Sguardi I

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VIA DELLA VOLTA Viaggio nel campo di Via della Volta Foto e testo di Francesco Vicenzi


Campo Rom di Via della Volta

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Le immagini che seguono sono state realizzate nel campo nomadi di Via della Volta a Bologna a fine novem bre 2007, sgomberato dalla polizia pochi giorni dopo

Ăˆ una mattinata fredda, la prima della stagione. Perlustro un paio di volte la zona, periferia di Bologna, strade riempite di polvere dai camion diretti ai cantieri della Tav. Poi noto una strada che taglia per i campi, al lato un canale di scolo ostruito. Entro, la mia Vespa squarcia un silenzio surreale. Non mi piace. Non è la prima volta che mi avventuro da solo in mezzo ad accampamenti di nomadi, ma questo ĂŠ diverso: immerso nel nulla, ovattato. Sembra deserto sino a che una bambina non sbuca dal nulla, la faccia sporca, il naso le cola, tende la mano, mi parla con parole lontane, il tono è supplichevole. Mi allontano e parcheggio poco lontano, ritorno a piedi.


Sulla strada sterrata che porta al campo un furgone mi supera piano, uno di quei furgoni bianchi. Ho la macchina fotografica al collo, le mie intenzioni sono chiare. Il furgone frena, l’uomo alla guida si presenta come Sepherovic Brakko, sulla quarantina o poco più, capelli scuri, sguardo bonario. Mani grandi e callose. Mi rassicura. Sorride, credo di averlo già incontrato. “Sei un giornalista?” Nonostante la risposta negativa lui incalza. “Scrivi, scrivi”.

Snocciola nomi, date, sviscera le dinamiche del campo in modo confuso. Io prendo appunti ancora più confusi sul mio taccuino. Quel campo era stato assegnato dal comune alla sua famiglia originaria di Mostar, in Bosnia. Curioso, io c’ero stato a Mostar, dieci anni dopo la guerra. Lui la guerra non l’aveva vista, era in Italia dal ’68. Prima stava a Napoli. Ora vive da due anni nel campo con la sua famiglia: lui, la moglie e otto figli. Brakko deve avere frainteso la mia posizione, non è

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Nella pagina precedente Sepherovic Brakko posa all’interno della sua casa; sotto una bambina in una roulotte mostra un’immagine di Madre Teresa di Calcutta. In questa pagina: un bambino gioca nel canale in mezzo a rifiuti di ogni sorta, richiamato forse dalla madre.


ancora sceso dal furgone e mi ha già raccontato di suo fratello, di chi è abusivo nel campo e di chi non lo è. Tutte cose che io appunto disordinatamente. Mi offre una sigaretta, una nota marca americana, rosse. Poi mi dice “scrivi questo: Dichiaro che sono Sepherovic Brakko e richiedo al Comune…” Avanza le sue proposte, i piccoli problemi li possiamo gestire noi, dice. Vuole igiene, istruzione per i bambini e servizi. Il comune aveva fatto mettere dei cassonetti della spazzatura, ma sono stati bruciati. Più volte. Eppure, mi dice Brakko, non siamo tutti colpevoli per quegli incendi. Da esterno percepisco diverse realtà che si intrecciano nel campo di Via della Volta. Sono libero di farmi un giretto e subito catalizzo l’attenzione di tutti. Tutti vogliono farsi ritrarre, fotografare, i bambini mi saltano intorno. Non riesco a fare nulla se non scattare, uno dopo l’altro quei volti sorridenti in mezzo a tanta sporcizia. È Brakko a “salvarmi” mezz’ora dopo: “Vieni, ti faccio vedere casa mia”. Vive in un prefabbricato situato sul retro del campo, il terreno intorno è pulito e davanti a casa c’è un piccolo cortile delimitato da una recinzione colorata di panni stesi. Dentro, la casa è estremamente colorata e floreale. Brakko mi racconta che il lavoro gli va abbastanza bene: raccoglie e ricicla ferro con il suo furgone, è in regola lui. Mi mostra le fatture per togliere qualsiasi dubbio, mi prega di fare attenzione a date e importi. Sono una persona per bene e i miei figli vanno a scuola.

In queste pagine alcune immagini dal campo nomadi dove vive una folta comunità in condizione di vita precaria

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Poi arriva Mohammed, un altro capo famiglia e inizio a girare con lui, dopo aver salutato Brakko. Vive a Bologna dal 1992. Ha appreso che un giornalista (impossibile convincerlo del contrario) è arrivato nel campo e mi vuole dare la sua versione dei fatti. È sicuro e deciso. “Questo era un bel posto, le famiglie autorizzate a viverci erano tre. Poi sono arrivati gli abusivi, che non hanno rispetto per il campo: hanno bruciato i cassonetti e non si preoc-

cupavano di tenerlo pulito. Noi ora vogliamo un altro posto in cui stare: un campo più piccolo, uno per ogni famiglia. Non più tutti insieme. Chi fa casino e sporca si pulisce da solo. ” Lui ha la sua casa ed il suo lavoro con cui mantiene la famiglia, mi dice. E per colpa di qualcuno è costretto a perdere tutto. Anche lui lavora con il ferrovecchio e manda i bambini a scuola, tiene a precisare.

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In alto: Halilovic Mohammed mostra il canale ostruito da rifiuti di ogni sorta. Nella pagina precedente il camion che usa per lavorare ed in basso un particolare del canale


Rettangolo

Ciao, io sono puntino...

...io un rettangolo nero

Ci siamo conosciuti in un giorno di pioggia...

...e mai pi첫 ci siamo separati

Rettangolo

Puntino

&


IL “PILASTRO” DELLA CITTA’ Foto e testo di Caterina Curzola

IL “PILASTRO” DELLA CITTA’ Chiunque abiti a Bologna conosce il Pilastro. Il nome della zona deriva dalla presenza di un piccolo pilastro - segno del passaggio di un'antica strada romana - su cui era collocata una madonnina, che venne poi abbattuto a seguito di alcuni lavori stradali. È un’area compresa nel quar tiere di San Donato, che tutti considerano una sor ta di contenitore urbano di extracomunitari dalla cattiva fama e d o v e è ev i d e n t e q u e l l a c h e p o s s i a m o d e f i n i r e “architettura tipo carcere”, nata dall’esigenza di costruire enormi palazzi popolari dalla struttura minimale e geometrica, capaci di contenere un

Le corone d’alloro che si trovano nel parco in cui sorge la biblioteca della zona, celebrano l’anniversario dell’attentato della Uno Bianca consumatosi al Pilastro il 4 Gennaio del 1991

e l ev a t o n u m e ro d i a l l o g g i a b a s s o c o s t o . Questa cattiva reputazione del Pilastro, sicuramente, si alimenta anche di un fatto di sangue, più precisamente dell’attentato della Uno Bianca, consumatosi qui il 4 Gennaio del 1991 e nel quale morirono tre carabinieri. Poco tempo fa è stato celebrato l’anniversario. Sono testimonianza di quel fatto di cronaca le corone d’alloro che si trovano nel parco in cui sorge la biblioteca della zona. Per tutti questi motivi è nato il mio desiderio di documentare quella che è la vita, multietnica e quotidiana, di coloro che vivono in questa parte della città. Purtroppo mi sono dovuta misurare ben presto con una realtà assai particolare: questa zona, infatti, è dura da penetrare, in quanto gli abitanti vedono, chiunque sia estraneo al Pilastro, come un infiltrato pericoloso, in grado di mettere a repentaglio le condizioni di clandestinità di molti degli inquilini delle case popolari. Il risultato della mia documentazione si è trasformato così, in qualcosa di diverso rispetto al progetto iniziale: pur cercando di cogliere presenze umane, le mie immagini hanno registrato soltanto una grigia realtà urbana in cui, di persone, sembrava non esserci neppure l’ombra! Quelli che dovevano essere i miei soggetti, sfuggivano


Virgolone", un edificio curvilineo di sette piani che si snoda circa per 700 metri su Via Salgari, costituito da 552 appartamenti Il "V

infatti all’obiettivo, nascondendosi dietro alle siepi o scappando verso il primo rifugio sicuro.... una sconfitta, alla quale si è poi accompagnata la sensazione piuttosto evidente che la mia presenza non fosse gradita. In diverse occasioni sono stata anche seguita da figure poco rassicuranti. Questo tipo di comportamento mi ha però permesso di cogliere il Pilastro in uno stato di silenzio e di assoluta solitudine, in cui queste enormi strutture mi hanno fatto sentire una minuscola formica in cerca di qualcosa che attirasse la mia attenzione. Se le persone mi hanno voluto evitare, il luogo invece, mi ha accolta nel suo freddo e grigio grembo, quasi cercando di attirare la mia attenzione su di sé, spingendomi a cercare in questi spazi, qualcosa di nuovo, talvolta anche a suo modo attraente. Per questo, in tre giornate diverse ho realizzato un numero notevole di immagini! Così ha preso l’avvio il mio lavoro di documentazione in questa zona di Bologna, la cui storia comincia già nel 1962, quando lo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari) propose la costruzione di una nuova zona di edilizia popolare per offrire un alloggio agli immigrati arrivati in città a seguito della crescente industrializzazione. Il Pilastro venne inaugurato il 9 luglio del 1966 ed era

costituito da 411 alloggi, una prima parte rispetto all'intero progetto che ne prevedeva il quintuplo. L’intenzione dei progettisti era quella di ricreare una sorta di "borgo medioevale" in cui si dava molto rilievo alla presenza di ampi spazi verdi. È importante dire che i primi 2500 abitanti furono soprattutto operai del sud già residenti a Bologna, nelle zone del Pratello e in via della Barca, che, proprio qui, trovarono un ambiente poco confortevole: mancava, infatti, tutto quello che poteva

Lo IACP e le cooperative pensarono al Virgolone come a un modo per favorire l’integrazione sociale,stimolando l'arrivo di persone con redditi più alti


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essere indispensabile per la vita di tutti i giorni, come acqua, riscaldamento, strade asfaltate, mezzi pubblici di trasporto, strutture sanitarie e scolastiche. Non mancarono inoltre difficoltà di integrazione fra gli abitanti: tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70 giunsero al Pilastro non solo immigrati dal mezzogiorno, ma anche veneti, ferraresi, profughi dalla Libia, che si trovarono forzatamente ad essere vicini di casa, e che, di certo, non avevano le stesse abitudini di vita. Al di là della loro provenienza, quelle che vivevano al Pilastro, erano famiglie in prevalenza operaie e molto numerose, rispetto alla media delle altre zone della città: d'altra parte queste erano le condizioni richieste per poter vivere in un appartamento dello IACP. Il primo nucleo del Pilastro sembrava un vero e proprio ghetto, per cui l'amministrazione comunale decise di migliorare la situazione che si era creata, costruendo il "Virgolone", un edificio curvilineo di sette piani che si snoda per circa 700 metri su Via Salgari, costituito da 552 appartamenti in parte di proprietà dello IACP e in parte delle cooperative. L'idea del Virgolone fu quella di favorire l’integrazione sociale, stimolando l'arrivo di persone con redditi più alti e assegnando parte degli appartamenti a riscatto, così da rendere possibile (almeno nelle intenzioni) quell’integrazione sociale che all'inizio era mancata. Nonostante questo, il Pilastro, mostra ancora come ci sia stato un interesse per i servizi sportivi, e per le zone verdi, e dove, inaspettatamente, si possono incontrare anche delle sculture di Nicola Zamboni, che purtroppo però devono sempre fare i conti con strutture architettoniche dalla dimensioni mostruose e dall’aspetto decisamente minaccioso.

Le uniche cose che rivelano la vita degli abitanti del Pilastro, sono le finestre e i balconi, a cui vengono appesi indumenti e addobbi natalizi


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Al Pilastro è possibile vedere quella che si può chiamare “architettura tipo carcere”, caratterizzata da una struttura geometrica e minimale


Il Pilastro mostra un grande interesse per i servizi sportivi e per gli spazi verdi

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Non solo il Virgolone si snoda lungo una curva, anche altri palazzi hanno una forma analoga e, in questo modo, grazie al loro corpo, creano spazi, all’interno dei quali gli abitanti lasciano segno della loro presenza, ad esempio stendendo i panni puliti


LABORATORIO MOBILE ARTE PUBBLICA Foto e testo di Sara Agutoli

LABORATORIO MOBILE ARTE PUBBLICA Il progetto “container” patrocinato dalla galleria Neon è un progetto di arte pubblica in itinere. Quattro tappe e undici artisti per il quartiere San Donato e la ri-qualificazione dello spazio urbano. Il primo posizionamento del “container” osservatorio – laboratorio è avvenuto il 19 dicembre, davanti all’ex sede del quartiere San Donato. Si è poi spostato in Piazza della Costituzione, in concomitanza con Arte Fiera, e ora aspetta, con l’arrivo della primavera, di far visita al Pilastro e prendere posizione nell’area antistante la biblioteca Luigi Spina nei mesi di marzo-aprile. Il suo viaggio finirà in via del Lavoro, di fronte al Centro Interculturale Zonarelli. Il progetto e curato da Mili Romano e Gino Gianuzzi e coinvolge giovani artisti operanti nel territorio bolognese, con diversi progetti: l’intervento di Alessandra Andrini si muove sul problematico senso di identità e di appartenenza che legano il Pilastro ed i suoi abitanti. Il progetto lavora sull’ossatura di un meccanismo pubblicitario "di strada" legato alla moda, relativamente recente ma già fortemente consolidato, in cui si possa riconoscere trasversalmente la cultura giovanile e che in qualche modo sia in grado di ribaltare, attraverso una

forma autoironica, qualsiasi valenza preconcetta. MP5 invaderà lo spazio esterno del Container e le zone limitrofe con i suoi Man At Work e, con il Progetto Polaroid, percorrerà il territorio e avvicinerà direttamente gli abitanti, realizzando il loro ritratto. Nel naturale e progressivo avvicinamento fra l’artista e gli abitanti e nello scambio di disegni, fotografie e storie, si ricostruirà una mappatura emotiva dell’intero quartiere. Il progetto di Cinzia Delnevo nasce dall’idea che la persona nata dall’unione di due genitori di diversa nazionalità sia il frutto dell’unione di due “Bellezze”. Wandering Beauties si propone di conoscere e di incontrare persone corrispondenti a questi requisiti e di documentare fotograficamente questi incontri. Successivamente il materiale fotografico ottenuto verrà messo a disposizione delle persone che hanno collaborato alla realizzazione del progetto e verrà esposto in un luogo pubblico. Emilio Fantin ha ideato la realizzazione di una sorta di contest aperto a tutti gli abitanti del Quartiere: Performance Day sarà la fase finale di un lavoro di relazione condotto dall’artista e dai suoi collaboratori. I partecipanti sono invitati a prodursi nell’azione più “acrobatica” di cui siano capaci, ma qui per “acrobatico” si intende qualunque gesto, qualunque abilità. I performers si sfideranno uno contro l’altro, a eliminazione, fino a designare i due sfidanti finali.


Il progetto di Anna Ferraro Segnali di vita consiste nella produzione di una segnaletica stradale parallela a quella istituzionale, realizzata in stretta collaborazione con gli abitanti del quartiere San Donato. La nuova segnaletica potrà essere verticale o orizzontale e racconterà le abitudini, le esigenze, le dinamiche relazionali e, in generale, il rapporto che gli abitanti di San Donato hanno con il loro spazio abitativo. Come spesso accade in ogni città e in ogni quartiere, gli abitanti suppliscono alle carenze di infrastrutture o partecipano all’abbellimento dell’ambiente in cui vivono in modo intelligente ed efficace: allestendo punti di incontro con sedie e tavolini, creando angoli verdi, coltivando orti, prendendosi cura degli animali. Questi piccoli gesti di “appaesamento” vengono ad avere una funzionalità particolare, frutto di creatività spontanea, assolutamente non prevedibile. Sabrina Muzi progetta la realizzazione di un'installazione disseminata in alcune aeree verdi del quartiere San Donato prossime agli edifici: ambiente naturale e "vissuto" umano dialogano per creare un percorso estetico/ideale in cui alberi, tessuti ed abiti si intrecciano, dando forma a zone festose, piccole oasi in cui sostare. Il Parallel project di Maria Vittoria Perrelli vuole rendere visibile - in collaborazione con il collettivo New Global Vision che si occupa di produzioni indipendenti - un archivio di materiali non ufficiali e underground che comprendono video e immagini che passano dall’attivismo politico all’arte, dalla musica fino ai più sperimentali cortometraggi e le telestreet tv organizzando il materiale, liberamente scaricabile, per sezioni tematiche. Il container sarà un punto di raccolta di materiale autoprodotto sia nel quartiere che nella città. Mili Romano, utilizzando la videocamera come “pungolo relazionale” diretto ad una azione protratta nel tempo, sta realizzando Per San Donato. Appunti visivi, frutto delle ricognizioni video e fotografiche (insieme alla fotografa Paola Binante e agli altri artisti) sul territorio di San Donato, realizzate dal gennaio 2007 e degli incontri e interviste realizzate insieme a

Alessia Benevelli per il laboratorio Sguardi sull’architettura. Ispirata dall’incontro quotidiano, in particolare con la componente femminile, Monika Stemmer parte dall’osservazione e dalla frequentazione diretta del quartiere e, rilevando una forte presenza di persone anziane che influenzano le tipologie di negozi, le infrastrutture sociali e lo spazio pubblico, sceglie di rappresentarle con dei monotipi. I disegni colorati, le sagome di carta comporranno gruppi di figure a grandezza quasi reale collocati nelle strade, sulle palizzate dei cantieri, sui muri, nei luoghi di incontro. Adriana Torregrossa fa del container una sorta di video-box, o confessionale, dove ciascun cittadino potrà esprimersi liberamente. L’azione, aperta a tutti, seguirà un calendario che illustrerà luogo e modalità di partecipazione al set. In una seconda fase il materiale raccolto sarà utilizzato per la realizzazione di un video da proiettare pubblicamente, e di un booklet che riporterà le richieste, i desideri, i pensieri dei partecipanti. L’installazione luminosa progettata da Zimmerfrei è una “luminaria” realizzata con venti-trenta lampadari domestici, dono o gentile prestito di residenti o negozianti. La strada viene adottata come interno domestico e arredata con la cura che si riserva agli spazi più accoglienti della casa. L’intervento, inaugurato l’11 dicembre, è realizzato “disegnando” una linea di luce in stretta sinergia con il centro storico bolognese e con la piazza del Municipio e le nuove palazzine Acer a Pianoro. Ma come definire l’arte pubblica? Come si svolge? Come viene pensata da un artista? “L’Arte ha sempre a che fare con le emozioni e con lo scambio di emozioni. L’arte in un luogo pubblico deve offrire al pubblico la possibilità di un’esperienza di contatto fisico e corporeo (…). Fare arte in spazi pubblici significa, anche per l’artista stabilire un rapporto con i posti scelti, coinvolgere la gente locale o almeno una parte di essa, creare uno spirito di comunità focalizzato all’apprezzamento e il sostegno del progetto” (A. Garutti)

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Maria Pia Cinque a.k.a M P 5 Diplomata in Scenografia all'Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha studiato animazione, technical arts and special effects alla Wimbledon School of Art di Londra. Divide la sua attività tra il fumetto, l'illustrazione, la scenografia e il video. Ha pubblicato diverse storie a fumetti per il Centro Andrea Pazienza, su riviste underground austriache e canadesi, lavorato come illustratrice per diverse riviste italiane e quotidiani come Liberazione e disegnato numerose locandine per concerti e spettacoli di teatro.

Ha ricevuto diversi premi nel campo del fumetto (premio Andrea Pazienza 2001, premio Bilbolbul 2002, premio Iceberg per il fumetto 2002), dell'arte (premio Guercino 2002, premio Artists in context 2003) e del cinema d’animazione (premio Iceberg per il cinema 2004, menzione speciale Festival Visioni Emiliano-Romagnole). Diversi suoi progetti tra cui In Medicine we trust sono stati supportati dal progetto Capitale futuro della Comunità Europea. Da due anni lavora frequentemente con il gruppo To/let con il quale realizza installazioni site-specific e Design & Wearing elements.

In teatro come visual stage designer ha lavorato alla messa in scena di Psicosi 4:48 / cantico di Sarah Kane per la regia di Davide Iodice e alla produzione di Malcolm, progetto del gruppo Motus. Nel 2003 ha lavorato in Francia al progetto europeo Artists in context delle Pépinières européennes pour jeunes artistes di Parigi realizzando l'installazione Zoot 2 (Places des cotterets, Fougères) Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in Italia e all’estero tra cui la Biennale dei giovani artisti dell’ Europa e del Mediterraneo (Napoli 2005)

www.mpcinque.com www.mpcinque.splinder.com www.flick.com/photos/mp5


TO / LET Sonia Piedad Marinangeli Nata a Floridablanca in Colombia nel 1978, vive e lavora tra Bologna e Rimini. Elisa Placucci nata a Cesena nel 1979, vive e lavora tra Bologna e Rimini. Nel 2005 uniscono le rispettive esperienze nel campo della fotografia, della grafica e della scenografia, nel progetto TO / LET. Attraverso l’utilizzo di diversi media e materiali, dall’installazione alla grafica, disegni, interventi pubblici, e gadgets, TO / LET opera verso la reinterpretazione degli spazi intimi e degli ambienti sociali. Sia pubblici che domestici i luoghi vengono ricostruiti, rimontati, utilizzando diverse tecniche, fuori dal loro contesto, andando a rappresentare oggetti e atteggiamenti che rendono sociale tutto ciò che è intimo e privato. Le loro installazioni cambiano sempre a seconda del luogo in cui intervengono, il loro lavoro può essere inteso come un ridisegnare lo spazio e gli oggetti di uso comune, che cambiano di senso attraverso il loro segno. Hanno partecipato a mostre collettive fra le quali : "Ouverture under 30 fie arts" Premio Campigna 48° edizione, a cura di A.Baccilieri , segnalate nel 2006 al "Premio DAMS”, “Biennale dei giovani artisti", a cura di Renato Barilli , ed alla collettiva "La Giovine Italia", curata da Renato Barilli .

Da circa due anni TO / LET collabora con l’artista Mp5, a progetti comuni che coniugano l’installazione site-specific, la public art, la street art e il fumetto. La tecnica utilizzata varia dalle stampe di grandi dimensioni all’applicazione di vernici, nastro adesivo, stickers e bombolette. Al loro attivo hanno già diversi lavori effettuati nelle strade di Roma, Bologna e Torino, gallerie in Italia e all’estero e commissioni da parte di enti pubblici per il ridisegno di arredi urbani, come per l’evento L’ECOLE DEL RUSCO, piazza Verdi, Bologna, o l’esterno di CONTAINER OSSERVATORIO LABORATORIO MOBILE DI ARTE PUBBLICA, progetto a cura della galleria Neon, Bologna.

www.marinangeliplacucci.com www.flickr.com/to_let to_let_to@yahoo.it


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Progetto Polaroid, e la collaborazione Man At Work con il gruppo TO/LET . S.A.: MP5 puoi spiegarci meglio il tuo progetto? MP5: il Progetto Polaroid che sto conducendo nel quartiere, è utile in prima persona a me stessa: il disegnatore che osserva il territorio con il blocco degli schizzi e osservando ne ricostruisce la realtà. Il “fare ritratti” porta a fare “derive” e disegna una mappatura del quartiere legata ai mestieri, al lavoro, alle attività “vive” di quel tessuto. Entrare nel quartiere per me ha significato questo: entrare nei mestieri. Penso sia molto difficile fare qualcosa di permanente in un luogo abitato da altri: in un certo senso chi abita un luogo lo possiede. E quindi un’operazione di Public Art è un progetto insidioso. Perché si insinua nelle proprietà altrui, nella vita degli abitanti di un luogo. E allora preferisco progetti di Public Art che possono non essere permanenti, ma comunque permanere nella memoria degli abitanti come esperienza. Senza provocare una invasione del territorio.

È indispensabile essere il meno invasivi possibile. Piccoli oggetti poco visibili sono qualcosa che appare solo se vuoi che appaia. Ti permettono di scegliere. E nel caso si voglia creare qualcosa di permanente da donare alla comunità, bisogna immaginare elementi dotati di una “ecologia dello sguardo” che non inquinino la visuale, l’immagine di un luogo. È necessario in generale che i progetti possano essere accettati o rifiutati da una comunità. È necessario che siano leggeri, che possano essere rimossi con semplicità, strappandoli con una “mano di bianco”. Non sono statue alla memoria dell’artista, ma oggetti legati ad una permanenza temporanea, reversibile. Solo così si crea un rapporto di fiducia e l’opera può trasformarsi in un dono. Per questo è possibile usare immagini di uomini che lavorano, incessantemente, per cambiare continuamente la visione di un luogo. Questo è il senso dei Men At Work, l’altro progetto che sto conducendo per le strade del quartiere San Donato assieme al gruppo TO/LET (Elisa Placucci e Sonia Marinangeli). L'idea dei Men at work mi è venuta inizialmente - intendo per il container poichè già da qualche mese con le TO/LET ci lavoravamo per altre installazioni - perchè si voleva "abbellire” il container, perchè mi sembravano adatti a questo tipo di progetto, ma poi la cosa ci


ha preso la mano e ci è piaciuto "contaminare" il quartiere con la loro presenza. Insomma, quando vedi i Men at work in giro significa che li c'è o c'è stata la presenza del container. In questo modo, tra l’altro, abbiamo giocato molto con il tessuto urbano, creando nel quartiere innumerevoli storie vissute dai "M.a.w." che non altro che un nostro "prolungamento". S.A.: come convivono i 2 progetti Man At Work” e Polaroid? MP5: sono due progetti paralleli, ma che in qualche maniera partono dallo stesso presupposto. L'idea di partenza è di mettere in gioco me stessa In particolar modo nel progetto Polaroid che si basa su una conoscenza diretta delle persone e implica un’interazione vera tra me e coloro che incontro nelle mie "derive" (concetti fondamentali del programma dell’Internazionale Situazionista: al momento della sua fondazione parliamo di Urbanismo Unitario, psicogeografia - ovvero l’esplorazione pratica del territorio attraverso le derive - e l’idea del potenziale rivoluzionario del tempo libero) nel quartiere San Donato. Derive qui, nel senso di "camminate"; un pò possono rimandare alle derive situazioniste anche se poi la cosa si evolve in maniera differente. Le mie derive possono essere intese come una scoperta del luogo attraverso delle lunghe “camminate” dove cose o persone mi colpiscono per una qualche ragione; questa è la differenza tra il

se con le persone. È abbastanza assurdo partire con un'idea precisa di quello che farai in un posto che non conosci: non puoi sapere le reazioni delle persone, quello che ti comunica il territorio, insomma puoi avere un'idea vaga di come tu possa agire, ma poi in realtà tutto cambia. Hai una risposta ogni volta differente e non puoi sapere come andrà a finire il tuo progetto. Insomma la public art è un'operazione artistica rischiosa - come tutte le operazioni artistiche - ma c'è una componente di rischio in più poichè il progetto è fatto per metà dalle persone. Insomma non hai il totale controllo. In effetti alla prima riunione presso la Neon mi è stato chiesto più volte cosa avrei fatto e quale sarebbe stato il mio progetto per il container, ma non ho mai saputo dare una risposta precisa. Avevo bisogno di viverlo, il territorio. S.A.: il soggiorno in Francia ti ha segnata, puoi parlarci in breve del progetto svolto a Fougères? MP5: il ritratto è un mezzo popolare che crea facilmente un contatto con le persone: disegnare le linee del volto di una persona mai vista prima, crea immediatamente un rapporto di familiarità. Ciascuna delle facce che incontravo ogni giorno mi avrebbe potuto offrire un frammento di racconto della città. Ho pensato che i ritratti sarebbero dovuti risultare istantanei e fugaci proprio come gli incontri e ho immaginato delle polaroid disegnate con su dei volti

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progetto Polaroid e il progetto Man At Work. Il progetto Polaroid si focalizza sulle persone mentre il progetto Men At Work sugli "arredi" del tessuto urbano. Questi due progetti confluiscono e mi danno modo di avere una visione d'insieme del territorio, dei suoi abitanti e della sua "struttura" architettonica. Quello che mi interessa è disegnare un percorso vero e proprio in un periodo limitato, vedere cosa mi da e cosa do io a un nuovo "territorio". Per spiegarmi meglio, nel primo step del progetto, nel quartiere San Donato mi sono data un tempo - una settimana circa - e ho dedicato tutte le giornate alle mie camminate nel quartiere. Non mi sono prefissata nulla. Avevo già avuto esperienza in Francia con il progetto Artists in context delle pepinieres europeennes pour jeunes artistes, un residence della durata di 6 mesi in cui ci era stato chiesto un progetto di public art che interagis-

della gente. Ho cominciato così a conoscere i cittadini di Fougères: poco inclini a farsi fotografare, un pò sospettosi verso un elemento estraneo alla loro piccola comunità; erano invece molto interessati a vedermi disegnare e curiosi di vedere se stessi attraverso il mio sguardo. Andavo in giro per la città, con un pennarello nero indelebile e talloncini di poliplat della grandezza di una vera polaroid, fermavo le persone per strada e chiedevo se avessero voluto un’istantanea. In pochi minuti l’occhio catturava i dettagli: del volto, della pettinatura, dell’abbigliamento e dello spazio ritagliato intorno. In questo modo sono riuscita a incontrare più di cento persone, imparando a conoscere attraverso i loro racconti l’umanità di questa cittadina. Avendo raccolto una grande quantità di materiale, mi sono resa conto di avere in mano il mio primo progetto di public art completamente incentrato sul mio fare con e per le persone: nella galleria di Arcade al termine della mia residenza è stata organizzata



una mostra di tutte le polaroid, che ha visto la partecipazione di tantissimi cittadini. Molti di coloro che avevo ritratto sono venuti a vedersi esposti portando con sé amici e parenti; quasi nessuno era entrato, prima di quel mometo, in una galleria d’arte. S.A.: i "man at work" sembrano appartenere piu alla street art che all’arte pubblica. Se si parla del rischio però, lì siete autorizzate a attaccare gli stickers. È questa la differenza fra le due tipologie d’arte? MP5: diciamo che non ho mai amato molto la definizione "street art", non la capisco del tutto, è molto vaga. Sì, in generale si usa per un'arte fatta in strada usando varie metodologie di lavoro, dall'"attacchinaggio" di poster, stickers, a graffiti dipinti sui muri. Capisco che la gente debba sempre dare una definizione alle cose. In generale penso che la street art, che quella che chiamano street art, sia un atto spontaneo dell'artista che - sì, come dici tu - non ha bisogno di autorizzazioni per farlo, semplicemente lo fa. Io penso che una differenza sostanziale tra la public art e la street art (ma anche l'arte in generale) si basa sull’aspetto economico. Di solito la public art viene pagata in anticipo, la street art non viene pagata da nessuno nè tanto meno autorizzata. L'arte in generale - il prodotto artistico per intenderci - aspetta di essere acquistata. L'unica differenza sostanziale è questa, economica. Per quanto mi riguarda, a meno che non mi chiedano di farlo per un posto specifico, se attacco in maniera "random" le mie cose non ho mai un autorizzazione (non ho quasi mai l'autorizzazione). In generale non ho mai avuto problemi perchè di solito attacco i miei disegni in luoghi dove non danno fastidio a nessuno, anzi. Palizzate, cantieri, vecchi edifici abbandonati, centri sociali. Non mi ha mai detto niente nessuno - una volta l'abbiamo fatto perfino davanti alla municipale - nel momento in cui sentirò di doverlo fare in un posto molto visibile e di una qualche importanza sarà comunque per una ragione. Non certo solo quella di far vedere il mio lavoro.

S.A.: il ritratto come fotoreportage: nel tuo lavoro di “polaroid” usi il tuo tempo per ascoltare e conoscere le persone che ritrai, entrare nel loro mondo, nella loro routine… MP5: certo, ma perchè non mi interessa la foto in se cioè non è quello il mio scopo. Purtroppo molti lavori di public art vengono fatti pensando alla documentazione, cioè vivono solo nella documentazione. In realtà possiamo vedere ad una mostra gli esiti di un lavoro di public art e pensare “wow! che belle foto! che bel lavoro!”, ma cosa ne sappiamo in effetti di quello che c'è dietro? In alcune occasioni ho visto cose fatte solo per le mostre, il che è abbastanza assurdo. Io non uso mai la fotografia come primo approccio. La foto è una conseguenza. Una cosa che tengo come ricordo più che altro. Se vai da una persona è chiedi di poterle fare una foto, è molto probabile che questa persona ti dica di no. Io poi sono una disegnatrice, di fondo, per me conoscere una persona significa osservarla, parlarle. Il ritratto che le faccio, è un sunto di questo, di come la vedo di come si muove, di quello che mi dice. Fare il ritratto ad una persona crea un'intimità. Non è invasivo come la fotografia. C'è anche un certo piacere da parte delle persone che vengono ritratte. Una curiosità che ho trovato solo nel disegno. La fotografia, viene dopo, quando riporto le polaroid, la fotografia è come se fosse l'esito di tutta una storia. Infatti, alcune persone non si fanno fotografare o si coprono il volto, in genere quelle con cui si è creato un rapporto di "amicizia" accettano sempre di farsi fotografare con la polaroid in mano. La foto è la fine di una storia, la testimonianza di quello che è avvenuto tra di noi. S.A.: i disegni vengono regalati alle persone ritratte dopo un lasso di tempo. Come mai questo dono? MP5 : si,come in una storia di amicizia, di amore, lascio che le persone abbiano il tempo di riflettere su quanto è avvenuto. Mi piace il ri-incontro: dopo un lasso di tempo vedo se quelle persone si ricordano di me, di come "mi ricordano", mi piace vedere come vengo accolta. Succede che alcune persone neanche si ricordano di me, altre mi fanno le feste. Insomma voglio questa "verità"; fare subito una foto significherebbe distruggere tutto questo. Il disegno sembrerebbe una scusa, una cosa fatta in funzione della foto e così non è assolutamente. S.A.: i “man at work” sono una collaborazioe con il gruppo TO/LET, come in molti altri tuoi lavori, da cosa nasce questo incontro? MP5 : il gruppo TO/LET sono Sonia Marinangeli e Elisa Placucci; ci conosciamo dai tempi dell'accademia. Per lungo tempo abbiamo seguito percorsi differenti. Ad un certo punto le nostre strade si sono incrociate. Molto è dovuto all'assidua frequentazione: ad un certo punto "ci si contamina". Inizialmente mi hanno aiutato nei graffiti, a finirli più in fretta, a colorarli, poi hanno iniziato ad essere parte attiva nelle installazioni, nei graffiti, nell"attacchinaggio" di poster. Hanno iniziato ad avere tantissime idee. Arrivati a questo punto non riesco più a distinguere cosa sia loro e cosa sia mio. Mi riferisco alle installazioni: abbiamo delle idee differenti, ma che si completano involontariamente, siamo diventate un “gruppo”.

SD 29


A volte lo portavo io...

...e altre volte ero io!

Ci piaceva giocare insieme...

...sopratutto a nascondino

Un giorno mi persi...

...era inverno, la neve copriva tutto

Cominciai a sentirmi male

Anche rettangolo si era perso

Ma presto arrivò la primavera...

...e con lei, il sole

... e con il sole, il mio caro amico

Ma era cosĂŹ stanco!

Rettangolo Rettangolo

&

c o n t i n u a ...

Puntino






FC 01



FC 01



LA ROMANINA...


Moulin Rouge, Firenze. Anni ‘70, immagine d’archivio

PERSONA SOCIALMENTE PERICOLOSA


PERSONA SOCIALMENTE PERICOLOSA

ravano un pericolo e la chiesa un diavolo tentatore. Come se quella identità evidentemente femminile che si faceva

Correva l’anno 1968, quando con questa motivazione,

via via sempre più forte, anche come forma di reazione ai

Romano Cecconi, fu costretto al confino giudiziario perché

continui soprusi che le venivano imposti, fosse in realtà

‘macchiato’ dal reato di travestitismo.

“il male” che, impossessatosi di lei, doveva essere inevi-

Il confino è un provvedimento emesso dalle autorità di polizia

tabilmente esorcizzato.

anche senza la necessità di un processo regolare e/o di una condanna per un reato effettivamente previsto dal codice penale. Consiste nell’obbligo di dimora in un comune della Repubblica Italiana, diverso dalla propria residenza, per un periodo di tempo che varia da 1 a 5 anni. Tale restrizione era piuttosto comune durante il fascismo è stata mantenuta in vita anche dopo la fine del regime. Romina Cecconi, in origine Romano Cecconi per ragioni bio-

Se il confino non è stato l’unico incredibile evento nella vita di Romina, (se ne sono susseguiti tanti e tali da

Gli anni in cui le forze dell ’ ordin e l a con s iderav an o un pericolo e la chiesa un diavolo tentatore

poterci descrivere la storia di un’epoca), è sicuramente, però, uno dei più paradossali. Il suo comportamento, moralmente deplorevole e alquanto oltraggioso, le costò un ‘esilio’ che la

logiche e per l’anagrafe, è una tra le prime donne in Italia

costrinse a trasferirsi per qualche tempo a Volturino, paesino

divenute tali grazie ad un intervento chirurgico. A me piace

del Foggiano. Viene da ridere pensando allo sconcerto provo-

descriverla come una donna bella e coraggiosa, una pioniera

cato da questo giovane uomo…no, donna… no, forse…ma chi

intelligente, dotata di una spiccata e pungente ironia che le

lo sa…nella tranquilla vita del piccolo borgo pugliese. Era il

ha permesso di sopravvivere e dominare una realtà che cer-

1968. E già la vediamo scendere dal treno, tra gli sguardi sbi-

tamente non remava a suo favore.

gottiti di uomini ipnotizzati e affascinati e donne scandaliz-

Stiamo parlando del periodo a cavallo tra gli anni ’60 e i

zate, accompagnata da una colonna sonora che sembra

’70. Gli anni appunto in cui le forze dell’ordine la conside-

essere stata scritta apposta per lei, la Bocca di Rosa di


Operazione di certo ardua quella di mettere in scena la vita di una persona che ha fatto della teatralità il proprio segno di riconoscimento. Un po’ per puro narcisismo, un po’come forma di sopravvivenza, Romina ha sempre giocato con la sua immagine e la sua femminilità ispirandosi per lo più ad un modello di femme fatale che le calzava a pennello. È lei stessa che ci rende emotivamente partecipi, tra le righe della sua testimonianza letteraria, di come fosse inebriante travestirsi ed imitare di volta in volta Brigitte Bardot, Marilyn Monroe, o Milva, personaggi che sognava di essere e che le facevano dimenticare di esibirsi nel palco di un piccolo circo itinerante fiorentino o in uno squallido locale parigino. Probabilmente, giocare il ruolo di una diva era anche un modo Fabrizio De Andrè. Il paradosso, forse, è stato il minimo comun denominatore della sua vita, continuamente in bilico

intelligente per pungere e affrontare ulteriormente gli sguardi ipocriti di quelli che inorridivano al pensiero che, sotto quegli

tra palcoscenico e marciapiede, continuamente osannata e

abiti pomposi ed eccentrici che mettevano in evidenza un

additata, amata come una diva ma al tempo stesso giudicata

corpo ora sensuale e prorompente, un tempo ci fosse stato

come una qualsiasi puttana.

un uomo. Era il suo modo di comunicare la volontà di non

Molti prima di me si sono interessati alla sua storia e alla sua

nascondersi urlandolo a piena voce e ai quattro venti.

vita. Sono stati scritti molti articoli, lei stessa ha scritto un

Oggi Romina ha 67 anni, un’età che si fa fatica ad attribuirle.

libro in cui si racconta senza remore e senza vergogna com’è

Ma se il suo corpo ci inganna, i suoi modi non sanno mentire.

del resto sempre stato nel suo stile. Questo libro qualche

Nei suoi discorsi, tra lerighe, si legge sempre l’orgoglio, la con-

anno fa ha ispirato Anna Meacci nella realizzazione di uno

sapevolezza, la saggezza di chi, durante il corso della vita ha

spettacolo teatrale.

sofferto molto lottando per raggiungere un obiettivo. Il suo è


stato quello di diventare una donna e adesso lo è, completamente. Fiera, quindi, di essere stata padrona del suo destino, ama sottolineare che rivivrebbe ogni istante, ogni cosa così come è stata. Sono passati molti anni da quando Romina ha combattuto le sue battaglie, ma la vicenda avvenuta in una discoteca di Roma qualche giorno fa e riportata nell’articolo uscito il 5 Febbraio scorso sull’Unità ci dimostra quanto il problema sia attuale e quanto la società faccia ancora fatica ad abbandonare antichi pregiudizi. Il buttafuori, e in seguito lo stesso proprietario, hanno vietato l’accesso al locale ad A., giovane transessuale, per il semplice motivo che il suo aspetto non corrispondeva ai dati riportati sulla sua carta d’identità. Chiedendo ulteriori spiegazioni A. si è sentito rispondere che non poteva entrare perché era, appunto, un trans. Credo sia inaccettabile l’evidente difficoltà che la società dimostra ancora oggi nel riconoscere un’identità a coloro che hanno deciso di cambiare sesso e le parole di Enrico Fierro, autore dell’articolo citato, la descrivono chiaramente: “Sei una persona trans, sospesa tra cielo e terra, né maschio né femmina, per la burocrazia e per l’ottusità di un accigliato buttafuori”. Risalgono a poche settimane fa le iniziative curate dall’ Arcigay ‘il Cassero’ di Bologna che, in occasione della SD 43

Matrimonio con Antonio Moschonas , anno 1977. Firenze


In spiaggia, 1960-61

Venezuela, fine anni ‘70

SD 44

Giornata della Memoria, il 27 Gennaio, ha deciso di organizza-

non riguardano solo il passato. La persecuzione del ‘triangolo

re una serie di interessanti eventi allo scopo di ricordare la per-

rosa’ (simbolo che designava gli omosessuali all’interno dei

secuzione degli omosessuali e dei transessuali durante il nazi-

campi di concentramento nazisti) non è ancora finita. In paesi

smo e il fascismo. Repressione che troppo spesso è stata

come l’Arabia Saudita, l’Afghanistan, o lo Yemen gli omoses-

messa in dubbio se non addirittura taciuta intenzionalmente.

suali sono ancora oggi sottoposti alla pena di morte.

Le vittime della spietata follia nazifascista furono all’incirca

Proposte come questa, nata dall’impegno dell’associa-

100mila di cui 10mila vennero uccise.

zione bolognese, credo siano preziose affinché si faccia

Mentre in Germania nasceva un articolo specifico del

luce, affinché si allontani il fantasma dell’omofobia e

codice penale, il famigerato Paragrafo 175, in base al

una volta per tutte non ci si debba più chiedere “Perché

quale si legittimava lo sterminio delle persone sessual-

il comportamento sessuale, le attività e i piaceri che ne

mente “invertite”, in Italia alla deportazione si preferì il

dipendono, costituiscono l’oggetto di una preoccupazio-

confino coatto in luoghi remoti. Ogni condanna veniva

ne morale? Perché e in quale forma l’attività sessuale è

affidata a semplici atti di Polizia poiché il codice pena-

andata costituendosi come campo morale? Perché que-

le allora vigente, il Codice Rocco, non conteneva alcun

sta preoccupazione etica così insistente, benché varia-

articolo che menzionasse l’argomento.

bile nelle forme e nell’intensità? Perché questa ‘proble-

I dati relativi a vittime omosessuali o transessuali, purtroppo,

maticizzazione’?” (Michel Foucault)


Testo e foto di Pamela Straccia





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