in 2 molecole di piruvato con produzione di 2 molecole di ATP e 2 molecole di NADH. In presenza di ossigeno il piruvato viene ossidato a CO2 nel ciclo di Krebs; in condizioni anaerobiche viene ridotto a lattato. Il glucosio 6-fosfato può essere utilizzato, dopo isomerizzazione a glucosio 1-fosfato, per la glicogenosintesi. Nella glicogenolisi avviene il distacco progressivo di unità di glucosio 1-fosfato dalla estremità non riducente di una ramificazione. Il glucosio può essere utilizzato nella via del pentoso fosfato con formazione di pentosi, NADPH e eliminazione di CO2. Le cellule possono sintetizzare glucosio da precursori non glucidici, soprattutto dagli amminoacidi delle proteine nella gluconeogenesi. LEZIONE 14 I lipidi sono sostanze molto poco solubili in acqua e solubili nei solventi organici. Si dividono in lipidi semplici e lipidi complessi. Gli acidi grassi sono acidi carbossilici a catena lunga e numero pari di atomi di carbonio, classificati in saturi (contengono legami semplici C-C) e insaturi (contengono legami doppi C=C). I trigliceridi (o triacilgliceroli) sono esteri degli acidi grassi con il glicerolo e costituiscono una importante fonte energetica per l’uomo. Si distinguono in grassi, solidi, in cui maggioritari sono gli esteri di acidi grassi saturi, e oli che contengono prevalentemente acidi grassi insaturi. I fosfogliceridi sono esteri del glicerolo con 2 molecole di acidi grassi e una molecola di acido fosforico, a cui possono esser legate altre molecole polari. Sono costituenti delle membrane biologiche. Gli sfingolipidi contengono, invece del glicerolo, la sfingosina, un amminodiolo. Quando al gruppo amminico della sfingosina è legato un acido grasso, si parla di ceramidi. Il colesterolo è un lipide semplice, a scheletro tetraciclico, precursore biosintetico di ormoni sessuali femminili e maschili, corticosteroidi, acidi biliari e vitamine D, che deriva biosinteticamente dall’acetilCoA. Il metabolismo dei lipidi è di tipo energetico e la degradazione degli acidi grassi produce grandi quantità di ATP. Sintesi e demolizione degli acidi grassi sono regolate in modo che quando una delle due vie è attiva, l’altra è bloccata. I grassi eccedenti il fabbisogno energetico vengono depositati nel tessuto adiposo. Il catabolismo degli acidi grassi, attivati come acilCoA, avviene attraverso un processo ossidativo ciclico di 4 reazioni, detto beta-ossidazione, che porta alla cessione, per ogni ciclo, di una molecola di acetilCoA con produzione di NADH e FADH2. L’acetilCoA viene poi ossidato nel ciclo di Krebs. Dall’acetilCoA si possono anche produrre i corpi chetonici, composti che, in carenza di carboidrati, possono venir utilizzati come combustibile dal cervello. La biosintesi degli acidi grassi avviene a partire da acetilCoA che deriva prevalentemente dalla glicolisi o dal metabolismo degli amminoacidi. LEZIONE 15 Le proteine sono polimeri che derivano dalla policondensazione degli amminoacidi, composti caratterizzati da un gruppo acido NH3+ e un gruppo basico COO. Gli amminoacidi che costituiscono le proteine naturali sono venti e sono alfa-L-amminoacidi. Si classificano in amminoacidi neutri apolari, neutri polari, amminoacidi acidi (o anionici) e amminoacidi basici (o cationici). Il legame peptico, che lega gli amminoacidi nelle proteine, si instaura fra il gruppo carbossilato di una molecola e il gruppo ammonio di un’altra. La struttura primaria di una proteina è la sequenza con cui gli amminoacidi, legati con legame peptidico, si succedono nella catena polipeptidica. La struttura primaria è responsabile dell’attività della proteina. La struttura secondaria di una proteina è dovuta all’instaurarsi di legami di idrogeno che si originano dai legami peptidici. La struttura terziaria è la disposizione tridimensionale assunta dalla proteina, stabilizzata dalle interazioni fra le catene degli amminoacidi componenti: ponti disolfuro fra due residui di cisteina, legami idrogeno, attrazioni elettrostatiche e interazioni idrofobiche. La struttura quaternaria è l’organizzazione strutturale che comprende più di una catena proteica con la propria struttura terziaria. La denaturazione di una proteina rappresenta la distruzione della sua struttura terziaria e secondaria, senza rottura di legami covalenti. LEZIONE 16 I nucleotidi hanno duplice funzione: rappresentano i monomeri degli acidi nucleici e alcuni di essi (ATP) sono preposti agli scambi energetici nella cellula. I nucleotidi sono costituiti da un pentoso (ribosio o 2-desossiribosio), legato con legame beta-N-glicosidico a una base eterociclica aromatica (pirimidinica o purinica) e con legame estereo a una o più molecole di acido fosforico. Il DNA e L’RNA sono polimeri di desossiribonucleotidi (o ribonucleotidi) legati fra loro con un ponte fosfodiestere. Nell’ATP, adenosintrifosfato, la base nucleotidica è l’adenina e il ribosio è esterificato con acido trifosforico. Molte reazioni cellulari possono avvenire solo se accoppiate a reazioni di idrolisi dell’ATP grazie alla rottura dei suoi legami anidridici.

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CAPITOLO 3

BIOCHIMICA CLINICA PER L’OSTETRICIA

Lo studio di destini metabolici delle varie sostanze del nostro organismo, di funzionalità d’organo, di meccanismi e biochimismi fisiologici e patologici, assieme ad una adeguata metodologia per il trattamento del materiale biologico, ha consentito di definire un complesso di indagini di laboratorio atte a supportare ed aiutare il medico ad una corretta valutazione clinicodiagnostica di un individuo. Emerge dalla conoscenza di questa disciplina quanto sia importante la sinergia tra medico, ostetrica e laboratorista.

SEZIONE 6 - CONCETTI DI VARIABILITÀ BIOLOGICA ED ANALITICA Si apprende l’importanza di applicare una rigida standardizzazione nel trattamento preanalitico di un campione biologico quale fase più importante e delicata dell’intero processo analitico e di totale pertinenza dell’ostetrica. La conoscenza delle metodologie utilizzate dal Laboratorio Analisi nelle varie fasi del dosaggio di un campione biologico (dal campionamento al referto), favorendo l’appropriatezza della richiesta da parte del clinico, il trattamento adeguato del campione e l’affidabilità dei risultati, accelera i processi diagnostici per il bene della paziente.

Lezione 17 – Ruolo dell’ostetrica e campione biologico: importanza variabilità preanalitica1

della

Premessa Il corretto campionamento di liquido o tessuto biologico per indagini biochimiche e/o microbiologiche rappresenta per l’ostetrica un momento delicato e complesso della sua professione, che richiede adeguata preparazione e massimo rispetto per la standardizzazione delle procedure, per prevenire le complicanze, per prevenire le infezioni correlate ai punti di prelievoa e per dare il massimo supporto psicologico-assistenziale alla donna. L’ostetrica deve essere a conoscenza di ogni passaggio che riguarda sia la “raccolta” - che prevede un campionamento non invasivo poiché il materiale biologico fuoriesce naturalmente dall’organismo (come, ad esempio, urina e feci) – sia il “prelievo”, che prevede un campionamento invasivo e variamente cruento poiché il materiale biologico, come sangue o liquor o campione bioptico, viene prelevato dall’organismo mediante l’utilizzo di ago, di bisturi o di sonda. Queste procedure possono recare alla persona disagio, ansia, dolore e, talvolta, paura. La figura dell’ostetrica, pertanto, oltre a dover essere un’esauriente informatrice/educatrice per la persona, deve sapere eseguire in modo corretto il prelievo e la raccolta rispettandone le regole. Inoltre, alle donne autosufficienti ed in piene capacità cognitive, l’ostetrica deve saper dare esaurienti spiegazioni per la raccolta. Talvolta tutta questa fase avviene in situazioni di difficoltà per la gravità della patologia della paziente o per la a

Come, ad esempio, il rischio di infezioni da catetere venoso centrale (CVC).

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mancanza di tempo necessario o, ancora, per la mancanza di personale adeguato. Spesso si sottovaluta il momento dell’informazione al paziente e si danno per acquisite delle conoscenze che la persona non possiede. Inoltre, l’ostetrica deve essere competente e molto sicura della manovra sia quando è lei stessa l’artefice diretto e sia quando deve spiegare alla donna ciò che il medico le farà. L’importantissimo ruolo che spetta all’ostetrica nella fase preanalitica di campionamento del materiale biologico, deve pienamente abbinarsi al senso di accoglienza, di relazione e di umanità che ella deve sempre dimostrare verso la paziente. Questa deve essere “accompagnata” fino alla sua guarigione piuttosto che all’accettazione della cronicità della sua malattia e finanche verso una morte serena. Non è vero che un paziente cronico si abitua a certe procedure più o meno invasive. Il paziente cronico ha sempre le sue ansie, paure ed incertezze ed ha bisogno di un continuo supporto psicologico e di un costante aggiornamento sula propria situazione. Grande importanza infine riveste l’igiene e le accortezze che l’ostetrica deve rispettare in quanto, come è ben noto, in ambito ospedaliero - ambulatorio o reparto - circola una grande quantità di microrganismi che possono essere trasmessi alla donna anche dallo stesso operatore sanitario. Variabilità totale Il motivo per il quale nel campo della diagnostica clinica di laboratorio viene richiesta una rigida standardizzazione nelle varie fasi e negli atti da compiere deriva dal fatto che ogni analisi è influenzata dalla variabilità totale, risultante dalla somma della variabilità biologica e di quella analitica. Variabilità biologica. In particolare, la variabilità biologica riguarda fattori che derivano dal soggetto e che possono influenzare il risultato dell’esame. Tale variabilità viene classificata come:


intra-individuale, che misura in un individuo le oscillazioni casuali di un analita attorno al punto omeostaticob; infatti, in genere, ciascun analita è legato al sesso e risente di ogni modificazione fisiologica (età, gravidanza, stile di vita, fumo, alcool) e/o patologica (sindromi, malattie) e/o da assunzione farmaci che avviene, nell’arco della vita, all’interno dell’organismo di un individuo  extra-individuale, che misura le oscillazioni dell’analita tra i punti omeostatici di più individui; tali modificazioni debbono essere sempre prese in considerazione per ciascun analita quando si seleziona, sulla base di criteri di inclusione e/o di partizione, un gruppo di individui che rappresenta o il gruppo in esame o il gruppo cosiddetto di “controllo” (noto anche come “volontari sani” o più precisamente soggetti “apparentemente” sani). Variabilità analitica. La variabilità analitica comprende, invece, tutti i passaggi e gli atti che debbono essere compiuti in laboratorio per arrivare ad un risultato attendibile e utile sia per il clinico che lo ha richiesto sia per il soggetto in corso di esame al fine di confermare o meno l’ipotesi diagnostica. La variabilità analitica consta di tre fasi affidate a categorie di professionisti differenziate e precisamente: 1) fase pre-analitica; questa fase comprende il campionamento biologico, dal prelievo/raccolta alla consegna in laboratorio e spetta soprattutto al personale infermieristico 2) fase analitica vera; questa fase riguarda l’esecuzione dell’esame e tutte le problematiche legate alla vita del laboratorio ed al suo personale, dal tecnico al laureato responsabile 3) fase post-analitica; questa fase riguarda la refertazione del dato e l’interpretazione del suo significato diagnostico nel quadro dell’ipotesi diagnostica formulata dal clinico. É molto importante, in questa fase, il ruolo di tutto il personale del laboratorio - ed in particolare del laureato responsabile – che deve saper e poter interagire con il clinico. 

Variabilità preanalitica Il trattamento preanalitico dei campioni biologici è una delle più importanti e delicate fasi dell’intero processo analitico anche per il coinvolgimento di operatori sanitari esterni al laboratorio, quali medici, ostetriche ed infermieri. L’adozione di precise procedure nel prelievo/raccolta e nelle successive manipolazioni dei materiali biologici ai fini della conservazione dell’integrità chimica, biologica e morfologica del campione contribuisce alla correttezza del prodotto finale dell’atto analitico. Un trattamento improprio può, infatti, invalidare i risultati altrimenti corretti o fornire dati fuorvianti. I campioni biologici impiegati per indagini diagnostiche sono di diversa natura e sono in genere rappresentati da sangue, urine, feci, cellule, tessuti, espettorati, liquor e liquido amniotico.

b

Ogni organismo vivente di ogni specie tende a mantenere costanti i valori di un determinato parametro biochimico

La fase preanalitica deve considerare tutte le possibili condizioni fisiologiche dell’individuoc, lo stato della persona in relazione all’ora del prelievo (ritmi circadiani), la posizione (orto o clinostatismo) all’atto del prelievo, le abitudini di vita come il fumo o un’attività fisica particolare ed eventuali patologie o terapie in atto. Ecco perché si ritiene indispensabile stabilire ed utilizzare condizioni standardizzate, quali, ad esempio, ora del giorno generalmente mattino - stato di nutrizione - digiuno da circa 6-8 ore - postura - ortostatismo o clinostatismo - riposo prima del prelievo ematico e, quando possibile, sospensione di farmaci nel periodo precedente il campionamento. Alle manipolazioni preanalitiche necessarie per il prelievo/raccolta e per il trattamento immediato del campione biologico deve seguire il trasporto (o la spedizione) per la consegna al laboratorio entro i tempi prestabiliti. La fase preanalitica termina con il controllo dell’adeguatezza del campione giunto in laboratorio che avviene secondo determinati criteri di accettabilità. Riassumendo, possiamo dire che la variabilità preanalitica risente di ed è dovuta a:  cambiamenti fisiologici dell’individuo  variazioni del campione che si possono verificare nella fase di raccolta e/o prelievo  alterazioni del campione che possono prodursi nel tempo intercorrente tra prelievo/raccolta e consegna  preparazione preliminare del campione in laboratorio, conservazione ed analisi. Variabilità biologica I fattori. Diversi sono i fattori che caratterizzano la variabilità biologica di un soggetto e quindi di un suo campione biologico. I diversi fattori possono essere divisi in due grandi classi:  non modificabili, cioè di derivazione fisiologica endogena, come razza, sesso, età, attività fisica, gravidanza o menopausa;  modificabili, cioè di derivazione: a) fisiologica esogena, come alimentazione, alcool, clima od altitudine b) parafisiologica, come obesità, fumo, droga o assunzione di contraccettivi c) patologica, per patologia in atto o pregressa d) farmacologica, per trattamento con farmaci in atto. La preparazione del paziente. Si riportano alcuni esempi di indagini che possono essere “disturbate” dalla non osservanza di regole, di protocolli e di standardizzazione della fase preanalitica. Tra i fattori che influenzano questa fase, trattiamo brevemente i principali. Dieta e digiuno. Gli effetti della dieta e del digiuno sui risultati di laboratorio sono molto importanti. Il periodo raccomandato di digiuno è di 6-8 ore. È noto l’aumento della glicemia nella fase post-prandiale, tanto che questo aumento costituisce la base per una delle prove di tolleranza al glucosio.

c

Ad esempio, età, sesso, razza, assunzione di cibo o digiuno, gravidanza, menopausa.

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Il digiuno è necessario per non alterare la lipemia che può persistere elevata a lungo dopo il pasto e può interferire sfavorevolmente in molte metodiche analitiched. Per quanto riguarda la dieta, è opportuno sottoporre i pazienti ad un equilibrato apporto glucidico per alcuni giorni prima di procedere all’esecuzione delle prove di tolleranza al carico glucidico; la concentrazione dei trigliceridi, oltre che dal digiuno, è influenzata da variazioni dietetiche. Un’alimentazione ricca in proteine, mentre non modifica l’azotemia in persone sane, può determinare un aumento consistente in individui con disfunzione epatica o renale. Postura e riposo psico-fisico. Il riposo a letto e la postura possono influenzare la concentrazione di numerose sostanze nel sangue. Questo aspetto è di estrema importanza nella valutazione dei dati di laboratorio riscontrati nei soggetti ambulatoriali rispetto ai risultati dei degenti in ospedale (ospedalizzati). In posizione ortostatica la distribuzione dei liquidi biologici si modifica, il volume plasmatico diminuisce di circa il 10% ed aumenta quello del liquido interstiziale. Di conseguenza la concentrazione di emoglobina, proteine totali e tutte le sostanze, che in circolo sono legate alle proteine (come, ad esempio, il calcio, il colesterolo, i NEFA, la bilirubina) è più alta in pazienti ambulatoriali. L’immobilizzazione completa determina un processo di demineralizzazione del tessuto scheletrico con aumento dell’escrezione urinaria del calcio e del fosforo. L’attività fisica, anche moderata, può influenzare alcuni componenti sierici - ad esempio il livello di alcune attività enzimatiche - specialmente quelli a prevalente localizzazione nella muscolatura scheletrica che, come la fosfatasi alcalina e la creatinfosfochinasi (CPK), tendono in tal caso ad aumentare. Dopo esercizio fisico aumenta anche la concentrazione di ammoniaca, di acido lattico e di acido piruvico. L’emozione e lo stress possono dare luogo a variazioni nella concentrazione di alcuni componenti biochimici, quali il colesterolo - che diminuisce - e gli ormoni tiroidei, il cortisolo, l’adrenalina e la noradrenalina, che aumentano. Negli stress mentali si riscontrano aumenti anche nell’escrezione urinaria delle catecolamine e delle vasopressine. I traumi chirurgici e le contrazioni uterine, in fase di parto, determinano un aumento in circolo degli enzimi della muscolatura, come le CPK. Ritmi crono biologici. Le variazioni ritmiche nel tempo di alcuni costituenti biochimici sono note da anni. Tali variazioni presentano periodi differenti che possono essere di tipo “ultradiano” - durata più breve delle 24 ore - ed “infradiano”, durata più lunga delle 24 ore. I ritmi più diffusi in natura sono comunque quelli “circadiani”, che riconoscono come sincronizzatori più comuni l’alternanza luce-oscurità, sonno-veglia, assunzione di cibo ed eventi della vita sociale. É stata osservata una variazione ritmica circadiana della velocità di eritrosedimentazione (VES), dei livelli ematici di ACTH, di cortisolo, di gonadotropine, di ferro, di calcio, nonché dell’escrezione urinaria di catecolamina, di sodio, di potassio e di fosfati. Sono state infine osservate delle variazioni stagionali nei valori di colesterolemia, con concentrazioni generalmente d

Una lipemia elevata falsa, ad esempio, i valori dell’emoglobina.

maggiori durante l’inverno a causa della dieta e della minore attività fisica. Analogamente, simili variazioni si riscontrano nei livelli ematici, ad esempio, delle vitamine che risentono delle variazioni dovute alla maggiore o minore esposizione al sole (vedi differenze tra popolazioni mediterranee e quelle del Centro-Nord Europa).

Lezione 18 – Il laboratorio nella diagnostica clinica1-2

§1

IL PROCESSO DI LABORATORIO

Le ragioni di un esame Sul versante clinico, le principali ragioni che stanno alla base della richiesta di un esame di laboratorio possono essere riassunte in questi quattro punti: 1) confermare un’impressione clinica o porre una diagnosi 2) escludere una malattia o un sospetto diagnostico 3) fornire informazioni prognostiche 4) effettuare screening di malattia. Ad una domanda corretta, il laboratorio deve quindi rispondere con una risposta altrettanto valida che trova il suo sostegno in un adeguato progetto costitutivo del referto ed in una metodologia dell’affidabilità dei dati forniti al clinico che riposi sull’impiego costante e preciso dei principi della veridicità statistica. La formazione del referto Se si considera il processo di formazione del referto comunicato all'utilizzatore, a partire dal dato reperito nell'indagine, si possono distinguere almeno tre fasi principali: 1) la fase preanalitica 2) la fase analitica 3) la fase della refertazione. Fase preanalitica. La significatività clinica di un esame di laboratorio è legata alla capacità di un esame di identificare in maniera specifica e sensibile i parametri propri del sistema da indagare e quindi alla scelta:  del materiale su cui eseguire l'indagine  dei tempi in cui raccoglierlo  delle modalità di consegna al laboratorio. Non è evidentemente la stessa cosa valutare uno status metabolico ricorrendo a misure su urine delle 24 ore piuttosto che su urine della prima o della seconda minzione del mattino; né è la stessa cosa valutare lo status glicemico di un individuo a digiuno o dopo la somministrazione di un carico glucidico. Per alcuni substrati, inoltre, il tempo che intercorre tra la raccolta del campione e la consegna al laboratorio può esser critico, come è documentabile, ad esempio, per il dosaggio plasmatico dell'Ammonio e del Lattato o dell'Acido Urico sulle urine delle 24 ore. Fase analitica. Questa fase riguarda, preliminarmente:  la scelta della matrice  la tecnica di esecuzione dell'indagine, con tutti i passaggi di preparazione del materiale su cui eseguire l'indagine

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 l'esecuzione dell'esame, vera e propria. Con tutta evidenza, questa è la fase ove si evidenzia la specifica competenza del laboratorio all'interno del complesso di indagini che appartiene alla semeiotica del laboratorio d'analisi chimico-cliniche. Fase della refertazione. Questa fase prevede: 1) la formalizzazione del risultato strumentale 2) l'indicazione dei parametri cui fare riferimento 3) un commento relativo al significato clinico o fisiologico del dato, personalizzato sulla tipologia di paziente e/o sull’individuo sorgente del dato stesso. Formalizzazione del dato. La formalizzazione del dato si attiene alle convenzioni accettate dalle Federazioni internazionali che raccolgono le società scientifiche di medicina di laboratorio, ematologia e coagulazione, microbiologia e virologia. In particolare è richiesto che le misure siano espresse in modo coerente mediante l’applicazione del Sistema Internazionale di Misura (SI). Nella pratica è più corretto esprimersi sostituendo al termine “valore normale” il termine “intervallo di riferimento”. In questo caso, individuata arbitrariamente una popolazione “apparentemente sana” ed il più possibile omogenea – per, ad esempio, età, sesso ed abitudini igienico-dietetiche - si determina l'insieme dei valori relativi al parametro da indagare e se ne estrae, con un processo di elaborazione statistica, una serie di dati i cui estremi costituiscono appunto l'intervallo di riferimento. Commento. Queste premesse sono assai utili per poter trarre il massimo dall’informazione contenuta nel dato analitico refertato. E’, tuttavia, necessario capire l’ importanza di creare e mantenere, a tale scopo, uno scambio di informazioni tra chi richiede un’analisi e chi la fornisce; solo così si possono confrontare reciprocamente conoscenze che assicurino non solo la comprensione, ma, soprattutto, aiutino a superare i limiti delle informazioni contenute nel referto e ad evitare errate interpretazioni di un dato.

§2

LA QUALITÀ DEL LABORATORIO

Il dato fornito con il referto - per essere attendibile e, quindi, clinicamente “sicuro” ed utilizzabile – deve tendere alla riduzione dell’errore di laboratorio, attraverso una prassi che assicuri al dato stesso caratteristiche di accuratezza, di precisione, di sensibilità e di specificità (Tab. 18-1); parametri che saranno di seguito illustrati nel dettaglio. Accuratezza e Precisione Accuratezza. Nella teoria degli errori, la “accuratezza” è il grado di corrispondenza del dato teorico, desumibile da una serie di valori misurati, con il dato reale o di riferimento. Facendo una analogia con una serie di frecce scagliate su un bersaglio, più il centro del gruppo di frecce si avvicina al centro del bersaglio, maggiore è l’accuratezza dei tiri. La dispersione del gruppo di frecce non incide sulla accuratezza, ma è definibile in termini di precisione. Nel caso che i tiri siano lontani dal centro e, per giunta, dispersi, i tiri mancano sia di accuratezza sia di precisione1, pertanto il metodo è da ritenersi “non attendibile”. Utilizzando un esempio di maggiore aderenza clinica, possiamo ricordare che uno strumento impiegato per acquisire dei dati potrebbe essere deteriorato o inadeguato allo scopo e, ciononostante, apparire preciso, in quanto i valori ottenuti risultano vicini tra loro. Con una corretta

valutazione, però, i dati rilevati con tale strumento appariranno, probabilmente, poco accurati, nel momento in cui la concentrazione dei valori ottenuti si distanzia dalla concentrazione che ci saremmo aspettati. L'errore costante e ripetibile che si ottiene, in questo modo, è definito anche “errore sistematico”. Precisione. Per fissare ulteriormente le idee con una seconda definizione possiamo affermare che la “precisione” è il grado di convergenza di dati individualmente rilevati su un valore medio della serie cui appartengono. Tornando all’esempio precedente, quanto più le frecce giungono raggruppate, tanto più la serie di tiri è precisa. Non importa quanto il centro del gruppo si avvicini al centro del bersaglio, poiché, come abbiamo visto, questo fattore è determinato dall'accuratezza. La dispersione dei valori può essere prodotta da variazioni casuali e non ripetibili che, in tal caso, possiamo chiamare “errore statistico”. In termini statistici, la precisione è esprimibile come “deviazione standard” di una media calcolata su un numero sufficientemente elevato di rilevazioni, per cui la media acquisisce validità interpretativa - in quanto a precisione di lettura della realtà – tanto più la deviazione standard (dispersione dei dati) tende a zero. Le caratteristiche della precisione vengono definite come:  ripetibilità, quando si valuta la dispersione dei valori di un determinato analita, misurato in diverse aliquote di un campione. I valori sono ottenuti, in un tempo ragionevolmente breve, utilizzando lo stesso strumento in una sola corsa, gli stessi operatori e le stesse condizioni operative  riproducibilità, quando si giudica la dispersione dei valori di un determinato analita, misurato in diverse aliquote di un campione. I valori sono ottenuti, in un tempo relativamente lungo, utilizzando lo stesso metodo, ma con strumenti, corse ed operatori differenti. Sensibilità e specificità di un test La “sensibilità” è la capacità di un test di dosare la minima quantità della sostanza in esame; la “specificità” è la capacità di un test di dosare in modo specifico solo la sostanza in esame. Sensibilità e specificità diagnostica di un test Si definisce sensibilità di un esame diagnostico la capacità di identificare correttamente i soggetti malati, ovvero affetti dalla malattia. Se un test ha un'ottima sensibilità, allora è basso il rischio di falsi negativi, cioè di soggetti che, pur presentando valori normali, sono comunque affetti dalla patologia che si sta ricercando. Alta sensibilità = alta probabilità che un soggetto malato risulti positivo al test; = bassa probabilità che un soggetto malato risulti negativo al test. Si definisce specificità di un esame diagnostico la capacità di identificare correttamente i soggetti sani, ovvero non affetti dalla malattia che ci si propone di individuare. Se un test ha un'ottima specificità, allora è basso il rischio di falsi positivi, cioè di soggetti che, pur presentando valori fuori norma, non sono affetti dalla patologia che si sta ricercando. Alta specificità = alta probabilità che un soggetto sano risulti negativo al test; = bassa probabilità che un soggetto sano risulti positivo al test (Fig. 18-1).

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Sensibilità. La sensibilità è la capacità di identificare correttamente i soggetti malati. In termini di probabilità, la sensibilità è la probabilità che un soggetto malato risulti positivo al test. Si può anche affermare che essa è la proporzione dei soggetti malati che risultano positivi ad un test. Quest'ultima definizione è la più indicata per risalire al calcolo del valore di sensibilità. I soggetti esaminati possono essere sani o malati (Tab. 18-2). Immaginiamo che i soggetti malati siano presenti nel gruppo (a) se positivi al test e nel gruppo (c) se negativi al test. Il rapporto che noi cerchiamo, quindi, è dato dalla formula (a)/(a+c) che si identifica con la “sensibilità” del test in valutazione e che, definita attraverso una proporzione, assume, quindi, valori compresi fra 0 e 1. Potrebbe sembrare che la sensibilità sia l'unica qualità desiderabile in un test che, acquisita una sensibilità del 100%, permettesse la corretta identificazione di una intera popolazione di soggetti malati. Tuttavia, esaminando meglio la questione, si giunge alla conclusione che questa qualità non è sufficiente. È’ infatti necessario che il test scelto riesca ad identificare, come “positivi”, soltanto i soggetti che hanno realmente la malattia, escludendo, da tutti i “positivi”, i soggetti sani. Da tale osservazione discende il concetto di specificità. Specificità. La “specificità” è la capacità di identificare correttamente i soggetti sani. In termini di probabilità, la specificità è la probabilità che un soggetto sano risulti negativo al test, ma può essere anche definita come la proporzione dei soggetti sani che risultino negativi al test. Quest'ultima definizione è la più indicata per calcolare la specificità. Immaginiamo nuovamente che i soggetti sani siano presenti nel gruppo (b) se positivi al test e se negativi al test siano presenti solo nel gruppo (d). Il rapporto che noi cerchiamo, quindi, è dato dalla formula (d)/(b+d) che si identifica con la “specificità” del test in valutazione ed è, analogamente alla sensibilità, definita attraverso una proporzione, assumendo, quindi, valori compresi fra 0 e 1. Il grafico della figura 1 (Fig. 18-1) è volto alla identificazione di soggetti “malati” o sani: il valore-soglia (cut-off) viene posto a 0,8. In questo caso, il test riesce ad individuare tutti i soggetti malati poiché, risultando zero il valore del gruppo (c), il calcolo della sensibilità [(a)/(a+c)] è pari a 1 (100%). Quindi, se si adotterà il criterio di interpretazione secondo il quale "tutti i soggetti con valori del test > 0,8 sono dichiarati malati", si avrà il vantaggio di riuscire ad individuare tutti i malati, ma sarà incluso, tra i positivi, un numero considerevole di soggetti sanie (FP= falsi positivi), con un conseguente abbassamento della specificità. Se, al contrario, si adotta un criterio che consenta di individuare, con certezza, tutti i soggetti sani, cioè quelli non-malati, classificati nel test come negativi, ottenendo così una specificità pari a 1 (100%), allora si deve scegliere, come risulta in figura 2 (Fig. 18-2), un valore-soglia (cutoff) > 1,2 con conseguente riduzione del valore di sensibilità in quanto a molti soggetti malatif (FN= falsi negativi) sarà attribuito lo stato di salute. In genere è conveniente scegliere una situazione di compromesso, scegliendo un valore di cut-off che, come nel e

Quelli appartenenti alla «coda di destra» della distribuzione dei soggetti sani: area in giallo della figura 1. f Quelli appartenenti alla «coda di sinistra» della distribuzione dei soggetti infetti: area in viola nella figura 2

test riportato ad esempio, sia intermedio rispetto all’area di sovrapposizione delle curve dei valori riscontrati. Ciò comporta che sia la sensibilità sia la specificità siano inferiori al 100%, e che quindi si osserverà una certa proporzione di risultati sia falsi positivi sia falsi negativi. Nella pratica di laboratorio esiste, quasi costantemente, una parziale sovrapposizione dei valori delle variabili misurate con i test, pertanto la sensibilità può essere aumentata, ma inevitabilmente e sempre - a spese della specificità o viceversa. Se si diminuisce il cut-off al fine di aumentare la sensibilità, aumentano i falsi positivi; se si aumenta il cut-off al fine di aumentare la specificità, aumentano i falsi negativi.

§3

IL CAMPIONE

La scelta del campione sul quale eseguire indagini di variabili biochimiche segue leggi di opportunità e di convenienza oltre ad essere dipendenti dalla realtà biologica che fa ricercare e dosare le sostanze di interesse clinico in sedi ed in soluzioni diverse. Ricordiamo ora, brevemente, la tipologia del campione di sangue, che normalmente viene utilizzato per gli esami di routine di laboratorio, e le sostanze che, più frequentemente, in essi, sono ricercate. Nei prossimi capitoli verranno descritti dettagliatamente i vari tipi di campioni biologici che possono essere scelti in base alla necessità di accertare o approfondire l’ipotesi diagnostica. Natura del campione di sangue Plasma. Il plasma costituisce la parte liquida del sangue. Il prelievo di questo campione si ottiene per centrifugazione di sangue intero previa aggiunta di un anticoagulante specifico. Siero. Il siero è un composto equivalente al plasma privato di fibrinogeno. L’impiego del siero, al posto del plasma, elimina il rischio di interferenze dovute alla presenza di sostanze anticoagulanti. Sangue “in toto”. Il campione di sangue intero, previa aggiunta di un anticoagulante specifico, è utilizzato per dosare la composizione del sangue (esame emocromocitometrico), analiti che sono all’interno dei globuli rossi (ad esempio, ferritina, folato intraeritrocitario). Analisi chimica del campione Il campione di siero o di plasma viene normalmente utilizzato per la lettura delle componenti chimiche di interesse biologico. Le sostanze che vengono comunemente misurate in tali campioni si distinguono in: Sostanze attive del circolo. Possono essere sostanze, presenti normalmente nel siero o plasma, che svolgono un preciso ruolo fisiologico. Ricordiamo, fra queste, il glucosio, il sodio, il potassio, il cloro, i bicarbonati, le proteine totali, l’albumina, il calcio, il fosforo, il magnesio, i trigliceridi, il colesterolo, gli ormoni, le vitamine e le proteine specifiche. Possono inoltre ritrovarsi in circolo sostanze normalmente non presenti (dette marcatori o markers) che sono indice di alterazioni fisiologiche o patologiche più o meno gravi e che vengono prodotte solo in risposta ad una particolare condizione. Ricordiamo alcuni ormoni della gravidanza ed alcuni markers tumorali. Metaboliti. I metaboliti sono prodotti di scarto del metabolismo, privi di ruolo fisiologico e presenti in circolo

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solo nell’attesa di essere eliminati. Ricordiamo, fra questi, l’urea, la creatinina, l’acido urico, gli ioni ammonio e la bilirubina. Prodotti da danno cellulare. Come conseguenza di una azione lesiva dell’integrità cellulare sono rilasciate numerose sostanze, fra le quali alcune proteine a funzione enzimatica. Ricordiamo la lattico deidrogenasi, le transaminasi, la creatinfosfochinasi, la gammaglutamiltranspeptidasi e la fosfatasi alcalina. Farmaci o sostanze tossiche. In relazione ad assunzioni di farmaci o ad eventi intossicanti, realizzatisi con modalità acute o croniche, può essere utile controllare o monitorare la presenza di queste sostanze nel circolo. Ricordiamo, fra le sostanze più frequentemente ricercate, gli antibiotici, i cardiotonici, gli antiasmatici, gli anticonvulsanti, i salicilati, gli immunosoppressori, l’alcool e le sostanze d’abuso.

Lezione 19 – Campioni biologici più utilizzati1, 2 I principali e più comuni campioni biologici per indagini di laboratorio sono riportati in tabella 1 (Tab. 19-1) assieme al tipo di prelievo da effettuare.

§1

IL CAMPIONE DI SANGUE

L’acquisizione del campione Il prelievo. Il prelievo venoso periferico si effettua da una vena cubitale, utilizzando un laccio emostatico, il quale deve essere allentato non appena l’ago è entrato in vena per evitare completamente la stasi venosa e prevenire fenomeni di emoconcentrazione. Il prelievo capillare può essere ottenuto dal polpastrello di un dito nell’adulto o dal calcagno nei lattanti, frizionando fin tanto che la parte non diventa calda, scartando la prima goccia di sangue e raccogliendo quello che defluisce successivamente, senza premere. L’iperemizzazione che si ottiene con la frizione o con il riscaldamento consente di ottenere sangue “arterializzato” che viene spesso impiegato anche per la determinazione dell’equilibrio acido-base. Il prelievo arterioso si può effettuare dall’arteria brachiale, femorale o radiale. Per l’esecuzione, l’arteria viene immobilizzata e la puntura viene effettuata a 90° rispetto alla superficie cutaneag. Dopo l’estrazione dell’ago applicare una pressione idonea per almeno 5 minuti al fine di evitare la trombizzazione del vaso. Identificazione del campione. Sulle etichette applicate ai contenitori, devono essere riportate tutte le indicazioni necessarie all’identificazione del paziente - nome, cognome, data di nascita, giorno ed eventualmente ora del prelievo - e dell’esame richiesto (analita/i). Attualmente, nei centri ospedalieri informatizzati sono utilizzate etichette con il “codice a barra” contenenti i dati anagrafici e gli esami richiesti.

Bisogna porre attenzione affinché, nelle provette, l’etichetta sia applicata in modo da consentire l’osservazione, almeno in parte, del campione per trasparenza. Volume del campione. Il volume del liquido biologico da prelevare è legato sia al tipo di determinazione sia alla disponibilità del campione in relazione al paziente. Per i campioni prelevati in provetta contenente anticoagulante è richiesta una quantità di sangue prestabilita proporzionale alla quantità di anticoagulante e subito seguita da un mescolamento delicato che è consentito dalla presenza di uno spazio morto nel contenitore. Deve essere qui ricordato che l’unica eccezione a questa pratica è rappresentata dai prelievi destinati al test dell’emogasanalisi e dello stato acido-base, dove è indispensabile che la siringa:  sia completamente piena con totale esclusione di bolle d’aria  sia posta immediatamente in ghiaccio  sia eseguito immediatamente il dosaggio oppure  sia consegnata al più presto al laboratorio. Tempistica della consegna in laboratorio. In tabella 2 (Tab. 19-2) è riportata la stabilità di ciascun analita per sottolineare quanto sia importante il rispetto delle modalità di conservazione dei campioni e dei tempi di consegna esattamente come richiesto dal laboratorio. Il tipo di campione. Il tipo di campione da utilizzare per le indagini di laboratorio programmate può essere (Fig. 19-1):  sangue intero  plasma  siero. Le caratteristiche di questi diversi tipi sono le seguenti:  il siero è la parte liquida che si separa dal sangue coagulato  il plasma è la parte liquida che si ottiene dal sangue con aggiunta di anticoagulanti  il sangue intero è il campione prelevato con l’aggiunta di anticoagulanti. La scelta di impiegare uno di questi tre tipi di campione è legata al tipo di indagine che dovrà essere eseguita e questa sarà:  facoltativa, nel caso di analisi ematochimiche  obbligata, nel caso di indagini ematologiche e coagulative  metodologica, quando si deve mettere a punto un nuovo metodo di dosaggio. Nelle analisi ematochimiche è spesso facoltativo e indifferente l’uso del siero o del plasma. Va evidenziato che la concentrazione di un analita può risultare inferiore nel plasma rispetto a quella nel siero: ad esempio, i livelli di potassio sono mediamente inferiori del 10% nel plasma rispetto a quelli nel siero. Tuttavia ogni laboratorio mette a punto, per ogni parametro, il metodo di dosaggio su siero o su plasma in relazione alla propria organizzazione. L’impiego del sangue intero è principalmente adottato per l’esame emocromocitometrico ed è richiesto nelle determinazioni biochimiche, per dosare la concentrazione intraeritrocitaria di un determinato parametroh, al fine di valutarne la “riserva eritrocitaria”i. h

Ad esempio, il folato o la ferritina. Quando la concentrazione intraeritrocitaria della sostanza è analoga a quella presente nel plasma o nel siero, le determinazioni su plasma o siero si possono effettuare anche su campioni parzialmente emolizzati, purché lo

i g

La parete arteriosa offre maggiore resistenza della pelle e del muscolo ed è abbastanza facile da percepire.

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Problemi specifici del campione di sangue Anticoagulanti e conservanti. Quando per l’analisi è richiesto plasma o sangue intero, per il prelievo si utilizzano provette contenenti l’anticoagulante specifico per l’esame richiesto e nella percentuale stabilita. Oggi è abbastanza diffuso l’uso di provette “vacutainer” con vuoto prefissato ed anticoagulante già inserito nella proporzione idonea al volume di campione di sangue. Tuttavia è buona norma conoscere le procedure da seguire per l’aggiunta di anticoagulante, liquido o in polvere, in provette normali. In caso di utilizzo di anticoagulante liquido - e non disponendo di provetta con vuoto prefissato e contenente già l’anticoagulante - è buona norma:  usare per il prelievo una siringa graduata e a perfetta tenuta  aspirare prima l’anticoagulante e poi il sangue  mescolare accuratamente, ma con delicatezzaj. In caso di utilizzo di anticoagulante in polvere, la sua solubilizzazione costituisce la prima operazione importante da effettuare in provetta, seguita dall’aggiunta del sangue e dal mescolamento delicato. Regola importantissima da tenere sempre presente quando si opera con campioni di sangue in presenza di anticoagulanti o conservanti è che bisogna evitare l’agitazione troppo energica del campione in quanto si potrebbero produrre fenomeni di emolisi meccanica. Principali anticoagulanti. Partendo dal presupposto che non esiste un anticoagulante universale, i principali anticoagulanti in uso sono:  eparina: può essere considerata l’anticoagulante naturale, in quanto presente a bassi livelli di concentrazione nel sangue e nei tessuti; ha attività antitrombinica, blocca la formazione della trombina e del fibrinogeno  EDTA: l’acido etilendiaminotetracetico è un agente chelante che agisce per complessazione e conseguente rimozione degli ioni calcio; è un ottimo anticoagulante, adatto agli esami ematologici in quanto conserva inalterate le componenti cellulari  citrato: questo sale sodico, ha azione complessante sugli ioni calcio e viene usato in ematologia dove costituisce l’anticoagulante di scelta per gli studi sulla coagulazione e per la determinazione della velocità di eritrosedimentazione (VES). Indipendentemente dall’utilizzo dell’anticoagulante possono verificarsi alterazioni sieriche e/o plasmatiche legate a:  cause endogene, come l’emolisi, l’ittero e la lipemiak  cause preanalitiche, come l’emolisi in “vitro” o da errata dietal.

consenta il metodo analitico utilizzato o l’analizzatore di ultima generazione che corregge, entro un certo grado di emolisi, direttamente il dato per l’indice di emolisi. Su plasma si ottengono risultati circa il 10% più elevati rispetto a quelli su sangue intero, a causa del diverso contenuto di acqua nel sangue intero (circa 80%) rispetto al plasma (93%). j Operazione di fondamentale importanza. k In questo caso tutti i campioni vengono dosati. l Quale, ad esempio, eccesso di lipidi. In tali casi viene richiesto, se possibile, un nuovo campione, anche se sarà comunque il laboratorio a verificare la possibilità di utilizzare o meno il campione a seconda del metodo di dosaggio in uso.

Emolisi. L’emolisi rappresenta la causa più frequente di inadeguatezza qualitativa del prelievo del sangue: come conseguenza del fenomeno si ha il passaggio nel siero (o plasma) dell’emoglobina e delle sostanze contenute all’interno degli eritrociti ed il colore della parte liquida è proporzionale al grado di emolisi (Fig. 19-2): questa diventa riconoscibile ad occhio nudo quando la concentrazione di emoglobina nel siero supera i 20 mg/dl. La presenza di emoglobina nel siero (o plasma) può costituire una causa notevole di errore nelle analisi colorimetriche e spettrofotometriche. Altra causa di errore collegata con il fenomeno emolitico è costituita dal passaggio nel siero (o plasma) delle sostanze la cui concentrazione negli eritrociti è maggiorem. Le cause di emolisi più frequenti possono essere:  osmotica, dovuta alla presenza di acqua, di alcool, di altri solventi o disinfettanti, di tensioattivi (detergenti) o di altre sostanze chimiche, nell’ago, nella siringa o nei contenitori  meccanica, dovuta ad una eccessiva fase aspirante al momento del prelievo oppure ad una eccessiva pressione esercitata sullo stantuffo al momento dell’espulsione del sangue dalla siringa. É buona norma togliere sempre l’ago della siringa durante questa operazione e tenere la provetta inclinata  fisica, dovuta ad una conservazione prolungata del campione specie in temperature non idonee, cioè caldo o freddo eccessivo. Il congelamento del campione di sangue determina la lisi completa degli eritrociti attraverso il meccanismo di cristallizzazione dell’acqua eritrocitaria e conseguente rottura delle membrane  biologica od endogena, come ad esempio nelle sferocitosi e nel deficit di enzimi eritrocitari G-6-PD.

§2

ALTRI TIPI DI CAMPIONI BIOLOGICI

Urine Generalità. L’urina è un liquido a composizione variabile; contiene un numero elevato di composti, principalmente di derivazione ematica. Nell’urina confluiscono i prodotti finali sia dei vari catabolismi fisiologici e patologici, sia di sostanze esogene ed endogene. L’analisi delle urine fornisce informazioni concernenti:  condizioni anatomico/funzionali del rene  presenza di alterazioni delle vie urinarie, come infezioni o tumori  eliminazione anomala di sostanze esogene, come farmaci o sostanze tossiche. Pertanto, l’esame delle urine risulta tra le indagini di primo livello più richieste in quanto il campione, facilmente reperibile, può fornire importanti indicazioni diagnostiche. In particolare, l’utilizzo di tale campione è frequente nei pazienti ricoverati, specialmente in ambito chirurgico o di oncoematologia, anche a scopo preventivon. Esame delle urine. Momento preanalitico. Per una corretta analisi delle urine il campione deve essere emesso da non m

Questo caso vale per il potassio, il folato intraeritrocitario e per taluni enzimi come la lattato deidrogenasi e le transaminasi. n Per prevenire le infezioni e le complicanze correlate all’atto chirurgico o alla malattia, alla chemioterapia, al delicato periodo post-trapianto di midollo.

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urinarie. Corpi chetonici: sono composti chimici che derivano dalla degradazione degli acidi grassi. Normalmente non devono essere presenti nell’urina. Una loro presenza può essere determinata da alterazione del metabolismo dei lipidi, da diabete mellito di tipo I scompensato, da epatiti croniche, da gravidanza, da digiuno prolungato, da esposizione al freddo, da stress, dopo anestesia, da glicogenosi, da sforzi fisici prolungati, da stati febbrili tossici, accompagnati da vomito e diarrea nei bambini. Proteine: normalmente i reni non dovrebbero lasciare passare le proteine nell’urina (vengono bloccate dal filtro glomerulare) in quanto sono sostanze molto importanti per l’organismo e non possono essere smaltite. A volte sono presenti in quantità minime e non patologiche (generalmente albumina e globuline). La loro occasionale presenza potrebbe essere dovuta a diverse situazioni non preoccupanti, per esempio sforzi fisici, malattie febbrili, colpi di calore. Una loro presenza significativa potrebbe essere invece determinata da: anemia, amiloidosi, avvelenamento (da arsenico, bismuto e mercurio), cistite, diabete mellito, glomerulonefrite, gotta, gravidanza, mieloma multiplo, pielonefrite, sindrome nefrosica, shock, malattie vascolari. L’esame si effettua sulle urine raccolte nell'arco delle 24 ore. Bilirubina: proviene dalla distruzione dei globuli rossi a livello del fegato. Normalmente la bilirubina non dovrebbe essere presente nell’urina, se non in piccolissima quantità (0,02 mg/100ml). Una sua eccessiva presenza conferisce alle urine un colore marrone scuro e la presenza di schiuma. Un aumento rispetto ai valori normali può essere dovuto a anemia emolitica o perniciosa, da avvelenamento da arsenico, fosforo e piombo, da carcinoma del pancreas, da calcoli delle vie biliari, da cirrosi epatica, da epatite acuta virale. Pigmenti biliari: urobilina e urobilinogeno sono prodotti di trasformazione della bilirubina, presenti nelle urine in piccolissima quantità (0,5-2,5 mg nelle urine raccolte nell’arco delle 24 ore). Il loro aumento indica epatopatie (virali, acute e croniche, tossiche, cirrosi, neoplasie), anemia emolitica o un'ostruzione delle vie biliari. Le urine con eccesso di urobilina presentano color giallo-marrone ma non formano schiuma. Un’assenza di pigmenti biliari è indice di una severa alterazione della funzionalità epatica. Nitriti: la presenza di nitriti nelle urine è indice di infezioni delle vie urinarie. Il test si basa sulla capacità di alcuni batteri di ridurre i nitrati a nitriti. La positività è indice di batteriuria dovuta a Escherichia coli, Proteus, Klebsiella, Pseudomonas, Stafilococco, Enterococco. La negatività non esclude un'infezione, perché non tutti i batteri determinano la presenza di nitriti. Glucosio: normalmente nelle urine questo zucchero deve essere assente, perché i reni provvedono al suo completo riassorbimento. Se compare nelle urine, dando luogo alla cosiddetta glicosuria, potrebbe essere il segnale di uno scorretto utilizzo degli zuccheri da parte dell’organismo. Questo potrebbe essere indice di diabete mellito, problemi alla tiroide, neoplasia pancreatica, fibrosi cistica avanzata, emocromatosi, asfissia, tumore o emorragia cerebrale (ipotalamo), ustioni estese, uremia, insufficienza epatica grave, assunzione di corticosteroidi, ACTH, diuretici tiazidici, estro progestinici.

più di 2 ore. Questo è molto importante per l’indagine microscopica del sedimento e per tale ragione si impiega un campione di urine estemporaneo ed il più possibile fresco. Momento analitico. L’analisi di routine comprende:  esame fisico: con definizione di parametri quali colore, trasparenza, odore, volume e peso specifico. In particolare: Aspetto: nella valutazione dell’aspetto vengono presi in considerazione il colore e la torbidità dell’urina. In condizioni normali l’urina deve essere limpida e di colore giallo paglierino. La sua caratteristica colorazione è dovuta principalmente alla presenza di urocromo, urobilinogeno e uroeritrina, pigmenti presenti nella bile ed eliminati con i reni. L’eventuale torbidità delle urine potrebbe essere dovuta a precipitazione di fosfati a pH alcalino, presenza di pus, di muco o di batteri, generalmente indici d’infezioni alle vie urinarie. Qualsiasi sfumatura rossa nelle urine, chiara o scura, può segnalare un anomala presenza di sangue che può essere confermata dall’esame per la ricerca dell’emoglobina. Un’urina di questo colore può semplicemente essere dovuta a una contaminazione dal flusso mestruale o all’assunzione di particolari alimenti o farmaci. Tra le cause patologiche invece si possono manifestare le infiammazioni della vescica, la perdita di sangue dai reni e la porfiria congenita. Una colorazione arancione, simile a quella di un tuorlo d’uovo, può far pensare ad un’eccessiva quantità di urobilina, un prodotto della trasformazione della bilirubina, normalmente presente nell’urina solo in tracce. L’aumento dell’urobilina può essere il segnale di alcune malattie a carico del fegato o del sangue, ma questo dato non può essere utilizzato per fare diagnosi se non confrontato con gli esiti delle analisi del sangue e degli opportuni esami diagnostici. Le urine, che si presentano di colore verde-marrone a causa dell’elevata presenza di bilirubina, sono generalmente indicative di alterata funzionalità epatica. Densità (peso specifico): questo dato varia in relazione alla capacità del rene di mantenere l’equilibrio dei liquidi e degli elettroliti. E' un buon indicatore della funzionalità del rene. Il suo valore è determinato dalla presenza di urea, di proteine, di glucosio, di urobilina, di pigmenti biliari. Se il peso specifico rientra nella normalità, significa che il rene è in grado di assolvere alle sue funzioni e di scaricare tutte le sostanze di rifiuto nell’urina. In condizioni normali il peso specifico varia da 1007 a 1030 (normostenuria): quando vi è disciolta una grande quantità di sostanze è circa 1030; quando l’urina è formata quasi solo da acqua il valore è circa 1010. Valori superiori al normale (iperstenuria) possono essere determinati da disidratazione (ad es. diarrea, vomito, sudorazione, febbre elevata, edema polmonare). Valori inferiori al normale (ipostenuria) possono essere determinati, ad es., da terapia diuretica, abuso di bevande, insufficienza renale, poliuria,. Nell'insufficienza renale cronica il peso specifico delle urine tende a rimanere pressoché costante nel tempo (1007 - 1010 g/L), indipendentemente dallo stato di idratazione dell'organismo; in questi casi si parla di isostenuria per sottolineare l'emissione di urina con peso specifico costante, anche dopo restrizione idrica o introduzione di forti quantità di acqua.

esame chimico semiquantitativo: con definizione di parametri quali pH, glucosio, corpi chetonici, proteine, emoglobina, urobilinogeno e pigmenti biliario. In particolare: pH: l'acidità dell'urina, a differenza di quella del sangue, varia nell'arco della giornata. Valori normali sono considerati tra 4,5 e 8. Fattori che possono rendere le urine acide sono una dieta iperproteica o ricca di frutta (mirtilli) e l’assuzione di farmaci contenenti cloruro di ammonio o metionina. Urine particolarmente acide, con pH inferiore a 5, si riscontrano in caso di calcoli delle vie urinarie. Le urine possono essere alcaline a causa di farmaci a base di bicarbonato di sodio o citrato di potassio, una dieta ricca di agrumi, infezioni alle vie urinarie. Emoglobina: in condizioni normali deve essere assente. La sua presenza nelle urine può essere causata da infarto renale, farmaci contenenti fenacetina, chinino e arsenico, trasfusioni di sangue di gruppo incompatibile, ustioni estese, malaria e infezioni alle vie o

Eseguito con striscia reattiva.

esame microscopico del sedimento, che permette di identificare: a) elementi organici, come leucociti, emazie, cellule epiteliali, cilindri, muco, batteri e parassiti b) elementi inorganici, come precipitati amorfi, cristalli e calcoli. Viene eseguito sul sedimento del campione urinario, ottenuto per centrifugazione delle urine. Leucociti: la presenza di leucociti nelle urine è segno aspecifico di infezione delle vie urinarie. Il valore normale dei leucociti è di 1-2 per campo microscopico (40X). Un aumento massivo dei leucociti è generalmente indice di infezione acuta. Un aumento moderato può essere indice di glomerulonefrite, cistite acuta o cronica, neoplasie della vescica, prostatite, uretrite, o traumi. Eritrociti: normalmente nelle urine dovrebbero essere assenti o presenti in quantità modeste (nel sedimento normale sono 0-2 per campo). La loro presenza nell’urina viene definita ematuria. Le cause più frequenti per la loro presenza sono sangue mestruale nella donna, oppure disturbi alla coagulazione del sangue, calcoli, leucemie, neoplasie benigne e maligne, tubercolosi renali, cirrosi epatica, glomerulonefrite. L’ematuria può essere causata anche da farmaci (aspirina, salicilati, atropina, sulfamidici ed

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anticoagulanti). Cellule epiteliali: la presenza delle cellule epiteliali nelle urine rappresenta il normale ricambio cellulare dell'epitelio delle vie urinarie. In condizioni normali, l'esame evidenzia poche cellule per campo microscopico. Un eventuale aumento può essere conseguenza dell’applicazione del catetere uretrale e del massaggio prostatico. Cilindri: si tratta di agglomerati di proteine e di altri elementi che si formano nei tubuli renali. Normalmente, nel sedimento urinario, non sono presenti e la loro esistenza indica una sofferenza renale. A seconda della loro composizione, i cilindri sono sintomi di diverse disfunzioni dei reni: - cilindri cerei, di consistenza densa e omogenea, che si riscontrano nelle nefropatie avanzate e nella amiloidosi renale - cilindri jalini, che non hanno alcun significato patologico particolare e si riscontrano dopo anestesie, dopo sforzo fisico, nelle nefriti - cilindri batterici, che si riscontrano raramente - cilindri eritrocitari, che permettono di accertare l'origine renale di una ematuria e sono presenti nelle nefriti acute e croniche - cilindri leucocitari, che permettono di accertare l'origine renale di una alterazione leucocitaria - cilindri granulosi, significativi in tutte le nefropatie se accompagnati da albuminuria - cilindri con inclusione di goccioline di grasso - cilindri pigmentati, che si riscontrano negli itteri, nelle emolisi acute e nelle mioglobinopatie - cilindri epiteliali, formati da cellule di sfaldamento dell'epitelio e che si riscontrano nelle glomerulonefriti acute. Cristalli: sono spesso presenti nelle urine, anche in assenza di particolari problemi. I più comuni sono i fosfati amorfi, il fosfato di calcio, i fosfati tripli, il carbonato di calcio, i cristalli di acido urico, gli urati amorfi e l’ossalato di calcio. Tra i cristalli rilevabili in corso di stati patologici vi sono: - la leucina, che può segnalare insufficienza epatica - la cistina, che può segnalare patologie a livello renale - la tiroxina, tipicamente aumentata nell’insufficienza epatica - i cristalli di sulfadiazina, la cui presenza è in relazione all’assunzione di sulfamidici. Batteri e miceti: in condizioni normali l’urina è sterile. La presenza di batteri o funghi, associata alla presenza dei leucociti, è indice di infezione. In tal caso, questo esame sarà affiancato da urinocoltura.

Tali indagini permettono di approfondire le situazioni che possono risultare interessanti. Infatti, ad un’analisi fisica e semiquantitativa (indicata con il termine generico “esame delle urine”) o ad un’analisi qualitativa di accertamento preliminare particolare (come ad esempio il test di gravidanza) possono seguire:  analisi quantitativa per sostanze endogene presenti normalmente o in situazioni patologiche, come la glicosuria  determinazione di farmaci e di loro metabolici  indagini farmacologiche e/o tossicologiche  analisi batteriologiche  analisi citologiche. La modalità di raccolta e di conservazione del campione deve essere adeguata al tipo di analisi che si intende eseguire. La raccolta delle urine. La raccolta di un campione di urina emessa spontaneamente è cosa molto semplice e di scarso disturbo per la persona; inoltre può essere eseguita direttamente dalla stessa purché abbia i requisiti fisici e mentali per collaborare. Il contenitore di raccolta deve essere pulito e, per le urinocolture, sterile. Per le indagini più comuni, il cosiddetto “esame completo delle urine”, il campione da esaminare deve essere preferibilmente rappresentato dal mitto intermedio della prima minzione mattutina (il primo mitto deve essere scartato e si raccoglie il secondo o mitto intermedio).

Le urine devono essere consegnate al laboratorio al più presto possibile - entro 2 ore al massimo - per evitare modificazioni morfologiche dei componenti del sedimento, crescita di germi ed alcalinizzazione del materiale. Per ogni raccolta delle urine è necessaria la massima igiene tramite lavaggio delle mani - prima e dopo minzione - e dei genitali con sapone neutro ed adeguato risciacquop. Deve essere evitata ogni possibile contaminazione del contenitore attraverso le mani, i genitali o il tappo del contenitore. In particolare, le donne debbono escludere la via vaginale con un tampone. Per l’assistenza a quest’indagine raccomandiamo i seguenti accorgimenti da adottare:  lavare le mani prima e dopo la minzione  raccogliere il campione senza contaminare il contenitore  portare subito il campione in laboratorio con i dati anagrafici e l’ora della minzione. La modalità di raccolta prescrive l’impiego dell’urina da mitto intermedio della prima minzione mattutina, da campione casuale, da sacchetto adesivo sterile per i neonati, da catetere vescicale e, più raramente, da cistotomia sovra pubica (effettuabile dal medico). Il cateterismo dovrebbe essere evitato, salvo casi particolari, perché è un procedimento strumentale che determina frequentemente contaminazione batterica del tratto urinario. Temporizzazione della raccolta. I campioni possono essere raccolti in momenti e con modalità diverse in relazione all’obiettivo dell’esame. Ricordiamo le seguenti modalità. Campione di primo mattino. Questo è il campione più concentrato, utile per le indagini morfologiche e per il test di gravidanza, mentre per la valutazione delle alterazioni metaboliche - come ad esempio il diabete – è preferibile un campione raccolto a 3 ore dal pasto. Campione casuale. Questo viene raccolto indifferentemente nelle 24 ore, è ottenibile al bisogno e non presenta problemi di conservazione. Il contenitore per il campione di prima mattina e per quello casuale deve essere pulito e/o sterile, chiaro e trasparente, inerte, stabile, a bocca larga con coperchio a tenuta ed avere una capacità di 50/100 ml. Campione temporizzato. Questo è costituito dalla raccolta delle urine escrete, in genere, nelle 24 ore. La persona deve conservare le proprie abitudini alimentari e di stile di vita per tutto il periodo della raccolta. La modalità di raccolta è la seguente: la minzione della prima giornata deve essere scartata mentre devono essere raccolte tutte le altre minzioni compresa la prima della seconda giornata. Il contenitore del campione di urine deve essere ben pulito, di capacità adatta (2000-2500 ml circa), graduato, non trasparente e deve essere conservato correttamente (refrigerato) per tutto il tempo che precede la consegna al laboratorio. E’ molto importante prendere nota del volume totale delle urine escrete, specialmente nel caso che vada consegnata solo una porzione di campione raccolto; in tal caso, prima di prelevare questa porzione (che deve risultare pienamente rappresentativa del campione totale), il contenitore va agitato con delicatezza per risospendere il sedimento. La raccolta delle urine delle 24 ore è richiesta per motivi particolari: in primis per verificare la funzionalità renale tramite la misura della diuresi (oliguria o poliuria), poi per determinare alcune sostanze (ad esempio, ormoni) soggette a p

É assolutamente vietato l’utilizzo di disinfettanti e/o saponi di altro tipo.

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variazioni cronobiologiche oppure presenti in quantità talmente piccole da non essere dosabili nel campione della prima minzione. Urinocoltura. Questa indagine rappresenta il metodo d’elezione per documentare un’infezione urinaria e permette di identificare il patogeno responsabile. Per effettuare l’urinocoltura sono tassativamente richiesti contenitori sterili, nei quali raccogliere direttamente il mitto intermedio - oppure anche il primo mitto in caso di sospetta infezione del tratto uretrale –e la “apertura-chiusura” del contenitore nel più breve tempo possibile per evitare, a maggior ragione, ogni contaminazione con l’esterno. Il campione va poi inviato al laboratorio il più velocemente possibile. É importante informare la persona collaborante sulla modalità di raccolta, sul lavaggio accurato dei genitali con sapone neutro e sulla necessità di rispettare il più possibile la sterilità del contenitore. Il primo mitto deve essere scartato e si raccoglie il secondo o mitto intermedio. Qualora si sospettasse un’infezione a livello uretrale, si deve raccogliere anche il primo mitto in un contenitore diverso. In pazienti cateterizzati, la raccolta viene effettuata dal catetere, disinfettando preliminarmente il gommino posto sul catetere; si preleva l’urina con una siringa e la si trasferisce nella provetta sterile, avendo l’accortezza, prima di effettuare la raccolta, di clampare per qualche minuto il catetere a monte, per raccogliere un campione con maggior carica microbica. Le stesse modalità sono consigliabili anche per l’esame fisico-chimico dell’urina. Feci La raccolta delle feci. Anche questo è un campione facilmente ottenibile, non invasivo e molto utile dal punto di vista diagnostico. L’esame di base delle feci include l’ispezione del campione in termini di quantità, consistenza, colore e successivamente l’esecuzione di un esame per la ricerca del sangue occulto. I campioni di feci sono raccolti in modo non sistematico, le feci raccolte nell’arco di 24/72 ore devono essere tenute al freddo fino a quando vengono consegnate al laboratorio. In alcuni casi la raccolta delle feci implica che il paziente segua una dieta speciale o che sospenda l’uso di certi farmaci. La ricerca di sangue occulto è utile nella fase iniziale della valutazione di diverse patologie. Questa indagine rileva unicamente la presenza di sangue e, se positivo, implica l’esecuzione di ulteriori indagini. Viene usato, ad esempio, nell’ambito dei programmi di screening delle malattie neoplastiche intestinali e per la diagnosi precoce delle stesse. Questo esame può essere eseguito dall’ostetrica al letto della paziente oppure può essere effettuato anche dalla paziente stessa, se è in condizioni idonee di lucidità e di autonomia. Se la persona non è ospedalizzata, l’esame può essere eseguito direttamente in casa dal soggetto stesso. Presenza di sangue nelle feci. L’esame del sangue occulto rileva la presenza dell’eme, la porzione cioè della molecola dell’emoglobina che contiene ferro e che viene modificata dal metabolismo intestinale. I derivati dell’eme possiedono attività perossidasica e sono in grado di ossidare composti organici utilizzati come indicatori colorimetriciq.

Grandi quantità di sangue liberate nelle alte vie digerenti producono una quantità di ematina sufficiente a conferire alle feci un colore catramoso nerastro denominato melena. Se il sangue invece é di provenienza dalle basse vie gastroenteriche le feci appariranno striate di sangue rosso vivo; se la quantità di sangue persa dal tratto gastroenterico é minima, le feci appaiono macroscopicamente normali, ma é possibile, in questi casi, evidenziare la minima presenza di sangue nelle feci con l’indagine che si definisce “ricerca del sangue occulto”. Attualmente per la ricerca del sangue occulto nelle feci si utilizza un anticorpo monoclonale anti-emoglobina umana che elimina la necessità di sottoporre il paziente a diete particolari nei giorni che precedono il test, per eliminare le interferenze da alimentazione carnea. É però sempre necessario prestare attenzione all’ingestione anche di piccole quantità di sanguer, che potrebbero dare risultati falsi positivi. In genere il test deve essere eseguito su tre campioni di feci raccolti in tre giorni successivi proprio per evitare possibili interferenze.

Lezione 20

§1

Campioni biologici ottenuti con tecniche di tipo invasivo 1-3

VERSAMENTI IN CAVITÀ SIEROSE

Tipologia e patogenesi dei versamenti Le cavità interne dell’organismo - pericardica, pleurica e peritoneale - sono spazi chiusi, delimitati da membrane, che contengono piccole quantità di liquido sieroso. Questo liquido ha la funzione di facilitare lo scorrimento del foglietto parietale della membrana, che riveste la cavità, sul foglietto viscerale, che riveste la superficie degli organi interni. Meccanismo di formazione di versamenti. Il versamento dipende da uno squilibrio pressorio che spinge i liquidi dai vasi ai tessuti. In condizioni normali, la pressione oncotica ed albumino-dipendente del plasma - che favorisce il riassorbimento dei liquidi nel torrente circolatorio - si oppone al gradiente di pressione idrostatica che, da solo, spingerebbe il liquido fuori dai vasi e verso i tessuti. All’estremità arteriosa del circolo capillare, la pressione idrostatica è di 40 mm Hg e la pressione oncotica è di 25 mm Hg, con un gradiente pressorio netto - che spinge i liquidi dai vasi ai tessuti - di 15 mm Hg. In tali condizioni, se la pressione oncotica del plasma diminuisce, una maggior quantità di liquidi passa dai vasi ai tessuti. All’estremità venosa del circolo capillare, invece, la pressione oncotica è sempre di 25 mm Hg, ma la pressione idrostatica diminuisce a 10 mm Hg; quindi il gradiente pressorio netto in questa zona favorisce il riassorbimento di liquidi dai tessuti al circolo. Qualsiasi situazione che causi un aumento della pressione venosa produce un accumulo di liquido nei tessuti come

r

q

Il derivato dell’emoglobina ad attività perossidasica é l’ematina.

Tipico è l’inquinamento ematico da perdite ematiche gengivali durante il lavaggio dei denti.

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conseguenza diretta dello squilibrio pressorio che si viene a creare. La produzione di essudati è, invece, riconducibile a danni delle membrane sierose provocati da processi neoplastici o infiammatori ; il risultato del processo è la fuoriuscita nei tessuti di molecole proteiche di grandi dimensioni e di altri componenti del sangue. Altri meccanismi che portano alla formazione di versamenti, sia localizzati che diffusi, sono infine riconducibili a fenomeni allergici con aumento della permeabilità capillare o ad ostruzione delle vie linfatiche con diminuzione della quota di liquido interstiziale drenato attraverso il circolo linfatico. Liquidi di versamento nelle cavità sierose Fisiologicamente le cavità sierose contengono quantità minime di un fluido simile al siero per colore e caratteristiche chimico-fisiche. Esso si forma continuamente per ultrafiltrazione del plasma e viene riassorbito attraverso i capillari delle sierose, pertanto, la sua quantità e la sua composizione rimangono stabili. Tale fluido svolge funzioni lubrificanti, favorendo lo scorrimento endocavitario dei visceri, a loro volta rivestiti da membrane sierose come le cavità che li contengono. In condizioni patologiche, a seguito di lesioni infiammatorie, neoplastiche o traumatiche degli organi endocavitari, la quantità del fluido aumenta (versamento) e le caratteristiche chimiche, fisiche e citologiche risultano modificate in funzione della noxa patogena. Eziopatogenesi. Un incremento della quantità di liquido sieroso (definito “versamento”) acquisisce caratteristiche e denominazioni differenti in relazione allo stimolo che l’ha prodotto, in quanto può correlarsi alla:  fuoriuscita di liquido dai vasi sanguigni senza fenomeni infiammatori concomitanti (trasudato)  reazione flogistica o neoplastica dei tessuti (essudato). Spesso lo svuotamento per aspirazione dei versamenti mediante puntura cutanea, eseguita dal medico, è imposta da esigenze terapeutiche, per evitare la compressione degli organi endocavitari da parte del versamento. Se il prelievo viene effettuato a scopo diagnostico, la quantità minima da inviare al laboratorio per un’indagine completa è di 50 ml, con l’aggiunta di un anticoagulante per studi citologici o di eparina per gli esami microbiologici e colturali.

3) i trasudati hanno peso specifico minore di 1,015. Conta cellulare. Il riscontro del numero di cellule presenti all’interno di un versamento deve tener presente che: 1) in condizioni normali non ci dovrebbero essere più di 5 elementi cellulari per campo microscopico ad alto ingrandimento; 2) un numero elevato di cellule o la presenza di granulociti neutrofili è sempre indice di patologia. Analisi chimica. Nell’interpretazione delle indagini chimiche effettuabili sul versamento bisogna ricordarsi che: 1) la concentrazione proteica è più elevata negli essudati che nei trasudati, cioè è minore di 3,0 g/dl nei trasudati e maggiore di 3,0 g/dl negli essudati 2) gli essudati, essendo ad alto contenuto proteico, possono produrre coagulazione spontanea. È sempre importante effettuare l’esame citologico dei versamenti poiché l’eziologia degli stessi può essere neoplastica.

§2

IL LIQUIDO AMNIOTICO

Composizione Il liquido amniotico, contenuto nel sacco amniotico, ha la funzione prevalente di proteggere l’embrione dai traumi di natura meccanica. Esso riveste, oggi, un ruolo importante anche dal punto di vista diagnostico: la sua analisi consente, infatti, di valutare sviluppo e maturità del feto ed il suo stato di benessere o di sofferenza endouterina attraverso esami come l'amniocentesi e l'amnioscopia. La quantità del liquido aumenta con il procedere della gravidanza, fino ad arrivare a un volume che, a termine, oscilla tra 500 e 1200 mls. Si presenta, fisiologicamente, come un liquido limpido, opalescente, composto da: acqua (99%), proteine, lipidi, glicidi, sodio, potassio, calcio, ferro e cristalli di ossalati ed urati. Tra i lipidi sono particolarmente importanti le lecitine e le sfingomieline che entrano nella composizione del surfattante polmonare fetale: dal loro rapporto è possibile valutare lo stato di maturazione dei polmoni del fetot. Amniocentesi Indicazioni. L’amniocentesi consiste in un intervento di prelievo del liquido amniotico che permette di valutare le caratteristiche del corredo cromosomico del feto. s

Esame di laboratorio dei versamenti I criteri di lettura di un versamento possono essere classificati all’interno di quattro tipiche osservazioni di laboratorio. Aspetto macroscopico. L’osservazione macroscopica del versamento ci può far affermare che: 1) i trasudati, come il normale contenuto delle cavità sierose, sono limpidi; 2) gli essudati, dato l’alto contenuto proteico, sono torbidi; 3) un liquido ematico indica la presenza di un processo infiammatorio, di un danno vascolare o di un trauma. Peso specifico. Rispetto a questo parametro è possibile affermare che: 1) il peso specifico è correlato al contenuto proteico 2) gli essudati hanno peso specifico maggiore di 1,015

Variazioni della sua quantità vengono definite oligoidramnios (meno di 500 ml) o polidramnios (più di 2000 ml). t Si definisce surfattante il complesso di sostanze tensioattive (fosfatidilserina e altri fosfolipidi, lipidi neutri, colesterolo e proteine) che riveste la superficie degli alveoli polmonari, formando una sottilissima pellicola. Il surfattante è prodotto dagli pneumociti di tipo II, a partire dalla trentesima settimana di vita intrauterina. Grazie alle caratteristiche tensioattive delle sostanze che lo compongono, il surfattante determina la tensione superficiale che si crea all’interfaccia tra aria e alveoli; diminuendo la tensione superficiale polmonare, impedisce che gli alveoli collassino al termine dell’espirazione, provocando una atelettasia, cioè una riduzione del contenuto d’aria nel polmone. Questa sostanza gioca un ruolo fondamentale nel permettere l’espansione del polmone nel primo atto respiratorio dopo il parto. La carente formazione di surfattante - nei nati immaturi prima della trentesima settimana e nei nati da madre diabetica - determina una sindrome neonatale gravissima, detta malattia delle membrane ialine, con insufficienza respiratoria, spesso mortale. Una diminuita produzione di surfattante associata a un’aumentata tensioattività del surfattante residuo si osserva nel polmone da shock dell’adulto.

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L’amniocentesi precoce - eseguita entro le prime venti settimane di gravidanza - permette la diagnosi di alcune malattie del feto su base ereditaria, come sindrome di Down (mongolismo), emoglobinopatie (quali, ad esempio, la talassemia), malformazioni del sistema nervoso (quali, ad esempio, l’anencefalia e la spina bifida). Questa indagine consente di decidere, in tempo utile, se proseguire o meno la gravidanza. Poiché l’amniocentesi, sia pure nello 0,5% dei casi, può provocare l’aborto, è indicata solo quando ci sia l’effettiva possibilità che il feto sia colpito da una di queste malattie per precedenti familiari o perché la madre ha un’età superiore ai 35 anni. L’esame del liquido amniotico prelevato dopo la ventesima settimana serve essenzialmente per la diagnosi di maturità fetale e per la valutazione delle condizioni fetali in caso di isoimmunizzazione Rh. L’amniocentesi si pratica in anestesia locale, introducendo, sotto controllo ecografico, un ago attraverso la parete addominale fino a raggiungere l’utero. Il liquido prelevato viene posto in un contenitore idoneo quindi inviato al laboratorio per l’esame dei componenti dal punto di vista fisico-chimico e/o citologico. Patologie diagnosticabili. Come già accennato, diverse sono le patologie diagnosticabili con l’amniocentesi. Fra le principali ricordiamo: Sindrome di Down. Esistono due tipi di sindrome di Down legate alla differente configurazione cromosomica che le genera. Nella maggioranza dei casi la sindrome di Down è dovuta alla presenza di un cromosoma in più nella coppia di cromosomi classificata col numero 21. Si parla allora di “trisomia 21” che ha una maggiore incidenza nelle madri di età avanzata. Nel 5% dei casi, invece, tra i cromosomi del corredo cromosomico, che è normale come numero, si osserva la presenza di parte del materiale genetico della coppia 21 su altri cromosomi (traslocazione). È importante poter distinguere tra queste due forme perché:  per i genitori di un bambino affetto da trisomia 21, il rischio di avere un secondo figlio con la sindrome di Down è uguale a quello di qualsiasi altra coppia di genitori della stessa età  per i genitori di figli con sindrome di Down del secondo tipo, il rischio di avere un altro figlio affetto da tale sindrome è più alto in quanto il difetto è trasmesso da uno dei genitori, che è portatore di una coppia cromosomica anomala. Emoglobinopatie. Condizioni patologiche ereditarie caratterizzate dalla presenza di molecole di emoglobina anomala all’interno dei globuli rossi. Le emoglobine anomale clinicamente più importanti sono: l'emoglobina S, le varianti instabili, le varianti con elevata affinità per l'ossigeno e le emoglobine M. In alcuni casi i soggetti sono del tutto asintomatici mentre in altri i soggetti portatori sono affetti da disturbi gravi derivanti da modificazioni strutturali dell’emoglobina che possono accompagnarsi ad alterazioni dell’affinità per l’ossigeno, della stabilità complessiva della molecola e della sua solubilità. Le emoglobinopatie clinicamente rilevanti possono determinare fondamentalmente due tipi di conseguenze: modificazione della forma dei globuli rossi, oppure instabilità della molecola emoglobinica con tendenza alla

precoce emolisi dei globuli rossi. Il prototipo delle emoglobinopatìe del primo tipo è rappresentato dalla anemia falciforme: i globuli rossi in questa malattia assumono una caratteristica forma a falce quando la quantità di ossigeno si riduce. Le emoglobinopatie del secondo tipo, caratterizzate da un’estrema eterogeneità di forme, costituiscono l’espressione di un’anomala tendenza a denaturarsi della catena emoglobinica, con precipitazione all’interno del citoplasma di masserelle di emoglobinau. Meno comune è la presenza nei globuli rossi umani di emoglobina M, che si associa con una malattia ereditaria detta “cianosi metemoglobinemica“. Anencefalìa. Malformazione congenita che consiste nella assenza dell’encefalo e dell’intera volta cranica. Spina bifida. Malformazione congenita a carico del midollo spinale. Nella spina bifida le ossa del canale midollare (archi vertebrali) non si chiudono e quindi le sottostanti strutture possono fuoriuscire in un’ernia attraverso il canale osseo. Se l’ernia interessa solamente le meningi si parla di “spina bifida con meningocele”; se coinvolge anche il midollo, si parla di “spina bifida con mielomeningocele”; infine, se il midollo spinale è anch’esso fissurato, la forma prende il nome di “spina bifida con neuroschisi”. Tali malformazioni possono essere isolate o associate ad altre, quali la malformazione di Arnold-Chiariv. La cute sovrastante il difetto osseo può essere o anch’essa fissurata con esposizione del canale vertebrale oppure integra; in tal caso copre il difetto osseo e, a livello della regione interessata, presenta una fossetta ricoperta da peli, oppure una fistola (spina bifida occulta). Questa malformazione può interessare qualsiasi punto del rachide e in alcuni casi il rachide intero (rachischisi)w.§ 3 LIQUIDO CEFALO RACHIDIANO

Il liquor riempie tutti gli spazi lasciati liberi dall’encefalo e dal midollo spinale all’interno della dura madre. Nell’adulto raggiunge la quantità di 160 ml. La pressione liquorale nei soggetti sani varia da un individuo all’altro ed è modificata in modo determinante dalla postura. La puntura lombare (rachicentesi), seguita dall’esame del campione di liquor prelevato/raccolto, costituisce un’importante procedura diagnostica (esame fisico, chimico, citologico, batteriologico, virologico, con rilevazione della pressione liquorale) e, a volte, è utilizzata anche per iniettare direttamente all’interno del sistema nervoso centrale farmaci (cortisonici, antibiotici, antineoplastici) o mezzi di contrasto. Il prelievo di liquido cefalo-rachidiano, essendo un’indagine molto invasiva, rientra tra gli esami di approfondimento, u

In linea di massima, il quadro clinico dei vari tipi di emoglobinopatia è dominato da gradi variabili di anemia, soprattutto di tipo emolitico. La distribuzione geografica ed etnica di alcune forme di emoglobinopatia mostra un significativo addensamento in alcune zone dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa meridionale. In certi territori più del 10% della popolazione è costituito da soggetti affetti da emoglobinopatie. v Trattasi di ernia del cervelletto, del bulbo e del IV ventricolo attraverso il forame occipitale. w La sintomatologia dipende dalla gravità del caso: nella spina bifida occulta è assente; nella spina bifida cistica, con midollo esposto, la sintomatologia neurologica dipende dal livello del midollo spinale interessato. I quadri più gravi sono quelli con neuroschisi, in cui sono presenti paresi degli arti e incontinenza fecale e urinaria. La terapia dipende dalla forma e dalla eventuale presenza di sintomatologia neurologica: si interviene chirurgicamente in caso di spina bifida cistica, per ridurre al minimo il danno nervoso e per evitare le infezioni.

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indispensabili nella diagnosi di patologie importanti. Il ruolo dell’ostetrica è fondamentale nell’assistenza al medico operatore ed al paziente non solo nella fase di preparazione, ma anche durante e dopo la procedura. Riferimenti di anatomo-fisiologia del liquor Origine e composizione del liquor. Il liquor origina dai plessi corioidei dei ventricoli cerebrali ed occupa i ventricoli e lo spazio subaracnoideo attorno al cervello ed al midollo spinale. La sua composizione dipende da processi di filtrazione, di riassorbimento selettivo e di secrezione attiva. Il liquor costituisce un mezzo supplementare di nutrimento per il sistema nervoso centrale, ma svolge anche azione depurativa - rimuovendo sostanze di scarto del suo metabolismo - e di protezione, assorbendo le onde d’urto provenienti da insulti meccanici al rachide. La concentrazione degli elettroliti varia, nel liquor, con il variare della loro concentrazione plasmatica, mentre le proteine ed i lipidi sono fisiologicamente presenti in misura molto minore. Bisogna però ricordare che, in condizioni patologiche, molte molecole, che normalmente non attraversano la barriera emato-encefalica, possono diffondere nel liquor e raggiungere, così, concentrazioni anche molto elevate. Eritrociti e leucociti possono essere presenti nel liquor solo come conseguenza di emorragie o di reazioni meningee a fenomeni irritativi o infiammatori. La bilirubina, ad esempio, che normalmente è assente, può essere riscontrata nel liquor di pazienti itterici che abbiano subito emorragie intracraniche (xantocromia). In tal caso, la bilirubina è presente in forma non coniugata e deriva dal catabolismo locale dell’emoglobina proveniente dal S.N.C. Naturalmente, se aumenta la quota di bilirubina coniugata nel plasma, aumenta parallelamente anche quella del liquor. Pressione del liquor. Il cervello, il midollo spinale ed il liquor sono racchiusi in un contenitore rigido rappresentato dalla scatola cranica e dal canale vertebrale. Di norma, la pressione del liquor è mantenuta ai giusti livelli dall’equilibrio tra il riassorbimento operato dai villi aracnoidei e la produzione realizzata dai plessi corioidei. La pressione del liquor è, inoltre, influenzata da molti fattori, il più importante dei quali è costituito dalla pressione venosa centrale in quanto il liquor riassorbito è, comunque, riportato al circolo venoso. Riferimenti anatomici. La produzione ed il riassorbimento di liquor - come anche lo scambio di sostanze tra liquor e sangue - sono processi continui; nonostante questo, nel sacco lombare si realizza una marcata condizione di stasi e, di conseguenza, la concentrazione di proteine ed il numero di cellule per unità di volume sono più elevati nel liquor lombare di quanto non siano all’interno delle cisterne e dei ventricoli cerebrali.

La sede preferita per il prelievo del liquor è il sacco lombare, perché in questa sede la probabilità di causare danni al sistema nervoso, qui rappresentato solo dal filum terminale, è molto bassa. Ciò non vale per i bambini ai quali la puntura lombare deve essere effettuata a livelli più caudali poiché il midollo spinale raggiunge zone vertebrali più basse rispetto all’adulto. Indicazioni alla puntura lombare (esempio di prelievo/raccolta di un campione biologico) Assistenza ostetrica. L’ostetrica è tenuta a:  spiegare ogni atto riguardante l’esame, per ridurre ansia e dolore della paziente  comunicare con efficacia ed empatia  dare spiegazione a tutte le domande che fa la paziente avvisandola che possono insorgere complicanze, quali cefalea, nausea, vomito o dolore lombosacrale  controllare, prima e dopo la procedura, i parametri vitali della paziente  organizzare tutto il materiale necessario al medico per effettuare la procedura  assistere la paziente qualora una delle suddette complicanze si manifestasse. Materiale. Il materiale occorrente per il prelievo-raccolta del liquor a scopo diagnostico è il seguente:  aghi per rachicentesi di varie misure  manometro di Claude (sterile)  provette sterili  disinfettante (iodopovidone alcolico)  guanti, telini e garze sterili  colloido elastico  anestetico locale (cloruro di etile).

Prelievo/raccolta. Il liquor è prelevato, di solito, tramite una puntura (fase prelievo) eseguita nel quarto o nel quinto spazio intervertebrale lombare della paziente. Il liquido che fuoriesce spontaneamente viene fatto gocciolare nella idonea provetta (fase raccolta). Vedi descrizione più dettagliata in seguito. Una corretta esecuzione non dovrebbe produrre un sanguinamento poiché un eventuale inquinamento ematico del liquor renderebbe difficile l’interpretazione delle analisi eseguite sul campione. Le indicazioni per l’esecuzione di una puntura lombare sono presenti nel pacchetto diagnostico di molte neuropatie, quali:  meningiti  emorragie intracraniche  emorragie subaracnoidee  tumori cerebrali  polinevriti, fra le quali, in particolare, la sindrome di GuillainBarrè. Inoltre, il prelievo di liquido cefalo-rachidiano è un esame indispensabile per la diagnosi di pazienti affetti da Leucemia Linfoblastica Acuta e nei Linfomi.

L’esame del liquor Tecnica. La sede per il prelievo - che deve essere condotto dal medico in condizioni di asetticità - è lo spazio intervertebrale compreso tra la quarta e la quinta vertebra lombarex. La paziente può essere seduta o in decubito laterale ed, in entrambi i casi, è indispensabile che assuma una particolare posizione con la testa flessa sul tronco, il torace flesso sull’addome e le cosce flesse sul bacino in modo da determinare la maggior apertura possibile degli spazi interspinosi. La scelta della posizione della paziente influenza i valori della pressione liquorale, che risulta nettamente più alta in posizione seduta. Si tratta di un prelievo-raccolta. Infatti, dopo che l’ago è stato inserito nella sede idonea, bisogna far defluire il liquor in 2-3 provette graduate e numerate, perché il primo liquor che fuoriesce potrebbe essere contaminato da sangue, in quanto l’ago che preleva può ledere qualche vaso sanguigno nell’attraversare cute, sottocute, fascia muscolare e dura madre. Attualmente, si è diffuso l’ utilizzo di una sola provetta in quanto è possibile riconoscere in laboratorio l’origine della presenza ematica (vedi paragrafo sull’esame fisico del liquor). Per un esame standard clinico e citologico del liquor sono sufficienti campioni di 3 - 4 ml. Nel caso di introduzione di farmaci a scopo terapeutico, le soluzioni farmacologiche si preparano seguendo le norme di assoluta asepsi sotto cappa a flusso laminare. Le siringhe verranno poi avvolte in un telino sterile e successivamente posizionate sul campo sterile. Al termine, la paziente deve porsi in decubito prono a testa bassa per almeno le prime due ore e non deve mobilizzarsi per circa sei ore. Inoltre, la si idrata con un’infusione di 500 ml di fisiologica e la si tiene in osservazione monitorando i parametri vitali. Complicanze. Il paziente può avere cefalea, nausea, vomito e dolore lombosacrale da irritazione dei rami nervosi.

I campioni di liquor raccolti devono essere inviati in sedi diverse in relazione all’obiettivo analitico derivante dall’ipotesi diagnostica del medico, e precisamente:  al laboratorio urgenze per l’esame chimico-fisico  al laboratorio di ematologia per Citospin  in batteriologia per l’esame colturale. Esame fisico del liquor Aspetto. Il liquor normale ha la consistenza e la limpidezza dell’acqua. Il riscontro di un liquor torbido indica la presenza di un numero elevato di leucociti; una colorazione giallastra, definita xantocromia, si verifica, invece, in caso di sanguinamento pregresso, ma può essere dovuta anche ad un elevato contenuto proteico. Ricerca di sangue nel liquor. Per stabilire se il sangue presente è dovuto a rottura di un vaso intraspinale o è di provenienza liquorale è necessario centrifugare il campione da esaminare. Quando, dopo centrifugazione, il liquor torna incolore ci si trova in presenza di una lesione vasale causata dal trauma associato al prelievo. Quando, invece, il liquor assume una colorazione gialla più o meno intensa - o addirittura marrone - siamo in presenza di sangue originariamente presente nel liquor.

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Con esclusione dei prelievi effettuati nel corso di interventi neurochirurgici.

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Esame microscopico del liquor Conteggio delle cellule. Il liquor normale è virtualmente privo di cellule, anche se la presenza di una piccola quota di linfociti è comunemente riscontrata. La presenza di granulociti o di cellule mononucleate di grandi dimensioni, invece, non è mai normale. Come abbiamo già detto, gli eritrociti non popolano il liquor normale e qualora siano evidenziati bisogna escluderne la provenienza liquorale. Un altro elemento di diagnostica differenziale a tale proposito può essere dedotto dalla tendenza del liquor a coagulare che confermerebbe l’origine da contaminazione del sangue presente. Conteggio differenziale dei leucociti. Quando si procede al conteggio dei leucociti nel liquor è opportuno identificare il tipo cellulare. Per questo, di solito, il campione in esame viene colorato allo scopo di mettere in evidenza il nucleo cellulare permettendo così la distinzione citologica fra i granulociti e le altre cellule nucleate. Questa valutazione permette di inviare al clinico dei sospetti o delle conferme eziopatogenetiche come, ad esempio, le seguenti:  la presenza di un numero non elevato di leucociti, con prevalenza di linfociti, è indice di meningite virale  la presenza di un numero elevato di leucociti, con cellularità mista o a prevalenza linfocitaria, è indice di meningite tubercolare  la presenza di un numero elevatissimo di cellule, con prevalenza di granulociti, è indice di meningite acuta batterica. Analisi chimica del liquor Proteine del liquor. In condizioni normali il liquor ha un contenuto proteico inferiore all’ 1% rispetto a quello plasmatico, in quanto le molecole proteiche, essendo di grandi dimensioni, non riescono ad attraversare la barriera emato-encefalica. Il rapporto albumina/globuline è maggiore nel liquor che nel plasma e questo è giustificato dal minor peso molecolare dell’albumina rispetto alle globuline. La concentrazione proteica del liquor può aumentare per vari motivi che possono essere così riassunti:  gravi forme di meningiti le quali - in quanto processi infiammatori - causano un aumento di permeabilità della barriera ematoencefalica  meningiti purulente nelle quali la concentrazione proteica del liquor è ancora più elevata per la presenza della componente proteica delle cellule batteriche e dei leucociti, sia intatti sia in degenerazione  sclerosi multipla, nella quale è comune un aumento relativo delle IgG rispetto alle altre specie proteiche, senza aumento della quantità complessiva di proteine; tutto ciò indica la temibile presenza di una produzione anticorpale all’interno del sistema nervoso  aumento del contenuto proteico senza aumento contemporaneo del numero delle cellule presenti; è opportuno, in questi casi, sospettare la presenza di una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale come: a) la sclerosi multipla b) la neurolue c) i tumori del midollo spinale d) i tumori superficiali intracranici come i meningiomi ed i tumori del nervo acustico e) la sindrome di Guillain- Barrè. Glucosio del liquor. La concentrazione di glucosio nel liquor è compresa tra 70 e 80 mg/dl cioè al 50 - 80% dei corrispondenti valori di glicemia. L’entità della glicorrachia permette spesso di orientare il clinico di fronte a forme neurologiche acute o croniche. Una schematica lettura può tener conto del seguente prospetto.  In caso di assenza di variazione della concentrazione glicorrachica, ci si indirizza verso: a) una meningite virale b) l’evoluzione di tumori cerebrali o del midollo spinale c) una sclerosi multipla d) una polinevrite.  In caso di modesta riduzione, si pensa a: a) localizzazioni leucemiche b) emorragie subaracnoidee.  In presenza di una riduzione marcata, si considera: a) una meningite batterica b) una meningite tubercolare c) una meningite fungina. Acido lattico del liquor. Poiché la concentrazione di acido lattico nel liquor riflette l’attività glicolitica che vi si svolge, la sua determinazione permette di fare chiarezza su quadri clinici complessi. I valori normali del lattato nel liquor sono 10 - 20 mg /dl, mentre i livelli di lattato superiori a 35 mg/dl si possono osservare nelle meningiti batteriche e

fungine, rimanendo elevati per diversi giorni dopo l’inizio della terapia antibiotica.

Esame colturale del liquor Microrganismi. Di fondamentale importanza è l’identificazione nel liquor dei microrganismi responsabili delle eventuali infezioni. Già esaminando uno striscio colorato del sedimento, ottenuto dopo centrifugazione del campione, si può evidenziare un buon numero di batteri, funghi o protozoi; è consigliabile, però, eseguire gli opportuni esami colturali che possono distinguere l’eziologia delle tre principali meningiti tubercolare, meningococcica o pneumococcica – ed indirizzare verso terapie mirate mediante l’esecuzione di un antibiogramma. Indispensabile, per ottenere risultati attendibili, è la buona tecnica di prelievo ed una corretta procedura di conservazione e di trasporto del campione.

§4

MIELOASPIRATO

Indicazioni. Il mieloaspirato è un prelievo che viene effettuato a scopo diagnostico per valutare qualitativamente e quantitativamente i precursori delle cellule del sangue o per evidenziare agenti infettivi. Esso permette di diagnosticare malattie ematologiche, metastasi midollari, infezioni del sistema reticolo-endoteliale e di valutare l’efficacia di trattamenti terapeutici. Tecnica. L’esecuzione del mieloaspirato deve rispettare i principi dell’asepsi e la sede di biopsia è preferenzialmente la cresta iliaca posteriore superiore, anche se si può utilizzare il processo spinoso, la tibia o lo sterno. Tale esame si esegue anche in regime di Day Hospital. Per questo motivo, è molto importante la funzione dell’ostetrica nell’assistere la paziente in tutte le fasi della procedura, cominciando dall’accoglienza e dalla preparazione della persona in regime di Day Hospital, per continuare durante e dopo la procedura. Il mieloaspirato è un esame invasivo che comporta non solo fastidio ma può comportare anche dolore, per questo motivo, oltre che preoccupata per l’esito del esame, la paziente può essere anche molto ansiosa.

§5

BIOPSIA OSSEA

La biopsia ossea è un prelievo che permette di effettuare un esame istologico del midollo osseo per valutare la sua cellularità ed il micro ambiente nel quale le cellule del sistema emopoietico proliferano e maturano. L’esecuzione richiede condizioni di asepsi nella sede di biopsia che normalmente sono la cresta iliaca posteriore superiore, il processo spinoso, la tibia o lo sterno. I campioni si conservano in formalina sterile e si mandano per esame istologico al laboratorio di anatomia patologica. Questa è una procedura cruenta e dolorosa ed è quindi, in tutte le fasi, molto importante l’assistenza ostetrica, la quale, dalla fase preparatoria, continua durante e dopo la procedura.

§ 6 Broncoscopia Indicazioni. La broncoscopia consiste nell’ispezione diretta della laringe, della trachea e dei bronchi mediante un broncoscopio flessibile a fibre ottiche. Gli obiettivi diagnostici della broncoscopia sono:  esaminare i tessuti o raccogliere le secrezioni  stabilire la localizzazione e l’estensione del processo patologico ed ottenere - con una pinza tagliente, un

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curettage od una biopsia a spazzola - un campione tissutale per la diagnosi  stabilire se un eventuale tumore presente possa essere asportato chirurgicamente  diagnosticare, in caso di emottisi, i siti di sanguinamento. Tecnica. Prima di attuarla, la procedura deve essere spiegata alla paziente per calmare l’ansia, dopodiché l’ostetrica deve ottenere il consenso informato firmato dalla paziente. Nelle 6 ore antecedenti l’esame non vengono somministrati né liquidi, né cibo per ridurre il rischio di rigurgito e di aspirazione durante il blocco dei riflessi. I farmaci preoperatori - solitamente atropina con un sedativo/narcotico - devono essere somministrati, secondo prescrizione, per inibire la stimolazione vagaley, sopprimere il riflesso della tosse e ridurre l’ansia. Lenti a contatto, dentiere ed altre protesi della paziente devono essere tolte. Dopo la procedura è importante che la paziente non assuma nulla per bocca, fino a che non si siano ripristinati sia il riflesso della tosse sia la deglutizione. L’ostetrica deve monitorare i parametri vitali della paziente, con un’attenzione particolare allo stato respiratorio, al fine di individuare la presenza di cianosi, di ipotensione o di emottisi.

§7

TAMPONE

Il tampone è un prelievo molto importante nelle pazienti immunodepresse tanto da essere inserito come un esame da protocollo una volta alla settimana a scopo preventivo nelle pazienti sottoposte a trapianto di midollo. Tale prelievo viene effettuato strofinando il tampone di cotone sulla zona interessata per l’indagine (cavo orale, faringe, naso, orecchio, inguine, ombelico, ascelle, infradito piede/mani, vagina, pene ed ano). Quando è possibile, occorre che la paziente abbia sospeso la terapia antibiotica da almeno 6 giorni e che non abbia usato creme o deodoranti, né antisettici per l’igiene personale.

§8

PARACENTESI

La toracentesi è l’introduzione nel cavo pleurico di un ago attraverso il margine superiore di uno spazio intercostale generalmente VI, VII, VIII - sulla linea ascellare posteriore. É una procedura comune in pazienti che presentano versamento pleurico.

§ 10

ASSISTENZA OSTETRICA

Come già anticipato, in tutti i casi descritti, il ruolo dell’ostetrica è molto importante perché deve cercare di ridurre lo stress e l’ansia della paziente per farla collaborare nel miglior modo possibile durante la procedura. In altre parole, l’ostetrica deve creare un rapporto di fiducia con la persona, spiegando ed ascoltando ogni sua richiesta. La competenza ostetrica prevede, oltre alla preparazione del materiale occorrente, l’identificazione della paziente e la somministrazione di informazioni sulla manovra. Per tale motivo, deve:  verificare in cartella clinica il consenso firmato per l’esame  creare un ambiente idoneo e sicuro  rilevare i parametri vitali  far assumere alla paziente la posizione idonea  collaborare con il medico durante l’esecuzione dell’esame  richiudere immediatamente la/e provetta/e avendo cura di agitarla/e per evitare che, ad esempio, il sangue midollare coaguli (fare attenzione a riempire le provette sterilmente “bucando“ il tappo)  eseguire medicazione compressiva con collodio elastico. Applicare crioterapia se la paziente dovesse essere piastrinopenica, facendole mantenere la posizione per circa 20-30 minuti  controllare eventuale sanguinamento della ferita  ricontrollare i parametri vitali  tenere la paziente sottocontrollo per 2 ore  inviare, come richiesto dal medico, i campioni idonei al laboratorio per analisi chimico-fisiche, biochimiche, di biologia molecolare ed in microbiologia per l’esame colturale.

La paracentesi consiste nell’introduzione asettica nel cavo peritoneale di un ago speciale, attraverso una puntura eseguita dal medico sulla linea mediana, subito sotto l’ombelico. Ciò permette la fuoriuscita di liquido ascitico drenato da un deflussore in un recipiente di raccolta. Il ruolo dell’ ostetrica, che assiste il medico durante tutta l’esecuzione, è quello di:  preparare la paziente, informandola della procedura  invitarla ad urinare prima  preparare campo sterile e materiale da utilizzare in modo sterile  far assumere alla paziente la posizione seduta, con i piedi appoggiati su uno sgabello  applicare il manicotto dello sfigmomanometro al braccio della paziente per monitorare la pressione arteriosa durante tutta la procedura e per almeno 2 ore dopo l’esecuzione dell’esame.

§9 y

TORACENTESI

Ciò serve per prevenire la bradicardia, le aritmie e l’ipotensione.

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RIEPILOGO CONCETTI DI VARIABILITÀ BIOLOGICA ED ANALITICA. LEZIONE 17 In questa prima serie di lezioni si vuole focalizzare l’attenzione della diagnostica clinico-laboratoristica anche su tutto ciò che attiene la preparazione ostetrica nella fase preanalitica: il campionamento di materiale biologico da inviare per analisi. A questo proposito si sono evidenziate come fondamentali le conoscenze del personale ostetrico riguardanti: - le informazioni sui protocolli di tutti i materiali biologici più comunemente utilizzati per le analisi: da quelli facilmente ottenibili (quali, ad esempio, sangue in toto, plasma, siero, urine, espettorato, essudati, trasudati, liquidi cavitali, feci) a quelli che richiedono manovre più invasive e vengono effettuate dal medico (liquor, mieloaspirato, biopsia ossea) - le modalità di esecuzione del prelievo o della raccolta di ciascun campione ed eventuali precauzioni da osservare per evitare inconvenienti al paziente (ad esempio, atti maldestri, infezioni) - il trattamento del materiale biologico sia al momento del prelievo (ad es. utilizzo di anticoagulanti, conservanti, ghiaccio) sia durante la conservazione prima della consegna al laboratorio. La più ampia informazione e relativa attenzione ai vari momenti della fase preanalitica hanno lo scopo di rendere minima la variabilità totale, cioè di tutte le modifiche qualitative e quantitative che potrebbero alterare il campione biologico prima che se ne possa attuare l’analisi. Questa fase, inoltre, sfugge a qualsiasi tipo di “controllo” se non quello derivante da una scrupolosa preparazione professionale dell’operatore. Pertanto, essendo tutti i punti precedenti completamente a carico del personale ostetrico o infermieristico, questi operatori sanitari devono essere fieramente preparati e competenti in merito, scrupolosi nell’attuare tutte le procedure, motivati nello svolgere le loro funzioni e sinceri nel comunicare un eventuale “errore”. La complessità del lavoro che compete all’ostetrica è immediatamente riscontrabile: occorre, infatti, non solo la conoscenza di tutti gli atti che si devono compiere ed eseguire correttamente, ma bisogna applicarli alla persona che si ha davanti, rispettandone personalità ed esigenze e creando collaborazione e sinergia. La mancanza di tempo, la fretta, la scarsità di personale non devono assolutamente essere causa di eventuali errori e leggerezze che danneggiano soprattutto la persona assistita. Il “malato” è un “individuo biologico” unico, con un suo bagaglio culturale, un suo modo di essere, le sue paure, fattori questi che non possono essere ignorati. Il “paziente” deve essere considerato in positivo e non come un “oggetto” sottoposto a procedure standardizzate e linee guida. In particolare nella lezione 17 si avrà un breve inquadramento dell’importantissimo ruolo della “figura dell’ostetrica” nella fase preanalitica delle procedure di prelievo o raccolta di un campione biologico: necessità di massima informazione e competenza, rispetto della rigida standardizzazione nelle procedure (a partire dalla preparazione della paziente) e diretto contatto con il laboratorio per ridurre al massimo la “variabilità totale” durante il campionamento di materiale biologico. LEZIONE 18 Sintetiche informazioni sulla fase analitica che viene effettuata in laboratorio, sulle caratteristiche di attendibilità del metodo di dosaggio utilizzato (controllo di qualità), sulla interpretazione dei risultati ottenuti. Brevi note sulla scelta del campione biologico. LEZIONE 19 Importanza del campione biologico da consegnare al laboratorio: regole e principi per la sua acquisizione ed adeguatezza analitica, problematiche da conoscere, evitare o segnalare al laboratorio. Descrizione dei materiali biologici più richiesti: sangue, urine, feci. LEZIONE 20 Importanza di altri liquidi biologici ottenuti con tecniche di tipo invasivo: regole e principi per l’ acquisizione ed adeguatezza del campione biologico, problematiche analitiche da conoscere, evitare o segnalare al laboratorio. Descrizione di: versamenti in cavità sierose, liquido amniotico, liquido cefalorachidiano, mieloaspirato, biopsia ossea

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SEZIONE 7 – IL LABORATORIO DI BIOCHIMICA CLINICA IN OSTETRICIA Si apprende quando e perché, a latere del medico, è necessario richiedere uno o più esami di Laboratorio, come interpretarli e come utilizzarli nei processi di diagnosi, prognosi e terapia. I numerosi differenti fattori che possono condizionare ogni “particolare” della vita femminile: variazioni ormonali legate all’età (adolescenziale, premenopausale, perimenopausale) o a condizioni fisiologiche (come il puerperio, l’allattamento), la frequenza dei rapporti, lo stile di vita (ad esempio, fumo, alcool, diete), patologie (quali, ad esempio, tromboembolia, carcinoma mammario) possono richiedere il supporto del laboratorio. Corrette ed adeguate indagini di laboratorio potranno, infatti, efficacemente aiutare il clinico ad avere maggiori certezze circa una sua ipotesi diagnostica, a distinguere uno “stato fisiologico” da uno “non fisiologico”, a formulare, quando necessario, una corretta diagnosi e ad intraprendere l’idonea conseguente terapia. In tutto questo quadro, accanto ad un efficiente “sistema”laboratorio, il ruolo di un’ostetrica ben preparata e conscia dei propri doveri è importante ed indispensabile.

Lezione 21 Metabolismo del glucosio: glicemia e diabete1-3

§1

I PRINCIPI

Procedimento metabolico Il metabolismo ossidativo del glucosio, uno zucchero a sei atomi di carbonio, fornisce la maggior parte dell’energia utilizzata dall’organismo. Nei cibi, il glucosio è presente sotto forma di polisaccaridi (amido) e di disaccaridi. In questi ultimi, la molecola del glucosio si lega ad un altro zucchero formando così:  il saccarosio = glucosio+fruttosio  il lattosio = glucosio+galattosio  il maltosio = glucosio+glucosio. I disaccaridi sono idrolizzati, nei monosaccaridi che li costituiscono, da enzimi della mucosa dell’intestino tenue chiamati disaccaridasia che hanno attività specifica per ogni singola specie disaccaridica. L’amido, invece, è idrolizzato dall’amilasi secreta dal pancreas e dalle ghiandole salivari. Questi passaggi biochimici sono indispensabili poiché gli zuccheri vengono assorbiti dall’intestino esclusivamente sotto forma di monosaccaridi. Tra i metaboliti intermedi del metabolismo del glucosio ricordiamo:  l’acido piruvico  l’acido lattico  l’acetil-coenzima-A. L’ossidazione completa della molecola di glucosio, invece, porta alla produzione di:  anidride carbonica  acqua  energia immagazzinata nei legami ad alta energia dell’adenosin-trifosfato (ATP). Se non viene immediatamente metabolizzato per produrre energia il glucosio può essere immagazzinato nel fegato o nel muscolo sotto forma di glicogeno: un polimero formato da molecole di glucosio che si organizzano in modo da consentirne il rilascio ed il metabolismo. Il fegato, inoltre, può trasformare il glucosio, presente nel sangue, in acidi grassi - che sono immediatamente immagazzinati sotto forma di trigliceridi - oppure in a

Lattasi, saccarasi e maltasi.

aminoacidi che vengono, invece, utilizzati per la sintesi proteica. Quando i depositi di glicogeno sono esauriti - ed il glucosio disponibile non è sufficiente a coprire i bisogni energetici - il fegato può sintetizzare glucosio sia dal glicerolo, contenuto nei trigliceridi, che da alcuni aminoacidi, innescando così la cosiddetta gluconeogenesi. L’energia necessaria per la maggior parte delle attività cellulari deriva dal glucosio, mentre gli acidi grassi rappresentano, per l’organismo, una fonte energetica alternativa, la quale, però - in assenza di zuccheri, come in caso di digiuno - porta alla formazione di metaboliti acidi dando origine alla chetosi. I livelli di glucosio nel sangue, per tale motivo, sono particolarmente controllati dal nostro organismo attraverso numerosi meccanismi omeostatici. Valori glicemici alterati - in eccesso od in difetto – indicano, quindi, un’alterazione dei meccanismi di controllo che deve stimolare un’indagine clinica approfondita sulle cause e sul panorama evolutivo di tale condizione. Ormoni che regolano il metabolismo del glucosio Gli ormoni che regolano il metabolismo del glucosio sono l’insulina ed il glucagone ed ambedue sono di origine pancreatica. Insulina. L’insulina è prodotta dalle cellule beta delle isole del Langerhans presenti nel pancreas. La sua attività biochimica favorisce l'utilizzazione del glucosio attraverso tre principali vie:  favorisce l'ingresso del glucosio nelle cellule  stimola la glicogenosintesi nel fegato e nel muscolo  promuove la conversione del glucosio in acidi grassi, trigliceridi e proteine. Attraverso questi vari meccanismi l’insulina produce, quindi, un effetto ipoglicemizzante. Glucagone. Il glucagone è prodotto dalle cellule alfa delle isole del pancreas e la sua azione si basa, essenzialmente, sulla promozione della sintesi del glucosio e sullo stimolo al suo rilascio nel torrente circolatorio. Per tale motivo l’effetto del glucagone è iperglicemizzante e contrasta con quello prodotto dall'insulina. La glicemia Si definisce “glicemia” la concentrazione di glucosio nel siero o nel plasma e “glicosuria” la concentrazione di glucosio nelle urine.

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Il prelievo glicemico. La corretta esecuzione di un prelievo, volta ad ottenere valori attendibili di glucosio nel sangue, richiede una particolare attenzione ed ottemperanza ai seguenti principi operativi:  eseguire il prelievo sempre dal braccio del paziente opposto a quello dove sono somministrati liquidib  inviare immediatamente il prelievo in laboratorio dove sarà immediatamente centrifugato per separare siero o plasma, nel quale effettuare il dosaggio  quando non esiste la possibilità di processarlo in tempi brevi (60 minuti), il campione dovrà essere congelato per la conservazione  se i prelievi sono plurimi - come nel caso di una curva glicemica - e sono quindi conservati in reparto o in ambulatorio, devono essere sempre utilizzate provette contenenti fluoruro di sodio (NaF) che blocca il processo di glicolisi da parte degli elementi corpuscolati del sanguec. Dopo la centrifugazion, la concentrazione del glucosio nel siero o nel plasma si mantiene, infatti, stabile per circa 8 ore a 25°C e fino a 72 ore a 4°C. La valutazione glicemica. Nella valutazione glicemica è doveroso osservare alcuni punti di attenzione di seguito riassunti:  variabilità biologica intraindividuale: 6.1%  variabilità biologica interindividuale: 7,8%  intervalli di riferimento (per adulti e nel siero): 70 – 110 mg/dl  valori critici o valori di panico: Basso < 30 mg/dl Alto >300 mg/dl.

§2

LA CLINICA DEL DISMETABOLISMO GLICIDICO

Iperglicemia e diabete mellito Si definisce “diabete mellito” un insieme di condizioni morbose caratterizzate da iperglicemia e da altre alterazioni metaboliche che sono determinate da una carenza assoluta (diabete di tipo 1) o relativa (diabete di tipo 2) di insulina (Tab. 21-1) Classificazione del diabete. L’eziopatogenesi del diabete viene normalmente classificata in otto tipi contrassegnati dalle lettere A – H, con i seguenti significati:  A - Difetti genetici della funzione delle cellule beta  B - Difetti genetici dell’azione dell’insulina  C - Patologie del pancreas esocrino  D - Endocrinopatie  E - Induzione da farmaci o da sostanze chimiche  F - Infezioni  G - Forme non comuni di diabete immuno-mediato  H - Altre sindromi genetiche talvolta associate a diabete. Forme di pre-diabete. A questa classificazione vanno aggiunte altre due condizioni patologiche: l’IFG e l’IGT. Queste condizioni presentano un alto rischio di evolversi verso un franco diabete o di associarsi all’insorgenza di patologie cardiovascolari.  IFG. L’IFG (Impaired Fasting Glucose = alterata glicemia a digiuno) è caratterizzato, invece, da valori di glicemia a digiuno compresi tra i 110 ed i 125 mg/dl b c

Questi, infatti, possono essere costituiti da soluzione glucosata. 10 mg/dl all’ora.

IGT. L’IGT (Impaired Glucose Tolerance = ridotta tolleranza ai carboidrati), viene diagnosticato con l’esecuzione di un OGTTd con 75 g di glucosio in presenza di una glicemia a digiuno normale che legga, alla seconda ora, un valore compreso tra i 140 ed i 199 mg/dl. Criteri diagnostici. I criteri diagnostici per qualsiasi forma di diabete possono essere così riassunti ricordando che, in assenza di franca iperglicemia, accompagnata da scompenso metabolico acuto, questi criteri richiedono una conferma con un prelievo eseguito in un giorno successivo.  Sintomi classici del diabete accompagnati da una glicemia casualee > 200 mg/dl  Glicemia a digiunof > 126 mg/dl  Glicemia a 2 ore dal test di tolleranza al glucosio OGTTg > 200 mg/dl. Test di tolleranza al glucosio o test da carico orale di glucosio (OGTT). La riproducibilità globale dell’OGTT è di circa il 65% a causa di variabili indotte dalla stessa assunzione di glucosio, fra le quali ricordiamo:  l’effetto variabile della somministrazione della soluzione iperosmolare di glucosio sullo svuotamento gastrico  l’iperglicemia indotta dallo stress e dal cambiamento delle abitudini alimentari dopo il risultato del primo OGTT. Ciò significa che il primo approccio diagnostico deve basarsi sempre sulla esecuzione di una glicemia a digiuno. L’esecuzione di un test OGTT prevede un corretto percorso comportamentale e precisamente:  il paziente deve alimentarsi regolarmente nei giorni precedenti; non deve assumere farmaci e deve mantenere digiuno assoluto nelle 12 ore precedenti il test  si esegue il prelievo per la glicemia basale  si somministra un’apposita soluzione contenente 75 g di glucosio anidro  si esegue, dopo 120 minuti, un prelievo per il dosaggio della glicemia. In gravidanza si somministra una soluzione contenente 100 g di glucosio anidro e si esegue un prelievo ogni ora per tre ore (60 - 120 - 180 minuti). In tal caso, il valore diagnostico di una glicemia che, al prelievo di 2 ore, risultasse superiore a 200 mg/dl, rappresenterebbe una ridotta tolleranza. Test di screening GCT. Un minitest da carico orale deve essere eseguito, come screening per il diabete gestazionale fra la 24a e la 28a settimana di gestazione - in tutte le gravide che non abbiano né un diabete manifesto né presenza di fattori di rischio. La procedura prevede:  l’assunzione di 50g di glucosio anidro aggiunto a 250 – 300 ml di acqua da bere nell’arco di 5 minuti  la rilevazione della glicemia basale dopo 1 ora dall’assunzione. Il laboratorio diabetologico. Le principali indagini di laboratorio da eseguire sul paziente diabetico sono: 

d e

Test da carico orale di glucosio.

Pelievo effettuato in qualsiasi momento della giornata senza far caso al

digiuno o all’ultimo pasto. f Senza assunzione calorica da almeno 8 ore. g L’OGTT, effettuato secondo le raccomandazioni della WHO, deve essere eseguito con un carico di 75 g di glucosio.

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Test sulle urine. La determinazione della glicosuria con apposite strisce reattive - che si colorano di diverse tonalità di verde a secondo della quantità di glucosio presente nelle urine - è un metodo semplice e valido per il controllo della glicemia e dell'efficacia di una terapia  Test sul sangue. La misura della glicemia con strisce reattive che, dopo essere state bagnate con una goccia di sangue ottenuta da puntura del dito, vengono lette con un apposito glicemometro portatile, è di grande utilità nel monitoraggio della terapia insulinica che la paziente può effettuare in modo autonomo (ma sempre sotto controllo medico) evitando il continuo ricorso alle strutture sanitarie.  Emoglobina glicata. Questa emoglobina è denominata HbA1c ed è presente, nei soggetti normali, in percentuale variabile tra il 3 ed il 6%, ma, dopo prolungati periodi di iperglicemia, può arrivare a valori del 12-15%. Alti livelli di HbA1c indicano che il diabete non è stato adeguatamente controllato nelle precedenti 3-5 settimane. Questa rilevazione ha, in pratica, sostituito il dosaggio della glicemia, nel monitoraggio del paziente diabetico, mantenendo fede ai seguenti valori interpretativi: a) HbA1c < 6.3% = ottimo controllo glicemico b) HbA1c tra 6.3 e 7.1% = buon controllo glicemico c) HbA1c tra 7.1 e 9% = mediocre controllo glicemico d) HbA1c > 9% = cattivo controllo glicemico. La frequenza di determinazione della HbA1c, oggi largamente diffusa fra i clinici, si basa sui seguenti capisaldi: a) 1 volta ogni 6 mesi, nei soggetti con diabete di tipo 2, in buon compenso metabolico b) 1 volta ogni 3-4 mesi, nei soggetti con diabete di tipo 1 e nei soggetti con diabete di tipo 2, in controllo metabolico non ottimale c) 1 volta ogni 1-2 mesi, nei casi di diabete scompensato di tipo 1 e in caso di diabete gestazionale.  Fruttosamina. Questo test di laboratorio consiste nella misurazione delle proteine sieriche glicosilate (albumina). Dato che l'albumina ha un'emivita di 21 giorni, il valore della fruttosamina rivela periodi di iperglicemia occorsi in questo periodo (ultimi 21 giorni) dando, quindi, indicazioni a più breve termine rispetto a quanto offerto dalla HbA1c. Screening del diabete mellito. Secondo le recenti raccomandazioni dell’ADA (American Diabetes Association), lo screening per il diabete tipo 2 deve essere compreso nei progetti di prevenzione. Tale importante problematica richiede che la Sanità Pubblica il rispetto delle seguenti particolari raccomandazioni emesse nel 1997 ed aggiornate al 2008 dalla stessa ADA:  tutti gli adulti, oltre i 45 anni di età, devono essere controllati ogni 3 anni  i soggetti che presentino i fattori di rischio di diabete tipo 2, qui sotto elencati, devono essere valutati prima dei 45 anni e più frequentemente: a) obesità con peso corporeo superiore al 120% del peso medio previsto o con indice di massa corporea superiore ai 27 Kg/m2 

parentela di primo grado con un paziente diabetico c) etnia ad alto rischio, come per gli appartenenti alle popolazioni afro-americane, ispanoamericane, native americane, asio-americane d) diabete gestazionale nella propria anamnesi e) macrosomia neonatale per parto di neonato con peso superiore ai 4Kg f) ipertensione attuale con valori superiori a 140/90 g) ipo HDL-colesterolemia con valori nel siero inferiori a 35 mg/dl h) iperlipidemia con valori sierici di trigliceridi superiori a 200 mg/dl i) IFG od IGT nella propria anamnesi j) inattività fisica rilevante ed abituale h k) P.C.O. in anamnesi .  La valutazione della glicemia plasmatica a digiuno – per rapidità, facilità di esecuzione, basso costo ed accettabilità da parte del paziente - è il test di screening consigliato.  L’OGTT può essere necessario per la diagnosi di diabete quando la glicemia a digiuno è normale  I tests diagnostici devono essere eseguiti in ogni situazione clinica in cui sono giustificati, indipendentemente dalla presenza di fattori di rischio  Lo screening al di fuori di tali indicazioni non è utile. Nella tabella 2 (Tab. 21-2) sono riportate in sintesi le caratteristiche che contraddistinguono i due tipi di diabete (tipo 1 e tipo 2). Inoltre, schematicamente, sono riportate le principali complicazioni “a lungo termine”, che possono manifestarsi in un soggetto diabetico nel corso della vita: - retinopatia (alterazioni visive e cecità); - neuropatia del sistema nervoso autonomo (diarrea ed impotenza); - macroangiopatia (coronaropatia, patologie vascolari periferiche); - piede diabetico (neuropatia periferica ed ischemie, ulcere ed amputazioni nel piede); - nefropatia (insufficienza renale); e le indagini che, a tale soggetto, conviene tenere sotto continuo monitoraggio: glicemia, Hb1c, creatininemia, assetto lipidico, proteine urinarie, mnicroalbuminuria, esame neurologico, ECG, esame degli occhi. b)

Diabete gestazionale Il diabete gestazionale (GDM) è definito come una intolleranza ai carboidrati, di vario grado e severità, con inizio o primo riconoscimento durante la gravidanza. La diagnosi di GDM dovrebbe essere presa in considerazione alla prima visita prenatale. In particolare, le donne che, per obesità grave, anamnesi positiva per GDM, glicosuria o forte familiarità per il diabete, presentano un alto rischio relativo a questa patologia (Tab. 21-3) dovrebbero effettuare una glicemia a digiuno nel momento in cui vengono a conoscenza del loro stato. Una glicemia a digiuno superiore o uguale a 126 mg/dl o una glicemia occasionale inferiore o uguale a 200 mg/dl sono referti diagnostici per diabete e, in caso non siano presenti sintomi inequivocabili di iperglicemia, richiedono un successivo controllo di conferma. Le donne che, nonostante siano ad alto rischio di GDM, risultano negative a questo primo h

Sindrome dell’ovaio policistico.

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screening - insieme alle donne a medio rischio - dovrebbero essere, comunque, testate tra la 24a e la 28a settimana di gravidanza. La valutazione deve essere effettuata con una delle seguenti modalità:  approccio con singolo test: effettuare un OGTT somministrando 100 g di glucosio  approccio a due fasi: effettuare uno screening iniziale misurando la glicemia plasmatica o serica un’ora dopo un carico orale di 50 g di glucosio - minicarico orale o GCT - e, qualora la risposta glicemica superi il valore soglia, confermare la diagnosi con un OGTT. Quando si utilizza tale approccio un risultato uguale o superiore ai 140mg/dl al GCT identifica circa l’80% delle donne con GDM; quando si abbassa la soglia a 130mg/dl, la sensibilità del test raggiunge il 90%. Il criterio diagnostico per GDM con l’OGTT - eseguito alla mattina dopo un digiuno di 8-14 ore - richiede che due o più valori di glicemia devono risultare uguali o superiori ai limiti soglia qui sotto indicati:  ≥95mg/dl a digiuno  ≥180 mg/dl alla prima ora  ≥155 mg/dl alla seconda ora  ≥140 mg/dl alla terza ora  i soggetti a basso rischio non richiedono la valutazione della glicemia, ma questa categoria è limitata alle donne che presentano tutte le seguenti caratteristiche: - età <25 anni - peso normale prima della gravidanza - appartenenza a gruppi etnici a basso rischio di GDM - familiarità negativa per diabete nei parenti di primo grado - anamnesi negativa per alterata tolleranza al glucosio - anamnesi negativa per esiti ostetrici sfavorevoli. Per concludere si possono ricordare due fondamentali raccomandazioni assistenziali per le gestanti: 1) ricercare il diabete in gravidanza utilizzando l’analisi dei fattori di rischio (Tab. 21-4) e, se indicato, eseguire l’OGTT 2) sottoporre le donne con diabete gestazionale allo screening per il diabete, 6 settimane dopo il parto e seguirle, nel tempo, con successivi screening per il prediabete ed il diabete. Ipoglicemia Con questo termine si intende una diminuzione dei livelli di glucosio nel siero al di sotto dei 50 mg/dl con la comparsa di sudorazione, tremore, debolezza e stato ansioso che scompaiono con la correzione della glicemia. Ipoglicemia post-prandiale o reattiva. Questa ipoglicemia è dovuta ad un'eccessiva secrezione di insulina in risposta all'elevarsi della glicemia dopo il pasto e può essere diagnosticata con un carico orale di glucosio seguito da prelievi ogni 30' di glicemia e di insulina. Ipoglicemia a digiuno. Questa forma insorge dopo 10 ore o più di digiuno e può essere prodotta da una delle seguenti cause.  Insulinoma pancreatico in grado di produrre una continua secrezione di insulina nonostante i bassi valori di glicemia.

Insufficienza epatica che determina una insufficiente gluconeogenesi.  Etilismo cronico in grado di determinare un ridotto deposito di glicogeno. In tutti questi casi, la diagnosi richiede la rilevazione dei valori di glucosio e di insulina dopo 12-24 ore di digiuno, in modo da estrapolare dalla combinazione di questi due valori una diagnosi differenziale fra le tre forme. Ipoglicemia da errata somministrazione di insulina. Questa ipoglicemia può insorgere, ovviamente, solo nei pazienti diabetici in terapia insulinica. 

Lezione 22

§1

Metabolismo dei lipidi. Obesità. Sindrome metabolica1-10

I PRINCIPI

I componenti lipidici I lipidi, che contengono soprattutto carbonio e idrogeno, sono composti idrofobici, cioè solubili nei solventi organici ma non in acqua, tanto da richiedere speciali meccanismi di trasporto per poter essere veicolati nel sangue. Le classi di lipidi più importanti, dal punto di vista biologico, sono:  i grassi neutri  i lipidi coniugati  gli steroidi. Grassi neutri. I grassi neutri sono chiamati “trigliceridi” perché costituiti da tre molecole di acidi grassi – prevalentemente oleico, linoleico, stearico, arachidonico e palmitico – legati con legami esterei ad una molecola di glicerolo. Il tessuto adiposo ha notevoli riserve di questi composti che costituiscono un importante pool lipidico rapidamente mobilizzabile. Lipidi coniugati. I lipidi coniugati possono contenere, oltre agli acidi grassi ed al glicerolo, anche alcuni fosfati o determinati zuccheri, prendendo così il nome di “fosfolipidi” o di “glicolipidi”, e svolgono un’ importante funzione protettiva come costituenti delle membrane cellulari. Steroidi. Gli steroidi sono, anch’essi, componenti strutturali di membrane e di organuli cellulari. Alcuni steroidi svolgono, inoltre, molte funzioni metaboliche specifiche in veste di “ormoni” o di “metaboliti intermedi”. Lipoproteine circolanti. Le principali classi di lipidi presenti nel plasma sono, dunque, i trigliceridi (TRI), il colesterolo (COL) ed i fosfolipidi. Tutti entrano nella composizione delle lipoproteine circolanti, grandi complessi macromolecolari che si formano dall’associazione tra lipidi ed apoproteine allo scopo sia di favorire il loro trasporto in ambiente acquoso sia di garantire il loro passaggio dal tratto gastrointestinale al fegato ed agli altri tessuti in possesso di recettori specifici per il loro impiego. Le varie classi di lipoproteine hanno dimensioni diverse e contengono diverse percentuali di colesterolo, di trigliceridi, di fosfolipidi e di proteine (Tab. 22-1). Dopo i pasti la maggior parte dei trigliceridi è contenuta nei chilomicroni, mentre, a digiuno, i trigliceridi si ritrovano soprattutto nelle VLDL (lipoproteine a bassissima densità). La maggior parte del colesterolo plasmatico è, invece,

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contenuta nelle LDL (lipoproteine a bassa densità), mentre una frazione minore è associata alle HDL (lipoproteine ad alta densità).

Il metabolismo dei lipidi Acidi grassi. Gli acidi grassi sono una delle principali fonti di energia dell’organismo, costituiscono una fonte immediata di energia attraverso l’ossidazione, entrano a far parte dei trigliceridi o vengono rilasciati da essi. Possono essere di origine alimentare, ma costituiscono anche la forma di energia immagazzinabile in cui fegato e tessuto adiposo convertono un eccesso di glucosio. Colesterolo. Il colesterolo può derivare dalla dieta o può essere prodotto per sintesi endogena (biosintesi epatica); è un importante costituente della membrane cellulari ed entra nella sintesi degli acidi biliari e degli ormoni steroideii. Nel metabolismo normale, il pool di colesterolo dell’organismo va incontro a processi di sintesi, di riutilizzo e di degradazione, di conseguenza il colesterolo introdotto con la dieta non costituisce un alimento essenziale. Fosfolipidi. I fosfolipidij sono, come già detto, costituenti fondamentali delle membrane cellulari e, in soluzione, diminuiscono la tensione superficiale dei liquidik. I fosfolipidi circolanti originano principalmente nel fegato e nell’intestino e svolgono un ruolo importante nel metabolismo cellulare e nei processi di coagulazione. Circolazione esogena dei lipidi. La via alimentare o esogena della circolazione dei lipidi prevede (Fig. 22-1) una regolare successione di tempi metabolici che possiamo riassumere nei seguenti punti:  assorbimento dei trigliceridi e del colesterolo attraverso l’intestino  formazione dei chilomicroni e loro rilascio: prima nella linfa e poi, attraverso il dotto toracico, nel sangue  rilascio nel circolo, da parte dei chilomicroni, dei trigliceridi  attivazione, da parte dell’ apoproteina B 48 situata sulla superficie dei chilomicroni, della lipoproteinlipasi (LPL) delle cellule endoteliali dei vasi sanguigni  liberazione - ad opera della LPL - degli acidi grassi dai trigliceridi, con diminuzione progressiva delle dimensioni dei chilomicroni  captazione epatica, al termine del processo, dei residui (remnants) dei chilomicroni  assorbimento, da parte del muscolo e degli adipociti, degli acidi grassi liberati dai trigliceridi. Circolazione endogena dei lipidi. La via endogena della circolazione dei lipidi (Fig. 22-2) prevede, anch’essa, una rigida successione di eventi che porta alla trasformazione, alla mobilizzazione ed all’utilizzo dei lipidi presenti nell’organismo. Riassumiamo, nei punti seguenti, i passaggi principali:  i residui chilomicroni (remnants) vengono captati dal fegato dove avviene la sintesi dei trigliceridi a partire dagli acidi grassi

§2

il fegato rilascia le VLDL contenenti le apoproteine B 100 (apo B), mentre la LPL converte le VLDL circolanti in IDL (intermediate-density lipoproteins) le IDL vengono quindi rimosse dal fegato come remnants attraverso il riconoscimento della rispettiva “apo” la quale, in seguito, viene persa dalla IDL che si trasforma in LDL le LDL ricche di colesterolo sono captate per il 70% dal fegato e per il 30% da altri tessuti e qui entrano a far parte delle membrane cellulari, dei cammini metabolici di altri steroidi o, anche, di alcuni depositi patologici (ateromi) la circolazione del colesterolo - nelle sue fasi di sintesi, trasporto e deposito nei tessuti - è modulata dalle HDL (Fig. 22-3) che possono mobilizzare lo steroide dai tessuti e reintrodurlo in circolo per immetterlo in cammini metabolici oppure per indirizzarlo verso l’escrezione le HDL sono sintetizzate e rilasciate in circolo dal fegato e, nel circolo, si arricchiscono di colesterolo andando a costituire la frazione HDL3. L’enzima “lecitina colesterolo aciltransferasi” (LCAT) promuove la trasformazione di HDL3 in HDL2 quest’ultima frazione del colesterolo plasmatico può essere trasferita alle VLDL ed entrare, quindi, nella sintesi degli steroidi oppure essere eliminata con la bile. L’efficienza di questi cammini di trasporto ed eliminazione dei lipidi dipende dalla concentrazione delle apoproteine disponibili ed anche dal carico lipidico introdotto con la dietal. IPERLIPOPROTEINEMIE SECONDARIE

Ipercolesterolemie secondarie Varie situazioni, funzionali od organiche, possono determinare nell’organismo le premesse per una iperincrezione di colesterolo nel sangue. Esse sono: Dieta. L’alimentazione ricca in colesterolo ed in acidi grassi saturi comporta ipercolesterolemia per riduzione del catabolismo delle LDL. Ipotiroidismo. In questa forma patologica, la ridotta espressione dei recettori cellulari è responsabile dell’elevazione dei livelli di LDL circolanti. Malattie epatobiliari. L’ipercolesterolemia è qui dovuta ad un aumento delle concentrazioni sieriche di LDL, a cui si associa la comparsa di una lipoproteina anomala - la lipoproteina x, LP(x) - che sembra derivare dai lipidi biliari i quali, refluendo in circolo in condizioni di colestasi, si uniscono all’albumina e si arricchiscono di apoproteine. La LP(x) non cede colesterolo agli epatociti, ma ne aumenta il rilascio in circolo, interferendo anche con la captazione dei residui di chilomicroni da parte del fegato. Sindrome nefrosica. L’ipercolesterolemia, in questo caso, sembra sia da collegare ad un incremento della sintesi epatica di apoproteinem alla quale si aggiunge una riduzione l

i j k

Mineralcorticoidi, glucocorticoidi, estrogeni ed androgeni. Lecitina, sfingomielina e cefalina. Il surfattante del liquido alveolare è, infatti, di natura fosfolipidica.

L’importanza delle HDL come mezzo di eliminazione di colesterolo dai tessuti è qui evidente. I livelli di HDL sembrano quindi proteggere dall’insorgenza di aterosclerosi dovuta alla formazione di depositi di colesterolo nelle pareti delle arterie. Nella malattia di Tangier, in cui sono assenti le HDL, infatti, il colesterolo forma estesi depositi tissutali.

m

Come aspetto di una generale stimolazione della sintesi proteica.

70


del catabolismo proteico per perdita urinaria dei fattori di regolazione con aumento di LDL e VLDL e con riduzione di HDL. Disgammaglobulinemie. In caso di mieloma, la patogenesi dell’ipercolesterolemia è da ricercare in un difetto del catabolismo delle LDL per formazione di un legame tra la lipoproteina e l’immunoglobulina monoclonale che impedisce il riconoscimento dell’LDL da parte degli adeguati recettori (b ed e). Ipertrigliceridemie secondarie Alcune situazioni patologiche, di origine spontanea o iatrogena, possono determinare nell’organismo le premesse per una iperincrezione di trigliceridi nel sangue. Esse sono: Obesità. L’aumentata massa di tessuto adiposo e la relativa insulinoresistenza dell’obeso comportano una tendenza all’elevazione della concentrazione plasmatica degli acidi grassi liberi che originano dall’idrolisi dei trigliceridi depositati nel tessuto adiposo periferico per attivazione della lipasi tissutale non bilanciata dall’azione inibitoria dell’insulina. L’iperafflusso di acidi grassi al fegato incrementa la sintesi dei trigliceridi con conseguente aumento delle VLDL. Collateralmente, l’insulinoresistenza causa un insufficiente catabolismo delle VLDL con conseguente aumento dei trigliceridi circolanti. Diabete. In corso di diabete si osserva aumento di VLDL e di LDL con diminuzione di HDL. Il difetto metabolico primario sta nella carenza assoluta (tipo 1°) o relativa (tipo 2°) di insulina che comporta un aumento del flusso degli acidi grassi liberi al fegato per disinibizione della lipasi ormonosensibile del tessuto adiposo. All’aumento del substrato grasso fa seguito un’accelerata produzione di trigliceridi e di VLDL. Alcool. L’ipertrigliceridemia è frequentemente associata ad alcolismo. L’etanolo, infatti, inibisce l’ossidazione degli acidi grassi e ne stimola la sintesi epatica provocando un aumento della secrezione di VLDL da parte del fegaton. Disgammaglobulinemie Un aumento delle VLDL è provocato dalle disgammaglobulinemie per formazione di complessi globuline-lipoproteine che compromettono il normale catabolismo delle lipoproteine. Farmaci. L’assunzione di alcuni farmaci determinano delle iperincrezioni di trigliceridi attraverso diversi meccanismi:  gli estrogeni aumentano le VLDL e le HDL  i progestinici diminuiscono le HDL  i diuretici aumentano le LDL e la lipolisi con conseguente aumento di acidi grassi e di trigliceridi.

§3

FORME EREDITARIE DI IPERLIPOPROTEINEMIE

Esistono forme ereditarie di iperlipoproteinemie, i cui possibili fenotipi sono riportati nella tabella 2 (Tab. 22-2) ed il cui quadro clinico-patologico, con i relativi significati, sono descritti nella tabella 3 (Tab. 22-3). Il quadro lipidico Lettura. Illustriamo schematicamente la metodologia ed i valori normali di lettura per ciascuna componente del quadro lipidico ricordando che per il dosaggio dei lipidi è necessario un campione di siero prelevato a digiuno, al mattino e dopo che il paziente ha seguito, nei giorni precedenti, una dieta regolare ma non diversa da quella abituale.

Colesterolo totale. La valutazione utilizza il metodo enzimatico. Il valore auspicabile deve essere < 180 mg/dl  Trigliceridi. Si misura la quantità di glicerolo liberato in seguito al distacco, per idrolisi, degli acidi grassi. Il valore auspicabile deve essere compreso tra 40 e 150 mg/dl  Colesterolo HDL. Si ottiene facendo precipitare tutte le altre lipoproteine ad eccezione delle HDL che rimangono, quindi, in soluzione. Il valore auspicabile deve essere compreso tra 45 e 65 mg/dl  Colesterolo LDL. Si ottiene con un calcolo che presuppone la conoscenza dei valori del colesterolo totale, dell’HDL e dei trigliceridio. Il valore auspicabile deve essere compreso tra 87 e 128 mg/dl  Apoproteine a1 e b. Per la valutazione si utilizza il metodo turbidimetrico o nefelometrico. Il valore auspicabile deve essere compreso tra 115 e 190 mg/dl per l’apo a1 e compreso tra 70 e 160 mg/dl per l’apo b; inoltre, il rapporto “apo b/apo a1” deve essere inferiore a 0.8. Considerazioni cliniche. La determinazione dell'assetto lipidico di un soggetto (come mezzo per valutare il rischio individuale di cardiopatia coronarica), anche se ha ricevuto, sia nell’auditorio medico sia tra la gente comune, un’evidente - e, a volte, eccessiva - spinta “mediale”, è sicuramente utile per tutti. Infatti, il poter conoscere la propria concentrazione sierica di colesterolo è indiscutibilmente un’ ottima opportunità che consente di decidere se e quali cambiamenti apportare al proprio stile di vita e ridurre così il rischio di sviluppare pericolose patologie su base arteriosclerotica. Il risultante benefico effetto non è valido solamente per un migliore stato di salute dell’individuo ma anche per un risparmio di costi a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Fattori di rischio. L'ipercolesterolemia, insieme ad altri fattori di rischio quali il sesso maschile, l’anamnesi familiare positiva per cardiopatie, il fumo, il sovrappeso e l’ipertensione, costituisce una grave minaccia per la salute perchè associata con l'insorgenza di cardiopatia coronarica. La medicina preventiva, nel definire un programma di prevenzione per la cardiopatia coronaria (Tab. 22-4), ha cercato di affrontare e risolvere alcuni problemi che influiscono sulla sua efficacia ed efficienza, quali, in particolare, quelli di:  decidere quali siano i parametri, relativi alla colesterolemia, da tenere sotto controllo  stabilire i limiti di riferimento di questi parametri  standardizzare le determinazioni sia su scala nazionale che internazionale. Il controllo della terapia. L’approccio alla terapia necessita di un’attenzione particolare per gli elementi che variamente condizionano il metabolismo lipidico. Ricordiamo, a tale proposito, il controllo per:  le modificazioni del regime dietetico  l’assunzione orale di resine capaci di sequestrare nell'intestino gli acidi biliari impedendo l'assorbimento del colesterolo  il controllo dell'efficacia della terapia, sia dietetica sia farmacologica, per la quale sono necessarie almeno 6 settimane, affinchè i livelli sierici di colesterolo subiscano una diminuzione effettiva  le determinazioni di laboratorio che, per essere attendibili, dovrebbero essere precedute da almeno 3 giorni di regime dietetico normale  il digiuno - decorrente da circa 8- 12 h - che il paziente dovrebbe avere al momento del prelievo. La dieta. I principali fattori che influenzano le concentrazioni dei lipidi nel sangue sono:  l’apporto di colesterolo con la dieta  l’apporto calorico totale. Un apporto calorico - elevato per lungo tempo - causa un aumento di trigliceridi e di VLDL. D’altra parte, l'introduzione di grandi quantità di carboidrati provoca un rapido aumento dei trigliceridi e delle VLDL, mentre, l'introduzione di colesterolo e di acidi grassi saturi aumenta il contenuto del colesterolo e delle LDL. A questo si può aggiungere che il consumo di acidi grassi insaturi può diminuire il colesterolo totale, mentre l'alcol aumenta la concentrazione di trigliceridi che sono, più frequentemente, associati alle VLDL e, in piccola parte, ai chilomicroni. La lipoproteina (a) [lp (a)= lipoproteina a piccolo]. Questa lipoproteina è considerata una variante genetica delle LDL e, con questa, ha molti tratti in comune, quali:  ha in comune con le LDL la “apo B100”, ma possiede un'altra apoproteina chiamata “apo (a)” 

n

Consumo di NAD ossidato durante l’ossidazione dell’etanolo ad acetaldeide.

o

Secondo la formula: col.LDL = col.tot-col.HDL + (try x 0.16).

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non è un prodotto metabolico delle LDL e non viene convertita in altre lipoproteine  è prodotta nel fegato e non deriva da precursori plasmatici  le sue modulazioni dipendono da variazioni di sintesi e non di catabolismo. La lipoproteina lp(a) ha un ruolo rilevante nella comparsa e diffusione della aterosclerosi. Questa lipoproteina interverrebbe nel processo di aterogenesi, in quanto, come analogo del plasminogeno, agisce nei processi di lisi del coagulo, contrastandoli e determinando, di fatto, l’evoluzione dei depositi nella parete arteriosa. Numerosi studi sembrano dimostrare come livelli elevati di lp(a) nel sangue siano causa di patologie cardiovascolari e cerebrovascolari ed inoltre studi di follow-up hanno dimostrato che la lp(a) è, in effetti, un fattore di rischio di patologia coronarica ma indipendente dall'andamento degli altri lipidi 4. Infatti, alti livelli di lp(a) aumentano il rischio di una persona di sviluppare una malattia coronaria e una malattia vascolare cerebrale e ciò può verificarsi anche in persone con un normale profilo lipidico. Il dosaggio di lp(a) nel siero:  si esegue con metodo immunologico  permette di fare diagnosi di aterosclerosi precoce  consente di aggiungere osservazioni speculative sull’azione della lp(a) e del conseguente rischio, quali: a) l'età e la dieta non sembrano influenzare i livelli di lp(a) b) nel diabete di tipo 2, si ha un aumento di lp(a) c) in gravidanza, si ha un aumento di lp(a) con un picco alla 18a settimana di gestazione d) le epatopatie riducono i livelli di lp(a) che ritornano alla norma dopo la guarigione. Gli alimenti naturali, quali verdura e frutta, ricchi di vitamine (ad es. niacina e vitamina C) e di molecole ad azione anti-ossidante sono in grado di ostacolare le azioni aggressive di lipoproteina lp(a) e possono contribuire ad abbassarne elevati valori sierici. 

§4

LA SINDROME METABOLICA

Il termine sindrome metabolica viene impiegato per descrivere l’eventuale copresenza di alcuni fattori di rischio per la malattia cardiovascolare presenti in un individuo in un dato momento della sua vita. La convergenza di diversi fattori di rischio, infatti, si associa ad un aumento del rischio di attacco cardiaco, di ictus o di altre patologie cardiovascolari. Attualmente, non vi è una definizione, universalmente accettata, di sindrome metabolica, tuttavia, le definizioni più comunemente riconosciute sono due. 1) Il “National Cholesterol Education Programme Adult Treatment Panel” definisce la sindrome metabolica in base alla presenza di tre o più dei seguenti fattori di rischio: a) un'obesità addominale, quantificabile con una circonferenza della vita superiore ai 102 cm negli uomini ed agli 88 cm nelle donne b) un aumento del livello dei trigliceridi, con livelli superiori o uguali a 150 mg/dl c) bassi livelli di colesterolo HDL, con livelli inferiori a 40 mg/dL per gli uomini ed a 50 mg/dl per le donne d) ipertensione arteriosa, con valori con livelli superiori o uguali a 130/85 mmHg e) aumento della glicemia a digiuno oltre i livelli di 110mg/dl. 2) L'Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) definisce la sindrome metabolica come intolleranza al glucosio, ridotta tolleranza al glucosio o diabete mellito e/o insulino resistenza in associazione a due o più dei seguenti fattori: a) elevata pressione arteriosa, con livelli superiori o uguali a 140/90 mmHg

aumento dei trigliceridi, con livelli superiori o uguali a 150 mg/dl c) bassi valori di colesterolo HDL, con livelli, per i maschi inferiori a 35 mg/dl e, per le femmine, inferiori ai 39 mg/dl d) obesità centrale, che comporta, per i maschi, un rapporto vita-fianchi (WHR) superiore a 0.90 e, per le femmine, un WHR superiore a 0.85, oppure, per ambedue, un BMIp superiore a 30 kg/m2 e) microalbuminuria, rappresenta la frazione proteica che passa attraverso il filtro renale e che viene eliminata con le urine. E’ un test eseguito per controllare la funzionalità renale specie nel paziente diabetico; il risultato in particolare viene identificato come: ‫־‬ microalbuminuria se la concentrazione risulta > a 20 µg/min oppure se il rapporto della creatinina ha livelli superiori o uguali a 30 mg albumina/g creatinina ‫־‬ segnale predittivo se la concentrazione risulta > a 30 mg/24 ore ‫־‬ macroalbuminuria se la concentrazione risulta > a 300 mg/24ore. La sindrome metabolica è anche conosciuta con altri nomi, come “sindrome da resistenza all’insulina”, “Syndrome X” o “intolleranza al glucosio”. Studi attuali mostrano che la sindrome metabolica, la quale può essere presente in un individuo per oltre dieci anni prima di essere diagnosticata, è caratterizzata da un gruppo di fattori di rischio5. Ogni soggetto può essere esaminato sulla base anche di un singolo fattore di rischio, il quale, già di per sé, espone ad un pericolo cardiovascolare, tuttavia, quando, in quel soggetto, si associano più fattori di rischio, questi producono un effetto cumulativo sul livello di rischio complessivo, determinando una “sindrome metabolica”, la quale aumenta significativamente il rischio di attacco cardiaco, di diabete di tipo 2 o, addirittura, di morte. I soggetti affetti da sindrome metabolica hanno un rischio di morte, per malattie cardiovascolari, doppio rispetto ai non affetti ed un rischio d’insorgenza di attacchi di cuore e di ictus praticamente triplicato. É pertanto importante identificare, se possibile preventivamente, gli individui ad alto rischio e fare in modo che vengano adeguatamente trattati e monitorati. La sindrome metabolica è molto diffusa nella popolazione e sembra essere strettamente correlata a fattori quali invecchiamento e/o obesità. Un recente studio effettuato negli Stati Uniti, ha dimostrato che circa un maschio su cinque ed una donna su quattro sono portatori di sindrome metabolica6. La prevalenza di queste condizioni aumenta con l’età ed è presente in quasi la metà della popolazione di età superiore ai 60 anni6. Inoltre, altri studi hanno confermato la presenza di sindrome metabolica in un’ampia varietà di gruppi etnici, in paesi sia industrializzati sia in via di sviluppo7. Il problema delle cause che determinano la sindrome metabolica è un argomento molto dibattuto in quanto essa è, comunque, strettamente associata all’insulino resistenzaq. E’ b)

p q

Indice massa corporea. Un disordine in cui la

risposta del corpo alle normali sollecitazioni dell’insulina è compromessa.

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noto che obesità, inattività fisica e/o fattori genetici predispongono allo sviluppo della resistenza all’insulina. Pertanto, sono riportati studi nei quali alcuni autori, al fine di ridurre il rischio di malattie cardiovascolari associate alla sindrome metabolica, hanno attuato un trattamento per ogni singolo fattore di rischio che la compone (iperglicemia, ipertensione, dislipidemia) valutandone poi l’efficacia8. Tuttavia, ciascuno di questi studi, focalizzando un singolo fattore di rischio, tende a valutare un effetto relativo e non quello reale e globale dovuto all’azione combinata dell’intero complesso dei fattori di rischio associati alla sindrome metabolica. Le linee guida americane - NCEP ATP III9, 10 - hanno stabilito che la gestione della sindrome metabolica ha due obiettivi: 1) l’attenuazione delle cause determinanti, come, ad esempio, obesità ed inattività fisica 2) il trattamento dei fattori di rischio associati, di qualsiasi natura essi siano (lipidici e non). È, infatti, ampiamente dimostrato che il trattamento dei fattori di rischio della sindrome metabolica, coadiuvato da modificazioni terapeutiche dello stile di vita (attenta gestione del peso corporeo con idonea dieta ed adeguato aumento dell’attività fisica), può ridurre il rischio di malattie coronariche. Si consigliano, pertanto, i seguenti approcci clinici:  trattamento dell’ipertensione  impiego di aspirina in pazienti con malattie coronariche (per ridurre la condizione pro trombotica)  trattamento dei livelli elevati di trigliceridi  trattamento dei bassi livelli di colesterolo HDL.

In accordo con le linee guida americane ed europee, gli alti livelli di colesterolo LDL, i bassi livelli di colesterolo HDL e l’aumento dei trigliceridi, identificati come fattori chiave di rischio, dovrebbero essere trattati come obiettivo primario della terapia per la sindrome metabolica. Le statine, ad esempio, hanno dimostrato una significativa efficacia nel ridurre il colesterolo LDL, i livelli dei trigliceridi e nell’aumentare i livelli del colesterolo HDL. Tuttavia, a seguito di energici e precoci cambiamenti dello stile di vita - correzione della dieta ed aumento dell’attività fisica - i medici possono, in presenza di miglioramento, modificare il trattamento ed avere un significativo impatto sulla prevenzione sia del diabete di tipo 2 sia delle coronaropatie del paziente. Benché lo screening di ogni individuo, anche asintomatico, per la sindrome metabolica non costituisca una pratica clinica attuale, si auspica che, in un prossimo futuro, il complesso dei fattori di rischio che caratterizzano la sindrome metabolica possa essere, con campagne di “screening preventivo”, diagnosticato precocemente, Ciò consentirebbe di gestire e seguire ogni individuo in modo personalizzato ed il tutto andrebbe a vantaggio non solo del singolo, ma anche della collettività, con minore spesa per la Sanità pubblica.

Lezione 23 – I destini metabolici delle proteine1-7 §1

DIGESTIONE ED ASSORBIMENTO PROTEICO

Generalità Le proteine, dette anche protidi, sono costituenti fondamentali degli organismi viventi e sono costituite da quattro elementi: carbonio, idrogeno, ossigeno ed azoto;

molte contengono anche zolfo ed alcune fosforo, ferro, zinco e rame. Caratteristica è la presenza dell’azoto che l’uomo non è in grado di assorbire dall’aria come invece fanno le piante. Le proteine occupano una posizione “centrale” nella architettura (proteine strutturali) e nelle funzioni della materia vivente (proteine funzionali, per es. enzimi, ormoni, fattori di crescita, vie coagulative, respirazione cellulare, ecc.). Nell’organismo umano le proteine rappresentano oltre il 50% dei componenti organici e circa il 14-18% (secondo l’età) del peso corporeo totale. Giornalmente, 70-100 grammi di proteine entrano nel nostro organismo attraverso la dieta, 35-200 grammi sono di produzione endogena e solo 6±12 grammi vengono persi con le feci. Si può quindi dedurre che i processi di digestione e di assorbimento delle proteine dimostrano una elevata efficienza. Le proteine sono composte da unità semplici (“aminoacidi”) unite fra loro con legami peptidici (-CO-NH-) dando origine a catene più o meno lunghe denominate peptidi. Gli aminoacidi conosciuti sono numerosi, ma poco più di 20 alfa-aminoacidi sono rilevanti nell’alimentazione umana. Il numero di polipeptidi che si possono formare dai 20 alfaaminoacidi è enorme e da qui la grande varietà di proteine esistenti e commestibili. Le proteine sono degradate in unità semplici (“aminoacidi”) dalle “peptidasi”, enzimi specifici che idrolizzano i legami peptidici e che si distinguono in due gruppi:  endopeptidasi (pepsina, tripsina, chimotripsina, elastasi) rompono internamente il legame peptidico, e producono, dai grossi polipeptidi, frazioni più piccole (oligopeptidi) che possono, a loro volta, essere attaccate dalle esopeptidasi  esopeptidasi (carbossipeptidasi, amminopeptidasi e dipeptidasi) rompono il legame di un solo aminoacido alla volta, agendo o all’estremità N- o all’estremità Cdella proteina. Dall’azione combinata delle endo e delle esopeptidasi si formano i prodotti finali della digestione delle proteine, cioè gli “aminoacidi”, i “dipeptidi” ed i “tripeptidi”, molecole che, per la loro piccola dimensione, possono essere assorbiti dalle cellule dell’intestino. A seconda del tipo di peptidasi utilizzato, il processo digestivo delle proteine si divide in tre fasi ed avviene a livello:  gastrico, con l’impiego della pepsina  pancreatico, con l’impiego della tripsina  intestinale, con l’impiego della dipeptidasi e della aminopeptidasi. A livello intestinale, inoltre, i “di” ed i “tripeptidi” vengono ulteriormente idrolizzati ad aminoacidi e possono passare, tramite il circolo portale, al fegato. Le proteine ingerite con gli alimenti vengono idrolizzate nello stomaco e nell'intestino tenue per produrre amminoacidi liberi. Questi prodotti vengono assimilati dalle cellule dell'intestino e riversati nel circolo sanguigno. La maggior parte di questi aminoacidi viene poi utilizzata dagli organi e dai tessuti per il turnover proteico adibito al rinnovamento della struttura cellulare. La degradazione degli amminoacidi La degradazione degli amminoacidi è un processo indispensabile per la sopravvivenza dell’organismo e trova le sue motivazioni in tre essenziali situazioni funzionali:

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1) normale turnover delle proteine 2) surplus proteico da dieta 3) carenza di carboidrati. La prima tappa del catabolismo degli amminoacidi prevede l'allontanamento del gruppo amminico. Lo scheletro carbonioso viene così utilizzato nel ciclo di Krebs o nella gluconeogenesi. Le amminotransferasi o “transaminasi” rappresentano gli enzimi chiave nella rimozione del gruppo amminico degli amminoacidi. Le reazioni di transaminazione consistono nel trasferimento di un gruppo amminico da un amminoacido donatore all'alfachetoglutarato per formare “glutammato”. Durante questa reazioni l’amminoacido donatore è convertito in αchetoacido. Successivamente, il glutammato convoglia i gruppi amminici verso il ciclo dell'urea o verso le vie biosintetiche degli amminoacidi. Per ottenere alcuni risultati biochimici è necessario, a volte, l’impiego di sostanze non proteiche che coadiuvino l’azione enzimatica. Queste sono generalmente molecole organiche, spesso complesse, che lavorano in collaborazione con gli enzimi e vengono definite “coenzimi”. Il coenzima delle transaminasi è il “piridossalfosfato”, un coenzima prodotto a partire dalla “piridossina”, meglio nota con il nome di vitamina B6. Ricordiamo, infine, che il processo di transaminazione è reversibile e può funzionare nei due sensi, in relazione alle necessità funzionali della cellula. Gestione dell’azoto in eccesso Solitamente gli ioni ammonio in eccesso vengono escreti oppure utilizzati per sintetizzare composti azotati. Un importante processo a cui vanno incontro gli amminoacidi è la deamminazione ossidativa. Essa avviene nei mitocondri ed è catalizzata dalla “glutammato deidrogenasi”, un enzima NAD-dipendente che catalizza la deamminazione ossidativa del glutammato producendo acido alfa-chetoglutarico, con sostituzione del gruppo amminico da parte dell’ossigeno proveniente dall'acqua. Lo ione ammonio NH4+ che si viene a formare reagisce col glutammato per formare “glutammina” che funge da trasportatore di gruppi amminici al fegato. L'enzima che permette questa reazione ATP-dipendente è la “glutammina sintetasi”. La glutammina entra nel circolo sanguigno e raggiunge il fegato dove, all'interno dei mitocondri epatici, viene riconvertita a glutammato con liberazione dello ione ammonio NH4+ . Nel muscolo, il principale trasportatore di gruppi amminici è invece rappresentato dalla “alanina”. Essa viene formata per trasferimento del gruppo amminico dal glutammato all'acido piruvico o piruvato. Similmente a quanto avviene per la glutammina, all'interno dei mitocondri epatici l’alanina libera il proprio ione ammonio generando glutammato e piruvato. Il piruvato è necessario al fegato nel processo chiamato gluconeogenesi. Lo ione ammonio NH4+ è tossico per le cellule del corpo ed in particolare per il cervello. In sede extraepatica lo ione ammonio viene neutralizzato tramite il legame con il glutammato o con il piruvato. Nel fegato lo ione NH4+ viene incorporato nella molecola atossica dell'urea. L'urea prodotta dal fegato viene trasportata attraverso il sangue ai reni per l'escrezione urinaria.

§2

ELIMINAZIONE ED IMPIEGO DEI PRODOTTI DI DEGRADAZIONE

PROTEICA

Il ciclo dell'urea Il ciclo dell'urea inizia con la formazione del “carbamil fosfato” ad opera dell'enzima “carbamil-fosfato sintetasi”. Durante questa reazione vengono spese due molecole di ATP. L’ammoniaca accumulata nei mitocondri degli epatociti viene quindi convertita in “urea” mediante il ciclo dell’urea. All’esordio del processo, l’ammoniaca libera viene legata all’HCO3-, nella matrice mitocondriale, con consumo di 2 molecole di ATP e formazione di “carbamilfosfato”. Il carbamilfosfato entra nel ciclo dell’urea, dona il suo gruppo carbamilico all’ornitina formando “citrullina”. Quest’ultima esce dai mitocondri ed il processo continua nel citoplasma dove l’aspartato fornisce un secondo gruppo amminico generando “argininsuccinato”. L’argininsuccinato viene scisso in “arginina” e “fumarato”. Quest’ultimo entra nel ciclo di Krebs, mentre l’arginina si scinde ancora, producendo urea e rigenerando ornitina la quale, liberata, riprende il suo ciclo. Nel ciclo dell’urea si uniscono, dunque, due gruppi amminici ed uno ione bicarbonato, formando una molecola di urea che diffonde dal fegato nel circolo sanguigno per essere eliminata con le urine. L’intero processo si autoregola in relazione alle esigenze organiche, infatti la concentrazione degli enzimi del ciclo aumenta o diminuisce in risposta all’apporto più o meno elevato di proteine con la dieta. Il ciclo dell'urea richiede un'elevata quantità di energia pari a 4 ATP per ogni molecola di urea prodotta. Si calcola, infatti, che, per eliminare l’azoto, sotto forma di urea invece che di ammoniaca, venga consumato circa il 15% dell’energia che può essere ricavata dagli stessi amminoacidi. Catabolismo dello scheletro carbonioso aminoacidico In base al destino che seguirà lo scheletro carbonioso dopo la separazione dalla componente azotata, gli aminoacidi si classificano in tre gruppi. Aminoacidi glucogenici. Gli aminoacidi glucogenici generano piruvato oppure un intermedio del ciclo di Krebs ed aumentano così la concentrazione di glucosio attraverso la gluconeogenesi. Fra questi ricordiamo l’acido aspartico, l’acido glutammico, l’asparagina, la glutamina, l’istidina, la prolina, l’arginina, la glicina, l’alanina, la serina, la cisteina, la metionina e la valina. Aminoacidi chetogenici. Gli aminoacidi chetogenici generano acetoacetato o acetil-CoA, entrando quindi nel metabolismo lipidico come precursori dei [corpi chetonici]4 o per la biosintesi degli acidi grassi. Fra di loro ricordiamo la leucina e la lisina. Aminoacidi glucogenici e chetogenici. Questi aminoacidi sono in grado di formare sia piruvato od un altro intermedio del ciclo di Krebs sia acetoacetato e acetil-CoA. Fra questi ricordiamo la fenilalanina, la tirosina, il triptofano, l’isoleucina e la treonina.

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Gli scheletri carboniosi convergono in sette compostir in grado di entrare direttamente o indirettamente nel [ciclo di Krebs]5. Il ciclo di Krebs (anche detto “ciclo degli acidi tricarbossilici” o “ciclo dell'acido citrico”) è un ciclo metabolico di importanza fondamentale in tutte le cellule che utilizzano ossigeno nel processo della respirazione cellulare. In questi organismi aerobici, il ciclo di Krebs è l'anello di congiunzione delle vie metaboliche responsabili della degradazione (catabolismo) dei carboidrati, dei grassi e delle proteine in anidride carbonica e acqua con la formazione di energia chimica. Il ciclo di Krebs è una via metabolica anfibolica, poiché partecipa sia a processi catabolici che anabolici. Il ciclo fornisce infatti anche molti precursori per la produzione di alcuni amminoacidi (ad esempio l'α-chetoglutarato e l'ossalacetato) e di altre molecole fondamentali per la cellula6. Anabolismo dello scheletro carbonioso aminoacidico Lo scheletro carbonioso è la prima componente strutturale di un aminoacido derivante, in caso di necessità ricostruttive del nostro organismo, dall’anabolismo proteico. Il processo può utilizzare scheletri esistenti o, meglio, biosintetizzarli dagli elementi di base. Per questo, il procedimento prevede i seguenti due passaggi:  sintesi dello scheletro carbonioso con formazione dell’alfa-chetoacido corrispondente  aggiunta del gruppo amminico mediante transaminazione. L’anabolismo proteico, però, non è autosufficiente poiché, dei venti aminoacidi ordinari necessari per la composizione e costruzione di tutte le proteine utilizzate dal nostro organismo, solo la metà può essere sintetizzata come tale all’interno. Dal punto di vista funzionale gli amminoacidi utilizzati dall’uomo sono classificati in essenziali, non-essenziali e semi-essenziali:  aminoacidi essenziali sono quelli che l’organismo non è in grado di sintetizzare e che quindi devono essere introdotti con la dieta. Nell’adulto gli amminoacidi essenziali sono 8: leucina, isoleucina, fenilalanina, lisina, metionina, treonina, triptofano e valina; nei bambini è essenziale anche la cisteina  aminoacidi non-essenziali sono quelli che l’organismo in condizioni fisiologiche è in grado di sintetizzare in quantità adeguate  aminoacidi semi-essenziali sono tirosina e cisteina che possono venire sintetizzati dall’organismo a partite da fenilalanina e metionina, quando queste ultime vengano fornite in modo appropriato.

§3

SIGNIFICATO CLINICO DEL METABOLISMO PROTEICO

Il bilancio azotato In clinica, si ritiene che un individuo in “bilancio d’azoto” elimini una quantità di azoto più o meno uguale a quella dell’azoto introdotto. Si possono considerare due condizioni funzionali: r

piruvato, acetilCoA, acetoacetilCoA, α-chetoglutarato, succinilCoA, fumarato ed ossalacetato.

bilancio azotato positivo: è uno stato che si presenta quando l’organismo, nel corso del suo periodo evolutivo o in seguito a traumi, richiede un incremento della sintesi proteica al quale non corrisponde una equivalente eliminazione di azoto bilancio azotato negativo: è uno stato che si presenta in caso di malnutrizione o di digiuno volontario quando, per la necessità di avere a disposizione proteine essenziali per l’organismo, vengono catabolizzate le proteine del muscolo o dell’emoglobina; in tal modo viene incrementata la quota di azoto eliminato rispetto a quella introdotta con la dieta.

I disturbi del ciclo dell'urea7 Patogenesi. I disturbi del ciclo dell'urea (UCD, Urea Cycle Disorders) appartengono al gruppo di disordini conosciuti come errori congeniti del metabolismo e riguardano tutte le reazioni biochimiche ed elettro-fisiologiche dell'organismo. Gli UCD sono malattie rare ma spesso gravi dovute a deficit ereditari di uno degli enzimi responsabili della conversione dell’ammonio in urea causando un accumulo di ammonio altamente tossico. I disordini metabolici sono numerosi ed ognuno di essi ha caratteristiche diverse a secondo della sede coinvolta7. Il ciclo dell'urea è il percorso metabolico attraverso cui l'ammoniaca tossica – derivante dall’azoto proteico - viene trasformata in urea non tossica che può, quindi, essere escreta, come tale, nell'urina. I disturbi del ciclo dell'urea sono sei e ciascuno deriva dal difetto di uno degli enzimi interessati e, precisamente:  la carbamilfosfato sintetasi;  la ornitina transcarbamilasi;  la argininsuccinato sintetasi, con effetto sulla citrullinemia;  la argininsuccinato liasi con effetto sulla argininsuccinuria;  la arginasi;  la N-acetilglutamato sintetasi. Effetti clinici. Tutte queste carenze causano un accumulo eccessivo di ammoniaca nel sangue (iperammoniemia) e nei tessuti, solitamente scatenato da forti assunzioni di proteine, infezioni, immunizzazioni, traumi o interventi chirurgici, che determina, di conseguenza, un’azione tossica per tutte le cellule dell’organismo ed, in particolare, per i tessuti cerebrali. L’accumulo di ammonio che ne deriva è altamente tossico per le cellule nervose e l’iperammoniemia può provocare anoressia, letargia, confusione, coma, ritardo mentale e morte prematura. I sintomi derivanti dall’esistenza di questi difetti non sono correlabili alla specifica carenza, ma variano solo in relazione all'età del soggetto al momento dell’insorgenza. L’incidenza complessiva degli UCD è stimata attorno ad 1 caso ogni 8.200 nascite. Sintomi nel neonato. I neonati possono presentare i primi segni di iperammoniemia entro le prime 24/48 ore di vita. I sintomi tipici nel neonato sono scarso appetito, vomito, respirazione anomala, letargia, convulsioni e coma. Sintomi nel bambino e nell’adulto. I sintomi, in tal caso, possono presentarsi sotto forma di attacchi acuti o in maniera cronica progressiva. Il quadro clinico è spesso meno grave, caratterizzato da scarso appetito, vomito episodico,

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arresto della crescita, ritardo nello sviluppo e, a volte, disturbi neuropsichiatrici. Alcuni pazienti, colpiti in tarda età, rimangono addirittura sani fino all'insorgere di una malattia acuta. Un simile comportamento può essere correlabile alle abitudini alimentari del soggetto che limita spontaneamente la propria assunzione di proteine. Trattamento dell’iperammoniemia. I pazienti affetti da disturbi del ciclo dell'urea devono controllare l'assunzione di proteine. Riducendo la quantità di proteine, si impedisce un eccessivo carico di azoto - e, quindi, un accumulo di ammoniaca - anche se la sola dieta non sempre basta per controllare il disturbo metabolico. Il concetto di equilibrio tra terapia medica e dieta a basso contenuto di proteine è importantissimo. Ammoniaca ed aminoacidi devono essere controllati regolarmente per mantenere un corretto equilibrio tra fabbisogno alimentare e trattamento. Attualmente si cerca di intervenire sulla malattia riducendo l’apporto proteico introdotto con la dieta e fornendo un percorso biochimico alternativo all’urea per l’escrezione dell’azoto. L'efficacia del trattamento dipende direttamente dalla rapidità di riconoscimento dei segni di iperammoniemia, con esordio immediato sia della dieta che della terapia medica. Malattie ereditarie del metabolismo degli aminoacidi7 Oltre ai difetti che intervengono sul ciclo dell’urea esistono malattie, su base genetica, che interessano direttamente il metabolismo degli aminoacidi. Illustriamo brevemente le tre più frequenti tra queste. Fenilchetonuria. La fenilchetonuria interessa il metabolismo della fenilalanina ed interviene quando esiste una carenza dell’enzima fenilalanina idrossilasi che favorisce il catabolismo dello scheletro carbonioso della fenilalanina e determina la sintesi della tirosina. La fenilchetonuria è una malattia autosomica recessiva con una frequenza di 1:16.000 nei bianchi e di 1:50.000 nei neri. Se non diagnosticata alla nascita - e non curata con l’eliminazione dalla dieta della fenilalanina e l’incremento nella dieta della tirosina - causa un grave danno cerebrale dovuto all’effetto tossico della fenilalanina e dei fenilchetoni su quest’organo. Per questo motivo il dosaggio di fenilalanina sul sangue del neonato fa parte dei programmi di screening neonatale dei Paesi sviluppati. La malattia delle urine a sciroppo d’acero. Questa malattia interessa il metabolismo degli aminoacidi a catena ramificata come la leucina, l’isoleucina e la valina. Il blocco della decarbossilasi mitocondriale, specifica per questi aminoacidi, determina un accumulo degli alfachetoacidi corrispondenti con conseguente aciduria che attribuisce alle urine il caratteristico odore di sciroppo d’acero. Il difetto, che colpisce 1:300.000 neonati può essere in parte corretto con una dieta a basso contenuto proteico. Se non trattata questa patologia può dare ritardo fisico e mentale nel neonato. L’albinismo. L’albinismo è causato da un difetto di tirosinasi, un enzima che, attraverso il passaggio da diidrossifenilalanina (DOPA) trasforma la tirosina in un precursore della melanina. Questi soggetti, non avendo pigmenti, sono molto sensibili alla luce intensa ed alla radiazione solare dalle quali devono sempre proteggersi.

Lezione 24 – Elettroforesi delle proteine 1-3 Per il dosaggio delle proteine del siero viene utilizzata una tecnica moderna, attendibile e molto diffusa per il frazionamento e l’analisi di macromolecole biologiche: l’elettroforesi, che si basa sul principio della migrazione di molecole dotate di carica quando sottoposte ad un campo elettrico. Il metodo I metodi basati sulla separazione elettroforetica sono:  elettroforesi tradizionale, che richiede un supporto meccanico poroso chimicamente inerte (come il gel di agarosio o quello di acrilamide) nel quale le particelle elettricamente cariche si muovono in un liquido conduttivo sotto l'influenza di un campo elettrico;  elettroforesi capillare, che, introdotta negli anni 60, è nata per separare le specie basandosi sulla dimensione del rapporto di carica all'interno di un piccolo capillare riempito con un elettrolita. “Elettroforesi” è un termine che deriva dalla composizione delle parole “elettro” e “” (foreo) che significa trasportare; il metodo, infatti, produce una migrazione del siero in esame, collocato su un supporto inerte con un opportuno tampone, al quale si applica un campo elettrico. La striscia, che se ne ricava, è colorata da una serie di migrazioni corrispondenti ognuno ad un siero seminato, definite “ferogrammi”. Ogni ferogramma, grazie alla lettura al densitometro, si presenta come un grafico che evidenzia le percentuali delle singole frazioni proteiche presenti nel siero.

§1

FRAZIONI PROTEICHE EVIDENZIABILI ALL’ELETTROFORESI

Secondo la raccomandazione della Società Italiana di Biochimica Clinica una elettroforesi di buona qualità deve essere in grado di evidenziare (Fig. 24-1), dall'anodo (polo positivo) al catodo (polo negativo), le frazioni proteiche indicate nella tabella 1 (Tab. 24-1), ognuna delle quali può essere composta, a sua volta, da molte specie proteiche diverse. Le caratteristiche e gli utilizzi diagnostico-terapeutici delle principali frazioni registrate vengono descritte nella tabella 2 (Tab. 24-2). Le caratteristiche e gli utilizzi diagnosticoterapeutici di ciascuna frazione registrata nel tracciato elettroforetico verranno descritte in seguito. Prealbumina La prealbumina è la proteina più anodica del tracciato elettroforetico e precede, per questo, l'albumina. La sostanza è sintetizzata dal fegato e le sue funzioni essenziali, in vivo, sono:  il trasporto della tiroxina

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il trasporto della vitamina “A”, attraverso il legame che la RBPs realizza con il retinolo. Impiego diagnostico. Sia la prealbumina che la RBP hanno una emivita inferiore ai due giorni e possono, quindi, essere considerati fedeli markers dello stato di nutrizione. Il calo della prealbumina è infatti utilizzato come segnale della necessità di esordio o di integrazione dei supporti nutrizionali nei pazienti che presentano condizioni generali gravi. Una volta instaurata una terapia nutrizionale enterale o parenterale, il dosaggio seriato dei livelli di prealbumina permette, inoltre, di valutare l'efficacia della terapia adottata. 

Albumina L’albumina, secondo rilievo elettroforetico del tracciato, è, anch’essa, sintetizzata dal fegato e svolge le seguenti funzioni: 1) controlla, in condizioni normali, la pressione oncoticat del plasma. Se la concentrazione di albumina si riduce, ad esempio, si creano le condizioni affinchè un flusso di liquidi esca dal compartimento intravascolare e passi a quello extravascolare, con conseguente formazione di edemi 2) costituisce un'importante riserva circolante di aminoacidi che, se fossero mantenuti liberi nel plasma a concentrazioni elevate, finirebbero per essere eliminati con le urine. I livelli di albumina nel siero rappresentano, quindi, un importante indicatore dello stato nutrizionale del soggetto. Ipoalbuminemia. Nella tabella 2 (Tab. 24-2) illustriamo, schematicamente, le condizioni che possono portare ad una riduzione dell’albumina circolante ed i meccanismi che le sostengono. A quanto descritto nella tabella, bisogna però aggiungere che, nelle epatopatie gravi, ipoalbuminemie, anche importanti, possono essere mascherate da un aumento compensatorio delle gamma-globuline pertanto la diminuzione delle proteine totali del siero può risultare moderata (Fig. 24-2). Inoltre, nelle nefropatie gravi - quando queste sono accompagnate da proteinuria - il quadro elettroforetico è caratterizzato da una diminuzione dell'albumina e da un aumento relativo della 2-macroglobulina e della betalipoproteina, mentre le altre frazioni diminuiscono e permane una diminuzione della protidemia totale. In realtà l'albumina è la prima proteina ad essere persa con le urine in caso di danno renale a causa del basso peso molecolare che la caratterizzau (Fig. 24-3). Analbuminemia. Esiste una rara condizione ereditaria, così definita, in cui non avviene la sintesi dell’albumina. Gli individui analbuminemici presentano una protidemia totale molto ridotta, pur avendo concentrazioni normali delle altre proteine sieriche. Dal punto di vista clinico la condizione è silente ed è probabile che in questa patologia congenita agiscano meccanismi di compenso che riescono a mantenere l'equilibrio idrico tra i vari compartimenti, cellulari ed

s

Retinol Binding Protein. La pressione oncotica è la pressione osmotica esercitata da soluzioni colloidali, in particolare da colloidi come le proteine. I valori normali della pressione oncotica del plasma sanguigno è pari a 30 cm di H2O o, meglio, a 22 mm di Hg. t

u

68000 daltons.

extracellulari, anche se in assenza della quota di pressione oncotica plasmatica prodotta dall'albumina. Il difetto genetico è basato su mutazioni puntiformi per sostituzione o delezione dell'mRNA. Queste possono comportare una maturazione incompleta del processo con un messaggero anomalo che non riesce a trasferirsi dal nucleo al citoplasma degli eritrociti oppure che, qui giunto, non riesce a tradurre efficacemente il suo messaggio per le esigenze funzionali od architettoniche della cellula. Bisalbuminemia. In questo quadro elettroforetico (Fig. 244) sono presenti due distinte bande di albumina. I soggetti portatori di bisalbuminemia hanno una condizione genica eterozigote per la produzione sia di albumina normale sia di una sua variante, mentre le altre proteine sieriche risultano normali. In realtà esistono oltre 20 varianti elettroforetiche di albumina, tutte dovute ad una sostituzione di un singolo aminoacido. Queste diverse forme chimiche determinano un cambiamento della carica elettrica complessiva della molecola proteica che, per altro, non provoca conseguenze di rilievo sulle condizioni generali di salute del portatore. Bisalbuminemia acquisita. Questa evenienza è un fenomeno transitorio dovuto al legame di una piccola molecola, elettricamente carica, con l'albumina. La mobilità elettroforetica della proteina, in tal caso, è alterata dal legame e porta alla produzione di due distinte bande di albumina. Diverse condizioni sono in grado di produrre questo evento e le possiamo così sintetizzare:  esistenza di un legame forte con un farmaco come la penicillina o un suo derivato. Tale effetto è normalmente reversibile  esistenza di un legame con la bilirubina diretta. Ciò può succedere in caso di ittero ostruttivo che, di norma, dà origine ad una bilirubina, definita “delta”, in grado di legarsi  esistenza di un legame con la bilirubina indiretta. Ciò costituisce un importante meccanismo di difesa e di prevenzione del kernicterus del neonato. La saturazione di questo legame, infatti, dà il via al depositarsi della bilirubina libera nel tessuto cerebrale del neonato. Alfa1 globuline La banda delle 1 globuline è formata essenzialmente da una singola specie proteica l'1 antitripsina, che ha la funzione di inattivare gli enzimi proteolitici i quali, in corso di processi infiammatori, vengono liberati nei tessuti dai leucociti. Questi enzimi, se lasciati agire liberamente, produrrebbero danni notevoli alle strutture proteiche del tessuto. Il deficit di alfa1 antitripsina. Questa forma patologica determina nel soggetto portatore importanti conseguenze organiche:  facilita l’enfisema polmonare in età adulta;  può causare nei bambini una cirrosi epatica la cui gravità, a volte, richiede il trapianto del fegato. Se la deficienza è notevole, il tracciato elettroforetico risulta piatto nella regione alfa1: la piccola quantità di proteina presente, infatti, ha una mobilità elettroforetica anomala. La combinazione genetica all’origine del deficit di alfa1 antitripsina, prevede, chiamando “m” la proteina normale e “z” quella anomala, che i soggetti con cirrosi o enfisema siano omozigoti “zz”, mentre i soggetti asintomatici siano eterozigoti “mz”. Questi ultimi presentano, nella loro

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elettroforesi, una coppia di bande in regione 1 che permette di identificarli come portatori del gene malato nelle famiglie ove risulta la presenza di membri affetti da sindrome clinica di deficienza di 1antitripsina. Alfa2 globuline La zona di distribuzione delle 2 globuline è distinta in due bande che corrispondono a due specie proteiche diverse: la 2-microglobulina e l’aptoglobina. L’2-microglobulina è in grado di legare ed inattivare un ampio gruppo di proteasi che vengono liberate nel siero in seguito a processi infiammatori o a danni tissutali. Avendo un peso molecolare elevato (800.000 dalton) non viene persa con le urine nemmeno in corso di grave nefropatia e questo spiega la costanza del suo tipico tracciato elettroforetico. Ad oggi, non è stata identificata una patologia clinica conseguente ad un deficit congenito di 2-microglobulina. L’aptoglobina ha la funzione di legare l'emoglobina rilasciata nel plasma in seguito a lisi dei globuli rossi. In caso di grave emolisi, l'aptoglobina sierica viene rapidamente consumata; quindi, bassi livelli di aptoglobina sono indicativi di uno stato evolutivo di emolisi. Beta1 globuline La banda elettroforetica è costituita prevalentemente dalla transferrina, la proteina deputata al trasporto del ferro nel plasma. Un aumento, anche notevole, della transferrina si ha in corso di anemia da carenza di ferro e costituisce un meccanismo di compenso attraverso il quale l'organismo tende a conservare il proprio patrimonio marziale. Una diminuzione della banda elettroforetica della transferrina si può avere nel corso di una nefropatia con elevata dispersione di proteine, in relazione al fatto che questa proteina ha un p.m. relativamente basso (77.000 dalton) ed è, quindi, facilmente filtrabile. Beta2 globuline Questa banda elettroforetica comprende varie specie proteiche fra le quali la più significativa è il fattore C3 del complemento. Il sistema del complemento è costituito da un insieme di proteine plasmatiche, le quali si attivano a cascata quando un anticorpo si lega alla superficie di un microrganismo penetrato nell'organismo con lo scopo di portarlo alla completa distruzione. Le frazioni del complemento più abbondanti nel siero sono la C3 e la C4, anche se l'unica evidenziabile all'elettoforesi è la prima. Nel caso in cui si riscontri un aumento o una diminuzione della banda elettroforetica è indispensabile effettuare un dosaggio quantitativo della C3 che, se seriato nel tempo, può essere utile per seguire l'andamento delle patologie autoimmuni. Gamma globuline Nella regione gamma del tracciato elettroforetico migrano tutte le classi delle immunoglobuline costituenti gli anticorpiv (Fig. 24-5). v

Struttura degli anticorpi:  catene pesanti:  per le IgG,  per le IgM,  per le IgA,  per le IgE,  per le IgD.

Questa regione elettroforetica è di grande importanza perchè racchiude la maggior parte dei picchi monoclonali tipici di gravi patologie delle plasmacellule quali:  il mieloma multiplo  la macroglobulinemia di Walderstrom  il plasmacitoma. In queste forme nosologiche le immunoglobuline monoclonali migrano tutte alla stessa velocità dando origine ad un quadro elettroforetico caratteristico consistente in un unico picco alto e stretto. Dopo aver diagnosticato la presenza della componente monoclonale, è necessario effettuare una immunofissazione per testare il siero in esame con antisieri specifici; l’identificazione del tipo di immunoglobulina e di catena leggera interessata, così ottenuta, consente di poter inserire il paziente in un opportuno protocollo terapeutico o di monitoraggio della malattia. Quando le componenti monoclonali identificate sono di piccola entità ci troviamo di fronte, con buona probabilità, ad una gammopatia monoclonale benigna che accompagnerà il paziente nel corso della sua vita senza mai dare segno di sé. È però consigliabile, in presenza anche di una piccola componente monoclonale, appoggiarsi sempre ad un centro ematologico che stabilirà i tempi dei controlli seriati in base al concetto che ogni componente monoclonale deve sempre considerarsi potenzialmente in evoluzione verso mieloma. Per ogni approfondimento clinico è bene ricordare che tutte le proteine, finora evidenziate percentualmente con l’elettroforesi, possono essere dosate quantitativamente con il metodo nefelometrico o turbidimetrico. Proteina C reattiva Esistono proteine di grande importanza clinica che non sono evidenziabili all'elettroforesi perché in concentrazione sierica troppo esigua. Fra queste si distingue una proteina della fase acuta chiamata proteina C reattiva (PCR). Questa proteina aumenta rapidamente nel corso di malattie acute e diminuisce rapidamente quando la progressione della malattia si arresta. Clinicamente la PCR si associa, con frequenza variabile, alle seguenti malattie e precisamente:  con costanza: febbri reumatiche, artrite reumatoide, infezioni batteriche acute, epatite virali  frequentemente: TBC in fase attiva, gotta, neoplasie maligne, cirrosi, ustioni, peritonite  saltuariamente: sclerosi multipla, scarlattina, varicella, decorso post-operatorio, impiego di dispositivi anticoncezionali intrauterini (IUD).

Lezione 25 – Ormoni nella riproduzione1-4 §1

RICHIAMI DI ENDOCRINOLOGIA DELLA RIPRODUZIONE

Le basi Cenni anatomo-funzionali. Gli ormoni sono molecole sintetizzate e secrete dalle cellule endocrine e, quando 

catene leggere:  e  sono distribuite nelle diverse classi di anticorpi con rapporto :=3:2.

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liberati in circolo, esercitano il loro effetto su cellule bersaglio. L’ormone, legandosi ai recettori delle cellule, stimola queste alla produzione di proteine o enzimi specifici. In entrambi i sessi le gonadi sostengono sia funzioni riproduttive sia endocrine. Per le prime, l’epitelio germinativo gonadale origina lo spermatozoo o l’oocita, mentre, per le seconde, cellule epiteliali - contenute nel parenchima e dotate di attività secretoria - producono, nell’uomo, il testosterone e, nella donna, gli estrogeni ed il progesterone. Gli ormoni ipofisari che regolano la funzione endocrina riproduttiva sono gli stessi nei due sessi:  ormone follicolo stimolante (FSH)  ormone luteinizzante (LH). La funzione ipofisaria è, a sua volta, controllata da un ormone ipotalamico chiamato “gonadotropin-releasinghormone”w (GNRH) che viene secreto quando le concentrazioni degli ormoni gonadici si riducono. Le gonadi si differenziano precocemente durante la vita fetale influenzando precocemente lo sviluppo e la differenziazione dei genitali esterni e delle caratteristiche sessuali secondarie. La carenza o l’ambiguità della differenziazione sessuale possono quindi conseguire ad anomalie enzimatiche, geneticamente determinate, che alterano le vie metaboliche necessarie per la normale sintesi degli steroidi. Funzione gonadica nell’uomo. Nell’uomo, il testosterone viene sintetizzato da alcune cellule epiteliali - cellule del Leyidig - localizzate nel didimo, tra i tubuli seminiferi, mentre i tubuli seminiferi producono gli spermatozoi e parte dei componenti del liquido seminale. La spermatogenesi è parzialmente controllata dall’effetto stimolatorio dell’FSH, ma è necessaria la presenza del testosterone che, stimolato dall’LH, modula la secrezione del releasing factor (GNRH) ipotalamico, il quale, a sua volta, stimola la secrezione ipofisaria di FSH e LH. Un aumento isolato di FSH si può verificare quando, pur in presenza di una normale quantità di testosterone, l’epitelio germinativo non è in grado di produrre spermatozoi. Funzione gonadica nella donna. Nella donna l’FSH promuove la maturazione del follicolo stimolando la secrezione estrogenica e permettendo la maturazione dell’oocita (fase follicolare). A metà del ciclo si incrementa la secrezione di LH che, inducendo l’ovulazione, determina il rilascio, nella cavità peritoneale, di un oocita pronto per la migrazione verso le tube di Falloppio. In questo stesso periodo, le cellule epiteliali della granulosa, sotto lo stimolo dell’LH, vanno incontro alle modificazioni morfologiche che accompagnano la secrezione di progesterone (fase luteinizzante). L’aumento delle concentrazioni degli estrogeni - che precede la fase - inibisce la secrezione di FSH e stimola quella di LH la cui concentrazione permane elevata fino alla elevazione dei livelli di progesterone. La secrezione di estrogeni raggiunge il suo massimo poco prima della metà del ciclo, si riduce rapidamente con l’ovulazione, per poi tornare ad aumentare leggermente. Si mantiene così costante per qualche giorno e, infine, si riduce nettamente di nuovo prima dell’inizio della mestruazione. La concentrazione di progesterone, invece, rimane bassa nella prima metà del ciclo, aumenta rapidamente con w

l’ovulazione e raggiunge un livello che si mantiene costante fino a poco prima della mestruazione. Condizioni di funzionalità gonadica Il metabolismo. Tutti gli ormoni sessuali sono steroidi derivati dal colesterolo attraverso una serie di prodotti intermedi. Tra i composti intermedi è compreso anche il progesterone il quale, però, possiede una sua propria attività; da esso, infatti, deriva il testosterone il quale, attraverso modificazioni strutturali, arriva a produrre gli estrogeni. Concentrazioni plasmatiche significative di androgeni sono presenti sia nell’uomo che nella donna; infatti alcuni ormoni che possono essere trasformati in androgeni vengono prodotti anche dalle surrenali. L'ovaio, sotto lo stimolo dell’LH, elabora steroidi che i tessuti periferici convertono in androgeni metabolicamente attivi. Modificazioni durante la pubertà e l’invecchiamento. Prima della pubertà le concentrazioni sieriche di gonadotropine e di ormoni sessuali sono basse e questo stimola la produzione di FSH che, di conseguenza, tende ad aumentare proprio in questo periodo. I picchi produttivi di FSH e di LH si evidenziano inizialmente durante il sonno e diventano diurni col progredire della pubertà. Dopo l’età fertile, invece, la secrezione di ormoni sessuali diminuisce ed aumenta il livello delle gonadotropine. Amenorrea. L'assenza di mestruazioni viene detta “amenorrea”. L’amenorrea viene definita “primaria” nel caso in cui la donna non abbia mai presentato un flusso mestruale. In una condizione di questo genere mancano anche le caratteristiche sessuali secondarie. L’amenorrea “secondaria” si osserva in donne che, fino al momento in cui insorge, hanno presentato cicli regolari ed è correlata all’insorgenza di una qualsiasi patologia dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio. L’amenorrea secondaria può essere la conseguenza - oltre che di situazioni fisiologiche come la gravidanza o la menopausa - anche di stati particolari (ad es., anoressia), di malattie sistemiche come le leucemie o di altre gravi patologie d’organo.

§2

IL LABORATORIO NELLO STUDIO DELLA CONCEZIONALITÀ

Test di funzionalità gonadica I dosaggi ormonali rivestono un ruolo di fondamentale importanza nell'ambito dello studio dei fattori che possono essere alla base di condizioni di infertilità/ipofertilità femminile. Essi possono essere eseguiti in diversi momenti del ciclo mestruale. In linea di massima possiamo distinguere, su scelta del medico, esami basali (eseguiti nelle fasi iniziali del ciclo mestruale) ed esami eseguiti in seconda fase per determinati accertamenti. Gli esami basali hanno principalmente lo scopo di valutare la riserva ovarica e di escludere la presenza di patologie che possono interferire sulla funzione riproduttiva. Essi vengono in genere eseguiti il 2° o massimo 3° giorno del ciclo e consistono principalmente nel dosaggio di FSH, LH, Estradiolo, Progesterone, Prolattina, TSH, FT3, FT4. Quadro generale. Il bambino o l’adolescente con una differenziazione sessuale ambigua richiede una complessa e non sempre definitiva - valutazione per la messa in evidenza delle eventuali specifiche carenze enzimatiche,

Ormone di rilascio delle gonadotropine.

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mentre, per l’adulto, le indicazioni ad una valutazione di carattere endocrinologico considerano:  l’assenza di maturazione sessuale  la sterilità  la modificazione dei caratteri sessuali. L’insufficienza gonadica primitiva comporta una scarsa maturazione puberale con i caratteri sessuali secondari che si sviluppano lentamente. Nel maschio viene a mancare la capacità erettile ed eiaculatoria. Nelle femmine è presente l’amenorrea. L’insufficienza gonadica secondaria è caratterizzata, invece, da una regressione delle caratteristiche sessuali secondarie che si erano, in precedenza, sviluppate normalmente. A tale proposito è bene ricordare l’influenza di alcune situazioni o patologie sistemiche sulla produzione ormonalex. L’iperfunzione gonadica è causata da una sovrapproduzione degli ormoni sessuali dell’adulto, dovuta quasi sempre a neoplasie delle gonadi o degli organi che sintetizzano le gonadotropine. Valutazione dell’infertilità. Nel paziente infertile è, inoltre, necessario o utile eseguire alcuni esami di laboratorio. Nel maschio, ricordiamo l’analisi del liquido seminaley e la ricerca di anticorpi anti-spermatozoi presenti nel siero o nel muco cervicale della donna. Nella femmina, ricordiamo la valutazione della presenza o meno di ovulazione (dosaggio dell’LH) ed altri dosaggi ormonali atti a dimostrare un’anomala funzionalità ipofisaria o gonadica.

§

3

ENDOCRINOLOGIA

DELLA

GRAVIDANZA

E

DELL’ALLATTAMENTO

Richiami di fisiologia La fertilizzazione si compie mediamente entro sei giorni dall’ovulazione. Attraverso le tube, l’uovo fertilizzato giunge nell’utero e si impianta nell’endometrio che, essendo in fase secretoria, è pronto a riceverlo. Gli ormoni prodotti dalla placenta. Alcuni giorni dopo l’annidamento inizia la produzione di β-Gonadotropina Corionica Umana (β-HCG) che è un ormone glicoproteico fisiologicamente prodotto solo dalla placenta in fase di sviluppo. Fra gli altri ormoni placentari ricordiamo:  gli estrogeni totali;  il pregnandiolo;  il lattogeno-placentare (HPLl);  l’estriolo. Questi ultimi vengono oggi poco utilizzati nella pratica clinica in quanto il monitoraggio della gravidanza impiega usualmente il dosaggio delle HCG e, soprattutto, l'ecografia. L’estriolo, però, insieme all’alfafetoproteina ed all’HCG x

L’ipoglicemia può indurre un aumento di prolattina. L’alcolismo e le gravi epatopatie causano un aumento della concentrazione plasmatica di estrogeni e ipotestosteronemia. Nell’anoressia nervosa si hanno ridotti livelli di gonadotropine con riduzione sia delle funzioni sessuali sia della espressione dei caratteri sessuali.

y

Non si esegue solo come ricerca delle cause di sterilità maschile, ma anche come riflesso di una normale attività dell’asse ipotalamo-ipofisigonadi. È’ importante analizzare un campione fresco - non più vecchio di 1 ora - per avere risultati attendibili riguardo al grado di liquefazione del campione ed alla motilità degli spermatozoi.

viene dosato per la valutazione del TRIPLOTEST che, nelle prime settimane di gravidanza, unitamente ai dati di translucenza nucale, permette di valutare l’esposizione individuale al rischio di malformazione fetale. La prolattina (PRL). La prolattina è un ormone peptidico secreto dall’ipofisi anteriore. La sua funzione consiste nell’indurre la lattazione nella ghiandola mammaria esposta ad alte concentrazioni di estrogeni. I livelli di PRL aumentano nelle fasi tardive della gravidanza e raggiungono i massimi livelli con l’inizio dell’allattamento. In questa fase, gli incrementi di PRL derivano principalmente dallo stimolo determinato dalla suzione del capezzolo. Anche l’ipofisi non stimolata secerne continuamente una quantità elevata di prolattina, riconoscendo una fisiologica inibizione da parte della dopamina, specifico neurotrasmettitore del SNC prodotto dall’ipotalamo. Al contrario, un incremento della PRL si osserva in caso di:  stimolazione da TRH (ipotiroidismo primitivo)  adenomi ipofisari  tumori polmonari e renali. Elevate concentrazioni sieriche di PRL provocano alterazioni della funzionalità gonadica in entrambi i sessi, determinando, nella donna, amenorrea e cicli anovulatori e, nell’uomo, impotenza e ginecomastia. Ricordiamo, infine, che elevate concentrazioni di estrogeni stimolano la secrezione di PRL provocando galattorrea, come avviene, ad esempio, nelle seguenti situazioni cliniche:  uso di contraccettivi orali;  epatopatie;  alcolismo cronico. Il test di gravidanza Il metodo. I test di gravidanza sono basati sul dosaggio dell’HCG nel siero o nelle urine. Per il test sulle urine si usa un metodo “monoclonale qualitativo” che dà solo la positività o la negatività della reazione, mentre il dosaggio delle HCG sul siero impiega un metodo “quantitativo” e viene utilizzato sia per la diagnosi sia per il monitoraggio della gravidanza. La metodica attualmente usata per il dosaggio dell’HCG nel siero è una tecnica chemiluminescente. L’anticorpo monoclonale reagisce con la molecola in toto (catena alfa e beta) legando l’antigene all’anticorpo e formando così un immunocomplesso al quale si ancora una molecola di fosfatasi alcalina, che ossida il substrato (adamantildioxetano) il quale acquisisce la capacità di emettere luce. A questo punto entra in gioco uno strumento chiamato fotomoltiplicatore il quale capta la luce, la dosa e trasforma il dato registrato in concentrazione dell’immunocomplesso. La sensibilità di questo test permette di evidenziare concentrazioni di HCG inferiori a 15 mUI/ml. L’interpretazione del test. La concentrazione di HCG nel siero materno aumenta rapidamente all’inizio della gravidanza; nelle prime settimane, infatti, con l’accrescimento della massa trofoblastica, raddoppia, ogni due giorni circa, il suo valore. Dopo una settimana dal concepimento si misurano concentrazioni di HCG pari a 2,55,0 UI/ml; entro 10-12 settimane il valore raggiunge il picco di 150-200 IU/ml per poi ridursi gradualmente fino ad un valore di 10-50 IU/ml che si mantiene quindi stabile durante

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il 2° ed il 3° trimestre di gravidanza. Durante le prime settimane, il riscontro di valori di HCG inferiori o di poco superiori alle 2 UI/ml sono suggestivi di un insufficiente accrescimento del tessuto trofoblastico e, quindi, di un aborto interno o di una gravidanza extrauterina; mentre la caduta improvvisa dei valori di HCG è spesso indice di una minaccia d’aborto. L’HCG viene anche prodotto da tumori di origine trofoblastica (corioncarcinoma), da alcuni seminomi e dai carcinomi embrionali. In tali casi i livelli di concentrazione raggiunti dalle analisi quantitative è decisamente superiore a quelli prevedibili nelle condizioni fisiologiche osservate.

Lezione 26 – Modificazioni fisiologiche in corso di gravidanza1-5

La gravidanza comporta a carico dell’organismo della donna una serie di modificazioni anatomo-fisiologiche, emodinamiche, metaboliche e muscolo-scheletriche che interessano principalmente:  il peso corporeo  il sistema circolatorio  il sistema emocoagulativo  l'apparato respiratorio  l'apparato genitourinario  l'apparato gastrointestinale  il sistema endocrino. Modificazioni del peso corporeo L’aumento del peso corporeo in gravidanza è variabile (mediamente 10 Kg) ed è dovuto sostanzialmente a:  sviluppo del feto e degli annessi embrio-fetali;  aumento di volume dell’utero  aumento dei depositi adiposi  ritenzione idrica dovuta all’azione degli estrogeni. Modificazioni del sistema cardiocircolatorio Tali modificazioni possiamo così riassumerle. 1) Modificazioni dell’apparato cardiovascolare5: a) modificazione della posizione del cuore per elevazione del diaframma b) aumento di volume del cuore (circa 75 ml) c) deviazione asse elettrico (verso sinistra 15-28 gradi) d) aumento della frequenza cardiaca e della gettata cardiaca e) riduzione della pressione arteriosa (sviluppo del circolo placentare). 2) Modificazioni del volume e della composizione del sangue5: a) aumento volemia: la gravidanza determina un’espansione della volemia che raggiunge il massimo alla 34a settimana per poi stabilizzarsi b) aumento del volume plasmatico c) aumento della massa eritrocitaria. Tutti i dosaggi effettuati su sangue intero, su plasma o su siero devono essere interpretati considerando questo dato volumetrico. Pertanto risulta:  diminuzione osmolarità: il plasma aumenta più dei globuli rossi e di conseguenza diminuisce la concentrazione (e l’osmolarità)

aumento leucociti aumento VES  aumento lipidi circolanti  diminuzione della glicemia. L’aumento di volume del sangue:  garantisce la portata supplementare alla placenta ed al feto (500-600 ml/minuto nel terzo trimestre)  bilancia la perdita ematica al momento del parto (mediamente 500 ml). L’aumento differenziato di plasma/massa eritrocitaria favorisce il microcircolo e riduce l’impegno cardiovascolare. Alcune complesse modificazioni dei rapporti ormonali e dei meccanismi di regolazione della sodiemia rappresentano la causa di questa espansione del volume plasmatico, il quale, a sua volta, determina sovraccarico cardiaco, renale ed emodiluizione. Pertanto, il dosaggio di questo elettrolita e del quadro idrosalino rappresenta un punto basilare per il controllo della gestazione. Durante la gravidanza, l’esame emocromocitometrico è fondamentale e, per la sua importanza, deve essere ripetuto nell’arco di tutto il periodo gestazionale. La produzione dei globuli rossi, infatti, aumenta in modo non proporzionale all’espansione volemica, portando la concentrazione di Hb (emoglobina) ed il valore di Ht (ematocrito) a diminuire: valori inferiori a 11g/dl di Hb dovrebbero essere considerati bassi anche nei momenti di maggior emodiluizione. Tuttavia, per appurare che si tratti soltanto di "anemia apparente", tipica della gravidanza, legata al fatto che il sangue è più diluito (aumenta la percentuale di acqua), vanno verificati i valori dei seguenti parametri: MCV (Volume Corpuscolare Medio), MCH (Contenuto Emoglobinico Medio) e MCHC (Concentrazione Emoglobinica Corpuscolare Media), i quali debbono rientrare nei valori di riferimento. Importante, inoltre, è controllare il numero di reticolociti che aumentano, particolarmente durante il 2° trimestre, con valori che possono alzarsi fino al 2-5%. Le anemie più comuni in gravidanza sono:  anemia da carenza di ferro (sideropenica): le emazie sono piccole, ipocromiche e di forma irregolare; ne segue sideremia bassa e ridotta saturazione della transferrina  anemia da carenza di vitamina B12 e/o di folato (anemia megaloblastica). Entrambe queste anemie possono essere corrette con l'alimentazione e con adeguate supplementazioni.  

Ematocrito e viscosità del sangue in gravidanza5 In gravidanza è bene ricordare che:  esiste un rapporto tra ematocrito e riuscita della gravidanza  normalmente, l’ematocrito si riduce con il procedere della gravidanza raggiungendo il nadir alla fine del secondo trimestre  alcune patologie ostetriche (pre-eclampsia, insufficienza placentare) possono essere associate ad emoconcentrazione. Modificazioni del sistema emocoagulativo Le alterazione ormonali gravidiche – e, in particolare, l’aumento dei livelli di estrogeni circolanti - sono strettamente correlate a complesse modificazioni a carico del sistema della coagulazione. Nel corso della gravidanza

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fisiologica l'emostasi va incontro a importanti modificazioni, con significativo aumento delle concentrazioni plasmatiche di alcuni fattori chiave nell’equilibrio del sistema emostatico e con riduzione dell’attività del sistema fibrinolitico e degli inibitori fisiologici della coagulazione. Tra le principali modificazioni valutabili nel campione di sangue ricordiamo:  il tempo di coagulazione ed il tempo di sanguinamento non presentano variazioni di rilievo, mentre il tasso di protrombina mostra un modesto aumento, più concentrato verso la fine della gravidanza  le piastrine non mostrano significative variazioni mentre i prodotti di degradazione della fibrina e del fibrinogeno (FDP) tendono ad aumentare nel corso della gestazione  il fibrinogeno aumenta, durante tutta la gravidanza insieme al plasminogeno, ma l’attività fibrinolitica totale si riduce. Le modificazioni della coagulazione e della fibrinolisi descritte determinano una condizione di ipercoagulabilità, ma sono soprattutto alterazioni vascolari e/o del flusso ematico che determinano la condizione di trombofilia. Queste variazioni non portano ad una reale "ipercoaugulabilità", ma rappresentano la conseguenza di una maggiore rapidità ed efficacia del meccanismo della coagulazione che, in gravidanza, si realizza in presenza di opportune condizioni scatenanti (favorire l’emostasi nel delicato momento del parto e del distacco placentare)4. Da ciò deriva, a parità di altre condizioni, un’induzione di uno stato protrombotico e la maggior incidenza gravidica delle trombosi venose. Durante la gravidanza si realizza una marcata stasi venosa pelvica e periferica per diminuzione del tono e del flusso venoso a livello degli arti inferiori e per la pressione dell’utero gravidico sulla vena cava inferiore e sulla vena iliaca sinistra. La circolazione placentare, caratterizzata da flusso lento con ristagno degli elementi ematici e di prodotti attivi, rappresenta un ulteriore fattore favorente la trombosi. Le cellule endoteliali, stimolate e danneggiate, rilasciano il fattore von Willebrand che esercita una azione aggregante sulle piastrine e rendono disponibile materiale tromboplastino–simile che rende la placenta una possibile sede iniziale di attivazione della coagulazione1. In conclusione, significative modificazioni delle concentrazioni o dell’attività dei fattori dell’emostasi si realizzano nel corso della gravidanza fisiologica. In alcune condizioni di gravidanza patologica si osservano modificazioni di maggiore entità o che insorgono più precocemente. É opportuno tenere in osservazione, nel corso della gravidanza, la gestante con il dosaggio di uno o più parametri idonei alla valutazione prognostica della comparsa di eventi avversi per la madre o per il feto. Esami ematobiochimici in gravidanza5. Emodiluizione e modificazioni metaboliche determinano alterazioni di numerosi parametri emato-biochimici. Tra queste le più tipiche, oltre a quanto già citato (diminuzione ematocrito e concentrazione emoglobina,) sono:  aumento di colesterolemia  aumento di trigliceridemia

aumento di proteine circolantiz, in particolare le proteine che legano il cortisolo e la tiroxina con conseguente incremento plasmatico totale dei due ormoni, ma non della frazione libera. Oltre a queste, aumentano anche le beta-lipoproteine, la ceruloplasmina, la transferrina e l’alfa1-antitripsina  riduzione, invece, di immunoglobuline IgG e IgA, mentre rimangono costanti le IgM  diminuzione dell’albuminemia di almeno 0,5-0,8 mg/dl a causa dell’emodiluizione e della riduzione della sua sintesi a fronte di un più elevato catabolismo. Modificazioni dell’apparato respiratorio Nella prima metà della gravidanza i volumi polmonari non si modificano. Il volume corrente aumenta progressivamente nel corso della gestazione, mentre non vi sono ancora sostanziali variazioni nella frequenza del respiro. Nella seconda metà della gravidanza, la crescita uterina sospinge in alto il diaframma, modificando il tipo di respirazione della gravida. Ciò induce principalmente un aumento della ventilazione. L’aumentata ventilazione della gestante comporta un sensibile abbassamento della pCO2 alveolare ed arteriosa che passa dal valore pregravidico di circa 40 mmHg a valori di circa 30 mmHg. Nonostante l’abbassamento della pCO2, il pH arterioso rimane stabile con valori di circa 7,4 poichè tale abbassamento è accompagnato dalla riduzione dei bicarbonati plasmatici persi per aumentata escrezione renale. Ciò significa che l’alcalosi di tipo respiratorio causata dall’iperventilazione è, in questo caso, compensata da una condizione di acidosi di tipo metabolico. Importante è anche in questo caso il controllo dei parametri in gravidanze non fisiologiche. 

Modificazione della funzionalità renale Modificazioni dell’apparato urinario5. Nel corso della gravidanza riscontriamo:  dilatazione ureterale più marcata a destra (atonia e fattori compressivi)  aumento della filtrazione glomerulare con diminuzione di creatinina, urea e acido urico  glicosuria  ritenzione di sodio/idrica. In gravidanza aumentano il volume plasmatico e la perfusione renale, di conseguenza aumenta il filtrato glomerulare ed il passaggio tubulare di elettroliti, proteine, vitamine e prodotti azotati ed aumentano le perdite urinarie di Na, Ca, proteine e urea con una relativa, modesta riduzione plasmatica. Gravidanza e infezione delle vie urinarie. In gravidanza, inoltre, i calici, i bacinetti renali e gli ureteri sono ingranditi e flaccidi, con flusso urinario rallentato e ristagno. Questo spiega l’elevata suscettibilità della gravida a:  infezioni delle vie urinarie alte  cistiti, che sono spesso complicate da pielonefriti e si associano ad un rischio molto aumentato di parto prematuro.

z

Il fegato è il maggior responsabile dell’incremento di produzione proteica particolarmente delle proteine di trasporto anche se in realtà la sintesi di albumina non incrementa, anzi ne aumenta la degradazione.

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In gravidanza, l’esame urine deve essere controllato ogni mese e, in caso di dubbio, è necessario eseguire una urinocoltura. Modificazioni dell'apparato digerente5 La riduzione del tono e della motilità gastro-intestinale può determinare una serie di conseguenze funzionali fra le quali, principalmente, ricordiamo:  frequenti disturbi digestivi  nausea/vomito (iperemesi gravidica)  ritardato svuotamento gastrico  pirosi (rilasciamento del cardias con reflusso gastroesofageo)  motilità intestinale diminuita (allungamento del tempo di transito intestinale) con stipsi  aumento della pressione intraddominale  ritardato svuotamento ed ipotonia della colecisti. Nell’ambito della funzionalità epatica, il cambiamento metabolico più evidente, in gravidanza, riguarda, comunque, l’aumento, da 2 a 4 volte, dei valori di fosfatasi alcalina, dovuto alla produzione placentare di questo enzima piuttosto che ad una disfunzione epatica. Modificazioni del sistema endocrino Modificazioni della funzione tiroidea. La funzione tiroidea in gravidanza non si modifica. Un aumento dei livelli plasmatici di T3 e T4 ed un parallelo aumento della TBGaa, per azione degli elevati livelli di estrogeni, non comportano alcuna variazione a carico della quota attiva e libera di T3 e T4. L’iperattività tiroidea, quindi, non si accompagna a segni di iperfunzione tiroidea. Modificazioni della funzione surrenalica. In gravidanza si verifica un aumento dei livelli ematici di cortisolo ed un contemporaneo aumento della transcortina, per effetto degli alti livelli di estrogeni, cosicché i livelli di cortisolo libero ed attivo rimangono immodificati. Nel corso dell’intera gravidanza, inoltre, si verifica un aumento del corticosterone, mentre, dalla 12a alla 28a settimana di gestazione, un aumento dell’aldosterone provoca ritenzione di sodio e perdita di potassio. L’aumento del volume plasmatico, della gittata cardiaca e della velocità di filtrazione glomerulare impongono un pesante carico sodiemico renale. É necessario, quindi, poter contare su una appropriata secrezione di aldosterone. L’attività reninica plasmatica aumenta ed è positivamente correlata all’aumento della concentrazione sierica di aldosterone, mentre, collateralmente, si verifica una progressiva riduzione dei livelli ematici di ormone corticotropico surrenale (ACTH). Modificazioni della funzione ipofisaria. In gravidanza, per effetto dei livelli aumentati degli estrogeni, si realizza una ipertrofia ed una iperplasia delle cellule lattotrope che secernono prolattina. I livelli più elevati di prolattina (PRL), in gravidanza, si ritrovano nel liquido amniotico e nella decidua. La PRL, infine, sembrerebbe avere un ruolo nel metabolismo delle prostaglandine e nel mantenimento della osmolarità del liquido amniotico. Modificazioni della funzione paratiroidea. Nella seconda metà della gravidanza si verifica un aumento dei livelli plasmatici di paratormone ed un aumento dei livelli plasmatici di calcitonina. aa

Ormoni del metabolismo glucidico. Durante gravidanza aumenta la produzione insulinica in relazione ad un evidente incremento del suo fabbisogno. Gli effetti combinati di estrogeni e di progesterone, nel contempo, determinano un diminuito uptake cellulare di glucosio ed un aumento dei livelli di acidi grassi circolanti. Nella gravidanza normale l’iperproduzione di insulina contrasta questi effetti, ma lo stress metabolico della gravidanza può richiedere al pancreas una produzione non sostenibile di insulina, svelando, quindi, situazioni di diabete latente. Questo diabete mellito gestazionale (GDM), dovuto ad una relativa insufficienza della secrezione insulinica, è però reversibile. In tutti i casi di gravidanza nei quali si ritiene necessario monitorare l’omeostasi glucidica, l’approccio diagnostico richiede valutazioni della glicemia e l’esecuzione di curve da carico di glucosio (GCT e OGTT).

Lezione 27 Esami di funzionalità epatica1-3 §1

RICHIAMI DI ANATOMO-FISIOLOGIA DEL FEGATO

La struttura Il fegato svolge un ruolo di fondamentale importanza nel mantenimento della omeostasi metabolica e, nonostante rappresenti solo il 2% del peso corporeo, riceve ben 1.500 ml di sangue al minuto. Elementi cellulari. Il tessuto epatico è costituito da due tipi cellulari:  gli epatociti, cellule di natura epiteliale, particolarmente ricche di mitocondri, che svolgono funzioni metaboliche; in essi avvengono tutti i processi legati alla glicolisi, al ciclo di Krebs, alla sintesi degli amminoacidi, ai processi di fosforilazione ossidativa  le cellule di Kupffer, elementi che fanno parte del sistema reticolo-endoteliale e che hanno attività fagocitaria e degradativa. Epatociti e cellule di Kupffer sono disposte in unità anatomiche, i lobuli. Ogni lobulo è formato da cordoni di epatociti disposti in modo da formare canali (sinusoidi). Il sangue arriva a ciascun lobulo dalla periferia, ne raggiunge il centro percorrendo i sinusoidi e da qui viene allontanato attraverso la piccola vena centrolobulare. A livello dei sinusoidi, quindi, il sangue e le cellule entrano in contatto rendendo più semplice lo scambio di molecole tra sangue ed epatociti. Circolazione sanguigna. Il sangue arriva al fegato attraverso due vie:  l’arteria epatica: porta il sangue arterioso, proveniente direttamente dall’aorta, ricco di ossigeno e contenente molti metaboliti terminali  la vena porta: raccoglie il sangue refluo dai capillari della milza e di gran parte del sistema gastrointestinale. Il sangue portale é ricco di nutrienti assorbiti dall’intestino che devono essere metabolizzati per poter entrare a far parte dell’organismo come carboidrati, lipidi, proteine. Rami dell’arteria epatica e della vena porta raggiungono la periferia di ciascun lobulo dove, insieme al dotto biliare, costituiscono la triade portale.

Thyroid Binding Globulin.

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Le vene centrolobulari raccolgono tutto il sangue e lo convogliano alla circolazione sistemica attraverso la vena epatica, che si riversa nella vena cava inferiore. La funzione Sistema biliare. La bile, prodotto di secrezione del fegato, è riversata dagli epatociti nel lume di piccoli tubuli definiti canalicoli biliari. Questi confluiscono nei duttuli biliari che, a loro volta, si uniscono a formare canali di dimensioni sempre maggiori fino a dare origine ai dotti extraepatici che portano la bile dal fegato alla colecisti la quale raccoglie la bile e la riversa nel duodeno. Nell’intestino la bile emulsiona i grassi alimentari in piccole particelle lipidiche che, attaccate dalla lipasi, vengono più facilmente assorbite dalla mucosa intestinale. La bilirubina ed il sistema biliare. La bilirubina è il prodotto di degradazione dell’eme che, a sua volta, deriva dal catabolismo dell’emoglobina. Le cellule del sistema reticolo-endoteliale captano l’emoglobina che, rilasciata dai globuli rossi, si ritrova sotto forma di complesso legata all’aptoglobina. Queste cellule rimuovono il ferro e spezzano l’anello dell’eme formando bilirubina. Questa bilirubina detta “indiretta” o, data la sua idrofobicità, “non coniugata” – giunta nel plasma, si lega all’albumina che ne consente il trasporto in ambiente acquoso. Raggiunto il fegato, il complesso bilirubina-albumina viene scisso, l’albumina viene staccata e la bilirubina, captata dagli epatociti, viene resa idrosolubile dopo coniugazione con acido glucuronico e forma così la bilirubina “coniugata” o “diretta”. In forma di glucuronide, la bilirubina entra, allora, nel sistema biliare per essere escreta nella bile e, nel lume intestinale, ad opera della flora batterica, viene degradata a urobilinogeno. L’urobilinogeno, incolore, in parte va incontro a processi ossidativi dando origine a molecole pigmentate: urobiline e stercobiline (che danno il caratteristico colore scuro alle feci), in parte viene riassorbito dall’intestino ed entra nel circolo portale, va al fegato e da qui o ritorna all’intestino o, arrivato al rene tramite il circolo sistemico, viene eliminato con le urine. Processi metabolici. Il fegato contiene un esteso sistema reticolo-endoteliale per la sintesi ed il catabolismo delle cellule sanguigne. Le cellule epatiche metabolizzano, detossificano ed operano l’escrezione di composti sia esogeni sia endogeni. Le attività metaboliche del fegato si raggruppano in:  sintesi (ad es. proteine plasmatiche ad eccezione di immunoglobuline)  accumulo (ad es. proteine, glicogeno, vitamina A, D, K). Le cellule del sistema reticolo-endoteliale del fegato rimuovono dal sangue, ed immagazzinano, Fe, Cu ed altri minerali  escrezione (ad es. molecole necessarie ai vari metabolismi e, pur non accumulandoli, riceve, metabolizza e mette in circolo acidi grassi e trigliceridi). La concentrazione plasmatica di numerose molecole sintetizzate dagli epatociti è dipendente dalla funzionalità epatica complessiva. Ad eccezione delle immunoglobuline, che vengono prodotte dalle plasmacellule, le proteine plasmatiche, tutte sintetizzate nel fegato, possono essere immesse in circolo immediatamente oppure essere immagazzinate, come riserva dell’organismo, per essere

escrete in caso di necessità. Il fegato rappresenta anche il principale deposito di glicogeno e di alcune vitaminebb e pur non rappresentando un sito di deposito dei lipidi, che vengono immagazzinati nel tessuto adiposo - riceve, metabolizza e mette in circolo acidi grassi e trigliceridi. Le cellule del sistema reticolo-endoteliale del fegato, invece, rimuovono dal sangue - e immagazzinano - ferro, rame ed altri minerali.

§2

CENNI DI FISIOPATOLOGIA DEL FEGATO

Aumentato turnover dell’emoglobina In caso di “malattia emolitica”, una maggiore quantità di emoglobina viene liberata dai globuli rossi producendo, nel siero, un aumento della bilirubina non coniugata. Questa è la situazione che contraddistingue l’ “ittero pre-epatico”. Alterazione dei processi di coniugazione e di escrezione Nelle patologie in cui il fegato presenta difficoltà a captare la bilirubina dal circolo ed a coniugarla con acido glucuronico, aumenta la quota di bilirubina indiretta che viene riversata nell’intestino. Come conseguenza si ha che urine e feci sono chiare (feci acoliche). Se il processo di coniugazione è normale, ma esiste un ostruzione delle vie biliari, la bilirubina diretta si riversa per via retrograda in circolo, mentre la quantità di bilirubina e di urobilinogeno, presente nell’intestino, diminuisce. La bilirubina coniugata presente in circolo, invece, data la sua alta solubilità in ambiente acquoso, passa con facilità nelle urine che assumono colore bruno. Sono tre le cause principali che possono portare all’aumento del livello della bilirubina nel sangue: emolisi, colestasi e danno epatocellulare. Esistono inoltre disordini ereditari del metabolismo della bilirubina (ad es. la malattia di Gilbert). Il ruolo del laboratorio, effettuando una diagnosi differenziale tramite una serie di dati laboratoristici. è quello di aiutare il clinico a comprendere l’effettiva causa e ad intraprendere l’idonea terapia. Sali biliari Gli acidi biliari sono sintetizzati dagli epatociti a partire dal colesterolo e la loro funzione è quella di solubilizzare il colesterolo e gli altri lipidi nella bile e nel lume intestinale. Attraverso numerose modificazioni chimiche avviene la trasformazione del colesterolo (liposolubile, ma non idrosolubile) in acidi biliari (composti da una parte idrosolubile ed una liposolubile, caratteristica essenziale per amalgamarsi al contenuto dell’intestino e permettere la digestione dei grassi alimentari in esso contenuti). Il fegato sintetizza due principali acidi biliari, l’acido colico e l’acido chenodeossicolico, i quali, coniugandosi con glicina o taurina, si trasformano in sali biliari e aumentano in questo modo la propria solubilità in acqua. Quando acqua, colesterolo ed elettroliti (in particolare sodio e potassio) si aggiungono ai sali biliari, si forma la bile, che dal fegato, ove viene prodotta, viene poi riversata nelle vie biliari. Fino a quando non è necessaria alla digestione del cibo, la bile viene immagazzinata nella colecisti. L’introduzione di cibo con il pasto stimola invece la colecisti a svuotarsi: la bile viene così inviata tramite le vie biliari all’interno dell'intestino - in particolare nel duodeno, ove nel frattempo bb

Vitamina A, D e K.

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sarà giunto il cibo; in questo modo i sali biliari potranno emulsionare i grassi alimentari per consentirne digestione ed assorbimento. I sali biliari si accumulano in circolo per:  ostruzione delle vie biliari  alterata funzione delle cellule epatiche che, in condizioni normali, rimuovono dalla circolazione portale i sali biliari riassorbiti. Il prurito, che si accompagna a molte forme di ittero, è causato, soprattutto, dall’accumulo di sali biliari in circolo Enzimi indicativi di ostruzione delle vie biliari Fosfatasi alcalina (ALP). Questo enzima catalizza la rimozione di gruppi fosfato dalle proteine e da altre molecole. Elevati livelli di ALP si trovano comunemente in cellule in attiva proliferazione o metabolicamente attive come: epatociti, osteoblasti, granulociti circolanti, cellule della placenta e cellule intestinali. Ci si può attendere un aumento di ALP in caso di:  riformazione ossea  gravidanza  colestasi  disordini intestinali. Per distinguere le varie situazioni patologiche è possibile, con metodo elettroforetico, distinguere le diverse frazioni isoenzimatiche organo- o tessuto-specifiche (ossea, epatica, biliare, intestinale, placentare). Valori molto elevati di ALPcc si ritrovano in corso di:  cirrosi biliare primitiva  sindromi sostenute da processi ostruttivi o infiammatori dei dotti biliari intraepatici con colestasi. Valori moderatamente elevati di ALPdd si riscontrano in corso di:  calcolosi con ostruzione dei dotti biliari;  ostruzione parziale dei dotti biliari. Valori normali o leggermente aumentati di ALPee si ritrovano in corso di:  epatopatie da alcool  epatite cronica attiva  epatite virale. Gamma-glutamiltranspeptidasi (γ-GT). Le cellule del sistema epatobiliare contengono una grande quantità di γ-GT che è presente in piccola misura anche nelle cellule degli epiteli pancreatico e renale. Un aumento della γ-GT è, in realtà, un indice di colestasi piuttosto che di danno epatocellulare puro. L’importanza clinica della γ-GT si realizza, comunque, nel suo utilizzo come marker dell’alcolismo. L’alcool, infatti, induce la sintesi di enzimi microsomiali - tra cui la γ-GT - e danneggia contemporaneamente le cellule epatiche. Circa il 60 - 80% degli alcolisti mostra elevati livelli di γ-GT anche senza presentare altri segni fisici o laboratoristici di sofferenza epatica. I livelli di γ-GT ritornano alla norma non prima di tre - sei settimane dalla sospensione dell’assunzione di alcool. Questo indice è molto utile anche per seguire, nel tempo, i pazienti che hanno iniziato un percorso di disintossicazione alcolica. cc

Con valori di 10 volte superiori ai valori normali. Con valori da 3 a 10 volte superiori ai valori normali. ee Con valori fino a 3 volte i valori normali. dd

Rimanendo nel campo dell’abuso alcolico, un altro indice, recentemente emerso e dosato in routine, è: Transferrina desialata, CDT (Carbohydrate Deficient Transferrin). L’abuso cronico di alcool porta ad un’alterazione nella biosintesi della transferrina con riduzione della glicosilazioneff. La transferrina desialata è un marcatore di abuso alcolico cronico ed ha valenza medico-legalegg. Rispetto ai marcatori tradizionali di abuso cronico di alcol, quali MCV, γ-GT, ALT, AST, bilirubina, la CDT ha una specificità maggiore (circa 95%) ed è un marcatore indipendente da farmaci, diabete, obesità, epatopatie e disordini ematologici. Dopo astinenza, si può ottenere una normalizzazione della CDT dopo 2-4 settimane.

§3

TEST DI DANNO EPATOCELLULARE

Enzimi e sostanze essenziali Aminotransferasi (transaminasi). Tipologia. Sono gli enzimi:  più frequentemente utilizzati come “indice di danno epatocellulare”  catalizzano il trasferimento reversibile di gruppi aminici tra aminoacidi ed alfa-chetoacidi, consentendo la costituzione di un pool aminoacidico correttamente bilanciato per la sintesi proteica dell’epatocita. Essi sono: 1) aspartato amino transferasi (AST), che catalizza questo tipo di reazione tra l’acido aspartico e l’acido chetoglutarico; è anche denominata transaminasi glutamico-ossalacetica (GOT) 2) alanina amino transferasi (ALT), che catalizza il trasferimento di un gruppo aminico tra l’alanina e l’acido alfa-chetoglutarico; è anche denominata transaminasi glutamico-piruvica (GPT). ALT è un enzima specifico del fegato mentre AST è presente, oltre che nel fegato, anche nel miocardio, nel muscolo scheletrico, nel cervello e nel rene. Condizioni associate ad aumento delle aminotransferasi. Possono essere rilevati valori anche 20 volte superiori a quelli normali, nelle seguenti due forme infiammatorie del fegato:  epatite virale  epatite tossica. I valori riscontrati saranno, invece, tendenzialmente moderati, con aumenti da 3 a 10 volte quelli attesi, nelle seguenti altre patologie, che coinvolgono sia il fegato sia altri organi od apparati:  mononucleosi infettiva  epatite cronica attiva  ostruzione dei dotti biliari extraepatici  sindrome di Reyehh ff

Il meccanismo produttivo potrebbe essere l’inibizione delle glicotransferasi epatiche da parte dell’acetaldeide derivante dal catabolismo dell’etanolo, con aumento, etanolo-dipendente, delle sialidasi epatiche e con interferenza sul trasporto delle proteine a livello dell’apparato del Golgi ed aumento significativo delle isoforme con basse ramificazioni, quali asialo, monosialo e disialo. gg Ad esempio, il rinnovo della patente dopo sospensione per violazione di articoli del codice stradale e l’idoneità per rilascio del porto d’armi.

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colestasi intraepatica infarto del miocardioii. I valori, infine, saranno normali o leggermente aumentati fino ad un massimo di 3 volte i valori normali nelle seguenti ultime situazioni patologiche:  pancreatite  steatosi epatica da abuso di alcool  cirrosi di Laennecjj  infiltrazione granulomatosa o neoplastica  cirrosi biliare. Latticodeidrogenasi (LDH). Tutte le cellule del nostro organismo contengono LDH, enzima essenziale per l’interconversione lattato-piruvato. LDH è una molecola tetramerica formata da 2 tipi di subunità, H ed M, che combinandosi formano 5 possibili isoenzimi a diversa distribuzione tissutale:  miocardio ed eritrociti sono ricchi di isoenzima 1 ad alto contenuto di subunità H  fegato e muscolo scheletrico sono ricchi di isoenzima 5, formato prevalentemente da subunità M. L’analisi delle forme isoenzimatiche della LDH, eseguita normalmente mediante separazione elettroforetica, consente di distinguere aumenti delle concentrazioni di LDH, dovuti ad emolisi o ad infarto del miocardio, da aumenti dovuti ad alterazioni epatiche o muscolari. Urea e ioni ammonio. La formazione di urea nel fegato alla fine dei processi di catabolismo (scissione) delle proteine rappresenta un meccanismo di difesa in grado di trasformare composti potenzialmente tossici in composti eliminabili. Gli epatociti, infatti, oltre a sintetizzare nuove proteine utilizzando gli aminoacidi disponibili, esercitano un’azione sul catabolismo degli aminoacidi che porta alla formazione di composti solubili e quindi facilmente filtrabili come l’urea, incaricata di eliminare lo ione ammonio. Tuttavia, affinché la produzione di urea o la regolazione del metabolismo aminoacidico risultino apprezzabilmente alterate, occorre che più del 90% del parenchima epatico venga distrutto. L’esame di laboratorio con il quale si dosa l’urea si chiama “Azotemia”. Nelle insufficienze epatiche croniche l’incapacità di sintetizzare urea dai gruppi aminici provenienti dal catabolismo proteico determina una diminuzione dei livelli di urea e la comparsa di aminoaciduria. È chiaro quanto, in questa patologia, il metabolismo degli ioni ammonio possa essere severamente compromesso. La “ammoniemia” è la quantità di ioni ammonio nel sangue. Se dagli esami del sangue risulta un aumento dell'ammoniemia (iperammoniemia), la causa principale è una disfunzione epatica. Gli ioni ammonio derivano dal catabolismo (distruzione) degli amminoacidikk e dato che sono tossici, vengono trasformati dal fegato in urea, meno tossica, che viene escreta poi nelle urine. Se il fegato non funziona, oppure, se il sangue non gli arriva come dovrebbe  

hh

La sindrome di Reye è una malattia pediatrica che si manifesta con nausea, vomito incontrollabile e sintomi neurologici come perdita della memoria, disorientamento e torpore; inoltre è caratterizzata da disturbi epatici talmente gravi da portare ad uno stato di coma fino alla morte. ii In particolare, quando, ad essere elevate, sono le AST. jj Cirrosi alcolica. kk Fisiologicamente il nostro organismo attua un "ricambio" continuo degli amminoacidi, quindi ne distrugge e ne riforma continuamente.

- shunt portosistemici, che si verificano in caso di ipertensione portale - gli ioni ammonio rimangono liberi nel sangue cioè aumenta l’ammoniemia. Un'altra fonte importante di ioni ammonio sono i nostri batteri intestinali che metabolizzano le proteine che noi ingeriamo con la dieta. Gli ioni ammonio, infatti, vengono prodotti anche a livello intestinale - ad opera dei batteri della flora intestinale – e poi trasportati, lungo il circolo portale, al fegato, dove diventano urea. E quindi, se il sangue che proviene dall'intestino, ricco di ioni ammonio, non riesce a passare dal fegato per essere "ripulito", si alzano i livelli di ammonio nel sangue. Un rialzo dell'ammonio può essere anche osservato in persone con scarsissima massa muscolare, perché i muscoli contribuiscono a smaltire l'ammonio legandolo al piruvato e formando alanina, che poi viene anch’essa metabolizzata nel fegato. Le insufficienze epatiche e le cirrosi, in cui si verifica uno shunt porto-sistemico, producono un incremento degli ioni ammonio circolanti, i quali ricevono un grande beneficio terapeutico dalla riduzione dell’apporto proteico e dall’eliminazione con antibiotici dei batteri intestinali. L’efficacia di queste misure terapeutiche può essere regolarmente monitorata determinando i livelli plasmatici di ioni ammonio. In tal caso, il campione di sangue deve essere immediatamente eparinato dopo il prelievo e mantenuto in ghiaccio per prevenire, al suo interno, la formazione spontanea di ioni ammonio che azzererebbero il significato clinico dell’indagine. Un dosaggio periodico degli ioni ammonio permette, infine, di seguire con precisione l’encefalopatia epatica nella sua evoluzione e nell’efficacia della sua risposta alla terapia. Albumina. I livelli di albumina diminuiscono inevitabilmente quando una malattia epatocellulare si prolunga per più di tre settimane. In particolare:  in malattie a decorso rapido, un calo dell’albumina sierica è indice di una massiva compromissione della funzionalità epatica ed ha un significato prognostico infausto  in malattie ad evoluzione lenta, quali cirrosi e carcinomi, livelli bassi di albumina contribuiscono alla formazione di edemi e ascite a causa della diminuita pressione oncotica plasmatica. Immunoglobuline. Nelle malattie epatiche croniche si verifica un aumento notevole delle immunoglobuline di natura policlonale. Il fegato sembra essere responsabile della metabolizzazione dei fattori che stimolano o reprimono la sintesi di anticorpi ed i danni a livello epatico potrebbero causare la perdita del controllo sulla produzione delle immunoglobuline. Metabolismo lipidico e glucidico. Il fegato sintetizza le apolipoproteine ed è responsabile della trasformazione degli acidi grassi in trigliceridi e della esterificazione del colesterolo. Nel caso di ostruzione delle vie biliari, i livelli circolanti di colesterolo totale, per blocco dell’escrezione, raggiungono valori anche molto elevati. Le riserve epatiche di glicogeno, inoltre, rappresentano un’importante fonte di glucosio per il mantenimento della glicemia. Nel fegato, infatti, avviene la neoglucogenesi attivata dalla ridotta introduzione di carboidrati o dal digiuno - che porta alla sintesi di glucosio a partire da aminoacidi. Per tale motivo, nelle epatopatie gravi, è possibile che compaia una importante ipoglicemia da carenza sintetica.

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Fattori della coagulazione. Il fegato sintetizza la maggior parte delle proteine che intervengono nel processo di coagulazione del sangue. Insufficienze epatiche gravi causano una diminuzione dei livelli di fibrinogeno e di fattore V. Molto più diretta è, invece, la relazione fra le malattie epatocellulari ed i fattori vitamina k-dipendenti. La vitamina k è infatti in grado di attivare questi fattori che sono prodotti dal fegato in forma strutturalmente completa, ma funzionalmente inattiva. L’assorbimento intestinale della vitamina k può essere disturbato da patologie ostruttive dei dotti biliari che impediscono alla bile di raggiungere il duodeno o da alterazioni della mucosa intestinale. In questi casi si verifica un allungamento del tempo di protrombina (PT) e del tempo di tromboplastina parziale (PTT). Nei pazienti con insufficienza epatica, che manifestano fenomeni emorragici, un corretto ed immediato approccio terapeutico richiede la somministrazione di vitamina k e di plasma fresco congelato. Test particolari per la valutazione di malattie epatiche Alfa-fetoproteina (AFP). Questa è una proteina presente nel siero in maggiore quantità nelle prime 10 settimane di vita fetale:  il fegato fetale sintetizza enormi quantità di AFP fino alla 32a settimana di gestazione; in tale periodo, l’AFP sostituisce l’albumina  in seguito, la sintesi di AFP diminuisce rapidamente e, ad un anno di vita, la concentrazione normale di AFP sierica è di 30 ng/ml  durante la gravidanza il livello di AFP nel liquido amniotico è più alto del normale; se il feto presenta alterazioni del tubo neurale, l’AFP passa nella circolazione materna. Ritrovare, quindi, livelli elevati di AFP nel sangue di una gravida deve indurre ad effettuarne il dosaggio nel liquido amniotico con l’obiettivo di diagnosticare precocemente un’eventuale patologia fetale. Nell’individuo adulto sano la sintesi di AFP è repressa negli epatociti normali quiescenti, ma viene rapidamente stimolata in epatociti che si moltiplicano attivamente. In caso di carcinoma epatocellulare, ad esempio, i livelli sierici di AFP possono, per questo, raggiungere valori di migliaia di ng/ml, mediamente proporzionali alla massa tumorale e, quindi, risultare utilissimi nel monitoraggio delle recidive. Aumenti più moderati - e non superiori ai 500ng/ml - si riscontrano in corso di cirrosi in fase attiva o in caso di epatite cronica attiva. Antigene carcinoembrionario (CEA). Questo antigene è frequentemente utilizzato come marker tumorale; la sua presenza in circolo è indice di rapida moltiplicazione di cellule epiteliali, in particolare del sistema digerente. Il dosaggio del CEA é di estrema utilità nel monitorare recidive tumorali ed in particolare nel rivelare la presenza di metastasi dopo asportazione chirurgica di tumori primitivi. Tuttavia, la sua associazione con i tumori epatici è meno specifica di quella dell’AFP. Ceruloplasmina. Questa è una proteina deputata al trasporto del rame all’interno del nostro organismo. Nel morbo di

Wilsonll o “degenerazione epatolenticolare” si ha un accumulo di rame nel fegato, negli occhi ed in altri organi. L’alterazione biochimica più evidente è la diminuzione della “ceruloplasmina”. La misurazione della ceruloplasmina è indicata nei giovani con sintomi di epatite cronica attiva associati a disturbi neurologici di tipo motorio extrapiramidale. In tal caso, livelli inferiori a 20 mg/dl sono patognomonici di questa sindrome. La malattia si trasmette ereditariamente con modalità di tipo autosomico recessivo. Cause di cirrosi Nei bambini, ricordiamo:  deficienza di alfa1-tripsina (neonati con itterizia persistente);  malattia di Wilson. Negli adulti, le cause più importanti possono essere:  emocromatosi, che si manifesta come disordine dell’assorbimento del ferro, associato a deposito di ferro nel fegato ed in altri tessutimm  una epatite virale cronica (ad es., HBV e HCV)  alcool  esposizione ad agenti tossici  ostruzione delle vie biliari che porta alla cirrosi biliare  malattie autoimmuni, che colpiscano direttamente il fegato (epatiti autoimmuni) o le vie biliari (cirrosi biliare primitiva).

Lezione 28 Esami di funzionalità renale1-3 §1

RICHIAMI DI ANATOMO-FISIOLOGIA RENALE

La struttura L’unità funzionale del rene è il nefrone. Ogni rene ne contiene 1 - 1.5 milioni. Ogni nefrone e’ costituito da:  un gomitolo di vasi capillari  il glomerulo  il tubulo (un lungo condotto rivestito di epitelio). Il tubulo può essere suddiviso in diversi segmenti, distinti sia dal punto di vista anatomico che funzionale:  il tubulo contorto prossimale  l’ansa di Henle  il tubulo contorto distale. Al loro termine i tubuli distali confluiscono in condotti di calibro maggiore, i dotti collettori, che si aprono nel bacinetto renale. La corticale (la parte più esterna del parenchima renale) contiene i glomeruli ed i tubuli contorti prossimali e distali,

ll

Il morbo di Wilson è una malattia ereditaria, caratterizzata da un accumulo di rame in vari tessuti ed in particolare nel fegato, dove determina cirrosi. mm Per la diagnosi si misura la concentrazione sierica del ferro, della transferrina e della ferritina.

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mentre la midollare contiene i tubuli collettori e le anse di Henle. La funzione Filtrato glomerulare. Il processo di filtrazione avviene quando il sangue, proveniente dall’arteria renale, passa attraverso i glomeruli, e precisamente:  il sangue che arriva al rene, oltre ad essere filtrato, rifornisce l’organo di ossigeno e nutrienti e partecipa agli scambi metabolici con le cellule renali  l’acqua ed i piccoli soluti (come gli elettroliti) attraversano facilmente il filtro glomerulare che trattiene invece le proteine. Questo processo prende il nome di “ultrafiltrazione”. La produzione di filtrato glomerulare avviene alla velocità di 125 ml/minuto (circa 180 litri di liquido al giorno). Successivamente nei tubuli:  le cellule epiteliali dei tubuli operano importanti modificazioni sul filtrato, influenzando così sia la composizione dell’urina sia i diversi processi omeostatici. Fenomeni di riassorbimento e di secrezione. Il tubulo prossimale ha, soprattutto, funzioni di riassorbimento; vengono qui raccolte - e reimmesse in circolo - grandi quantità di acqua, di glucosio, di aminoacidi, di urati, di calcio e di altre proteine sfuggite al filtro glomerulare; a ciò si aggiunge un ulteriore recupero di elettroliti quali il sodio, il cloro ed i bicarbonati. Pertanto:  l’ansa di Henle ha la funzione di riassorbire sodio e acqua  il tubulo distale regola più finemente il bilancio di sodio, potassio, bicarbonato, fosforo ed idrogenioni. Conclude il processo il transito attraverso:  il tubulo collettore, che esercita l’ultimo intervento regolatorio sull’escrezione di acqua. La corticale contiene i glomeruli ed i tubuli contorti prossimali e distali mentre la midollare, che contiene i tubuli collettori e le anse di Henle, e’ in grado di mantenere una condizione di ipertonicità dell’interstizio dove gli elettroliti raggiungono concentrazioni molto più elevate che nel plasma. Gli elettroliti derivano dai processi di riassorbimento attivo a livello dell’ansa di Henle; l’ambiente ipertonico dell’interstizio midollare, oltre a influenzare i processi di riassorbimento che avvengono a livello dell’ansa, svolge un ruolo essenziale nel riassorbimento dell’acqua attraverso la parete dei dotti collettori. La funzione renale. La funzione renale, in condizioni fisiologiche, può essere considerata come la somma delle diverse proprietà funzionali dei vari segmenti del nefrone. L’efficienza di ognuna di queste funzioni può essere valutata con l’esecuzione dei seguenti esami di laboratorio:  esame delle urine  esami ematochimici finalizzati a misurare sostanze le cui concentrazioni sieriche sono influenzate dalla funzionalità renale  esami dinamici del flusso sanguigno e della concentrazione urinaria di diverse sostanze.

§2

L’ESAME DI LABORATORIO DELL’URINA

L’esame dell’urina costituisce probabilmente il più antico esame di laboratorio ed è tuttora uno degli esami più comunemente effettuati. Il campione, come descritto in un

precedente capitolo, è facile da ottenere ed, in alcuni casi, può fornire informazioni molto utili. Le analisi eseguibili con strisce reattive, valutazioni microscopiche ed indagini colturali, infatti, possono fornire preziose indicazioni su processi patologici in atto. Raccolta del campione Per il metodo di raccolta del campione, indirizziamo alla lettura della lezione 18 (Lez. 1-18). Metodologia dell’analisi L’analisi urinaria permette la raccolta dei dati macroscopici, la misurazione dei più comuni parametri fisico-chimici e l’esame microscopico della morfologia degli elementi corpuscolati. Aspetto macroscopico. Subito dopo la minzione, l’urina normale è limpida ed ha una colorazione gialla di intensità proporzionale alla concentrazione al suo interno dei vari soluti fra i quali, principalmente, i pigmenti urocromo ed urobilina. L’esame dell’urina inizia con l’ispezione del colore e dell’aspetto del campione (cosiddetto “esame finestra”), mentre il suo grado di concentrazione viene determinato misurandone il peso specifico. Quadro fisico-chimico. Sono disponibili, in laboratorio, cartine di lettura - definite “strisce reattive” – prodotte specificamente per ogni tipo di esame o per intere batterie di tests. I tests di screening più comuni sono quelli per il pH , il glucosio, le proteine, l’emoglobina, i corpi chetonici, l’urobilinogeno ed i nitriti. Le strisce devono essere conservate in un recipiente ermeticamente chiuso posto in un luogo fresco e protetto dalla luce, dall’umidità e dai vapori e, prima dell’impiego, devono esser controllate per accertarsi della loro integrità funzionalenn. Per una rilevazione corretta, la striscia deve essere immersa nell’urina per un tempo adeguato all’assorbimento, ma non troppo lungo per non rischiare il dilavamento dei reagenti. L’eccesso di urina deve quindi essere lasciato scolare e le zone reattive lette in buone condizioni di illuminazione dopo un lasso di tempo correlato alle specifiche velocità di reazione. La valutazione della concentrazione di ogni singola sostanza si effettua confrontando, per accostamento, il colore creatosi sulla striscia con quello corrispondente nella scala cromatica riportata all’esterno del relativo contenitore (trattasi di un test semiquantitativo). Aspetto microscopico. L’esame al microscopio è necessario per osservare cellule ed altro materiale particolato. La tecnica più comune consiste nel centrifugare parte del campione e nell’esaminare “a fresco” una goccia del sedimento al microscopio a basso ingrandimento (100x). Attualmente, però, esistono, in laboratorio, strumenti che consentono un esame molto preciso e standardizzato della cellularità urinaria con tecnica citofluorimetrica. L’esame del sedimento urinario è in grado di evidenziare la presenza di eritrociti, leucociti, cellule epiteliali provenienti dalle alte o dalle basse vie urinarie, cilindri, cristalli, batteri, funghi, protozoi o cellule atipiche di natura tumorale. nn

Non devono essere comparse colorazioni anomale nell’area di lettura.

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Nel sedimento normale si osservano:  leucociti (0 - 2 per campo)  eritrociti (1 - 3 per campo)  cellule epiteliali provenienti dall’uretra o dalla vescica  cristalli o precipitati amorfi. Rilievi microscopici disfunzionali: i cilindri. I cilindri sono masse di proteine che si depositano nei tubuli renali e che, occasionalmente, vengono rimossi dal flusso urinario. La matrice dei cilindri è una glicoproteina prodotta dalle cellule epiteliali renali: la cosiddetta “mucoproteina di Tamm-Horsfall”. Le condizioni che predispongono alla formazione di cilindri sono essenzialmente:  il rallentamento del flusso di pre-urina lungo i tubuli  l’abbassamento del pH urinario  la produzione di un ridotto volume di urina ad alto contenuto proteico. I principali costituenti cellulari dei cilindri sono rappresentati dagli eritrociti, dai leucociti e dalle cellule dell’epitelio tubulare, anche se, talvolta, possono rimanervi intrappolati alcuni cristalli oppure ammassi di emoglobina, di mioglobina e di emosiderina. La generica presenza di cilindri costituisce un indice della presenza di una patologia del parenchima renale. In particolare, può essere così interpretata la presenza di:  cilindri leucocitari: indica sempre l’esistenza di un processo infiammatorio a carico dei tubuli o dei glomeruli  eritrociti: è, in genere, dovuta a danni a livello glomerulare  cilindri misti o granulosi: indica il coesistere di fenomeni infiammatori ed emorragici.

§ 3

LA

VALUTAZIONE DI LABORATORIO NELLA FUNZIONE

RENALE

Le funzioni renali sono:  regolazione dell’acqua, degli elettroliti e bilancio acido-base  escrezione dei prodotti del metabolismo di proteine e di acidi nucleici (urea, creatinina, acido urico). Il contenuto di osmoliti nell’urina è controllato sia dai processi di secrezione sia da quelli di riassorbimento della sostanza. Il glomerulo fornisce un efficiente meccanismo di filtrazione, che consente l’eliminazione di prodotti di rifiuto e di sostanze tossiche. Il tubulo fornisce un efficiente meccanismo di riassorbimento, che consente il recupero di costituenti più importanti (acqua, sodio, glucosio, amminoacidi). Ecco perché il test di funzionalità renale di maggior interesse clinico e più comunemente utilizzato è la determinazione della “clearance”, cioè la relazione tra l’escrezione renale di una sostanza e la sua concentrazione plasmatica. Il concetto di clearance Il significato. Il destino di un soluto che dal glomerulo passa nel tubulo può essere diverso:  può superare inalterato tutto il tragitto lungo il nefrone  può essere riassorbito in tutto o in parte ed essere immesso nuovamente in circolo

può essere modificato oppure la sua quantità può essere aumentata ad opera dell’epitelio tubulare. Se una sostanza non subisce modifiche nel percorrere il nefrone, la quantità escreta riflette esattamente la quantità filtrata dal glomerulo. Questo principio può essere utilizzato per calcolare il tasso di filtrazione glomerulare (GFR), cioè il volume di liquido che viene filtrato dai glomeruli in un determinato periodo. Il GFR viene ricavato dalla misura della velocità di clearance del soluto ed esprime il volume di plasma depurato di soluto in quel determinato periodo (considerando che tutto il materiale filtrato dal glomerulo provenga dal plasma e che venga escreto nell’urina senza subire modifiche). Clearance = GFR = massima velocità alla quale il plasma può essere “ripulito”. Di norma, la concentrazione plasmatica di un soluto e la sua clearance sono inversamente proporzionali e, quindi, quando la clearance di una sostanza diminuisce la sua concentrazione plasmatica aumenta. Pertanto, il valore della clearance assume un significato solo per quelle sostanze, come, ad esempio, la creatinina, che presentano una produzione costante ed una escrezione particolarmente correlata alla filtrazione glomerulare. 

La clearance della creatinina La creatinina. La creatinina, prodotto del catabolismo della creatina (un composto azotato presente soprattutto nel tessuto muscolare) è fosforilata dall’enzima creatina fosfochinasi con produzione di creatin-fosfato, un composto ad alta energia che prende parte alle reazioni muscolari. In ogni individuo la quantità di creatinina che si forma dal turn-over della creatina tende a rimanere costante e proporzionale alla sua massa muscolare. Per la sua valutazione si procede nel modo seguente:  raccolta delle urine delle 24 ore  dosaggio della creatinina urinaria  dosaggio della creatinina plasmatica  applicazione della formula della clearance  calcolo del rapporto fra il valore ottenuto e la superficie corporea. Il calcolo. La valutazione richiede la conoscenza della concentrazione plasmatica del soluto, del volume di urina prodotto nel periodo considerato e della concentrazione urinaria del soluto. Si valuta il contenuto di creatinina presente nelle urine (U, in mmoli/l) delle 24h (V, in ml/min) e la concentrazione di creatinina nel plasma (P, in micromoli/l). La formula per calcolare la clearance è la seguente: GFR = (U x V) P L’intervallo di riferimento della creatinina nel plasma risente dell’età e delle dimensioni corporee. Condizioni importanti per la valutazione del GFR riguardano il campione delle urine che deve essere raccolto accuratamente ed il volume che deve essere indicato esattamente; inoltre, è richiesta assenza di chetoni e proteinuria elevata per evitare interferenze nel dosaggio. Per quanto riguarda la proteinuria, va detto che albumina e proteine a grandi dimensioni non passano la membrana glomerulare in condizioni normali. Pertanto una concentrazione di albumina < 25 mg/24 ore è da considerarsi nella norma, mentre una quantità > 50 mg/24 ore indica un danno serio alla membrana glomerulare.

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Nel caso si verifichi una diminuzione della clearance della creatinina, i livelli plasmatici di creatinina non aumentano fino a quando non sia stato perduto circa il 50% dei nefroni. I valori di creatininemia aumentano rapidamente, invece, dopo un danno renale acuto che interessi la funzione glomerulare o la perfusione renale. Il rapporto urea/creatinina. La concentrazione plasmatica di creatinina è mediamente più stabile di quella dell’urea; infatti, la creatinina non aumenta quando l’aumento dell’urea è dovuto a cause prerenali, come l’esagerato catabolismo dell’emoglobina o di altre proteine o come la febbre e la disidratazione. Inoltre, l’urea prodotta dal fegato è il prodotto terminale del metabolismo proteico ed è escreta con le urine senza essere ulteriormente metabolizzata, pertanto non può rappresentare un indice ideale di funzionalità renale in quanto molti fenomeni extrarenali ne influenzano la concentrazione. In condizioni normali il rapporto urea-creatinina è di circa 10:1 e, per quanto detto sopra, potremo riscontrare un rapporto più elevato nelle seguenti situazioni patologiche di origine extrarenale:  uremia da cause pre-renali  riduzione non fisiologica della massa muscolare  insufficienza renale cronica con dieta ricca di proteine  miopatia. La riduzione del rapporto urea-creatinina interverrà, invece, con la diminuzione del contenuto di urea evidenziabile patognomicamente nel caso di:  epatopatie  dieta ipoproteica  emodialisi. La funzione tubulare I confronti tra le concentrazioni plasmatica ed urinaria di sostanze come il glucosio, i fosfati, gli aminoacidi, gli ioni idrogeno, i bicarbonati, gli ioni ammonio e gli elettroliti, rappresentano un buon indice di funzionalità tubulare. Al contrario, la perdita contemporanea di tutte queste sostanze è un tipico riscontro di laboratorio nella sindrome di Fanconioo. Un reperto di glicosuria, con glicemia normale, è indice di patologia del tubulo prossimale; concentrazioni urinarie anomale di bicarbonato, sodio e potassio indicano, invece, la presenza di alterazioni del tubulo distale. Ricerca della funzione tubulare. Non esistono esami di facile esecuzione per una misura quantitativa. Alcuni disordini di tale funzione sono ereditari, tuttavia, in genere, il danno del tubulo renale è secondario ad altre malattie. Le ricerche riguardano:  pH delle urine ed esame di acidosi tubulare renale (RTA). Esame campione urine fresco per misurare pH urinario  proteinuria: proteine nell’urina sono indicative di membrana non integra mentre un aumento di microglobuline (beta2 ed alfa1) nell’urina è indice di danno cellulare dei tubuli renali  glicosuria: in presenza di glicemia nella norma, è indice di incapacità dei tubuli, a causa di specifiche

oo

L’anemia di Fanconi è una malattia disgenetica autosomica recessiva e polimalformativa.

lesioni, di riassorbire glucosio (raggiunta la soglia renale)  aminoaciduria: insufficienza specifica dei normali meccanismi di riassorbimento tubulare (da disordine genetico tipo cistinuria o da danno acquisito).  misura di osmolalità nel plasma e nelle urine. Capacità di concentrazione. La capacità di concentrare l’urina e di modificarne l’osmolarità dipende dalla funzione dei tubuli collettori delle anse di Henle e dell’interstizio midollare. Se esiste, per l’organismo, la necessità di conservare acqua, il rene normale può produrre urina 4 volte più concentrata del plasma e viceversa. Il test più semplice per valutare la capacità del rene di incrementare la concentrazione è la determinazione del peso specifico di un campione della prima urina del mattino. Con tale test, un peso specifico di 1,025 - corrispondente ad una osmolarità di 850 mosm /kg - indica che il rene è in grado di concentrare la sua urina. Le escrezioni urinarie Bilirubina e urobilinogeno urinari. La bilirubina, nata dalla degradazione della emoglobina, è prodotta dalle cellule del sistema reticoloendoteliale. Nel momento in cui si forma non è idrosolubile, ma lo diviene, nel fegato, dopo coniugazione con l’acido glucuronico. Solo la forma idrosolubile, post-epatica, può entrare nel filtrato glomerulare, pertanto la bilirubina è presente nell’urina solo quando le concentrazioni plasmatiche di bilirubina coniugata sono elevate. In realtà, la via di escrezione normale per la bilirubina coniugata è la bile, che passa dal fegato alla colecisti e da qui al duodeno attraverso il “coledoco”. Nell’intestino la bilirubina è degradata, dai batteri qui presenti, in urobilinogeno, un composto incolore che può andare incontro ad un processo di ossidazione irreversibile e trasformarsi nel pigmento urobilina. Una frazione dell’urobilinogeno è riassorbita nel circolo portale e ritorna al fegato da dove, in parte, viene eliminata nella bile ed, in parte, raggiunge, attraverso il circolo sistemico, il rene dove viene filtrata nell’urina attraverso il filtro glomerulare. Da tutto ciò si deduce che la concentrazione dell’urobilinogeno urinario riflette la quantità di urobilinogeno che, dall’intestino, raggiunge il circolo sistemico. Dato che una funzionalità epatica compromessa modifica l’escrezione dell’urobilinogeno prima di quella della bilirubina, l’aumento dell’urobilinogeno nelle urine è interpretabile come un indicatore precoce di epatite o comunque di danno epatocellulare. Urea urinaria. L’urea è, insieme alla creatinina, il principale composto azotato contenuto nell’urina. La quantità di urea prodotta riflette, quindi, abbastanza fedelmente, la quantità di aminoacidi immessi nei pool metabolici dell’organismo dalle sue diverse, possibili provenienze:  il contenuto proteico della dieta  l’assorbimento di proteine derivanti dal metabolismo batterico nell’intestino  la degradazione delle proteine enzimatiche  il normale ricambio di proteine strutturali. La determinazione quantitativa dell’urea è raramente necessaria. In presenza di alterazioni renali, infatti, l’aumento delle concentrazioni plasmatiche di urea è più significativo di quanto non sia la diminuzione della concentrazione urinaria.

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Creatinina urinaria. L’escrezione urinaria della creatinina costituisce un importante indicatore della funzionalità renale e della adeguatezza del campione di urine. Ogni soggetto elimina giornalmente una quantità di creatinina che dipende più dalla massa muscolare che dall’attività muscolare o dalla degradazione proteica. Una diminuita capacità escretoria riduce la clearance, ma fa variare di poco i valori di creatinina urinaria. Dato che i livelli urinari di creatinina sono pressoché costanti, la quantità di altre sostanze, presenti nelle urine a livelli meno stabili, viene talvolta espressa in relazione ai valori di creatinina, cosicché i valori di escrezione di molti metaboliti è usualmente definito in grammi / grammo di creatinina. Calcio urinario. L’escrezione urinaria di calcio varia con il variare della calcemia e del contenuto totale di calcio dell’organismo. Pertanto un aumento dell’apporto alimentare di calcio può aumentare la calciuria, mentre un diminuito apporto non la influenza significativamente. Bisogna, però, ricordare che l’escrezione del calcio si presenta più elevata subito dopo un pasto e si riduce durante le ore notturne. Il dosaggio delle concentrazioni di calciuria è molto utile per la valutazione di pazienti portatori di calcoli renali o sofferenti per iperparatiroidismo. Aminoacidi urinari. In condizioni normali, l’escrezione urinaria di aminoacidi, nei soggetti adulti, è, in genere, modesta, mentre nei pazienti alimentati con nutrizione parenterale o negli epatopatici vengono eliminate quote più elevate di aminoacidi. Aminoacidurie selettive possono essere dovute a diversi meccanismi, fra i quali ricordiamo:  i disordini enzimatici congeniti che portano la concentrazione dei singoli aminoacidi a livelli tali da superare la soglia renale di riassorbimento  i difetti tubulari di riassorbimento. Analisi dei calcoli renali La calcolosi. Si ha formazione di calcoli renali (nefrolitiasi) quando la concentrazione urinaria di un soluto supera la sua capacità di rimanere in soluzione. Una corretta terapia della nefrolitiasi richiede l’identificazione della sostanza precipitata e l’adozione di provvedimenti dietetici che ne modifichino la quantità introdotta nell’organismo, la produzione di urina e le condizioni metaboliche. In tal modo si possono creare le condizioni per stabilizzare il quadro di solvenza. Composizione chimica dei calcoli. I calcoli prodotti all’interno del rene si dividono in 4 categorie:  calcoli di ossalato di calcio (75%), che si formano più frequentemente negli uomini che nelle donne e richiedono un pH urinario normoequilibrato (6- 6.5)  calcoli di fosfato di ammonio e magnesio (15%), che sono associati ad infezioni urinarie ricorrenti; la loro precipitazione avviene a pH alcalino  calcoli di acido urico (10%), che si formano sia in soggetti che presentano iperuricemia sia in quelli che esprimono normali valori di acido urico; la loro precipitazione richiede la presenza di urine acide  calcoli di cistina (1-2%), che si formano in soggetti che presentano difetti congeniti dell’assorbimento tubulare dell’aminoacido e precipitano in urina acida.

Lezione 29

§1

Il dosaggio di vitamina B12, folato ed omocisteina e loro implicazioni cliniche1-11

METABOLISMO, FABBISOGNO E DOSAGGIO

Vitamina B12 La vitamina B12 (Vit B12), ampiamente presente in tessuti animali, viene sintetizzata solo da microrganismi e necessita di un meccanismo di assorbimento intestinale altamente specializzato; la capacità di trasportare quantità fisiologiche di vitamina dipende dall’azione combinata di componenti gastriche, iliache e pancreatiche1. Struttura. Dal punto di vista strutturale la vitamina B12 è un complesso composto organometallico noto come cobalamina. La molecola è costituita da un gruppo planare e da un gruppo pseudonucleotidico, uno perpendicolare all’altro. Il gruppo planare, detto corrina, consta di 4 anelli pirrolici che coordinano uno ione cobalto. Con altri due legami coordinativi lo ione Co lega da una parte il 5,6-dimetilbenzimidazolo e dall’altra un radicale R che può essere il CN nella cianocobalamina, l’OH nell’idrossicobalamina, il metile nel coenzima metilcobamide e la deossiadenosina nel coenzima deossiadenosina cobamide. La cianocobalamina rappresenta la forma più stabile, anche se si decompone spontaneamente per azione della luce (fotolisi). Il 5,6-dimetilbenzimidazolo è legato con un legame -glicosidico con il ribosio fosforilato in posizione 3’. Lo stesso gruppo fosforico è anche esterificato con l’1-amino-2propanolo, legato a sua volta con un legame carboamidico al radicale propanoilico di uno dei quattro anelli pirrolici.

Fabbisogno. In condizioni di normalità, una dieta comprensiva di alimenti di origine animale costituisce una fonte di Vit B12 e, considerando il fabbisogno giornaliero dell’organismo, una riserva a lunga vita con ridotto turnover. L’organismo umano, per il suo fabbisogno di vitamina B12, è totalmente dipendente dai prodotti di derivazione animale introdotti con la dieta. I microrganismi rappresentano la principale fonte di cobalamina nella catena alimentare, mentre i vegetali ne contengono poca, ad eccezione di quella derivata dalla contaminazione microbica. La dose raccomandata per gli adulti è di 2-3 g al giorno, ma una dieta bilanciata ne contiene quantità di gran lunga superiori, infatti le riserve dell’organismo, se mantenute integre, sono sufficienti per anni in un individuo senza problemi di assorbimento gastrointestinale. Basti pensare che la carne ne contiene 2-5 μg/100 g, il pesce 2-8 μg/100 g, il latte 1.5 μg/100 g, il formaggio 1-2 μg/100 g e le uova 2 μg/100 g. Metabolismo. La vitamina viene introdotta nell’organismo legata a proteine, dalle quali viene scissa grazie all’azione della pepsina nell’ambiente acido dello stomaco. Una volta libera, si lega a proteine secrete dalle ghiandole salivari dette cobalofiline o R-leganti. Nel duodeno i complessi R-vitamina B12 vengono scissi dalle proteasi pancreatiche e dal pH alcalino e la B12 libera si lega al fattore intrinseco (FI) secreto dalle cellule parietali della mucosa del fondo gastrico. Il complesso FI-vitamina B12 viene trasportato all’ileo, dove aderisce ai recettori delle cellule ileali specifici per FI. La vitamina B12 attraversa quindi la membrana plasmatica ed entra nelle cellule mucose. È a questo livello che avviene il legame con le proteine carrier: aptocorrina (HC), o transcobalamina I, e transcobalamina II (TC). Holo-TC o B12 attiva L’aptocorrina, la cui funzione è ancora dibattuta, lega l’80% della cobalamina sierica, ma è considerata metabolicamente inerte perché, ad eccezione del fegato, non sono ancora stati individuati dei specifici recettori. Si pensa che possa agire come scavenger per potenziali analoghi nocivi di cobalamina, trasportandoli al fegato e favorendone la secrezione biliare. Il restante 20% è veicolato nei tessuti e nelle cellule che esprimono i recettori per la TC, la quale, nella forma legata a B12, prende il nome di olotranscobalamina (Holo-TC) o B12 attiva. Solo Holo-TC può entrare

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nelle cellule, per questo viene considerata la quota biologicamente attiva della cobalamina2-4. La vitamina B12 è essenziale per il metabolismo dei composti monocarboniosi, per lo sviluppo e il mantenimento della guaina mielinica dei neuroni, per la sintesi dei neurotrasmettitori, per l’eritropoiesi e per la divisione cellulare, in quanto è un cofattore di due importanti reazioni enzimatiche:  rimetilazione dell’omocisteina in metionina, catalizzata dall’enzima metioninsintetasi che utilizza come cofattore la metilcobalamina; quest’ultima cede il suo gruppo metilico e viene rigenerata dal N5-metiltetraidrofolato, la principale forma di folato nel plasma, che così è convertito in tetraidrofolato (FH4); il tetraidrofolato è di importanza cruciale poiché è indispensabile attraverso il suo derivato N5,10-metilene-FH4 - alla conversione del deossiuridinamoniofosfato a deossitimidinamoniofosfato, diretto precursore del DNA  isomerizzazione del metil-malonil-coenzima A a succinil coenzima A, che richiede adenosilcobalamina come gruppo prostetico dell’enzima metilmalonil-coenzima A mutasi. La carenza di vitamina B12 comporta, inoltre, aumento dei livelli di metilmalonato che viene escreto nelle urine sotto forma di acido metilmalonico (MMA).

Laboratorio. Attualmente, il test biochimico più comunemente utilizzato per diagnosticare il deficit di vitamina B12 è il dosaggio della sua concentrazione sierica. Questo test ha un’accuratezza diagnostica limitata (bassa sensibilità), utile nello stadio avanzato della malattia, ma non nelle forme subcliniche. Una possibile spiegazione per questa limitazione potrebbe essere che la maggior parte della vitamina B12 è legata all’aptocorrina, che ha un’emivita di circa 6 giorni. Solo il 6-20% è legata alla transcobalamina, che ha invece un’emivita di soli 6 minuti. Il rapido turnover dell’olotranscobalamina richiede una costante fonte di questa proteina per mantenere normali le concentrazioni intracellulari di cobalamina. Le concentrazioni plasmatiche di Holo-TC possono essere modulate da diversi fattori, come la quantità di vitamina B12 assorbita, il tasso di assorbimento epatico e renale di Holo-TC, la produzione e il rilascio di Holo-TC ileale e renale, le richieste tissutali di cobalamina e, probabilmente, altri fattori non ancora noti. Alcuni studi recenti hanno evidenziato che la cobalamina circolante non è utilizzabile da molte cellule dell’organismo. Infatti, è riportato che l’ Holo-TC (quota attiva) va dall’ileo alla circolazione portale e giunge agli epatociti; nella vena epatica la sua concentrazione scende del 26-72% nella vena epatica, mentre la restante Holo-TC circola nel sangue ed attraverso questo giunge ad altre cellule in una proporzione non ancora quantificata. La maggior parte della clearance dell’Holo-TC avviene attraverso la filtrazione glomerulare, seguita dall’assorbimento tubulare nel rene, organo che risulta quindi molto ricco in cobalamina e con epitelio tubulare ricco di recettori per TC. È stata osservata da alcuni autori una forte correlazione tra una bassa concentrazione di Holo-TC ed un incremento dei livelli di tHcy e MMA e tra l’Holo-TC e la vitamina B12 totale, anche se ridotti livelli di Holo-TC e normali di tHcy e MMA possono indicare un consumo di depositi di vitamina. Quando il bilancio negativo aumenta ulteriormente (stadio III del deficit), il consumo dei depositi e i disturbi funzionali portano ad elevate concentrazioni di tHcy e MMA.

Il valori di riferimento, in genere e compatibilmente alla metodica di dosaggio utilizzata, sono compresi tra 150-700 pmol/L. Studi recenti hanno suggerito come valore soglia 148 pmol/L, per diagnosticare un deficit conclamato di B12 in corso. È stato tuttavia proposto di alzare questo valore di cut off a 221-258 pmol/L, dal momento che è stato osservato che pazienti con B12 >258 pmol/L possono avere livelli anormali di Hcy e MMA e quindi avere una carenza latente di vitamina. Folato Struttura. Folato/i (Fol) ed Acido folico (AF o acido pteroilmonoglutammico) vengono spesso usati come sinonimi, anche se, come si vedrà, definiscono composti di differente origine. Comunemente si tende ad utilizzare la seconda denominazione sebbene spesso non sia corretta. Infatti, Fol è il termine generico per indicare tutti i composti naturali della famiglia dei pteroilglutammati, coenzimi con

attività vitaminica (o vitameri) coinvolti in un certo numero di reazioni essenziali per un normale metabolismo. L’AF è la forma più ossidata e stabile di Fol; si trova raramente negli alimenti come tale, mentre rappresenta il composto di sintesi normalmente utilizzato nella fortificazione degli alimenti ed è il più usato nei supplementi vitaminici. Le cellule umane necessitano di una concentrazione critica di Fol intracellulare per permettere l’attività dei coenzimi folici, pertanto la somministrazione di AF viene consigliata o per prevenire o per tamponare la carenza della vitamina5,6. Il Fol gioca un ruolo essenziale in molti differenti processi biochimici (Fig. 29-1). La sua principale funzione biologica consiste nel consentire ad enzimi di trasferire unità monocarboniose - quali, ad esempio, il gruppo metilico o formilico o metilenico - ad una varietà di molecole “target”. Tra i numerosi processi biologici nei quali il Fol è coinvolto, ricordiamo i due più importanti:  sintesi di DNA ed RNA, per la produzione di proteine, per la replicazione e la riparazione del DNA e, quindi, per la regolazione dell’espressione genica  rimetilazione dell’omocisteina in metionina. Fabbisogno e metabolismo. L’uomo non è in grado di sintetizzare il Fol, una delle vitamine del gruppo B - indicata anche come vitamina M o B9 - idrosolubile, insolubile nei solventi organici, fotosensibile e presente in parecchi componenti della nostra normale dietapp. Il Fol è suscettibile a degradazione durante la raccolta, il deposito, il processamento, la preparazione dei vari cibi che lo contengono ed, inoltre, durante il passaggio attraverso l’ambiente gastrico a pH acido. In questo modo il 50-75% dell’attività iniziale viene persa. Il fabbisogno giornaliero per gli individui sani è di circa 0,2 mg mentre durante la gravidanza il fabbisogno raddoppia, visto che il feto attinge dalle risorse materne per il proprio sviluppo. Il Fol, infatti, riveste un ruolo importantissimo nelle prime fasi dello sviluppo embrionale per prevenire i difetti del tubo neurale del feto. Risulta, pertanto, molto importante che la donna, che desidera una gravidanza, faccia un controllo delle scorte di questa vitamina, specialmente nel caso che abbia fatto in precedenza uso di pillola contraccettiva. L’assorbimento del Fol avviene prevalentemente nel duodeno e nel primo tratto del digiuno ed è un processo passivo, pH dipendente ad alte concentrazioni di Fol ed attivo a concentrazioni fisiologiche. Il Fol, una volta introdotto nella cellula, non è in grado di per sé di attivare quella serie di processi metabolici che gli competono. Per poter fare questo, deve infatti essere trasformato nel corrispettivo coenzima: tetraidrofolato (THF), forma metabolicamente attiva. L’assorbimento del Fol, la distribuzione corporea ed il metabolismo intracellulare sono processi complessi ed attentamente regolati. L’ingresso del Fol nella cellula è regolato da specifici trasportatori (RFC1) e da recettori di membrana (FBP1- folate binding protein-). E’ riportato che il 5metiltetraidrofolato (5-MTHF), presente nel plasma sotto forma di monoglutammato, sia la “forma di trasporto” del Fol, mentre il Fol poliglutammato sia la “forma di deposito” entro le cellule. Il Fol viene escreto con le urine sottoforma di prodotti di degradazione, contro una piccola parte di Fol intatto. La regolazione del metabolismo del folato può essere influenzata da specifiche situazioni:

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In particolare è presente nelle foglie di vegetali, da cui il nome che deriva dal latino “folium”, nella frutta, nei cereali, nel latte ed uova, nel lievito di birra.

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 

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deficit di folato: basso livello di 5-MTHF intracellulare, iperomocisteinemia deficit di vitamina B12: alterazione della normale attività della metionina sintasi, iperomocisteinemia per mancata metilazione dell’omocisteina da parte del 5-MTHF, “trappola del folato”, alterata sintesi di DNA, anemia megaloblastica deficit di vitamina B6: alterata transulfurazione dell’omocisteina, iperomocisteinemia polimorfismo dell’enzima 5-metiltetraidrofolato reduttasi (5MTHFR): fra queste mutazioni, la C677T è la più rilevante; è presente nel 10-15% della popolazione e comporta un moderato aumento dei livelli di omocisteina in soggetti con relativamente basso status di folato.

Alcuni fattori possono aumentare il fabbisogno e/o ridurre l’assorbimento di acido folico, quali, ad esempio:  alcuni farmaci, come i barbiturici ed i FANS  un elevato consumo di alcool  il diabete mellito insulino-dipendente  il malassorbimento. É recentemente riportato da diversi studi che una supplementazione con AF sintetico o, preferibilmente, con Fol naturale:  riduce il rischio di difetti nella formazione del tubo neurale del feto  ha azione antiaterogenica  ha azione anticancerogena  ha azione neuro protettiva  ha azione antidepressiva. Nel trattamento con AF, è molto importante che il medico valuti in modo idoneo la dose e la durata della supplementazione per ciascun individuo. Laboratorio. Attualmente, il test biochimico più comunemente utilizzato per diagnosticare il deficit di folato è il dosaggio della sua concentrazione sierica. Tuttavia, diversi studi del gruppo degli autori del testo e di gruppi stranieri hanno dimostrato l’importanza del dosaggio dei livelli intraeritrocitaria7-9. A tal proposito è bene parlare brevemente dell’omeostasi di questa vitamina. In condizioni normali, il Fol deriva da dieta e/o depositi organici, ma, a causa del suo turnover rapido, durante le prime fasi di carenza e addirittura tra un pasto e l’altro, il Fol circolante deriva dal Fol extracellulare (circolo enteroepatico) ed è immediatamente utilizzabile. Nel caso di una carenza prolungata di assunzione nutrizionale di folato, si riscontra una diminuzione progressiva di Fol sierico con parallelo calo del Fol dei depositi epatici. Questi vengono riforniti, oltre che dalla dieta, anche dal recupero di scorte di Fol tramite una “via di salvataggio” di questi vitameri da tessuti periferici non più proliferanti e metabolicamente inattivi, quali ad es. i globuli rossi, RBC. Il 5-MTHF, forma circolante (in equilibrio tra dieta e depositi) è presente anche all’interno dei RBC, dove non viene metabolizzato ma accumulato come poliglutammato e reso disponibile, in forma libera, quando l’organismo lo richiede. Pertanto, il folato intraeritrocitario:  riflette l’utilizzazione di Fol al momento di formazione nel midollo osseo  è il pool endogeno che può moderare effetti di carenza dietetica di 3-4 mesi (“buffer”)  riflette le reali scorte organiche di Fol  non risente immediatamente di fattori quali dieta, alcool, trattamenti farmacologici  indica uno stato nutrizionale a lungo termine (3-4 mesi)  e quindi rappresenta la quota stabilizzata di vitamina.

I valori di riferimento, in genere e compatibilmente alla metodica di dosaggio utilizzata, sono: 7-28 nmol/L per il folato sierico (s-Fol) e 420-1500 nmol/L per il folato intraeritrocitario (ery-Fol). Ricordiamo che in ciascun laboratorio i valori di riferimento possono, in generale, subire delle lievi modifiche dovute non solo alla metodica e strumentazione utilizzata ma anche al bacino di utenza afferente. Omocisteina Negli ultimi anni, numerosi dati sperimentali hanno evidenziato un’associazione tra specifici fattori nutrizionali e patologie croniche, alcune delle quali sono causa frequente di morte prematura nei paesi sviluppati. Tra i fattori nutritivi implicati - e recentemente più studiati - sta emergendo il ruolo importante dell’omocisteinemia e delle vitamine ad essa metabolicamente correlate5. Struttura, fabbisogno e metabolismo. L’omocisteina (Hcy) - un aminotiolo a quattro atomi di carbonio - è un prodotto intermedio derivato dalla demetilazione metabolica della metionina alimentare, aminoacido essenziale abbondante nelle proteine animali. La richiesta giornaliera di metionina nell’adulto è di ~0,9 g, mentre l’assunzione con la dieta è di circa 2 g. L’Hcy plasmatica riflette il bilancio tra produzione ed utilizzazione intracellulare ed è presente in circolo in varie forme (Hcy legata alle proteine, disolfuri misti, Hcytiolattone, Hcy libera). La somma di tutti i tipi molecolari costituisce l’Hcy totale (tHcy), la cui concentrazione è dosabile correttamente con metodi immmunoenzimatici oppure in HPLC. Il metabolismo dell’omocisteina si svolge attraverso due reazioni enzimatiche principali, rimetilazione e transulfurazione, che richiedono rispettivamente folato con metilcobalamina come cofattore e vitamina B6. La formazione di Hcy è favorita in condizioni di eccesso di metionina, mentre la rimetilazione è favorita durante una carenza, anche temporanea, di metionina, tale da non assicurare un’adeguata quantità di questo metabolita essenziale. In tal caso l’omocisteina viene riciclata a metionina attraverso due differenti reazioni. La prima richiede la presenza dell’enzima metionina sintasi (MS), dipendente dalla vitamina B12, che utilizza N5metiltetraidrofolato (5-MTHF) come donatore di metili. La formazione di 5MTHF dipende dalla presenza di N5,N10-metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR). La seconda via, attiva principalmente nel fegato è B12indipendente e necessita della betaina-omocisteinametiltransferasi, utilizzando la betaina come donatore del gruppo metile. Quando la via della rimetilazione è satura o quando è richiesta cisteina, si attiva la via della transulfurazione nella quale l’omocisteina si unisce alla serina per formare cistationina in una reazione irreversibile catalizzata dall’enzima cistationina β-sintetasi, che contiene il piridossal-5-fosfato (PLP o vitamina B6). La cistationina viene idrolizzata da un secondo enzima contenente PLP, la γcistationasi, per formare cisteina e α-chetobutirrato. L’eccesso di cisteina viene ossidato a taurina e solfati organici o escreto nelle urine. Così, in aggiunta alla sintesi di cisteina, questa via di transulfurazione catabolizza effettivamente l’eccesso di Hcy che non è richiesto per il trasferimento del metile e fornisce solfato per la sintesi di eparina, eparinsolfato, dermatansolfato e condroitinsolfato. Il destino metabolico e la concentrazione plasmatica di Hcy possono essere influenzati da alterazioni a carico delle attività enzimatiche che partecipano alle suddette reazioni oppure dalle concentrazioni ematiche di folato, vitamina B12 e B6. Infatti, essendo la vitamina B12 ed il folato rispettivamente cofattore e cosubstrato nelle reazioni enzimatiche coinvolte nel metabolismo dell’omocisteina, una severa iperomocisteinemia può essere evidenziata in pazienti con bassi livelli di queste vitamine. Inoltre, poiché l’enzima MTHFR contiene il FAD come gruppo prostetico, anche lo status della vitamina B2 (riboflavina) può rappresentare un determinante per la concentrazione di Hcy a digiuno.

Significato clinico. Diversi sono i fattori coinvolti nell’eziologia dell’iperomocisteinemia: difetti genetici a carico di enzimi coinvolti nel metabolismo dell’Hcy e/o fattori acquisiti, come deficit vitaminici, insufficienza renale

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cronica, ipotiroidismo, anemia perniciosa, diabete, obesità, fumo, stile di vita, neoplasie o farmaci. L’elevata concentrazione plasmatica di Hcy prende il nome di iperomocisteinemia, che, come risulta da numerosi studi, è un riconosciuto fattore indipendente di rischio per la malattia cardiovascolare e si affianca ai più noti fattori di rischio di questa patologia, quali iperlipidemia, ipertensione, fumo ed obesità. Livelli più elevati di Hcy sono indicatori sensibili del deficit clinico di folato: i livelli si innalzano precocemente, precedendo i sintomi e progrediscono se il deficit si aggrava. L’iperomocisteinemia severa con omocistinuria, dovuta ad errori congeniti del metabolismo, è associata ad aterosclerosi precoce ed a trombosi arteriosa e venosa; inoltre, se non diagnosticata in tempo, può portare a morte in età giovanile. Alcune popolazioni mostrano alta frequenza di eterozigosi per forme mutanti di enzimi chiave nel metabolismo dell’omocisteina. Il gene che codifica per MTHFR ha destato la maggiore attenzione e il suo polimorfismo più comune è 677 C→T, che determina una ridotta attività enzimatica ed incrementa il rischio di trombosi se coesiste eterozigosi per la mutazione del fattore V di Leiden.

Laboratorio. L’iperomocisteinemia viene diagnosticata facendo dosaggi su plasma. In generale il danno della rimetilazione risulta da elevata Hcy, mentre difetti della transulfurazione sono associati a risposte anormali del carico di metionina. L’intervallo di riferimento della concentrazione plasmatica di tHcy a digiuno è “storicamente” compreso tra 5 e 15 micromoli/L, tenendo in dovuto conto nella valutazione variabili quali età, sesso e particolari stati fisiologici. Studi recenti hanno definito i seguenti punti riguardo la omocisteinemia:  intervallo di riferimento: 4 – 10 µmoli/L; < 12.5 dopo i 65 anni  più elevata nell’uomo (10-20%) rispetto alla donna in premenopausa  simile uomo e donna postmenopausa  aumento correlato all’età (+ 10% circa ogni 10 anni)  è influenzata da: disfunzione renale, gravidanza, difetti genetici, razza, nutrizione, abitudini di vita (aumenta, ad esempio, nei forti fumatori del 20% circa), assunzione di estroprogestinici, altre patologie e relativi farmaci. Un aumento dei livelli di tHcy configura una condizione di iperomocisteinemia, definibile come lieve (12-14 micromoli/L), moderata (15-30 micromoli/L), intermedia (30-100 micromoli/L) e severa (>100 micromoli/L).

§2

DEFICIT VITAMINICO: IMPLICAZIONI CLINICHE

I deficit vitaminici La carenza nutrizionale, ad esempio, di cofattori vitaminici coinvolti nel ciclo metabolico dell’omocisteina - folati e vitamine B12 e B6 - può dar luogo a particolari anomalie e disturbi. La vitamina B12 ed i folati, infatti, debbono essere entrambi necessariamente presenti in quantità adeguata per il processo integrato di proliferazione e di maturazione cellulare e per la normale sintesi di metionina e di timidilato. Appurato un loro deficit, un apporto vitaminico adeguato e mirato può correggere o migliorare gli stati patologici conseguenti. I segni clinici del deficit di vitamina B12 rappresentano gli stadi tardivi di malattie, quali disordini neuropsichiatrici ed anemia megaloblastica. Una condizione quasi identica può derivare dal deficit di folato, ma mentre la carenza di vitamina B12, se non viene trattata ai primordi, porta ad una

degenerazione irreversibile del sistema nervoso, la carenza di folato può provocare un’alterazione di tipo reversibile che rientra non appena venga trattata . La carenza di vitamina B12 e/o di folato, dovuta ad un inadeguato apporto con la dieta, è molto rara nei paesi industrializzati, in quanto riguarda solo soggetti che seguono una dieta strettamente vegana, bambini nati da madre vegetariana o vegana o con bassi livelli sierici di vitamina per altri fattori e persone anziane, che tendono ad introdurre poca vitamina nella loro dieta (diete monotone) o ad avere problemi di inadeguato assorbimento gastrointestinale. Al contrario, nei paesi in via di sviluppo le suddette carenze rappresentano una delle cause principali di malattie; ciò è dovuto a motivi religiosi e/o culturali o, specialmente in alcune aree, a condizioni di estrema povertà. Nei Paesi sviluppati il deficit deriva da cause, quali, ad esempio:  anemia perniciosa, che probabilmente deriva dalla distruzione della mucosa gastrica mediata da meccanismi immunologici. Ne deriva “atrofia gastrica cronica”, caratterizzata dalla perdita delle cellule parietali e mancata produzione di fattore intrinseco  anemia megaloblastica  malassorbimento, riscontrabile soprattutto nelle persone anziane ed in soggetti con patologie gastroenteriche  eccessiva crescita della microflora batterica intestinale, la cui fisiopatologia mette in evidenza una competizione intraluminale per la vitamina B12  errori congeniti del metabolismo, in particolare deficit di enzimi, quali metionina sintasi, metionina sintasi reduttasi e metilenetetraidrofolato reduttasi (MTHFR). La forma labile della MTHFR è quella più frequentemente riscontrata nella popolazione.

Tools diagnostici di laboratorio Come già ampiamente spiegato, deficit delle vitamine B12 e Fol ed alcuni polimorfismi genetici hanno molteplici effetti sul ciclo della metilazione e conseguenti alterazioni che possono comportare o iperomocisteinemia (noto fattore di rischio cardiovascolare) oppure anormalità nella molecola del DNA o di altri importanti composti. La possibilità di indagare lo stato di salute mediante semplici esami del sangue che consentono di valutare la patogenesi di varie malattie spesso sottovalutate e, pertanto, latenti e non diagnosticate quali, ad esempio, “emopoiesi severamente compromessa”, “malformazioni congenite”, “alterate funzioni neurologiche”, “disturbi aterosclerotici” e “disturbi cardiovascolari”. É stato pertanto messo a punto, nel nostro laboratorio, il pannello di dosaggi riportato nella tabella 1 (Tab. 29-1) che può aiutare il clinico ad inquadrare le problematiche di un individuo e ad intervenire oculatamente con il trattamento adeguatoqq 10. Concludendo, l’utilizzo di indagini di laboratorio, che sono sia abbastanza semplici per valutare molecole altamente significative sia utili per intervenire precocemente su patologie molto diffuse ed a rischio, deve rappresentare un inderogabile target della società.

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É stato qui inserito anche il dosaggio su siero della B12 attiva (olotranscobalamina), nuovo parametro dello status vitaminico, che è ora inserito nella diagnostica routinaria di laboratorio della Fondazione IRCCS, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.

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RIEPILOGO

IL LABORATORIO DI BIOCHIMICA CLINICA IN OSTETRICIA. LEZIONE 21 La valutazione della concentrazione di glucosio nel sangue (dosaggio della glicemia) deve essere considerata una delle più importanti analisi che ogni individuo dovrebbe periodicamente fare e che ogni donna deve assolutamente fare in fase pre-gestazionale e gestazionale. La corretta esecuzione del prelievo richiede particolare attenzione in quanto il risultato del test è altamente prognostico per una evoluzione verso forme di pre-diabete o di franco diabete., patologia ad alto rischio di complicanze cardiovascolari. La paziente diabetica dovrà sottoporsi ad accurati controlli clinici e laboratoristici (glicemia, glicosuria, emoglobina glicata) per monitorare la sua situazione. Analogamente la causa di una condizione di ipoglicemia va diagnosticata e tenuta sotto controllo medico. Molto utile risulta essere lo screening di prevenzione del diabete mellito di tipo 2. LEZIONE 22 La valutazione della concentrazione dei lipidi nel sangue (dosaggio della colesterolemia e trigliceridemia o dosaggio del pannello lipidico) consente di fare un quadro dei vari eventi che trasformano, mobilizzano ed utilizzano le varie classi di lipidi presenti nell’organismo. Oltre alle cause di iperlipoproteinemie secondarie vengono chiaramente descritte le considerazioni cliniche conseguenti la conoscenza delle concentrazioni ematiche dell’assetto lipidico di una donna ed i consigli terapeutici necessari. Infine, la sindrome metabolica, derivante dalla copresenza di diversi fattori di rischio per la patologia cardiovascolare, rappresenta la più diffusa causa di mortalità nei paesi industrializzati se non diagnosticata in tempo ed adeguatamente trattata: molto spesso cambiamenti dello stile di vita (correzione della dieta e dell’attività fisica, per esempio) possono essere sufficienti per modificare uno o più fattori di rischio. E’ auspicabile che campagne di screening preventivo siano organizzate su tutto il territorio per diagnosticare precocemente la sindrome metabolica LEZIONE 23 I destini metabolici delle proteine, costituenti fondamentali degli organismi viventi, sono dal punto di vista biochimico clinico molto importanti. L’utilizzo degli amminoacidi liberi, derivanti dall’idrolisi delle proteine ingerite con il cibo, assimilati dalle cellule intestinali e riversati in circolo, consente alla maggior parte di organi e tessuti di effettuare il turnover proteico e rinnovare la struttura cellulare. Utili indici clinicodiagnostici di funzionalità epatica sono gli enzimi chiave nella rimozione del gruppo amminico (transaminasi) e prodotti di degradazione degli amminoacidi (ad es. ione ammonio). Il bilancio azotato è una condizione clinica molto importante. Disturbi del ciclo dell’urea (ciclo importantissimo per un corretto impiego dei prodotti di degradazione proteica) sono, in genere, malattie rare dovute a deficit enzimatici ereditari. Analogamente, sono su base genetica malattie del metabolismo degli amminoacidi, quali fenilchetonuria, albinismo. LEZIONE 24 Descrizione della elettroforesi delle proteine, moderna tecnica di dosaggio di queste macromolecole biologiche, la quale consente di ottenere un grafico che evidenzia le percentuali delle singole frazioni proteiche presenti nel siero. Ogni frazione contiene un ben determinato gruppo di specie proteiche con caratteristiche specifiche e con significato diagnostico ben preciso e molto utile ai fini terapeutici. Oltre alla descrizione ben dettagliata dei principali componenti di ogni banda elettroforetica e della loro importanza diagnostica, si accenna alla Proteina C reattiva, PCR, una proteina di fase acuta, indice molto utilizzato nella progressione di malattia. LEZIONE 25 Dopo un breve richiamo alle basi endocrinologiche della riproduzione, si descrive l’utilizzo del laboratorio nella valutazione della concezionalità (dosaggi di funzionalità gonadica), della gravidanza (dosaggio di ormoni placentari) e dell’allattamento (dosaggio di prolattina). Alcuni parametri sono di grande utilità nella diagnosi di alterate condizioni non legate alla situazione fisiologica della gravidanza. Viene infine accennato al test qualitativo per eccellenza: il test di gravidanza, al metodo di dosaggio di Gonadotropina Corionica Umana (HCG) ed alla usa interpretazione. LEZIONE 26 Tenendo presente che la gravidanza non è una malattia, bensì un particolare “stato di benessere” e che, se nel corso della stessa non si verificano eventi degni di nota (patologie o complicanze), si può affermare che il ruolo del laboratorio deve essere mirato al controllo di pochi ma essenziali analiti, e precisamente quelli caratteristici di uno “stato fisiologico”; non esistono attualmente evidenze che la determinazione di un più ampio pannello di parametri, a volte inutili e costosi, possa offrire, nel corso della gravidanza, uno strumento per la valutazione prognostica della comparsa di eventi avversi per la madre o per il feto. Ruolo del biochimico clinico e/o del patologo clinico è quello di conoscere l’importanza degli esami basilari e di quelli specifici per la diagnosi di alcune alterazioni, di consigliarne il dosaggio e di fornirne una corretta interpretazione ai clinici e alle gravide. LEZIONE 27 A brevi cenni di fisiopatologia del fegato, segue una descrizione dei diversi indici di alterata funzionalità dell’organo: enzimi indicativi di ostruzione delle vie biliari (Fosfatasi alcalina, ALP), di colestasi (-Glutamiltranspeptidasi, -GT), di abuso alcolico (-GT e Transferrina desialata, CDT), danno epatocellulare (Aminotransferasi, AST ed ALT e Latticodeidrogenasi, LDH). Una disfunzione epatica può essere messa in evidenza anche da altri parametri: aumento di azotemia (concentrazione di urea) e di ammonemia; diminuzione di albumina, aumento di immunoglobuline di natura policlonale; alterato metabolismo lipidico (ostruzione vie biliari: elevato aumento di colesterolemia; epatopatie gravi: importante ipoglicemia da carenza di sintesi del glucosio). Esistono infine altri parametri particolari per la valutazione di epatopatie, dei quali ricordiamo l’-fetoproteina (AFP) per diagnosi precoce di eventuale patologia neonatale e l’Antigene carcinoembrionario (CEA) utilizzato come marker tumorale ma non specifico per tumore epatico. LEZIONE 28 Dopo un rapido richiamo all’anatomo-fisiologia del rene ed all’esame di laboratorio del campione di urina, viene illustrata la valutazione della funzionalità renale. Se una sostanza non subisce modifiche nel percorrere il nefrone, la quantità escreta riflette esattamente la quantità filtrata dal glomerulo; il tasso di filtrazione glomerulare si calcola tramite la “clearance” (relazione tra l’escrezione renale di una sostanza e la sua concentrazione plasmatica). La funzione tubulare viene valutata in un campione d’urina di prima mattina tramite il peso specifico, pH e presenza di proteinuria e di glicosuria. La presenza inoltre di alterate concentrazioni di altri analiti escreti nelle urine (bilirubina, urea, creatinina, calcio) possono risultare significative nella diagnostica. Riguardo la calcolosi renale, l’identificazione delle sostanze precipitate è importante per una corretta terapia della nefrolitiasi. LEZIONE 29 Folato (Fol) e Vitamina B12 (Vit B12) rivestono un ruolo di vitale importanza nella regolazione del processo integrato di proliferazione e differenziazione cellulare e sono fattori nutrizionali indispensabili per la normale eritropoiesi. Queste vitamine, idrosolubili e fotosensibili, assunte entrambe con la dieta, sono metabolicamente correlate: la carenza di Vit B12 determina un accumulo di N-5metiltetraidrofolato, che non viene metabolizzato nei composti chiave per il trasferimento e l’utilizzazione di unità monocarboniose, molecole critiche richieste dal metabolismo intracellulare delle basi puriniche e pirimidiniche. Una loro carenza compromette gravemente la sintesi di acidi nucleici, impedendo la normale replicazione del DNA e la sequenziale divisione cellulare. Inoltre, entrambe le vitamine svolgono un ruolo importante nel metabolismo dell’omocisteina (Hcy), un amminotiolo che occupa una posizione cruciale per la biosintesi di altri aminoacidi solforati (metionina e cisteina) e per l’equilibrio ossido-riduttivo della cellula (biosintesi del glutatione). Il tripeptide glutatione (L-γ-glutamil-L-cisteinilglicina) è uno dei maggiori antiossidanti intracellulari. L’Hcy è una molecola che, se in eccesso, può risultare tossica per l’organismo e si sta sempre più affermando come fattore di rischio indipendente per la patologia cardiovascolare. Studi e trials internazionali continuano ad evidenziare la correlazione tra manifestazioni patologiche (quali emopoiesi severamente compromessa, malformazioni congenite, alterate funzioni neurologiche e, recentemente, disturbi aterosclerotici e cardiovascolari) e concentrazioni ematiche di Fol, Vit B12 ed Hcy. Pertanto, il semplice dosaggio dei livelli ematici di queste molecole risulta essere di fondamentale importanza per prevenzione, diagnosi e cura di patologie ad alto interesse sociale.

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I QUESITI CONCETTUALI LEZIONE 1 1. Quali sono le grandezze fisiche e le loro unità di misura? LEZIONE 2 1. Quali leggi regolano il movimento del corpo umano? LEZIONE 3 1. Quali leggi regolano il comportamento dei fluidi nel corpo umano? LEZIONE 4 1. Quali sono i principi della termoregolazione? 2. Come si trasmette il calore ? LEZIONE 5 1. Come è strutturata la materia? 2. Come e perché un corpo emette radiazioni? LEZIONE 6 1. A che cosa servono le radiazioni in medicina? LEZIONE 7 1. Quali sono i legami che caratterizzano i composti di interesse biologico? LEZIONE 8 2. Quali sono le proprietà dell’acqua e che rilevanza hanno nell’ambiente biologico? LEZIONE 9 1. Che cosa si deve conoscere per descrivere una reazione chimica? LEZIONE 10 1. Che cos’è il pH di una soluzione e quale è il comportamento degli acidi e delle basi? 2. Che cosa sono le soluzioni tampone? LEZIONE 11 1. Che cosa sono i composti organici? 2. Qual è il significato di gruppo funzionale nei composti organici? LEZIONE 12 1. Quali sono i gruppi funzionali che caratterizzano le biomolecole’ 2. Quali sono le loro proprietà? LEZIONE 13 1. Qual’è la struttura chimica dei carboidrati e quale la loro funzione negli organismi viventi? LEZIONE 14 1. Qual’è la caratteristica che accomuna tutte le classi di lipidi e quale la loro funzione negli organismi viventi? LEZIONE 15 1. Da che unità monomeriche sono costituite le proteine e come sono correlate a queste unità costituenti le loro proprietà? LEZIONE 16 1. Quali sono i monomeri degli acidi nucleici? 2. Qual è la struttura dell’ATP? LEZIONE 17 1. Che cosa è la fase preanalitica? e quali atti comprende? 2. Quale è il ruolo dell’ostetrica nella fase preanalitica? 3. Quali fattori compongono la variabilità biologica? 4. Come e perché debbono essere evitati gli errori preanalitici? LEZIONE 18 5. Quale è il processo che conduce ad un referto? 6. Che cosa sono i valori di riferimento? 7. Quando si utilizza il cut-off? Sempre e per ogni tipo di analisi? 8. Quando e perché si applicano “sensibilità e specificità diagnostica”? LEZIONE 19 1. Quando e come ottenere campioni biologici idonei per esami di laboratorio a scopo diagnostico? 2. Quale è la differenza tra siero e plasma? 3. Esiste un anticoagulante universale? 4. Quali sono le regole principali per le varie modalità di raccolta del campione urinario e quali le eventuali differenze? 5. Perché è importante la fase della conservazione del campione di urine? 6. Utilità diagnostica dell’esame del “sangue occulto” LEZIONE 20 1. Come si formano i versamenti. Quale è la differenza tra essudato e trasudato 2. Funzioni, composizione ed utilità diagnostica del liquido amniotico 3. Quali sono le più importanti patologie diagnosticabili con l’amniocentesi?

4. 5. 6. 7.

Quali sono le principali indicazioni per effettuare la rachicentesi? Quale è il ruolo assistenziale dell’ostetrica durante tale atto? Il liquor viene prelevato o raccolto? Da chi viene prelevato un campione biologico che richiede un atto invasivo? LEZIONE 21 1. Quali sono le principali applicazioni delle vie metaboliche dei glucidi dal punto di vista fisiologico e patologico? 2. Quali sono gli esami di laboratorio più utili e perché? 3. E’ importante diagnosticare un diabete gestazionale? e perché? LEZIONE 22 1. Quali sono le principali applicazioni delle vie metaboliche dei lipidi dal punto di vista fisiologico e patologico? 2. Quali sono gli esami di laboratorio più utili e perché? 3. Quali possono essere i tipi di dislipidemie e a quali fattori di rischio possono essere legate? 4. Definizione di sindrome metabolica ed inquadramento dei fattori di rischio ad essa associati. LEZIONE 23 1. Come e dove vengono assorbite le proteine. 2. Quale è il destino degli amminoacidi? 3. Utilità e ruolo del ciclo dell’urea. 4. Esistono malattie ereditarie da metabolismo degli amminoacidi? LEZIONE 24 1. Quale è il significato di profilo elettroforetico? 2. Quale è l’utilità diagnostica dell’elettroforesi delle proteine? 3. Carenze o aumenti delle singole frazioni proteiche hanno un significato clinico? 4. In quale campione di sangue viene eseguita l’elettroforesi delle proteine e perché? LEZIONE 25 1. Quali sono gli ormoni che regolano lo sviluppo sessuale maschile e femminile? 2. Dove avviene la loro regolazione? 3. Con quale test viene eseguita la diagnosi biochimica di gravidanza: test qualitativo o quantitativo? 4. Quali sono gli ormoni che regolano gravidanza ed allattamento? LEZIONE 26 1. Quali sono le modificazioni fisiologiche dei parametri biochimici in corso di gravidanza? 2. Possono verificarsi modificazioni patologiche? Ad esempio, quali? LEZIONE 27 1. Quando è necessario richiedere esami di funzionalità epatica? 2. Che cosa indica la presenza di itterizia in un soggetto? E’ utile al clinico il supporto del laboratorio? 3. In presenza di itterizia è necessario eseguire una diagnosi differenziale . Quali possono essere le cause? 4. Quali quelli più indicativi di abuso alcolico? 5. Come interpretarne i risultati? LEZIONE 28 1. Quando è necessario richiedere esami di funzionalità renale a scopo diagnostico? 2. Che cosa s’intende per clearance? 3. Quale è l’importanza della clearance della creatinina? Quale/i campione/i biologico/i è/sono richiesto/i per la sua valutazione? 4. Quale è il tipo di campione di urine richiesto? 5. Che cosa s’intende per calcolosi renale? LEZIONE 29 1. Quale è l’importanza biologica della vitamina B12? E quella dell’olotranscobalamina? 2. Che cosa è l’acido folico? Perché si differenzia dal folato? 3. Una donna che, dopo assunzione di pillola anticoncezionale, desidera una gravidanza deve controllare i livelli circolanti di folato e vitamina B12? Oppure basta che assuma acido folico? 4. Quali possono essere le implicazioni cliniche dovute a carenza di folato e vitamina B12? 5. Quali sono i campioni idonei per il dosaggio dell’omocisteina e dell’olotranscobalamina? 6. Quale è il campione richiesto per il dosaggio del folato intraeritrocitario? Il risultato di tale dosaggio ha un significato clinico importante? Quale? Viene dosato routinariamente da tutti i laboratori

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BIBLIOGRAFIA LEZIONE 1

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LEZIONE 12 LEZIONE 4

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INDICE

CAPITOLO 1

FISICA PER L’OSTETRICIA SEZIONE 1

TEORIA DEGLI ERRORI Lezione 1 – Misurare: perché e che cosa

SEZIONE 2

LA FISICA DEL CORPO UMANO Lezione 2 – Solidi e corpi rigidi Lezione 3 – La meccanica dei fluidi Lezione 4 – Le leggi dei gas

SEZIONE 3

LE RADIAZIONI IN MEDICINA Lezione 5 – La struttura della materia Lezione 6 – Radiazioni e medicina

Riepilogo

Riepilogo

Riepilogo

CAPITOLO 2

CHIMICA PER L’OSTETRICIA SEZIONE 4

LE BASI DELLA CHIMICA PER OSTETRICIA Lezione 7 – Il legame chimico Lezione 8 – Proprietà delle soluzioni Lezione 9 – Le reazioni chimiche Lezione 10 – Equilibrio acido-base

SEZIONE 5

CHIMICA ORGANICA Lezione 11 – La chimica dei composti organici: gli idrocarburi Lezione 12 – La chimica dei composti organici: alcoli, amine, componenti carbonilici carbossilici Lezione 13 – Glucidi e loro metabolismo Lezione 14 - Lipidi e loro metabolismo Lezione 15 – Aminoacidi e proteine Lezione 16 - Nucleotidi ed acidi nucleici

Riepilogo

CAPITOLO 3

Riepilogo BIOCHIMICA CLINICA PER L’OSTETRICIA SEZIONE 6

CONCETTI DI VARIABILITA’ BIOLOGICA ED ANALITICA Lezione 17 – Ruolo dell’ostetrica e campione biologico: importanza della variabilità preanalitica Lezione 18 – Il laboratorio nella diagnostica clinica Lezione 19 – Campioni biologici più utilizzati Lezione 20 – Campioni biologici ottenuti con tecniche di tipo invasivo

Riepilogo SEZIONE 7

IL LABORATORIO DI BIOCHIMICA CLINICA IN OSTETRICIA Lezione 21 - Metabolismo del glucosio: glicemia e diabete Lezione 22 - Metabolismo dei lipidi. Obesità e Sindrome metabolica Lezione 23 – I destini metabolici delle proteine Lezione 24 –Elettroforesi delle proteine Lezione 25 – Ormoni nella riproduzione Lezione 26 – Modificazioni fisiologiche in corso di gravidanza Lezione 27 – Esami di funzionalità epatica Lezione 28 – Esami di funzionalità renale Lezione 29 - Il dosaggio di vitamina B12, folato ed omocisteina e loro implicazioni cliniche

Riepilogo

1 1 1 3 3 3 5 6 9 10 10 11 14 15 15 15 19 20 24 28 29 29 32 36 42 45 49 51 52 52 52 54 57 61 67 68 68 71 75 78 80 83 85 89 93 97

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I QUESITI CONCETTUALI BIBLIOGRAFIA APPENDICE ICONOGRAFICA

98 100 LEZIONE 1 LEZIONE 2 LEZIONE 3 LEZIONE 4 LEZIONE 5 LEZIONE 6 LEZIONE 7 LEZIONE 9 LEZIONE 11 LEZIONE 13 LEZIONE 14 LEZIONE 15 LEZIONE 16 LEZIONE 18 LEZIONE 19 LEZIONE 21 LEZIONE 22 LEZIONE 23 LEZIONE 24 LEZIONE 25 LEZIONE 28 LEZIONE 29

INDICE

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