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SGUARD
contemporary city visions_visioni contemporanee della città Parole e immagini sulla città di Bologna
n°02 luglio 2009
PROJECT & COORDiNATiON
progetto e coordinamento
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SGUARD
Maurizio Berlincioni
GRAPHiC DESiGN
grafica e impaginazione
Alfredo Ranieri
COTRiBUTORSi
Collaboratori
Manuela Assilli Francesca Barichello Anna Breda Virginia Caldarella Daniela Ciamarra Antonella Cosola Simone Cucuzza Miguel Angel D’errico Giorgia Dolfini Caterina Faccia Denise Ferrari Erica Gomez Daniela Guccini Mozhde Nourmohammadi Chiara Segreto Giulua Serri Zaira Stabile Julia Tikhomirova Lara Zibret
Finito di stampare
©Luglio 2009 La foto di copertina e di Alfredo Ranieri. La quarta di copertina è di Maurizio Berlincioni.
Accademia di Belle Arti
Bologna
SOMMARiO 05 Editoriale di Maurizio Berlincioni di Francesca Barichello e Denise Ferrari
12 Contratto? No grazie di Zaira Stabile e Antonella Cosola
15 Bologna la verde di Daniela Ciamarra
20 L’altra immagine della città di Anna Breda
26 We are not emo... anymore! di Daniela Guccini
30 Tana Libera tutti... di Chiara Segreto
34 L’asta di bicicletta di Erica Gomez Rodriguez
38 Pa Kua
di Simone Cucuzza e Giulia Serri
42 Un’arte antica di Virginia Caldarella
46 I never want to be different, I just want to be me! di Lara Zibret
50 Il Cassero: l’importante è partecipare di Giorgia Dolfini
54 Un porto sulla via di Miguel Angel D’Errico
58 E’ davvero facile smettere di fumare di Manuela Assilli
61 Un’amante straordinaria di Caterina Faccia
64 C come calcio
di Mozhde Nourmohammadi
68 Il viaggio continua di Julia Tikhomirova
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SGUARD
06 L’appassionata ricerca...
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EDiTORiALE di Maurizio Berlincioni
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iamo finalmente giunti al secondo appuntamento della rivista SGUARDI, spazio di lavoro per gli studenti del Corso di Fotografia e Comunicazione Sociale del Biennio di Specializzazione in Fotografia dell’Accademia di Belle Arti di Bologna e francamente è difficile non provare un senso di soddisfazione nel ritrovarsi oggi tra le mani il frutto del lavoro della nuova redazione che quest’anno ha raggiunto il ragguardevole numero di 19 unità! Come già era stato detto nell’editoriale del primo numero, questa pubblicazione “pensata come il contenitore naturale del lavoro progettuale e sul campo degli studenti coinvolti, prende l’avvio con l’intento di affrontare temi di interesse generale, con caratteristiche di notiziabilità giornalistica e con riferimento costante alla città di Bologna, ai suoi spazi urbani, alle persone che la abitano, alle situazioni che, per vari motivi, rendono questa città un importante centro culturale ad alto tasso di vitalità e animato da un continuo desiderio di sfida e di confronto.” Un’altra città, spazi urbani vicini e lontani, nuovi cittadini dal mondo, piccoli gioielli “verdi” nascosti nel cuore del centro storico, modificazioni corporee e giovanissimi Emo, momenti di aggregazione nelle iniziative del Cassero, il cuore pulsante dello stadio, la scienza al servizio dei grandi disabili, i diversamente abiil e lo sport, i problemi del fumo e quelli che a Bologna cercano di smettere, i giovani sempre alla ricerca di nuovi spazi e momenti di aggregazione, storie di immigrati e creatività all’interno del Pilastro, la città e le sue biciclette nel giorno dell’asta, le mense sociali, gli studenti e l’odissea dell’alloggio a Bologna ed infine la liuteria, una tradizione molto importante per la città. Questi sono i temi affrontati dalla nuova squadra e i risultati ottenuti sono decisamente interessanti. Il numero delle pagine è aumentato: dalle 48 della prima uscita siamo adesso passati alle 76 del secondo numero e l’interesse nei confronti della pubblicazione è certamente cresciuto. Colgo questa occasione per ringraziare tutti coloro che a vario titolo hanno reso possibile la sua realizzazione. Come avevo già accennato all’inizio, quest’anno il numero dei “redattori” è più che triplicato rispetto all’anno scorso e quindi, dovendo fare i conti con un budget decisamente limitato (e per motivi oggettivi purtroppo non modificabile) siamo stati costretti, per non mortificare l’impegno degli studenti, a privilegiare il mantenimento della coerenza e dell’integrità dei singoli reportage rispetto a quello che poteva essere il ritmo grafico dell’impaginazione se solo avessimo avuto un maggior numero di pagine a disposizione e più ampi margini di manovra. I lettori ci vorranno per questo scusare se il risultato potrà apparire graficamente “un pò affollato” nella successione senza troppo respiro dei singoli lavori… non avevamo altra scelta!
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“L’APPASSIONATA RICERCA…” testi e fotografie di Francesca Barichello e Denise Ferrari
Tante possono essere le motivazioni che riguardano un fenomeno come quello dell’immigrazione. A partire da quelle di tipo economico, con la ricerca di migliori condizioni di vita, si passa a quelle di tipo religioso e politico per sfuggire a repressioni e dittature, e anche per motivi ideologici, sentimentali e quelli legati all’istruzione e allo studio. Ma in parti-
colare quella che abbiamo riscontrato essere la ragione principale per quanto riguarda il trasferimento permanente o temporaneo di gruppi di persone in un paese diverso da quello di origine, negli ultimi 10 anni, è senza dubbio la ricerca di un lavoro. Dando uno sguardo alla città di Bologna, ci siamo rese conto che una delle comunità straniere meglio integrata e
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con il più alto tasso di cittadini presenti in città è quella Bengalese. Nel 1995 i bengalesi sfioravano i 100 residenti per poi passare in soli 9 anni, a partire dai primi anni novanta, a 1800 iscritti all’anagrafe comunale. Ad oggi si contano all’ incirca 5000 cittadini con regolare permesso di soggiorno il che equivale a porli come la terza etnia rappresentata in città.
Il lavoro, la ricerca di un impiego dignitoso per sfuggire alle mancanze di un paese che non offre opportunità adeguate agli studi da loro frequentati, l’ ipotesi di una qualità di vita migliore, sia da un punto di vista economico che socio-ambientale e la speranza di poter realizzare sogni e desideri spesso solo immaginati verso terre lontane… ha portato molti giovani ragazzi ad allontanarsi dai loro paesi, dalla loro cultura, dalla religione e dalle proprie famiglie. Dopo aver chiacchierato con alcuni di loro, giovani dall’età comprese tra
i 22 e i 30 anni, abbiamo scoperto che quasi tutti sono arrivati grazie all’appoggio di parenti o amici già qui residenti da tempo e già decisamente ben integrati. Sono famiglie per l’appunto arrivate nella città di Bologna circa 20 anni fa e ad oggi qui residenti con buoni lavori e una vita soddisfacente. Quello che sembra essere una costante ridondante nelle loro parole è proprio questa esigenza e il desiderio di trovare un lavoro per poter guadagnare dei soldi che gli permettano di vivere una vita
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come ad oggi in Bangladesh sarebbe per loro impossibile. Arrivati qui con questa energia positiva, hanno ben presto iniziato il loro percorso verso l’integrazione con usi, costumi e cultura di un paese che non gli appartenevano. Hanno seguito corsi di italiano organizzati dai Salesiani, luogo all’interno del quale si sono conosciuti e hanno creato le prime amicizie. A differenza dei loro parenti, arrivati qui in nave come clandestini e completamente soli, questi ultimi arrivati hanno trovato molte porte aperte.
Questo non significa che piccole difficoltà di comprensione ed inserimento non siano ancora presenti, ma probabilmente anche gli stessi cittadini bolognesi si sono ormai “abituati” a condividere spazi e vita sociale con questi nuovi concittadini..
Non dev’ essere facile lasciare il proprio paese, i colori e gli odori abituati a respirare, il paesaggio con il quale si è cresciuti…i costumi, il cibo e soprattutto gli affetti. Forse è proprio quest’ ultimo aspetto, quello più sentimentale, comu-
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ne ad ognuno di noi, a creare malinconia negli sguardi di questi ragazzi. Taher Abu, che in lingua Bangla significa sacro, ha 22 anni, proviene da Comilla ed è qui da un anno e sei mesi. Vive con lo zio e la sua famiglia di sei persone.
Ha lavorato per sei mesi per un’azienda come metalmeccanico e oggi è disoccupato. Non ha problemi con gli italiani, si è sempre sentito ben accetto e gioca a calcio con la squadra del Corticella. Ma tutto questo non ha comunque cambiato il suo obbiettivo principale: guadagnare soldi a sufficienza che gli permettano di tornare in Bangladesh, sposare la sua ragazza Shushmita e ritornare qui con lei. Mentre ci parlava della sua vita non abbiamo potuto fare a meno di scorgere dietro a quel giovane sguardo vivo e speranzoso un velo di tristezza e solitudine. Uscire con il cugino coetaneo e con altri ragazzi bengalesi, pur dovendo rientrare presto la sera, nel rispetto di alcune regole presenti nella loro religione musulmana, non è sufficiente a cancellare i loro sentimenti per le persone lontane. Così avviene anche per Faroque Hossain, (giudicare,dividere), un ragazzo di 28 anni proveniente da Dhaka. E’ qui da due anni e nonostante una forte nostalgia iniziale,ad oggi è felice di vivere nel nostro paese e qui vuole restare perché si sente più libero e con maggiori possibilità di lavoro. Laureato in matematica, non avendo trovato lavoro nel suo settore aveva inizialmente pensato di trasferirsi a Londra ma la morte del padre l’ha costretto, anche per motivi economici a raggiungere la sorella ed il cognato già qui da 15 anni. Appena arrivato ha lavorato per sei mesi distribuendo la rivista “City” e da 8 mesi lavora presso una fab-
brica per 1000 euro al mese. La libertà di cui qui riescono a godere, anche se non direttamente legata all’indipendenza economica, è senza dubbio molto superioriore per ciò che riguarda il divertimento. La religione Islamica vieta infatti l’assunzione di alcool e di carne d’origine suina e li obbliga a rientrare presto la sera per rispetto verso le loro famiglie, forse è per questo che alcuni di loro ormai da tempo non seguono più con stretta osservanza le leggi del corano e assumono con maggior frequenza atteggiamenti occidentali. Anche per quanto riguarda il lato amoroso nelle due culture le cose
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sono decisamente diverse. I Bengalesi faticano molto ad entrare in sintonia con i modi di fare delle ragazze italiane perché sono abituati a lunghi corteggiamenti e promesse di fidanzamento e successivo matrimonio già decisi in giovane età. Esiste poi chi qui ha trovato “il proprio posto nel mondo”. Bhuiyan H.M.Nazmul Haque, (generazione),per gli amici Naushad, di 29 anni, ormai qui da due anni, laureato in filosofia, ha trovato lavoro in una cartoleria in Via Petroni perché il titolare del negozio è del suo paese. Vive al Pilastro con la famiglia di sua sorella e tutto di qui sembra piacergli. La casa ed il quartiere in cui vive, il cibo, il clima
e il suo lavoro. E’ sposato da quattro anni ma sua moglie vive in Bangladesh perché non ha ancora ottenuto il nulla osta, per averlo è infatti necessario un reddito annuo pari a 7.400 euro. Dopo un inizio difficile che solo dopo otto mesi l’aveva riportato nel suo paese per la mancanza di un lavoro, oggi ha finalmente raggiunto il suo scopo: un’ impiego sicuro, amici bengalesi e italiani e una famiglia attorno a se che speriamo presto possa completarsi. La ricerca della felicità, del proprio spazio nel mondo, la speranza di migliorarsi e migliorare la propria vita è un percorso lungo e travagliato. Spesso percorriamo sentieri sbagliati e più e più volte cambiamo le nostre rotte, la strada da percorrere, sperando di imboccare quella giusta, quella che ci farà stare meglio, che ci donerà serenità e gratificazione…con la volontà e la speranza di alzarci ogni giorno con il sorriso, pronti ad iniziare così una nuova giornata. I motivi che ci spingono sono molti, ma al di là degli aspetti economico-lavorativi, crediamo che siano gli affetti, l’amore di cui ognuno di noi ha bisogno, per poter veramente far restare
una persona in un luogo e farla sentire a casa propria. La scoperta, la novità e la gioia non sono le stesse se non si possono condividere con qualcuno che si ama… ed è per questo che chi, pur venendo da un paese lontano, ha trovato qui l’amore, forse ha realmente coronato e concluso la sua “ricerca”. Amin Ruhul Kazi, 30 anni, di B.Baria è ormai qui in Italia da 7 anni e quindi a tutti
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gli effetti adesso è un vero e proprio “cittadino bolognese”. Per integrarsi nel nostro paese e sopravvivere ha fatto qualsiasi lavoro: lavapiatti, cuoco, cameriere, barista… ma la sua indubbia capacità di adattamento, la sua disponibilità ed apertura verso una società che non conosceva e ben diversa dalla sua, il suo sorriso contagioso e la voglia di fare, l’hanno portato ben presto a farsi amare da chiunque lo
incrociasse, conoscesse o anche solo ci lavorasse assieme. Carattere e spirito positivi, pronto a non arrendersi mai neppure di fronte alle difficoltà e come nel suo caso, completamente solo in un paese a lui sconosciuto, sono forse queste le caratteristiche per potercela fare. Averlo conosciuto ha portato nelle nostre vite qualcosa in più, qualcosa di nuovo che prima avevamo solo letto in libri o visto nei documentari. Ogni volta che sali le scale di casa, profumi di spezie esotiche arrivano alle tue narici portando con sé le immagini e i colori di terre lontane…nuovi sapori, nuove usanze… mangiare il riso con le mani, con un rituale da rispettare nell’ordine delle portate. Ascoltare le storie che si celano dietro ogni atteggiamento che noi interpretiamo con la nostra mentalità occidentale e che invece per loro sono spesso legate ad esempi e storie delle vite animali, leggende, quasi magici rituali. Allora tutto diventa uno scambio, una crescita che si fa insieme e che ad orecchi curiosi ed intelligenti può solo aggiungere invece che togliere. Amin ha saputo amare e farsi amare ed è per questo, che proprio nel nostro paese ha trovato l’Amore. Circa un anno fa ha conosciuto Paola, una ragazza di Reggio Emilia con la quale il 24 Aprile di quest’anno si è spostato. Una semplice cerimonia in comune alla presenza dei suoi amici più cari, ha coronato la loro storia d’amore e legalizzato una relazione che già porta con sé il frutto del loro amore… aspettano, infatti, una bimba che presto verrà al mondo. Dopo aver vissuto in squallidi buchi e monolocali, aver condiviso piccoli spazi, stenti e difficoltà con amici e/o sconosciuti, aver lottato per il permesso di soggiorno, per un lavoro in regola, per la possibilità di avere una vita dignitosa, regolare e serena qui in Italia… finalmente egli ha trovato tutto questo assieme all’amore. Oggi egli vive in centro, è sposato, ha un lavoro e ben presto diventerà padre. Continuerà così una storia che ha inizio circa 20 anni fa, quando i primi nuclei familiari provenienti dal Bangladesh si stabilirono nel nostro paese portando qualcosa di nuovo e diverso nella nostra società e nella nostra cultura.
“Perché la vita è così. Procediamo a piccoli passi. Rialziamo la testa e torniamo ad affrontare il volto feroce e sorridente del mondo. Pensiamo. Agiamo. Sentiamo. Diamo il nostro piccolo contributo alle maree del bene e del male che inondano e prosciugano la terra. Trasciniamo le nostre croci ammantate d’ombra nella speranza di una nuova notte. Lanciamo i nostri cuori coraggiosi nelle promesse di un nuovo giorno. Con amore:l’appassionata ricerca di una realtà diversa dalla nostra. Con struggimento:il puro, ineffabile anelito di essere salvati. Poiché fino a quando il destino ce lo consente, continuiamo a vivere.” Gregory David Roberts, “Shantaram”
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CONTRATTO? NO GRAZIE LASCIATE OGNI SPERANZA
Ogni anno migliaia di studenti decidono di proseguire gli studi lontano dalla propria famiglia con tante difficoltà. Prima tra tutte c’è la ricerca della “casa perfetta” che è quasi impossibile e purtroppo le strutture pubbliche sono insufficienti. Ci si imbatte così in una giungla immobiliare fatta di contratti irregolari, subaffitti e prezzi esorbitanti. Sono, ovviamente, gli studenti fuori sede a pagare le conseguenze di questa situazione che rappresenta un vero e proprio business per i proprietari più furbi! Le città più care d’Italia sono Milano, Roma, Firenze e Bologna dove il costo di una stanza varia da 300 a 500 euro al mese, spese escluse. A Bologna un posto letto in camera doppia è mediamente 230 euro, in camera singola 390 euro e dulcis in fundo: posto letto con divano letto in cucina a soli 170 euro. I prezzi logicamente variano se si sceglie di abitare in un sottoscala o in una ex cantina con “vista asfalto”. La cosa peggiore è che molto spesso le condizioni degli alloggi
non sono tanto confortevoli, i prezzi sono più alti di quanto si possa immaginare, per case che non sono nemmeno degne di essere chiamate case e i contratti di locazione sono spesso inesistenti o irregolari. Nel 2008, con il contributo delle fiamme gialle, sono state scoperte due donne bolognesi (madre e figlia) che affittavano un centinaio di immobili (per la maggior parte in nero) a studenti e immigrati. Un altro problema è che una buona parte delle abitazioni sono state costruite nei primi anni ’50 e spesso gli impianti non sono a norma. Come si può dimenticare il caso della studentessa molisana morta nel 2007 per le esalazioni di monossido di carbonio di uno scaldabagno. Per far fronte a questo disagio, anche la sinistra universitaria ha organizzato in passato cortei e manifestazioni per protestare contro le condizioni delle case in affitto a studenti, attraversando la città con lo slogan: “ BOLOGNA LA ROSSA AFFITTA IN NERO”. L’Arstud (Azienda Regionale per il Diritto
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O VOI CH’ ENTRATE ...
Franco: “290 euro senza contratto per una doppia con la muffa sulle pareti. La casa è molto vecchia e tenuta male. Gli infissi non si chiudono, c'è muffa ovunque e i mobili sono fatiscenti. Tra un pò andrò via”. Angela: “In 3 anni ho cambiato 4 case. Dove sono ora pago un pò di più, 380 euro in singola spese escluse, ma la casa è stata ristrutturata di recente. L'unica pecca: il contratto non proprio regolare”.
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allo Studio Universitario) mette a disposizione ogni anno un certo numero di borse di studio e posti alloggio in studentati che, naturalmente, riescono a soddisfare solo in parte la richiesta degli studenti fuori-sede. In particolare l’ER.GO, (Azienda Regionale per il Diritto agli Studi Superiori), offre alloggi nelle 44 residenze presenti sul territorio nazionale. L’accesso avviene tramite una graduatoria che presuppone requisiti sia economici che di merito, ma non tutti gli studentati offrono gli stessi servizi. Lo studente deve spesso accontentarsi di vivere lontano dalla propria struttura universitaria, in una camera con bagno e cucina in comune e lavanderia a pagamento. Di fronte a questa situazione alcuni studenti optano per studentati privati, che, a prezzi leggermente superiori, offrono servizi migliori, in cambio però di regole più rigide. Si diventa una vera e propria famiglia dove ci si preoccupa del comportamento, dei bisogni e della sicurezza comune. Si organizzano incontri per confrontarsi e periodiche prove anti incendio in regola con le vigenti norme comunitarie. A tal proposito è assolutamente vietato in qualsiasi struttura fumare nelle camere e
introdurre elettrodomestici. Intervistando i fuori-sede che popolano il centro universitario bolognese è emerso che solo una minoranza può permettersi una stanza tutta per sé, mentre gli altri sono costretti a dividere la camera con una o più persone. E’ abbastanza diffuso anche il problema delle discriminazioni. Spesso ci si ritrova la porta chiusa in faccia per aver “ingenuamente” dichiarato di frequentare facoltà artistiche, di essere un papa boy o amanti di Maria De Filippi.
Lucio: “Nello studentato privato l’atmosfera è molto accogliente e non ho limitazioni di orari. Ci sono degli incontri facoltativi come quello dei vespri ( mercoledì sera, ogni settimana) o le messe stabilite prefestive). Obbligatorio, invece, è il colloquio a fine anno, dove si valutano gli esami sostenuti, il comportamento e in base a questo si ha una eventuale riconferma del posto letto”.
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Andrea: “Io abito in una casa molto carina e il mio proprietario è una persona squisita. E' un pò fuori il centro universitario, ma in singola spendo 300 euro con tutte le spese incluse!”
laria: “370 euro per una singola spaziosa, l’uminosa e carina perchè l’ho arredata io. La casa in generale però è tenuta male: impianto elettrico non a norma, servizi igienici in pessime condizioni, infissi vecchi che non si chiudono e senza contratto. L’unico punto a favore? E’ in centro”.
L’unico modo per porre fine a questa odissea potrebbe essere un intervento pubblico sulla questione degli alloggi studenteschi e una moltiplicazione dei posti alloggio in studentati per calmierare il mercato privato e ricondurlo a livelli di accettabilità. Con questi affitti proibitivi il diritto allo studio diventa un lusso da ricchi e chi non ha possibilità economiche è costretto a rinunciare.
Antonio: “No comment. Vivo in una casa che per andare in bagno devo attraversare il pianerottolo del palazzo ed entrare in un altro appartamento. Quanti sacrifici per spendere solo 180 euro!”
Marika: “ Io spendo 267 euro in doppia spese escluse, non molto lontano dalla mia facoltà. Ho un contratto regolare e la casa non è messa tanto male, solo che ci entrano a mala pena 2 letti, 1 armadio a 3 ante e 1 sola scrivania”.
Paola: “ La ricerca di un posto letto è stata difficile. Per giorni ho raccolto numeri di telefono e visitato molte case prima di fare la scelta definitiva. Molto spesso però, ho trovato stanze in condizioni che non corrispondevano agli annunci accattivanti”.
Francesca: “La vita in studentato pone alcune limitazioni, ad esempio non poter ospitare nessuno, ma in compenso ci sono delle agevolazioni: lavanderia a 1 euro e internet gratuito! Per gli assegnatari di borsa di studio la spesa è davvero minima rispetto ai prezzi di mercato. Ad ogni modo, con piccolo aumento, chiunque può far domanda per un posto letto in queste strutture”. Testo e Fotografie di Antonella Cosola e Zaira Stabile
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BOLOGNA LA VERDE foto e testo di Daniela Ciamarra
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Nella prima pagina e in questa giardini in via Castiglione. Accanto particolare di Cocos Nucifera.
Avere un giardino a Bologna non è cosa da molti, soprattutto se vivi in centro. O meglio, avere un giardino a Bologna se vivi in centro equivale a non condividere questa fortuna con chi, passeggiando per le vie cittadine, ignora del tutto che dietro quei portoni, quelle mura, si nascondono edere, prati, alberi, scoiattoli, statue dei sette nani. Ma basta osservare una foto di Bologna dall’alto su Google Maps per capire che il verde c’è, e neanche poco. Modificando il proprio punto di vista cambia anche la percezione che si ha della città
e con questa anche la consapevolezza di vivere in un posto che si crede di conoscere ma si scopre pieno di angoli sconosciuti e nascosti. Tanto più sconosciuti e nascosti quanto più sono gli spazi che vanno sotto l’etichetta di “proprietà privata”. Decido quindi di scoprirne alcuni, e mi ritrovo spesso con il naso infilato tra le sbarre dei cancelli nell’impossibilità di inoltrarmi in queste piccole “giungle” cittadine. A volte trovo qualcuno a cui chiedere se posso entrare a fare qualche foto, alcuni dicono sì, altri no, ma anche quelli che dicono sì non sembrano esattamente felici. Concludo quindi che i giardini nelle case del centro esistono, semplicemente non è così facile riuscire a vederli in quanto ad esclusivo uso e consumo, anche solo strettamente visivo, dei legittimi proprietari. Girovagando alla ricerca di frammenti fotografici mi sono ritrovata a percorrere tutta Bologna, da via Santo Stefano a via San Vitale, via Castiglione fino a via Bat-
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tisti, zone ad alto tasso di verde, quindi non circoscritte ma disseminate per tutto il centro. L’idea del giardino è antica quasi quanto l’uomo. Esiste praticamente da sempre, già nell’antico Egitto veniva isolato dal resto per assumere la connotazione di un “dentro” rassicurante, regolare, ordinato, rigoglioso, caratterizzato dall’armonia dei colori, dalla disposizione matematica e dalla combinazione delle forme. Le mura perimetrali, allora come oggi, impedivano indiscrezioni esterne e definivano un ambiente intimo privato, riparato e separato dal resto del mondo. La cura del giardino come ideale prosecuzione dell’abitazione ha prodotto in ogni epoca e cultura una sua particolare concezione, tanto da poter affermare che accanto alla Storia dell’Arte ufficiale si è creata una vera e propria Storia dell’Arte del Giardino. Così fino ai giorni nostri troviamo il giardino greco, islamico, giapponese, polacco, inglese nonché
tipologie di giardino come riflesso di correnti filosofiche come quello romantico, illuminista, pittoresco fino al vivace dibattito dell’800 tra giardino formale ed informale. Periodo buio fu il Medioevo. Navigando su internet scopro l’esistenza della figura professionale del landscape designer e di numerosi siti che si occupano della sua attività. Il suo lavoro consiste nella progettazione di giardini attraverso l’utilizzo di elementi sia naturali che artificiali. Provo a leggere alcune descrizioni, mi sembrano molto dettagliate, forse troppo, alla fine mi chiedo che fine faccia la meravigliosa casualità della natura. Così chi vuole un proprio angolo di Para-
diso Terrestre potrà ottenerlo ad esempio inserendo nell’ingresso sul lato sinistro Hedera Helix e rosai arbustivi tappezzanti, con aggiunta di ghiaietto. Nel giardino Buxus Sempervirens forgiato a sfera, Agapanthus Umbellatus, Lavandula Officinalis, nel lato ingresso interno Acer Japonica in varietà, con una pavimentazione di passaggio fra prato e ghiaietto. E magari un cancello centrale con arco e rosai con quinta di Hedera Helix ad altezza non simmetrica sui lati del cancello, con alberatura in affaccio al retro abitazione a portamento colonnare. Come rinunciare poi ad alberature a filare in Olea Europea alterante a Acer Campestre con file in lavanda e macchie arboree con Populus Nigra Piramidalis?
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C’è davvero da sbizzarrirsi. A chi come me non ha la fortuna di avere un giardino non rimane che scorgere furtivamente attraverso spiragli di portoni aperti o tristi sbarre pennellate di verde proprietà privata e poi magari fare un salto ai Giardini Margherita o alla meglio sui colli bolognesi per godersi una piccola porzione di Madre Natura.
Sopra vista dall interno di un cortile in via Battisti. Sotto giardino in Strada Maggiore. Nella pagina accanto in ordine dall’alto a sinistra giardino in via Santo Stefano, Hedera Helix su via Santo Stefano e due particolari di un giardino in via San Vitale.
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L’altra immagine della città Testo e fotografia di Anna Breda
Bologna:
quali e quante sono le immagini della città che non conosciamo? Perchè è alcuni posti sono difficili da scoprire?
L’organicità del tessuto urbano si interrompe, la continuità dei percorsi viene disturbata, la fruibilità degli spazi diventa difficile e la lettura del paesaggio inquietante. Ci troviamo così di fronte a nuove immagini della città, degli scorci e dettagli mai notati prima che sfiorano, senza intersecare, i nostri percorsi abituali. La città ha così perso la sua riconoscibilità, la sua immagine è deformata, dilatata e spesso incomprensibile. L’equilibrio complesso dello spazio urbano è venuto a mancare creando dei luoghi non classificabili, degli errori o forse dei semi per nuove interpretazioni dello spazio dentro la città. Possiamo utilizzare molti strumenti di analisi per formulare ipotesi e teorie che spieghino il crearsi di queste problematicità o mutazioni. Ciononostante, in questa sede ci limiteremo ad un’analisi visivo-percettiva più che socio-antropologica o storica.
L’identità visiva di ogni città, paese o luogo con la sua peculiare complessità può essere considerato come la somma di tutte le immagini percepite da ogni singolo fruitore. Quest’immagine che ci viene restituita, nonostante la sua ricchezza e complessità, è generata da una semplice combinazione di elementi in equilibrio e dialogo reciproco. La città non è soltanto oggetto di percezione per migliaia di persone profondamente diverse per carattere e categoria sociale, ma anche il prodotto di innumerevoli operatori che per motivi specifici ne mutano costantemente la struttura. Se analizziamo il tessuto urbano dal punto di vista visivo-percettivo possiamo riassumerlo in pochi elementi quali: percorsi, barriere, riferimenti, aree e nodi. Attraverso questi elementi il visitatore percepisce la città e si muove al suo interno.
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“I layer si sovrappongono senza alcuna logica”
La città è un insieme di layer che si possono distinguere tra loro per importanza, destinazione d’uso e velocità di percorribilità. All’interno della città si attivano dei flussi che mettono in realazione i diversi livelli ed elementi tra loro, creando una gerarchia d’importanza e una caratterizzazione dei luoghi. Se l’equilibrio tra gli elementi e negli elementi stessi viene e mancare si creano delle disfunzioni nei flussi, degli errori, dei luoghi non identificabili che rompono la continuità percettiva e funzionale della città. In questo modo la città perde riconoscibilità e gli elementi si intersecano tra loro senza alcuna logica resituendo così immagini insolite e curiose che potrebbero essere frutto di fotomontaggi. Possiamo definire queste nuove immagini delle “anti-cartoline” non per la
Il tessuto urbano non è che una combinazione di elementi: percorsi, barriere, riferimenti, aree, margini e nodi. “Posso stare qui?”
“Come posso arrivare dall’altro lato”
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loro bruttezza o perchè non ritraggano anch’esse la città ma perchè non sono immagini attraverso le quali siamo abituati ad identificare e riconoscere la città stessa. Chiunque potrebbe riconoscere Bologna attraverso l’immagine delle “Due Torri” o del portico di via Saragozza, sono infatti i punti di riferimento della città. Quando l’equilibrio viene meno la percezione di stranezza e la mancanza di identità è immediata. Gli interrogativi che ci poniamo sono sempre gli stessi “Posso stare qui?” o “Come posso arrivare dall’altro lato” o ancora “Mi devo essere perso da qui non si va da nessuna parte”. Rimaniamo quindi disorientati o addirittura impauriti, non riconosciamo più nello spazio ne una funzione ne un’identità, il luogo diventa quindi un “non luogo”. Lo spazio urbano è caratterizzato dal movimento, da flussi e cambi di velocità; laddove questo movimento s’arresta senza motivo alcuno oppure quando non è possibile individuare un riferimento nasce un “punto d’errore”, il sistema si inceppa. Proprio come se sullo schermo del nostro computer apparisse la scritta “FATAL ERROR”.
vuoti urbani :
Queste disfunzioni spesso generate da un errata interazione tra gli elementi, ad esempio tra un percorso come potrebbe essere la tangenziale ed un area-quartiere.
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l’immagine della città è deformata
Non riconosciamo più nello spazio ne una funzione ne un’identità, il luogo diventa quindi “UN NON LUOGO”. In tutte le città si creano bene o male questi spazi spesso generati da un errata interazione tra gli elementi; ad esempio tra un percorso come potrebbe essere la tangenziale ed un area-quartiere o tra un limite come la ferrovia ed un percorso pedonale. I flussi vengono naturalmente deviati per schivare gli errori, i quali spesso, in questo modo crescendo inglobano l’area circostante sempre più isolata dai flussi. Si creano così dei vuoti, degli spazi di dilatazione nel tessuto urbano che alterano gli equilibri delle aree cicostanti. Bibliografia: Kevin Lynch, L’immagine della città, marsilio editore L.Altavelli e R.Ottaviani, Il sublime urbano - Architettura e New Media, gruppo mancosu editore
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L’errore diventa un’entità isolata che vive spesso di micro-flussi estranei alla città, così con il tempo gli “spazi errore” possono acquisire un’identità indipendente avviando un processo naturale di riappropriazione del suolo urbano. A questo punto se la nuova funzione è utile alle aree confinanti riattiva il flusso e rivitalizza l’area eliminando in parte l’errore, se invece è nociva accuisce la problematicità e rallenta e disperde i flussi circostanti. Possiamo così concludere che per risanare e ricucire il tessuto urbano laddove ci sono degli errori di flusso parziali o totali bisognerebbe ridefinire un’identità funzionale o meglio indurla in modo da non snaturare gli equilibri delle identità circostanti. Non ci rimane che suggerire delle soluzioni o appoggiare e rafforzare i processi positivi spontanei ed intervenire radicalmente quanto il processo innescato è ulteriormente distruttivo.
Bologna & Public Art:
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sperimentazioni per ricostruire attraverso l’arte
[...] “Suggerire delle soluzioni o appoggiare e rafforzare i processi positivi spontanei.”
l’identità dei luoghi
L’arte urbana rappresenta tentativi non definiti di usare e vedere lo spazio della città, in costante ridefinizione. Cerca di produrre nuovi valori in spazi “sofferenti” dove manca qualunque legame con un disegno urbano riconosciuto ed accettato. Le trasformazioni urbane in questi luoghi avvengono spesso “dal basso” attraverso una sorta di ricostruzione di un patrimonio culturale collettivo. La public art non si limita ad interpretare uno spazio dato, più o meno modificabile, ma anche uno spazio in continua evoluzione, sperimenta una formula con cui costruire attraverso l’arte l’identità dei luoghi senza memoria e proiettarli verso il futuro.
Tra arte urbana e architettura alla ricerca di un’identità
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We are not emo… anymore! “Un articolo sugli “emo”? ma chi sono?” Ecco la domanda più frequente che mi veniva posta quando dicevo di voler scrivere un articolo su questo nuovo trend adolescenziale. Non ho intenzione di appesantire il tutto con una ricostruzione storica del movimento. Spendo quindi solo qualche riga per chiarire le idee a tutte quelle persone che di emo non hanno mai sentito parlare.
L’evoluzione dell’ Emo Way of Life Il termine emo nasce negli anni ottanta a Washington DC per distinguere un genere musicale che pone le sue radici nel punk e nell’hardcore, rivendicando, però, l’aspetto melodico e compositivo delle canzoni. Il testo acquista rilevanza e spesso parla di sofferenze sentimentali (da qui appunto emotional).
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Negli anni novanta l’ emocore (che fa riferimento alla commistione di sonorità hardcore, punk ed emo) attirò l’attenzione delle major, che non si fecero scappare i gruppi più talentuosi. Alcune di queste band, malgrado le ingenti somme di denaro offerte, rimasero fedeli alle etichette indipendenti ed iniziarono ad usare l’appellativo “emo” come dispregiativo per additare l’inflessione commerciale di altri musicisti. Il successo di questo genere sfuma alla fine del decennio scorso. Da cinque anni a questa parte si è tornati a parlare di emo, ma questa volta la musica conta poco o niente. La moda esplosa tra i teenager di tutto il mondo, che ha viaggiato velocissima anche grazie al web, si baserebbe solo su un eccentrità e una esasperata voglia d’apparire. Almeno questo è quello che dicono le fonti d’informazione. Il quotidiano La Repubblica dedica due pagine di descrizione minuziosa al fenomeno riemerso negli ultimi anni. Il “fenomeno”, “l’ondata”, questi i termini usati dalle varie testate. Il Times è uno dei primi ad occuparsi del “caso” nel 2005,
pubblicando una lunga inchiesta della giornalista Michele Kirsch. I telegiornali allarmano le famiglie con servizi su quella che definiscono una setta portatrice di cattive ideologie. Daria Bignardi spende un’intera puntata del suo programma trasmesso su la7, Le invasioni barbariche , a cercare di descrivere la comunità emo. Su Youtube impazzano video, creati da altri giovanissimi, che fanno il verso agli emo. I coetanei loro imitatori riconoscono questi “paranoici” ragazzi in un coro lamentoso: “Io sono emo, mi taglio le vene e sono depresso”. Negli Stati Uniti è nato un telefilm animato che ha come protagonisti dei supereroi che nella vita di tutti i giorni sono ragazzi emo.
Come riconoscerere un emo Il profilo comportamentale di qualsiasi emo, secondo i media, può essere contraddistinto da un pessimo stato d’animo (depressione e misoginia) e da una spiccata sensibilità. Riconoscere un emo d.o.c. dall’abbigliamento è senza dubbio più facile: jeans neri a sigaretta, cinture borchiate e maglie scure con stampe che nella maggior parte dei casi raffigurano teschi o cuori.
Avrei potuto scrivere pagine e pagine sugli emo dopo aver letto, ascoltato, guardato tutto il materiale informativo che circola in rete, ma prima di affidarmi alle notizie “confezionate” ho voluto parlare con dei ragazzi, qui nel capoluogo emiliano. Bologna infatti vanta una massiccia presenza di “giovani alternativi”, rintracciabili soprattutto nei week-end lungo i viali alberati del parco della Mantagnola.
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Confessioni di un ex-emo Incontro per strada un gruppo di adolescenti, li squadro. Pantaloni stretti, ciuffo da un lato, trucco pesante. Eccoli, sono gli emo. Mi fermo impacciata e gli chiedo di posare per una foto, sono molto disponibili, mi danno anche i numeri di telefono e dicono che per l’intervista non ci sono problemi. Mi sono documentata a fondo, ho
Cammy: “in realtà le persone più grandi non capiscono quello che pensiamo. Siamo adolescenti! Anche loro ci saranno passati, no?” tato per giorni la loro musica, ma non è stato sufficiente. Quando mi son trovata davanti questi adolescenti frizzanti quasi non potevo credere che ne sapessero più di me. L’intervista parte con ordine, i ragazzi in semicerchio di fronte a me mi dicono i loro soprannomi, l’età (tra i 14 e i 15 anni) e rispondono intimiditi alle prime domande. La musica ascoltata da questi sei adolescenti non corrisponde al fenomeno delle teenage-band che imperversa sui canali musicali. “La musica di Mtv non la seguo tanto, mi sembra ripetitiva” Heyd, 14 anni, di bologna. Di band come i Dari e i Finley dicono disgustati che sono fatte a tavolino, “sono quelle canzoni che dopo un po’ ti stancano!”. Alla mia domanda sui Tokio Hotel rispondono: “Prima li ascoltavo, adesso preferisco altra musica”. I gruppi che riscuotono consensi unanimi sono i Bring Me the Horizon (americani, genere death-core), i Suicide Silence (metal-core) e gli Escape the Fate che fanno emo-core. Questi ultimi “Non sono molto conosciuti perché non suonano musica commerciale, sono della Epitaph, un’etichetta indipendente”, precisa Heyd.
“L’anno scorso mi definivo emo, poi ho detto basta!” 28
Mery ascolta i Bullet for My Valentine e i My Chemical Romance. Questi li conosco, sono presenti in molti articoli che ho letto per documentarmi e vengono classificati dai giornalisti musicali come gruppi emo. Più vado avanti con le domande e più mi convinco che questi ragazzi a prima vista potrebbero appartenere alla cosiddetta “categoria emo”, ma poi approfondendo alcuni aspetti si capisce che ognuno di loro sta intraprendendo un percorso diverso, per conoscersi, per accettarsi e farsi accettare, come qualunque quattordicenne. La situazione di appartenenza ad un gruppo piuttosto che ad un altro è la motivazione principale che spinge i ragazzi ad assomigliare l’uno a l’altro. Le diverse “bande metropolitane” si dichiarano guerra per strada, a scuola, al cinema. Cammy:“Io sono stata al cinema sabato ed è stata una cosa atroce perché era pieno di truzzi!...Non so perché ci sia tanto odio tra noi, forse perché siamo troppo diversi.” Heyd: “Perché loro ci ritengono sfigati e noi riteniamo sfigati loro”. Cammy: “Un nostro amico è stato picchiato da alcuni truzzi solo perché non gli ha dato una sigaretta”. Ma non ci sono solo i truzzi, esistono vere e proprie micro-società differenziate
soprattutto da ideologie musicali. Cammy: “Ci sono gli alternative (quelli un po’ figli dei fiori), i fighetti, i maragli, i metallari, i punk…” Tutti difendono il loro modo di essere proiettando un immagine ben identificabile del gruppo, consegnando una visione più larga per avere maggior rispettabilità e credibilità. Ma poi alla fine questo non impone di socializzare solo con “individui simili”. Will: “I fighetti io li rispetto, si vestono bene e basta, possono ascoltare benissimo anche il rock”. Helli: “Io non ho problemi con i truzzi, ho molti amici che lo sono…però alcuni sono indecenti!” Quando chiedo loro se si definiscono emo rispondono con fastidio. Forse una domanda posta troppo spesso. Dice Cammy: “Non mi piace definirmi, perché appena ti definisci c’è qualcuno che ti dice che sei poser”. I ragazzi mi spiegano che il “poser” è “come uno che posa per delle fotografie, in quel momento non è se stesso”. A quanto ho capito poser si diventa nella fase di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Si inizia ad uscire, a farsi notare dagli altri attirando l’attenzione. È una recita, un atteggiamento eccessivo, colorato, carnevalesco. “Perché si vuole appartenere ad un gruppo, ad una massa” aggiunge Cammy. Hope dice: “Alla fine tutti siamo stati poser prima di diventare così”. Tutti e sei i miei intervistati concordano sul fatto che l’anno scorso erano “fissati con l’emo”. Heyd: “io l’anno scorso volevo essere emo e basta e mi tagliavo”. Mi dicono quasi tutti la stessa cosa: “ero emo”, per fortuna ora non più, penso io. E c’è chi ancora prima di diventare emo voleva essere truzzo. Heyd: “Ho iniziato ad ascoltare musica house perché volevo essere figo, poi ho capito che non faceva per me e son ritornato così”. Una continua ricerca per trovare la propria identità, per crescere ed accettarsi. Ora questi ragazzi dicono di non voler essere più etichettati, anche perché forse gli emo non esistono più. Come ogni altra
moda anche questa è sfumata, lasciando qualche traccia di trucco pesante, piccole cicatrici e ciuffi sui freschi volti di questi ragazzini. La bisessualità che la Bignardi esaminava come nuova e preoccupante tendenza è solo una trovata “chi dice di essere bisessuale o lo fa per fare il figo o è omosessuale e non vuole ammetterlo” risponde Heyd sulla questione. Michele Kirsch sul Times si preoccupava per l’umore dei giovani emo. La forte sovraesposizione mediatica di questo angoscioso modo di comportarsi avrebbe indotto al suicidio due ragazzine nel nord Europa, ma attribuire la morte delle due ai testi delle canzoni piuttosto che ai pensieri romantico-decadenti che appaiono sui blog non mi sembra plausibile. “Non solo gli emo si tagliano” precisa
Cammy, non solo gli emo soffrono e hanno dei problemi, concludo io. L’adolescenza è un periodo complicato, bisogna cercare di capire senza cadere in pesanti cliché. Helli: “io sono abbastanza felice. Non è che adori la mia vita, perché poi sono un adolescente, ma sono felice” Heyd: “anche se penso che la mia vita non è un granché cerco di cogliere quello che c’è di bello” Cammy: “in realtà le persone più grandi non capiscono quello che pensiamo. Siamo adolescenti! Anche loro ci saranno passati, no?” Foto e testo Daniela Guccini
Musica Emo : dal 1985 al 1994 Rites of Spring Embrace Fugazi dal 1994 al 2000 Get Up Kids Sunny Day Real Estate Weezer dal 2000 ad oggi A Static Lullaby My Chemical Romance
Letteratura Leslie Simon, Trevor Kelley, Everybody Hurts, An Essential Guide to Emo Culture. Steve Emond, Emo Boy Volume 1, Nobody Cares About Anything Anyway, So Why Don’t We All Just Die? Andy Greenwald, Nothing Feels Good, Punk Rock, Teenagers, and Emo.
Cinema Closed Space , Igor Vorskla, 2008. Emo Pill, Anthony Spadaccini, 2006. Ashes and Sand, Bob Blagden, 2003.
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Tana libera tutti . . . Bologna. In seguito alle ordinanze comunali definite antidegrado, i principali luoghi di aggregazione sono stati riempiti dalle forze dell’ordine. Gli studenti di Bologna sono costretti a giocare a guardie e ladri. Un ordine che vuole il vuoto, desidera il deserto e lo chiama sicurezza. Piazza Verdi, situata nel cuore del quartiere universitario, è diventata scenario di scontri continui tra la polizia ed i ragazzi. Il 20 maggio, i tafferugli si sono trasformati in una vera rivolta contro le forze dell’ordine. La polizia in assetto antisommossa tentava di sgomberare gli studenti accusati di bivacco. Una piazza piena di universitari che chiacchieravano seduti all’ombra dei primi soli estivi. Come spesso accade qualcuno si è alzato lamentando l’ingiustizia dello sgombero. A tali rimostranze la polizia ha risposto portando in commissariato il giovane. Altri studenti si sono avvicinati chiedendo spiegazioni. Così sono partite
le prime manganellate ricambiate dal lancio di bottiglie della folla ormai in sommossa. A Bologna viene sottratto il suolo pubblico, negato l’attraversamento urbano con allarmismi sulla sicurezza dei quartieri, false soluzioni che servono solo a spendere i soldi dei contribuenti; telecamere a circuito chiuso per le strade e sugli autobus, immobili e silenziosi testimoni del nulla, e l’ ultima delirante decisione di avallare le ronde di privati cittadini, quali expoliziotti ed esponenti di fazioni razziste e violente dell’estrema destra. Perché la paura è la migliore arma con la quale instupidire il “civis”, la paura rende dipendenti dagli organi di potere. E non basta la debole risposta della sinistra con le ronde del sorriso. Apparati arcaici pre-democratici, quali sono le ronde, non devono e non possono essere re-investiti di tale considerata legittimità, mettere toppe pericolose a problemi del tessuto sociale urbano serve solo a rincoglionire, e fare quindi così la vera violenza. Perché la violenza è
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segno di sé stessa, vuole mostrare solo il suo segno e basta. Non risolve, non si pone il problema di cosa viene dopo, si preoccupa solo dell’orma che il pugno lascia nell’istante che si schianta. Libera spazi, condividi saperi. E’ con questo motto che da una piega dell’Onda bolognese è nato Bartleby. Occupare per liberare. In via Capo di Lucca 30, a pochi passi da Piazza Verdi, era da tempo abbandonata una sede dell’Alma Mater Studiorum, un antico mulino completamente ristrutturato, un labirinto di stanze che i ragazzi hanno occupato per riaprirlo al sapere condiviso. Autoformazione universitaria che passa anche attraverso l’arte, la musica, ogni campo del sapere espanso. E se le strade sono murate dalla polizia, le mura accoglienti di Bartleby liberano attraversamenti metropolitani, intrecci tra breaker, professori, writers, dottorandi, fotografi, scrittori... Una forza liquida, che non si abbarbica
La Vedetta, Bartleby, via capo di lucca 30.
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in luogo fisico. E’ nel periodo successivo allo sgombero di via Capo di Lucca che la potenza esplosiva di Bartleby è deflagrata per Bologna, inondando persino la barricata via Zamboni. Reclame The Street, una notte di folla e musica, in cui la piazza crocevia è rimasta popolata solo da qualche desolata camionetta. Mentre tutti e tutte occupavano in festa pochi metri più avanti l’intera via. Folla come un insieme a pieno volume, non massa informe, ma forma d’Onda. A Bologna la strada si contrae ed espande, si riafferma, si riappropria dei propri contenuti, si sporca ed ibrida con attraversamenti cui era stata privata. Le porte del comunale riaperte, quelle voci diffuse da un megafono sulla piazza, vomitate senza volti, si sono riprese la loro identità moltiplicandola. E’ dalla collaborazione dell’orchestra del comunale con l’Onda e poi con Bartleby, che le porte del teatro sono state spalancate in una serie di iniziative che non solo hanno portato i ragazzi in teatro con “Colazione a Concerto”, ma anche i tanti concerti tra comunale e conservatorio, in luoghi altri, nuovi sia per gli interpreti che per il pubblico. Come ad esempio le aule occupate del “38”, la mansarda di Capo di Lucca, via Zamboni occupata. La strada si rivendica, come nel caso delle manifestazioni “Io non ho paura”,
organizzate dal TPO e da Bartleby. Evento giunto alla seconda prova il 2 giugno in piazza S.Francesco. E’ la pratica quotidiana dei luoghi che crea sicurezza, la presenza in piazza della manifestazione ha bloccato il giro delle ronde per le strade del Pratello. Il laboratorio di Hip Hop Arena 051 ha dato il via alla prima edizione dell’evento. Una pratica nata dalla strada, dal ritmo delle bombolette dei writers, torna alla strada, anzi alla piazza. E’ disciplina per i giovani ballerini di break ed i gruppi che si sono susseguiti in freemike per parte della serata. L’Arena 051 è composta da gruppi precedentemente già esistenti che si ibridano e collaborano per progetti comuni. Già da 2 anni al TPO la strada ha trovato luogo di dimora, al comune
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Reclame the street, Bartleby occupa via Zamboni,Bologna.
accordo di “No Mama”, i ragazzi si esibiscono senza insulti, conservando nei testi un forte impatto verbale, “non ci piacciono i tipi ingioiellati di mtv”. Sono ragazzi, come Angio, che frequentano medicina, o che già lavorano come Bazzo. Si esibiscono insieme nei contest, nelle strade alle quali hanno piegato un tetto, scenario coperto. Punto di partenza e di apertura. L’innaturale silenziatore attuato dall’ormai vecchia amministrazione comunale, è stato sottoposto a sgombero. E’ un nascondino che abbiamo deciso di rompere, a viso scoperto, senza paura di guardie e ladri. Testo e foto di Chiara Segreto
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L’ asta di biciclette 35
Foto e testo di Erica Gómez Rodríguez
A Bologna le biciclette che si vedono
avranno più di 30 anni ma continuano a passare di mano in mano. Le domande che mi pongo sono: che storia avranno queste bici? Quanti proprietari diversi le avranno guidate per le strade di Bologna? Esse hanno storie e identità precise e noi studenti fuori sede siamo parte integrante e protagonisti di queste...anche se in fondo credo sia solo la città la vera padrona.
Con lo slogan “per lo stesso prezzo, meglio usata che rubata!”, si è tenuta la XVI edizione dell’asta di biciclette che si è svolta giovedì 16 Aprile in Piazza Puntoni. Quattro messaggi accompagnano la campagna: “rifiuta qualunque offerta di biciclette rubate”, ”segnala alle autorità chi vende bici rubate”. Questa proposta di sensibilizzazione sociale è il risultato ottenuto dopo un concorso pubblico nel quale si richiedeva di suggerire delle idee per la vendita legale delle
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biciclette. L’obbiettivo dell’iniziativa è quello di combattere il mercato nero creatosi a causa della ricettazione e furto delle bici. Sostenuto e patrocinato dalle Associazioni Studentesche, l’Altra Babele e Terzo Millennio assieme al Comune di Bologna, al quartiere San Vitale, Università di Bologna e con la concessione speciale delle Ferrovie dello Stato che renderanno disponibili le bici abbandonate nelle zone della stazione. Gli organizzatori invitano tutti i partecipanti all’asta a presentarsi
con cartelli dagli slogan spiritosi, vestiti ed oggetti eccentrici e spiritosi per attirare l’attenzione del battitore d’asta e rendere la piazza un teatro di colori e situazione per un pomeriggio speciale. Quello che ha attirato la mia attenzione ispirandomi a scrivere questo articolo, è stato vedere quella moltitudine di persone di diverse età, tentare qualsiasi mezzo e travestimento per accaparrarsi una bici in modo da poter correre liberamente per le vie della città.
“per lo stesso prezzo, meglio usata che rubata!”
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pa kua di Simone Cucuzza e Giulia Serri
L
a nostra giornata comincia, così: 40 gradi o giù di li, da tempo ci domandavamo come fosse lavorare con dei ragazzi diversamente abili...con tanta curiosità e qualche diffidenza arriviamo al centro. Ci accoglie una atmosfera tranquilla e rilassata, tra chiacchiere, sorrisi e un altro caffè. Roberto è già pronto. Impaziente si allaccia la cintura della divisa con la serietà di un maestro di arti marziali. Finalmente ha inizio l’allenamento...
“Quel giorno anche il maestro mi aveva confessato che era sul punto di collassare dal caldo. Eppure non ha mollato nessuno.”
“Sono tutti proiettati verso l’idea di diventare degli sportivi. Alcuni di loro non hanno mai praticato sport, e non lo avrebbero probabilmente apprezzato se non ci fosse stata la spinta del gioco. Come disse un maestro itinerante che ci è venuto a trovare da Madrid, Lairton Telles: “nel nostro caso non si tratta di lotte, ma come di cuccioli che giocano”. Mi ha molto colpito perché è proprio quello
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che andavamo cercando: un percorso che porti a una maggior conoscenza e consapevolezza del proprio corpo e degli altri attraverso un allenamento in comune. Non è la marzialità che ci interessa, ma che accrescano la propria disinvoltura nei confronti dei “compagni d’arme”.” Vincenzo Baldari, educatore sociale, ci parla della sua esperienza di lavoro con i ragazzi diversamente abili, che dura
ormai da diversi anni. “Su ogni ragazzo c’è un progetto differente. Per alcuni, ad esempio, il problema era solo di socializzazione, nel senso che avevano un approccio remissivo col mondo: erano piuttosto permalosi, freddi, timidi o pigri. Sono tutti migliorati da molti punti di vista. Alcuni ragazzi hanno messo a profitto l’idea di fare sport e di entrare in confidenza con i propri limiti e le proprie caratteristiche. Una ragazza, Federica, che fino a quest’estate aveva bisogno di ausili, come la sedia a rotelle, ora cammina, si allena con noi. Su altri ragazzi invece i risultati sono di tipo mentale, ma altrettanto vicini al miracolo. Alcuni avevano forme di permalosità che impedivano loro di socializzare: come difesa si allontanavano dal prossimo. Attraverso la vicinanza dell’altro, durante l’allenamento, queste paure sono state superate.” Effettivamente l’atmosfera è tranquilla e divertente, tutti si impegnano nonostante l’afa. La cosa più bella è vedere i ragazzi mentre si allenano: si impegnano a fondo, a volte sono restii a tentare, ma alla fine ci riescono. Quando si tratta di provare a cadere, sembra di vederli giocare. “E’ comunque previsto che si cada, abbiamo un materassone alto 10 centimetri per muoversi in sicurezza. Si cade si ride e ci si rialza. Cadere non è un motivo per drammatizzare. Questa è la prima forma di attività sportiva che fanno. La parte iniziale della lezione prevede un riscaldamento, la possibilità di sciogliere i muscoli come una normale lezione di stretching, poi si fanno le tecniche. Anche quei primi esercizi sono una novità per loro. In una vita che passa tra la casa e le istituzioni è ben raro che si possa fare dell’attività fisica: lì ci si sfoga. Si cade, si ride, ci si rincorre, e poi alla fine si fanno le ammucchiate tutti insieme sul tatami!
E’ un modo per giocare ed è una cosa che serve a lavorare tutti insieme in allegria. Le nostre lezioni non sono improntate alla marzialità, sono improntate più che altro al divertimento. La marzialità diventa un pretesto. Così funziona: è interessante, stimolante e diventa una scusa per fare dell’attività fisica.” Vincenzo risponde alle nostre domande: Come si pongono i ragazzi in confronto a te? “Sono infinitamente più sciolti e molto più consci delle proprie possibilità. Prima quando ti dicevano “No, io questa cosa non la posso fare, non la voglio fare” finiva lì, era inutile insistere. Ora hanno molta più fiducia, credono di più in me. Hanno sempre dei limiti, ma puoi provare a convincerli, a stimolarli, non si bloccano al “non posso”. “Non posso” non è più l’ultima parola. L’incremento della fiducia non è solo nei miei confronti, ma anche tra loro: è bello vedere che fanno molto squadra, si aiutano.” Da quando avete iniziato ad allenarvi? “Abbiamo cominciato nel settembre del 2007, ora stiamo per concludere il secondo anno. Anche quest’anno chiuderemo con una forma di manifestazione pubblica all’aperto in occasione della festa di Arboreto “Arboreto in Fiore” che si svolgerà il 19 Giugno…fra i tavoli con le piadine correremo anche noi in kimono!” Parlaci del Pa Kua, perché avete scelto di praticare proprio questa disciplina tra le arti marziali? “Pa Kua è una disciplina che lavora sull’individuo e, se ammette l’esistenza di un nemico, questo nemico è soltanto il proprio limite. Non c’è la velleità di andar
"Lungo il percorso che si proietta verso l’apprendimento delle arti marziali, stiamo conseguendo delle tappe intermedie che sono le cose più interessanti. In realtà non ci interessa arrivare al punto zeta della preparazione perché tutti i punti intermedi sono degli obbiettivi." 39
fuori e mostrarsi superiori nel campo della lotta, ciò che importa è superare le proprie barriere. In un paio d’anni di allenamento i ragazzi hanno effettivamente superato i propri limiti sia mentali, sia fisici. Pa Kua non va commisurando le cinture o i gradi in relazione a quanto si è imparato delle tecniche insegnate o come ci si comporta in relazione agli altri, piuttosto a quali sono i progressi rispetto al tuo punto di partenza. Per passare di grado in Pa Kua ci sono maestri che vengono da altre palestre, spesso molto lontane, per fare le valutazioni. Anche i nostri ragazzi sono passati di grado. Hanno anche conseguito degli elementi di merito supplementari simboleggiati da strisce nella cintura del colore successivo: hanno tutti una cintura gialla con strisce arancioni, ora possono allenarsi su tecniche più avanzate. A noi non interessa conseguire cinture. Ma il conseguirla è un po’ un premio al lavoro dei ragazzi.” E’ la prima volta che viene svolta questa attività con i ragazzi?
Come riuscite a portare avanti questo progetto?
“Ci voleva un gran coraggio per tentare un esperimento del genere. Esistono già delle prove con il Tai Chi, una disciplina molto più morbida che non prevede contatti, e si pratica anche in età avanzata. Nel Pa Kua si lavora anche sul corpo degli altri e questo porta i ragazzi a sciogliersi molto. In Italia è la prima volta che si prova a fare arti marziali con i ragazzi diversamente abili. L’associazione Pa Kua ci ha molto seguito. Dalla sede di Firenze sono spesso venuti a trovarci, sia i maestri che gli studenti. Abbiamo fatto anche delle gite portando i ragazzi nella grande palestra di Firenze e sono stati accolti con molto affetto. Tutti I maestri itineranti coinvolti a Firenze di solito passano a Bologna a trovarci.”
“Il progetto è stato per il primo anno sperimentale, i risultati sono stati positivi e quindi molto apprezzato. Il secondo anno abbiamo tentato di avere dei finanziamenti dalla provincia e dalla regione. E’ stato valutato come programma innovativo, siamo arrivati decimi su sette progetti finanziati. Abbiamo concorso con Emergency, Save The Children, delle associazioni molto più grandi della nostra, è quindi quasi una soddisfazione già il fatto di essersi piazzati. Ci riproveremo l’anno prossimo. Siamo finanziati dalla nostra stessa cooperativa, Cadiai, che seppur in economia ci permette di andare avanti per la gioia dei ragazzi.” Siamo arrivati alla fine della lezione. Il Pa Kua inizia e finisce con un saluto. Il saluto
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è un concetto fondamentale per tutte le arti marziali in quanto espressione della cortesia e del rispetto, attraverso il quale ci si predispone correttamente all’allenamento. Questo è lo spirito delle arti marziali, l’umiltà: la prima lotta che bisogna vincere è quella contro la propria presunzione.
DUELLANTI
Roberto ha 47 anni e una forma di downismo piuttosto lieve. Era impensabile che alla sua età una persona iniziasse un percorso di arti marziali, ma il nostro obbiettivo non è quello di formare guerrieri quanto di far socializzare. Roberto ha preso molto seriamente questa attività: per esempio, Se noi perdiamo troppo tempo a prendere il caffè quando arriviamo, lui va subito in palestra a cambiarsi.
Federica (32 anni) ha una diagnosi particolare: oltre a un ha ritardo mentale non Federica (32 anni) una diagnosi parmolto accentuato, forti mentale probleminon di ticolare: oltre a un ha ritardo equilibrio nel muoversi gambe. molto accentuato, ha fortisulle problemi di Ora cammina, sta cominciando a correequilibrio nel muoversi sulle gambe. Ora re e fa l’allenamento dei calci. Abbiamo cammina, sta cominciando a correre e fa cominciato a dei lavorare a terra con lei, l’allenamento calci. Abbiamo cominin modo tale che non con potesse ciato a lavorare a terra lei, incadere. modo Adesso molto più sciolta e lavora tale che ènon potesse cadere. Adessoinè piedi come tutti gli altri. Pare checome anni molto più sciolta e lavora in piedi di fisioterapia non raggiunto tutti gli altri. Pare cheabbiano anni di fisioterapia questi risultati. Quindi è questi una cosa di cui non abbiano raggiunto risultati. siamo particolarmente fieri. Quindi è una cosa di cui siamo particolarmente fieri.
Vincenzo Baldari, educatore sociale.
Manuela (30 anni circa) ha una forma Manuela (30 anni circa) ha una forma di di downismo medio-grave che le comdownismo medio-grave che le comporporta una serie di problemi sia a camta una serie di problemi sia a camminare minare che a comunicare. Fabrizio dice che a comunicare. Fabrizio dice spesso spesso che, in rapporto al miglioramenche, in rapporto al miglioramento indito individuale, Manuela già per come viduale, Manuela già per come è meriè meriterebbe la cintura nera. Ha fatto terebbe la cintura nera. Ha fatto grandi grandi progressi. E’ interessante notaprogressi. E’ interessante notare che perre che persone normodotate spesso sone normodotate spesso non riescono non riescono a flettersi fino a toccare la a flettersi fino a toccare la punta dei piepunta dei piedi, lei invece ci riesce trandi, lei invece ci riesce tranquillamente. quillamente. Manuela aveva bisogno di Manuela aveva bisogno di appoggio appoggio per salire sul pulmino, menper salire sul pulmino, mentre ora non le tre ora non le serve nulla: si arrampica serve nulla: si arrampica come un gatto! come un gatto! Fabrizio Rossini, istruttore di Pa Kua.
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Un’arte antica Da sempre gli strumenti ad arco hanno la caratteristica di suscitare profonde emozioni. Il loro suono fa vibrare l’aria come nessun’altro strumento, trasmettendo sensazioni intense e coinvolgenti. Quando si ha la fortuna di entrare per la prima volta in una liuteria ci si ritrova rapiti e immersi in una dimensione irreale intrisa di odori, suoni e colori dai toni caldi, risulta impossibile non rimanerne affascinati. Sagome di violini, ponticelli da rifilare, violoncelli da riverniciare.. un mondo ricco di suggestioni e sensazioni fermo in un tempo altro. Bologna ha una storia molto particolare per quanto riguarda l’arte della liuteria, ricca di esponenti di rilievo, come i maestri Raffaele Fiorini (15/7/1828 - 18/10/1898) e Otello Bignami (6/8/1914 - 1/12/1989). Bignami iniziò la sua attività di liutaio verso la metà degli anni 40, studiando
e praticando per anni l’arte del restauro del legno, e grazie ai suoi studi e alle sue ricerche raffinate riuscì ad elaborare uno stile molto personale e particolare, come le vernici e un modello di violino a suo nome, che lo fecero entrare a pieno titolo nella liuteria di prestigio. I principali riconoscimenti alla sua arte vennero subito dalla Mostra Internazionale di Cremona del 1949, dal primo premio al 3º Concorso Nazionale di Liuteria della Accademia di Santa Cecilia a Roma nel 1956 e dal Concorso Wieniawski di Poznań del 1957 con medaglia d’oro e premio speciale quale “miglior liutaio d’Italia” La bottega dove svolgeva la sua attività si trovava in origine in via Guerrazzi n.10, ma attualmente è stata ricostruita minuziosamente all’interno del Palazzo Aldini Sanguinetti, dove ha sede il Museo della Musica, ed è aperta al pubblico.
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La tradizione liutaia bolognese è ricca di esponenti di rilievo come il Maestro Raffaele Fiorini, fondatore della Scuola di Liuteria Artistica nel 1860 e il Maestro Otello Bignami
La Bottega di Bruno Stefanini in via delle Belle Arti Luogo dove riscoprire un’arte antica che vive ancora oggi grazie all’abilità dei liutai professionisti Verso la fine degli anni ‘70, per assicurare la continuità della tradizione, gli venne chiesto di insegnare presso La Scuola di Liuteria Artistica Bolognese, fondata intorno al 1860 proprio da Raffaele Fiorini . Bignami trasmise grande esperienza ai suoi allievi nel corso della sua carriera, diventando un esponente di prestigio all’interno della scuola, e preparando questi giovani a introdursi nell’ambito artigianale. Adesso, dopo tanti anni, sono proprio loro a continuare la tradizione del grande maestro. Alcuni dei più noti sono Roberto Regazzi, Bruno Stefanini, Alessandro Urso ed Ezia di Labio. Col tempo ognuno ha sviluppato stili di-
versi affermandosi nel campo della liuteria con successo, aprendo una bottega e ricevendo riconoscimenti sia in Italia che all’estero. Roberto Regazzi è stato presidente della “Associazione Europea Maestri Liutai e Archettai”, membro della “Violin Society of America”, socio fondatore e presidente del “Gruppo Liuteria Bolognese” e membro del direttivo della “Associazione Liutaria Italiana” nel Gruppo “Liutai e Archettai professionisti”, di cui è stato anche vicepresidente. Bruno Stefanini fu assistente del Maestro Otello Bignami, ha uno stile decisamente ricercato ed è attualmente molto richiesto, soprattutto in America. Alessandro Urso porta avanti un progetto chiamato “Leuterius” realizzato in collaborazione con il musicista ed etnomusicologo Fabio Tricomi. Ha aperto una bottega dov’è si possibile trovare antichi strumenti ad arco e a corde provenienti da tutta Europa. Musicisti loro stessi, si esibiscono con un repertorio che spazia dalla musica classica a quella popolare. Ezia Di Labio ha invece creato, insieme
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all’architetto Mauro Bellei, una collezione di “Violini d’autore”: 16 violini, una viola e un violoncello lasciati alla libera interpretazione di artisti di varia estrazione Alcuni di questi sono i poeti Tonino Guerra e Roberto Roversi, il cantautore Giovanni Lindo Ferretti e il fotografo Gianni Berengo Gardin. Personalità diverse che contribuiscono a
La bottega del Maestro Otello Bignami, ricostruita fedelmente all’interno del Palazzo Sanguinetti per il Museo Della Musica in Strada Maggiore 34
creare uno stile ricco di sfumature per la liuteria bolognese. Attualmente, però, il settore artigianato sta subendo un declino sia per quanto riguarda la richiesta e la realizzazione di strumenti ad arco sia per la continuità del mestiere che si prospetta per il futuro. Il concetto di “bottega”, infatti, non corrisponde più ai vecchi canoni, gli artigiani difficilmente scelgono di prendere uno o più ragazzi come apprendisti personali. Questo perchè da qualche tempo, con l’entrata in vigore della nuova normativa per la formazione degli apprendisti, l’iter da seguire per l’assunzione è complicato, implica dei costi, ed è obbligatorio fare diversi passaggi burocratici come ad esempio la copertura assicurativa e la trafila
delle visite mediche. Ciò rappresenta un grosso ostacolo per una tradizione così antica come la liuteria. Se l’arte di chi adesso è attivo nel campo non verrà trasmessa a qualcuno che intenda lavorare con la stessa passione, questa tradizione sarà destinata ad interrompersi. E con essa, anche l’arte del maestro Otello Bignami e la Scuola di Liuteria Artistica Bolognese.
Alcuni dettagli della bottega del Maestro Bignami: le sagome dei violini da lui costruiti, il banchetto dove avveniva la lavorazione e i materiali da lui utilizzati 44
L’arte della liuteria è da sempre una passione che si tramanda da generazioni. Bologna ha la fortuna di possedere persone che portano avanti con grande impegno questa tradizione. Alessandro Urso è uno di questi. Maestro liutaio e professore di violino, esperto nella costruzione e nel restauro di strumenti ad arco. In queste foto possiamo vedere la sua bottega “Leuterius” in via Rialto 19/C ricca di strumenti antichi e provenienti da diverse parti del mondo. Foto e articolo di Virginia Caldarella
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I never want to be different, I just want to be me! Bodymodification; moda o altro?! Da quando sono arrivata a Bologna, una delle prime cose che ho notato sono stati i tanti ragazzi con delle modificazioni corporali, perlopiú tatuaggi e piercing. Avendo interesse per queste pratiche non potevo non notarle, e parlarne. Negli ultimi anni sia il piercing che il tatuaggio sono diventati quasi una moda, ma cosa c’é dietro alla decisione di farsi fare un segno permanente sulla pelle? Mi incuriosiva il fatto di sapere da altre persone le motivazioni dei tattoo, del piercing o di altre modificazioni. purtroppo non ho ricevuto molte risposte dai giovani con cui ho parlato. Girando per Bologna, sono andata a far visita ai due principali piercing studio, il BodyBag e ZacBodyart. Al BodyBag, mi hanno confermato, come già immaginavo, che la maggior parte dei loro clienti sono ragazzi che vogliono farsi fare un piercing; ovviamente sono rigorosamente acompagnati dai genitori essendo minorenni (la legge vieta di eseguire piercing e/o tatuaggi su persone mi¬norenni). I piercing piú “ricercati” dai giovani sono il “labret”, specialmente quello al lato del labbro inferione, i “monroe”, “eyebrow” e “navel”, con l’arrivo della bella sta gione. Ci sono però anche tante persone che cercano anche interventi un po’ piú estremi, come ad esempio il piercing ai genitali. Da ZacBodyart invece mi sono fermata un pó di piú. Mi sono fatta una bella chiacchierata con il piercer che lavora nello studio. Questa volta la conversazione era basata piú sul cambiamento di clientela col passare degli anni, di come la gente adesso “osi” molto meno che negli anni
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passati, i movimenti degli’anni ‘80 e ‘90 da cui sono “rinati” i piercing moderni e naturalmente tutti quelli degli inizi. Tornando al fatto che non ho avuto troppo successo con i ragazzi, ho deciso di seguire il consiglio che mi aveva dato una mia compagna di corso, e cioé di fare un’intervista a me stessa! A questo proposito ringrazio una futura antropologa, nonché carissima amica, Cristiana Amadei, che sta scrivendo la tesi in antropologia e mi ha datto il suo questionario da compilare. In questo modo è diventato molto piú facile esprimermi , e quindi spero che questa lettura si riveli interessante anche per gli altri. Il questionario si trova su internet ed é assolutamente anonimo, ed è proprio per questo motivo che la gente risponde molto piú volentieri cosí.
Alcune tipologie di piercing Labret: Foro al labbro, sia al centro che al lato del labbro Monroe: Foro al lato del labbro superiore Navel: Ombelico Eyebrow: Sopracciglio Bridge: Foro alla parte alta della pina nasale Tounge: Lingua Nape(surface-piercing): Piercing che vengono eseguiti su svariate parti del corpo, esempio Napecollo
Che la „confessione“ abbia inizio. Nome: Lara Zibret (il nome l’ho messo io di proposito). Etá: 25 anni Cittá: tra Bologna e la Croazia Quali sono le tue modificazioni? Piercing: vertical labret, bridge, tongue, nape, microdermal; Scarificazioni (cutting/branding): cutting, tre fiori di ciliegio sulla schiena e due tatuaggi. A che etá hai fatto la tua prima modificazione? Qual’é stata? Come hai maturato quasta scelta? Il primo vero piercing l’ho fatto a sedici anni. Lo chiamo vero, perché i fori con la pistola spara-orecchini non li considero nemmeno. Fin da bambina mi mettevo il filo di ferro a forma di orecchini al naso e sul labbro, quindi credo che il primo foro sia stata un scelta abbastanza cosciente. Quando modifichi il tuo corpo, quali sono le motivazioni? Mi piace la sensazione che da. L’istante del foro, l’adrenalina che si prova mentre si fa, non escludo il lato estetico, mi piace averli addosso. Ogni singola modificazione sul mio corpo mi ricorda un’esperienza vissuta, é quasi come un diario aperto a tutti peró scritto in una lingua assolutamente incomprensibile, di cui solo io conosco il significato. Alla fine, quando li faccio mi sento bene con me stessa, e credo sia questa la cosa piú importante. Hai mai fatto una sospensione? Come descriveresti l’esperienza? Si, ne ho fatte due fino a adesso. Vedere il proprio corpo superare dei limiti che pensiamo di avere, sensazioni che si mescolano ogni 5 secondi dalla paura piú totale all’adrenalina e all’euforia, il dolore che diventa piacere, tranquillitá... sensazioni che non saprei descrivere. Hai mai avuto giudizi negativi per le tue modificazioni? Da chi? Si, certo. Dalla maggior parte delle persone che non sanno niente in materia.
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Come giudichi chi reagisce negativamente? Non li giudico, a dire il vero non ci faccio piú neanche tanto caso ai giudizi degli altri... non mi interessano, tutto qua!
La scarificazione, o scarification in inglese é una pratica di modificazione corporale tornata in voga nel XX secolo. Si divide in 2 pratiche: il “cutting” e il “branding”. Il cutting coniste nell’incidere o tagliare la pelle, secondo un disegno preciso precedentemente stampato. Il branding consiste nel marchiare a fuoco la pelle usando delle barrette di metello incandescenti (oggi viene usato anche il cauterizatore).
Breve storia della modificazione corporale attraverso i secoli Circa 60.000 a.C. - Gli aborigeni australiani, probabilmente il popolo piú antico sopravvissuto sino ai giorni nostri, si dipingono il corpo, provocano cicatrici, incidono la parte inferiore del pene e allungano le labbra vaginali. 7.000 a.C. - L’allungamento del cranio è giá praticato nella Gerico neolitica, uno dei primi insediamenti urbani della storia. 4.200 a.C. - Le mummie di due donne nubiane mostrano una serie di linee e tatuaggi sull’addome, perforazioni delle narici, delle labbra, dei genitali e dei lobi e l’allungamento di questi. Potrebbero risalire piú o meno a cinquemila anni fa. 2.000 a.C. - Sulla mummia di una sacerdotessa egiziana della dea Hator, risalente al periodo dell’Undicesima Dinastia, sono visibili dei tauaggi. 1.900 a.C. - Le divinitá antropomorfe dell’area culturale del Mediteraneo orientale, dell’Europa dell’est e del vicino Oriente, mostrano segni che potrebbero essere tatuaggi e pitture corporee. 450 a.C. - Sui visi di alcune statuette di terracotta giapponesi sono presenti dei tatuaggi. Erodoto riporta che gli esponenti della classe aristocratica della Tracia erano tatuati, cosí come le personalitá piú eminenti dell’antica Grecia, in relazione alla professione e alla loro posizione sociale. 400 a.C. - I Maya, come diverse popolazioni africane, si limavano i denti anteriori rendendoli simili a quelli degli animali. 200 a.C. - In India si conosce la chirurgia plastica: un naso distrutto puó essere ricostruito sovrapponendo diversi stratti di pelle. In Grecia gli schiavi vengono marchiati a fuoco. IV secolo d.C. - Soldati romani chiamano Picti (dipinti) i guerrierri gallici, che combattono nudi e ricoperti di tatuaggi “oripilanti”. I centurioni, dimostrano la loro virilitá perforandosi i capezzoli e inserendovi dei gioielli. 550 d.C. - In Giappone gli appartenenti alle classi inferiori (macellai, boia, persone del circo ed altri) si distinguono per i tatuaggi sulle braccia. 720 d.C. - In Giappone si ricorre ai tatuaggi sul viso (per esempio scrivendo la parola “traditore”), per marchiare i delinquenti. Gli aristo-
cratici, invece, si fanno praticare piccolissimi
tribú di nativi americani.
tatuaggi intorno agli occhi.
1960 - 1980 - Gli hippies, gli Hell’s Angels e i
XIII secolo - In Giappone il tatuaggio non vie-
punk, si fanno praticare tatuaggi piú o meno
ne piú considerato una pratica riservata alle
estesi, spesso per esprimere la loro ribellio-
classi inferiori, ma assume il ruolo di arte raf-
ne nei confronti delle norme sociali correnti.
finata. Il “Black code” prescrive che gli schiavi
Contemporanemente, nelle comunity gay si
neri vengano marchiati a fuoco sul petto. Fino
afferma il piercing, specialmente tra i leather-
a quest’epoca gli artigiani di tutta Europa era-
men (dall’inglese “uomini che vestono in pel-
no riconoscibili, in assenza di diplomi scritti,
le” negli ambienti sado-maso) o i tribe di San
grazie ai tatuaggi che ne certificavano la pro-
Francisco.
fessione.
1970 - I punk, oltre a fare abbondante uso
XIX secolo - Dopo essere stati importati dal-
di tatuaggi, adottano pratiche tribali quali i
la Cina verso la metá del secolo precedente
piercing e la colorazione dei capelli, ispirata a
tramite una sorta di albo a fumetti, i tatuaggi
quella dei guerrieri papua; anche anche l’uso
artistici su tutto il corpo tipici del Giappone
dei capelli alla moicana fa parte del loro stile.
raggiungono l’apice della loro qualitá.
1977 - Fakir Musafar conia il termine “Modern
1852 - In Francia l’introduzione delle registra-
Primitives” e introduce l’uso dei concetti, e dal
zioni scritte in ambito investigativo, sostitu-
linguaggio spiritual-tribe tra le fila di coloro
isce l’usanza della polizia di marchiare i ladri
che praticano piercing e altre forme di modifi-
con un giglio tatuato sulla spalla destra.
cazioni corporali
1870 - In Giappone i tatuaggi vengono messi
1989 - Viene publicato il volume “Tatuaggi
al bando dall’imperatore Meiji: questo divieto
Corpo Spirito” di V. Vale e A. Juno, cui si deve
é rimasto in vigore fino al 1945.
la divulgazione su larga scala del tatuaggio
1882 - L’arte giapponese del tatuaggio rag-
neo tribale, cosi come la nuova popolaritá di
giunge l’Inghilterra vittoriana attraverso
pratiche quali il piercing, il branding, la scarifi-
l’opera di maestri come Sutherland Mac Do-
cazione (intesa come cutting), presente in piú
nald, che annovera tra i suoi clienti anche di-
delle volte in un contesto piú o meno pubbli-
versi monarchi. Sulla scia di questo consenso,
co o/e rituale.
molti esperti di tatuaggi cinesi e giapponesi
In Inghilterra l’immediato tentativo di mettere
si trasferiscono in Europa e negli Stati Uniti,
al bando il libro per oscenitá lo rende ancora
dove trovano anche aprendisti locali. La po-
piú famoso.
polaritá delle decorazioni è incrementata dal
1990 - Fakir Musafar scarificato e ornato di
successo delle esibizioni di persone tatuate
innumerevoli piercing fa uno spettacolo che
nei luna park.
consiste in una specie di convegno tribale sel-
1891 - Invenzione della macchinetta elettrica
vaggio, dove il divertimento si combina con
per tatuaggi
temi come la politica, il sesso e i diritti umani.
1939-1945 - In Germania i nazisti tatuano i
Con il “Lollapalooza Tour” , il cosí detto “rina-
prigionieri dei campi di sterminio con un nu-
scimento tribale” ha ottenuto la sua definitiva
mero sul braccio. I membri delle SS, invece, si
consacrazione.
facevano tatuare il gruppo sanguigno all’interno dell’avambraccio sinistro, per facilitare il lavoro dei medici in caso di necessitá. Sull’onda dei proclami hitleriani per una razza pura, alcuni genitori riscoprono le pratiche di rimodellamento del cranio, per ottenere nei bambini una testa dalla forma alta e allungata. 1945 - In Giappone il tatuaggio torna ad essere di nouvo legale. 1950 - Nelle subculture giovanilli, come quelle dei rockers e dei teddy boys, i tatuaggi riscontrano un grande successo. Tra i membri delle bande di strada newyorkesi fanno la loro comparsa le capigliature in stile mohicano, inspirate a quelle tradizionali dell’omonima
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Foto e testi di Lara Zibret
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IL CASSERO: L’ IMPORTANTE E’ PARTECIPARE fotografie e testi di Giorgia Dolfini
Per chi pur vivendo a Bologna ancora non lo sapesse, il Cassero è molto di più del circolo di ritrovo omosessuale della città. Il motivo per cui tutti dovrebbero averne coscienza è che si tratta dello stesso che spinge ogni anno migliaia di studenti e lavoratori a sostare in questa città: Bologna è libertina per antonomasia (o forse ormai solo per tradizione) e qui niente è chiuso in se stesso. Con questo voglio dire che un tempo, magari, fino all’ultima generazione di gay che potevano immaginarsi solo nascosti o iperesibizionisti nelle nottate al Kynky di via Zamboni o al Joy di Piazza Minghetti (era il ’77), tutto quello che si sognava per il futuro era l’istituzione di un luogo dove ritrovarsi. Poi, negli anni immediatamente successivi, quelli delle rivendicazioni, con in testa Mario Mieli e il suo libero dire che l’omoerotismo era una scelta possibile per tutti, anche le
In alto: un gruppo di ragazzi durante una delle serate, di fronte all’insegna del Cassero. In basso: a destra Franco Grillini, membro onorario del Cassero e di Arcigay, intento a fotografare altri soci del circolo.
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Alcune coppie al Cassero.
speranze si amplificano enormemente. Il tutto culmina nel 1982 con l’assegnazione del “cassero” (cioè la parte sopraelevata della fortificazione) di via Saragozza al circolo di cultura omosessuale da parte dell’allora sindaco Zangheri, nonostante le inutili istanze dei cattolici che avevano pittorescamente usato il ritrovamento di un’antica lapide al cassero per dire che si trattava di un luogo di culto mariano (e la Madonna in questione era quella di San Luca!) che non poteva per questo essere profanato.
Fortuna ha voluto che il movimento gay avesse alla guida rappresentanti con un ben più radicato senso della comunità: attivi cioè nella realizzazione di effettivi spazi di ritrovo, di relazione, di quotidianità per persone che slegate dal movimento erano sottoposte ad un’oppressione imperante e capillare. Tra questi non può essere dimenticato Samuel Pinto (meglio noto come la Lola Puñales) che durante un viaggio a Stoccolma registra mentalmente la struttura delle organizzazioni gay locali; ci sono sedi in cui, ac
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Hard Ton si esibisce sul palco esterno del Cassero in occasione della “festa elettorale “ per la candidatura di Bruno Pompa, il 2 giugno scorso.
canto all’attività politica, ci si incontra per bere, discutere, guardare film: insomma, per vivere insieme. Di anni ne sono passati, da allora. Il Cassero dal 2003 ha anche cambiato sede, trasferendosi nell’attuale “Salara” di via Don Minzoni, nell’ottica di aprirsi e svilupparsi in uno spazio più ampio e fornire servizi più diversificati. E sono tanti. Il Cassero dispone di un centro di documentazione che è il maggiore archivio a tematica gay e lesbica presente in Italia, con oltre 7000 unità tra libri e riviste, una sezione video e una fotografica, consultabili dal pubblico (tutto!) tutti
i giorni della settimana eccetto la domenica. Una rivista bimestrale e un sito internet aggiornato in tempo reale in cui ci si può informare sulle attività giornaliere e gli incontri programmati. Ogni due settimane, la domenica, c’è LiberaMente, un progetto per discutere di tematiche LGBT in cui si parla della sfera personale e di quella pubblica affrontando i diritti negati e possibili e l’omosessualità nella storia passata e recente. Più votato alla condivisione “estetica” è il gruppo di lettura di Arcilesbica che organizza letture collettive di poesie e romanzi, talvolta
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in occasione di cene con l’accompagnamento musicale. Memori del passato e attivi nel presente, si collocano invece uno sportello legale gratuito e un servizio di ascolto e comunicazione che prende il nome di “Telefono amico gay” e viene gestito da volontari per dare supporto psicologico e informazioni sulla vita gay locale. Il Cassero vuole parlare alla città: esiste un progetto scuola, dal momento che il periodo adolescenziale è quello in cui il pregiudizio può creare più danni al corretto sviluppo personale. E se il Cassero si propone bene, la città risponde, verrebbe da dire a proposito dell’ arcinoto “Gender Bender”, festival internazionale che presenta al pubblico gli immaginari prodotti dalla cultura contemporanea legati alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale. Promosso dal Cassero in collaborazione con la pregiatissima cineteca Lumière, il Gender Bender (che quest’anno si terrà dal 3 all’8 novembre p.v. ) è perfettamente in linea con le altre realtà europee e quando si vive in un Paese costituzionalmente arretrato e non solo dal punto di vista economico come il nostro, simili realtà elevano la mente e ci fanno sentire un po’ meno alieni…Ma torniamo leggeri, per un po’; il Cassero è anche esplosivo, disinibito, sfrenato e colorato come l’immaginario collettivo lo vuole. Basta capitare, in un primo venerdì del mese qualunque, alla serata “Feed the Bears”. Loro, i “Wonderbears”, si presentano così: “Grossi! Pelosi! Extraordinari!”. Nelle pagine di questo articolo vedrete Hard Ton, degno rappresentante e animatore di queste e altre nottate. Oppure presentatevi ad una serata “burlesque” dedicata agli spettacoli delle “drag queen”. In ogni caso, almeno per la metà della settimana, il groundfloor del Cassero è discoteca che propone di volta in volta musica commercial, house, electrohouse, indie-rock, brit-pop e tutto il resto. Ma ciò che conta di più, ed è quello che intendevo dire all’inizio, sta tutto in un esempio piccolo piccolo: se si consulta lo “Zero” nell’edizione bolognese, quel libretto mensile che indica gli avvenimenti più significativi da trovare in città giorno per giorno e divisi per categorie in cultu-
ra, musica e notte, ci si accorge che le serate del Cassero sono segnalate sempre almeno due volte ogni settimana. Se è vero che lo Zero è un catalizzatore di forze e le “forze” da incanalare vuole che ci siano tutte, omosessuali compresi, è vero anche che il Cassero è aperto a tutti, e il flusso costante di frequentatori lo dimostra.
Parlare del Cassero, nonostante tutto, dovrebbe voler dire parlare delle persone; ma lo stesso Beppe Ramina, tra i fondatori del Cassero, scrive che proprio perché è fatta dalle persone la storia del Cassero è scritta sull’acqua ed è difficile da registrare, fotografare e finire chiusa in un libro o in qualcos’altro (soprattutto per chi quella storia l’ha vissuta dall’inter-
no). Allora è divertente ricordare che un giovane Grillini, a Cassero appena nato, era solito fare la macchietta del vecchio bigotto bolognese e ritrovarlo poi oggi, pressoché onnipresente ad ogni evento organizzato dal Cassero con lo stesso spirito divertito di allora. In realtà la vita del movimento è un po’ quella di tutti coloro che ci lavorano o lo frequentano; il consiglio per tutti è quello di partecipare per perdere un po’ lo spirito nostalgico che eleva sempre il meglio ai tempi che furono, (per chi è affetto da questa sindrome), o per guardare da vicino una realtà interessante e con l’occasione, specialmente di questi tempi, di formarsi una coscienza civile più ampia.
In alto: parte dello staff del Cassero in posa di fronte al banchetto da loro organizzato per la “festa elettorale”. A sinistra: Bruno Pompa, direttore artistico e candidato del Cassero alle elezioni del 6/7 giugno, con Hard Ton sullo sfondo; a destra Bruno Pompa in giacca bianca per il discorso elettorale.
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UN PORTO SULLA VIA B
ologna è un capoluogo pieno di energia, c’è tanta vita per le strade, la gente passeggia, fa festa e si riunisce per le vie della città. Ma c’è anche tanta gente che proprio vive per strada, che ci dorme sotto i portici, in piazza, nei parchi, nei giardini, in biblioteca etc.. Molte persone sono senza fissa dimora, non trovano un posto in dormitorio, o proprio non lo cercano, facendo così della metropoli la propria casa. È una realtà che si vede ogni giorno, a cui di solito non si presta attenzione o non si fa uno sforzo per capire. Uno dei punti caldi in cui ci sono tanti indigenti è la stazione centrale. Proprio in questa zona si trova il centro diurno dell’ASP di via del Porto, una cooperativa che per conto del Comune cerca di aiutare queste persone, andando contro l’incomprensione e la marginalità. Arrivo al centro alle 10:30 quando è ancora chiuso, mi ricevono gli assistenti
Massimo e Massimiliano. Nel centro gli assistenti sono anche educatori, trattano l’utenza con metodologia, cercano di analizzare i problemi e di agire su di essi. C’è un’implicazione umana ed emotiva nel loro lavoro, però è necessario avere un distacco per trattare i problemi in modo razionale, cercando comunque di trasmettere passione in ogni occasione. L’idea è dell’operatore pari che coindivide l’esperienza con l’utente. Massimiliano mi parla del fascino e della soddisfazione dell’aiutare chi ha bisogno, anche se purtroppo i risultati sono rari, piccoli e brevi. Si tratta di proporre agli utenti un modo diverso di vivere la città, di offrire loro un momento di normalità. Si cercano piccoli successi, pratici. Tra l’utenza la costante è maschile, circa il 90%, e l’età varia dai venti ai sessant’anni, con una media che va dai quaranta ai cinquanta. Persone senza fissa dimora, con un basso livello culturale che di solito
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soffrono di danni fisici, psicologici, emotivi e sociali. Problematiche croniche che vanno dalla tossicodipendenza all’alcolismo. Non molti esponenti delle denominate “nuove povertà”. Ogni tanto ci sono problemi. In passato si sono vissuti momenti di tensione, risse ed incontri con i vicini del quartiere che si lamentano per il degrado della zona. In questi casi gli assistenti cercano di fare mediazione, però fuori la porta della mensa la responsabilità è delle forze dell’ordine. Nel centro sono attivi vari laboratori, gli utenti che partecipano alle attività ricevono in cambio una borsa di lavoro di centocinquanta euro al mese per due ore al giorno. Il periodo concesso è di 6 mesi e tutti devono essere già tesserati nella mensa del centro. Al mattino dalle 11 alle 13 si fa laboratorio artistico. Si creano maschere per la commedia dell’arte in collaborazione con una compagnia teatrale, realizate con cuoio e carta pesta. A volte gli utenti vengono anche invitati a teatro per vedere il proprio lavoro in scena. È gratificante creare qualcosa di utile e ottenere un riconoscimento per questo. “Non si finisce mai di imparare” mi dice Aurelio, responsabile del laboratoro da cinque anni. Lavora tranquillo come un
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artigiano che conosce il proprio mestiere, anche se ha un braccio ammalato da qualche giorno. Racconta che al pomeriggio ripara le bici, mentre da istruzioni per le maschere ai suoi compagni Cosimo e Giuseppe. Loro non sono originari di Bologna e risiedono nello stesso dormitorio. Alle 12 apre la mensa. L’accesso è riservato alle le persone tesserate, devono essere in trattamento e residenti a Bologna. Ogni giorno vengono serviti in media cinquantacinque pasti, non cucinati direttamente nel luogo ma riscaldati, gli utenti possono restare a mangiare nei ta-
voli della mensa o portare via. Dalle ore 13 alle 17:30 l’accesso è aperto a tutti, anche per i non tesserati che non potrebbero accedere al pranzo. Parliamo di un totale di quasi cento utenti al giorno che trovano almeno un pasto, un caffe, o semplicemente un momento ed un luogo tranquillo per vedere la TV, giocare a carte, o dormire un pò. Al pomeriggio inizia il laboratorio di informatica. Internet è un mezzo di comunicazione che serve a inviare un messaggio al resto delle società.Tutti collaborano per creare il sito “Asfalto”, il blog delle persone senza fissa dimora. Gli utenti imparano ad usare internet,
come Sandro, che comunica con sua figlia di otto anni attraverso la posta elettronica. La rete gli serve per restarle vicino perchè lei vive a Milano con la madre. Lui ha trentacinque anni, è siciliano e vive a Bologna da quattro. Ha girato l’Europa per dieci anni prima di stabilirsi in Emilia. Adesso stà per compiere il suo sesto mese di borsa di lavoro. Dopo il laboratorio va in centro a chiedere l’elemosina. È ospitato a casa di amici e collabora con le spese. Intanto Simone cerca immagini della Resistenza Antifascista per il blog. Ha un tatuaggio sul pugno destro con la scritta “ACAB” (all cops are bastards) e mi raccon-
Parliamo di un totale di quasi cento utenti al giorno che trovano almeno un pasto, un caffe, o semplicemente un attimo ed un luogo tranquillo per vedere la TV, giocare a carte, o dormire un pò. Si tratta di proporgli un modo diverso di vivere la città, di offrirgli un momento di normalità, cercano piccoli successi a livello pratico.
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ta che è il titolo di un brano di una band skinhead degli anni ‘80. Insieme stanno preparando un video in commemorazione dei partigiani. Hanno filmato una gita in museo e ora leggono poesie davanti alla telecamera. Francesco si occupa del montaggio del video, è un ragazzo di Forlì, ed è a Bologna da due anni e mezzo. Ha ventun anni ed è nella droga da quattro. È un punkabestia, sempre in giro con il suo cane, senza domicilio fisso anche se ora spesso dorme e fa la doccia a casa della sua fidanzata che studia nell’università. Mi racconta che sta pensando di cambiare aria, forse va in Spagna.
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Mirco piange. Ha perso da poco il suo amico e compagno di asfalto, Max. La sua è una storia di strada, di dipendenza e di degrado totale. Pensa anche lui alla morte, a prendere questa scorciatoia per finire con la sofferenza. La loro è pure una vita nella resistenza.
Grazie agli assistenti e agli utenti del centro diurno per la sua accessibiltà ed ospitalità. Fotografia e testo: Miguel Angel D’Errico.
E’ DAVVERO FACILE SMETTERE DI FUMARE? Io vi direi che è molto facile, come altri ex fumatori felici. Ma alcuni invece trovano questo percorso difficile perche devono investire tempo, pazienza e impegno per elaborare il distacco definitivo dalla sigaretta. Nella mia esperienza ho cercato di vivere serenamente questo percorso, cercando di dare meno valore alla sigaretta, togliendole tutta quella carica emotiva e quel significato che le attribuiamo ma che in realtà non le appartiene.
inala tramite la sigaretta e psicologica legata ai rito della sigaretta e ai bisogni psicologici. Per smettere di fumare e liberarsi in modo definitivo dal fumo, la motivazione è essenziale, ma a volte non basta e va aiutata a crescere. E’ importante desiderare smettere di fu-
mare. Nella maggioranza dei casi quando pongo la domanda: “Qual è il motivo che ti ha spinto a smettere?” riemerge sempre un fattore comune a tutti i fumatori: prevenire malattie future e alleviare i danni che il fumo ha già causato (tosse persistente, fatica a respirare, bronchite cronica ecc…).
MA C’OSE’ CHE CI FA TEMERE TANTO IL DISTACCO DALLA SIGARETTA? La nicotina è la “droga perfetta” perché induce dipendenza, ma è socialmente e legalmente accettata e adatta a molti usi: placare l’ansia, combattere lo stress, ci aiuta a tirarci su e a essere più produttivi. Quasi tutti i fumatori sono consapevoli dei danni del fumo, ma non sanno comunque rinunciare a questo “vizio”. Che piaccia o no, il fumatore ha una doppia dipendenza: fisica legata alla nicotina che
Sede del corso antifumo presso il Centro di Ricerca dell’ Istituto Ortopedico Rizzoli
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Nel suo percorso di disintossicazione dalla nicotina, il fumatore può trovare utile confrontarsi con altri, come ad esempio uno psicoterapeuta o un gruppo di sostegno psicologico. A questo proposito mi sono recata presso il Centro di Educazione alla Salute dell’ Istituto Rizzoli di Bologna, qui mi ha ricevuto la dottoressa Manuela Monti che mi ha spiegato le fasi dei corsi e come funzionano i trattamenti per la disintossicazione del fumo di tabacco. I corsi sono basati su approccio integrato, in cui vengono combinati tecniche cognitivocomportamentali, applicate in un sitting di gruppo di sostegno (di tipo aperto), al supporto farmacologico per ridurre l’intensità dei sintomi astinenziali (può trattarsi di sostitutivi nicotinici come cerotti oppure di veri e propri farmaci, nel qual caso la prescrizione viene definita insieme al proprio medico di famiglia oppure allo specialista da cui si è eventualmente seguiti). E’ previsto un colloquio iniziale e una frequenza di gruppo, articolata in una fase intensiva di due mesi e in una fase post-intensiva, in cui vari incontri di mantenimento sono distribuiti nei successivi 10 mesi. Nella fase intensiva, gli incontri di gruppo hanno cadenza settimanale. Complessivamente il corso dura un anno. Il gruppo ha un funzionamento aperto, prevedendo l’inserimento ogni quattro settimane dei nuovi partecipanti: 8-10 per ogni gruppo, questo ha il vantaggio di offrire ai partecipanti disponibilità e supporto costante, in qualsiasi momento del percorso di disassuefazione. Nei primi incontri, si applica la tecnica del fumo programmato, finalizzato alla riduzione graduale del numero di sigarette fumate, per mezzo di “compiti a casa” di automonitoraggio attraverso il diario delle sigarette fumate. Al quarto incontro, i fumatori che risultano astinenti da almeno 24 ore possono procedere con l’utilizzo di sostitutivi nicotinici (i cerotti, le gomme da masticare ...). Dal quinto all’ ottavo incontro si lavora sul mantenimento dell’astensione con l’obbiettivo primario di prevenire la ricaduta. Al nono incontro vengono inseriti i pazienti di un nuovogruppo e il programma viene ripreso, va-
Nelle due foto in alto alcuni dei componenti del gruppo antifumo del Centro di Educazione alla Salute degli Istituti Rizzoli di Bologna durante lo svolgimento del corso tenuto dalla dott.ssa Manuela Monti
lorizzando l’esperienza dei partecipanti che hanno già smesso e sono in fase di mantenimento (Monti, 2008).
LA PSICOLOGIA DEL FUMATORE Cosa ci fa cascare nella trappola del fumo? Le migliaia di persone che già lo fanno. Tutti noi pensiamo di essere padroni del nostro percorso esistenziale, ma in realtà il 99% di quello che siamo è un prodotto della società nella quale siamo cresciuti, perfino il nostro essere diversi tende ad essere preordinato. Fumare è la trappola più diabolica che l’uomo con l’aiuto della natura, sia riuscito a congegniare. Il lavaggio del cervello è il maggior ostacolo che spesso il fumatore si trova ad affrontare. La società, i famigliari, gli amici rafforzano la nostra dipendenza ancor più della nicotina stessa (Carr’s 2005). Si diventa fumatori nella maggior parte dei casi prima dei 18 anni, quasi sempre per rispondere ad un bisogno di sicurezza e per emulare gli adulti, con la con-
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vinzione che grazie al fumo sarà più facile gestire le situazioni di difficoltà, insormontabili per gli adolescenti, che devono ancora sviluppare un senso di identità, imparare ad accettare se stessi e gli altri. Oggi a distanza di anni dall’avvento del consumo di massa di sigarette, la società incomincia a vedere il fumo in modo diverso, non più come un qualcosa di intrigante anche nel cinema e nella televisione, si cerca sempre più spesso di
evitare la sponsorizzazione delle sigarette. Non potendo più sponsorizzare apertamente le sigarette, i pubblicitari trovano comunque modi alternativi per farci recepire il messaggio. Speriamo che funzioni anche l’altra pubblicità, quella che ci può aiutare a smettere, quella che vediamo tutti i giorni è che abbiamo sempre sotto gli occhi: nei pacchetti di sigarette, negli sponsor, nei libri, in internet e in tutte le persone che ci raccontano la loro esperienza con la disintossicazione dal fumo. Basta cercare le scuse più banali per continuare a fumare!
“E POI UNA SIGARETTA MI HA FREGATO” Questa frase l’ho sentita durante il corso per smettere di fumare al Rizzoli, la signora G racconta di una sua precedente esperienza, nella quale a causa di un’unica sigaretta ricade nella trappola del fumo. Molti hanno la convinzione di controllare un’unica sigaretta, uno dei maggiori inganni a cui può andare incontro un ex fumatore che crede o vuole credere di poter controllare un’unica sigaretta. Nei racconti degli ex fumatori emerge spesso questo elemento: un’ occasione sociale, divertente o difficile può mettere in pericolo il nostro tentativo di smettere. Spesso sono proprio i fumatori a farci ricadere nella trappola, infatti l’ex fumatore in alcuni casi, tende a invidiare il fumatore nonostante gli svantaggi del fumo siano ovvi e numerosi. “Ma il lavaggio del cervello che ci ha indotto a fumare la prima sigaretta è in agguato e può farci ricadere nella trappola” (Carr’s 2005). Ringrazio i partecipanti del gruppo di sostegno e la dottoressa Monti che mi hanno aiutato a scrivere quest’articolo parlandomi della loro esperienza. Manuela Assilli
Bibliografia: Monti, M. (2008) in AA. VV.: “Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale” Trento: edizioni Erickson. Carr’s, A. (2005) “E’ facile smettere di fumare se sai come farlo” Milano edizioni Ewi.
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UN’ AMANTE STRAORDINARIA Un’ esperienza di malattia e di vita Testo e fotografie di Caterina Faccia
Oggi si parla molto di handicap e di malattia e tutti sembrano sentirsi parte di un grande talk show dove è in obbligo esprimere una opinione su cosa è bene o male per chi soffre queste esperienze. Personalmente credo che ascoltare la loro voce sia la cosa migliore. Fabrizio è un uomo di 50 anni, alto e robusto, ha un passato sportivo e ne va fiero, un giorno vent’anni fa, inspiegabilmente durante un allenamento, un movimento particolare gli provoca la distorsione del rachide cervicale, gli parte così l’arteria basilare e Fabrizio cade a terra privo di sensi. Ricoverato d’urgenza al Pronto Soccorso la sua forte fibra reagisce e la sua immediata ripresa nasconde la reale gravità del male a medici incauti e superficiali che, tranquillizzandolo, lo rimandano a casa. Il giorno dopo Fabrizio è in coma. Questa volta il suo stato è evidente. Al capezzale accorre la giovane moglie disperata. Sono giorni di angoscia, durante i quali speranza e terrore si susseguono con lo stesso ritmo con cui lo assalgono le febbri neurologiche. Poi il verdetto inesorabile “Signora ci dispiace, non c’è più nulla da fare”.
Sopra Fabrizio con la moglie e la nipotina. Sotto Fabrizio all’età di 27 anni.
Fabrizio è dato per morto e solo la sua fisioterapista si rende conto che non è così. Lui ora ha presente quel momento, ricorda che avevano già mandato a prendere i suoi vestiti. Paralisi totale. Può muovere solo gli occhi e, proprio con gli occhi la logopedista gli insegnerà a parlare, ma il cammino verso una nuova vita deve fare i conti con l’atteggiamento interiore, Fabrizio non è più padrone del proprio corpo, ma la mente è vivissima e lucida, come vivere ora? Come tornare dalla moglie? No, Fabrizio non vuole più vederla la propria moglie, inconsciamente difende la propria dignità, accetta solo le cure di una sorella. Ci vorrà tempo e pazienza perché Vita, la compagna della sua esistenza, possa tornare a stargli accanto. Oggi Fabrizio e Vita, mi accolgono nella loro bella casa studiata per le esigenze speciali del marito. Ho chiesto loro
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di raccontare l’esperienza straordinaria che hanno vissuto e stanno vivendo tutt’ora e di poter fare delle foto. E’ una bella giornata, Fabrizio chiede di fare una passeggiata verso il vicino Centro Commerciale, con loro c’è la giovane nuora e la piccola nipote di sei mesi. Mentre andiamo pongo le mie domande a Fabrizio e lui dalla sua carrozzella mi risponde con un sistema particolare, indicando le lettere con gli occhi, Vita a volte interviene, a lei bastano solo due lettere per capire immediatamente la parola, c’è una intesa incredibile tra i due. ” E’ vero” Sorride Vita mentre accarezza il suo Fabri “Oggi abbiamo una armonia e un legame di coppia più profondo di quando ci siamo sposati, è frutto della nostra storia, di quello che abbiamo perduto e di quello che abbiamo trovato. La gente forse fa fatica a capire, ma Fabri ha tante piccole attenzioni per
Sopra fabrizio con la nipote al supermercato. Sotto Fabrizio nel parco del centro diurno.
me, nella sua situazione potrebbe essere molto egoista, tanti lo sono, invece si preoccupa costantemente che io stia bene e possa fare quello che desidero, ad esempio accetta senza lagnarsi il Centro Diurno che odia, solo perché io
possa lavorare o fare un po’ di vacanza.” Quando hanno dimesso Fabrizio nessuno dei familiare pensava che quella giovane e spensierata ragazza se lo sarebbe portato a casa, tutti credevano che lo avrebbe messo in un istituto. Invece lei aveva nel frattempo trovato una incredibile forza che niente avrebbe potuto spezzare, non la morte della amatissima madre avvenuta proprio in quei giorni, non il trasloco verso una casa adatta, per fare tutto da sola, non il crescere il loro bambino senza l’aiuto attivo del marito. Scopro così che i due si erano sposati giovanissimi, molto innamorati e come tanti giovani, pieni di voglia di vivere e giocare. Il problema di fondo era come divertirsi, bei momenti ma un po’ superficiali e così anche gli amici che, dopo la disgrazia, si sono tutti rapidamente dileguati… se non hai una solida struttura di fondo il dolore fa paura. Ma il dolore è davvero parte della vita , lo psicologo Viktor Emmanuel Frankl lo
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considera uno dei grandi cinque ineludibili significati dell’ esistenza assieme alla nascita, la morte, il lavoro, l’amore. Il racconto continua “Durante la malattia qualcuno ci ha avvicinati alla trascendenza. Noi eravamo lontani le mille e miglia e avevamo fatto battezzare nostro figlio solo per tradizione, Fabri poi non ne voleva assolutamente sapere, gli sembravano solo gesti e parole fintamente consolatori, per non dire dei preti, che per lui erano come il fumo negli occhi . Io invece mi ero già lasciata catturare dalla bellezza del sentirmi amata e soprattutto sostenuta da un Padre . Un giorno mi sono imposta: io spingevo la carrozzella, io decidevo il percorso, così l’ho portato di forza nella cappella dell’ospedale. Fabri si è incantato davanti alla statua di Gesù e si è sciolto in un pianto inarrestabile, nessuna psicoterapia sarebbe stata così potente, quell’incontro gli ha ridato la voglia di lottare. Mi vengono in mente quelle conversio
Sopra Fabrizio con la nipote in un centro commerciale.Sotto Fabrizio con la moglie, il figlio,la nuora e la nopote.
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ni improvvise di intellettuali atei come Paul Claudel o di Max Jacob. Certo la fede non cancella il dolore, ma gli dà un significato e soprattutto una speranza”. Fabrizio mi dice che nella fede trova la forza di andare avanti, scherza dicendomi di avere un’amante bellissima di nome Maria. Gli chiedo se è felice, mi risponde che lo è solo in parte. E’ felice di esistere e la sua esperienza gli ha fatto scoprire nuove realtà . Oggi prova sentimenti e interessi che probabilmente non avrebbe mai potuto conoscere diversamente. Mi trafigge con gli occhi quando sillabando nel suo modo speciale afferma di possedere la forza e la gioia di esistere , di avere accanto a sè persone che ama e che lo amano e nuovi amici che non hanno paura della sofferenza Ma c’ è anche tutta una parte di dolore che nasce dal non essere libero, dal non poter disporre di sé, non avere la possibilità di progettare spazi lontani come un tempo, lui però non dispera “ Chissà …tutto è possibile…ti dirò la Speranza non mi abbandona mai!”
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APPENA SENTIAMO QUESTA PAROLA IN QUALSIASI MOMENTO E IN QUALSIASI POSTO , RICORDIAMO 22 PERSONE CHE CORRONO PER CATTURARE SOLO
PALLA!
UNA ... SI , SOLO UNA PALLA!CHI SONO QUESTE 22 PERSONE? SONO RAGAZZI CHE FANNO
SPORT?
SONO PERSONE CHE SI CIBANO DI QUESTO MESTIERE? O SONO 22 SANTI CHE POSSONO PORTARE AVANTI IL DESTINO DI UN 65
PAESE?
Appena sentiamo questa parola in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo , ricordiamo 22 persone che corrono solo per impadronirsi di una palla! ... si ,solo una palla! Chi sono queste 22 persone? - sono ragazzi che fanno sport? - sono persone che si cibano di questo mestiere? - o sono 22 santi che possono portare avanti il destino di un paese? Quando ero bambina guardavo mia mamma che era incantata... guardava gli uomini piccoli nella scatola magica che correvano per prendere una palla, e io da piccola stupida, di solito le chiedevo “perche non danno ad ognuno di loro una palla”? Bello vivere nel mondo dei bambini ...pieno di palle! Da piccola “il fanatismo”di mia madre per il calcio riempiva tutta la casa di un odore di cibo bruciato, e da grande quasi sento odore di sangue crudo che proviene da quella stessa scatola,ormai non è più magica...troppo risse,non si gioca più. “Cos’è questo sentimento che ti fa gridare?” Ancora più ridicolo è il fatto che “la politica” si mischi con le palle! Il calcio è un potente mezzo di distrazione per il po-
polo usata dalla politica, in un quasi tutti i paesi, per cui le partite sono seguite molto più assiduamente dei processi per corruzione dei governanti. Che differenza c’è tra le “sedie rosse” e le altre sedie allo stadio? Chi si siede sul quelle “rosse”? Il calcio è un sport del popolo; il popolo si unisce in un solo colore; allora perche ci sono diversi colori? Per essere un buon tifoso di calcio quali caratteristiche devi possedere più di tutto? - Essere un amante del calcio? - Essere un ammiratore facoltoso? - Oppure essere un uomo che ha il poterer di sedersi sulla sedia “rossa”? Quante domande ci sono nei nostri cervelli che non riescono mai ad avere una risposta? T I F O S O L’etimologia di “tifoso”, nel significato di chi fa il tifo per una squadra o un atleta, è controversa. La parola è entrata nei nostri dizionari nel 1929. La derivazione più probabile è che la voce sia legata alla nota malattia, che si manifesta in febbri improvvise e può portare alla morte. Il “tifo” è infatti contagioso, e anche la passione per una squadra lo è: il “tifoso” ha febbri altalenanti e anche quello che sta allo stadio può infiammarsi nel suo ardore. Quando il tifo sportivo diventa una della tante nuove malattie di dipendenza,il caso si fa grave: ed ecco la stupidità e la morte di qualsiasi barlume d’intelligenza. Quanti soldi si nascondono dietro a una partita? Possiamo cominciare con quelli che tagliano il prato, le pulizie del campo, i venditori dei biglietti, i ragazzi che fanno gli striscioni, i commercianti delle magliette, la polizia di guardia, i fotografi, i ragazzi pieni di fumogeni nascosti nelle mutande, i gelatai ambulanti, i giornalisti, gli scommettitori, quelli che fanno la radiocronaca e la telecronaca e che urlano sempre. E alla fine la gente...la gente che grida per tutti e 90 i minuti. Che noia guardare il calcio in casa seduti sul divano con una confezione di patatine che neanche ti fa compagnia! Invece allo stadio... quante sedie... quante gente... quante parol... cce.
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Perche la gente si permette di urlare e ascoltare certi termini che vanno moltro oltre le parolacce? Questo comportamento mi fa ingrandire il punto interrogativo per definire la libertà. (riformulare). L’arbitro, questo angelo tra i demoni che con il suo strumento fischia... e parte il delirio. I primi 20 minuti ti senti un pò spaesata, ma dopo parti anche tu. Quanto è bello sfogarsi con tutta la tua forza , urli ... urli ...urli... davanti a mille e mille persone che a loro volta ti rispondono, anzi urlano tanto anche loro. Lì non hanno più importanza i colori delle sedie, le persone si uniscono con un gesto naturale, come l’onda del mare , e sembra che abbiano tutti un potere “imbattibile” Holaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa - Questo è entusiasmo - Questo è colore - Questo è lo stadio Viva lo sport. Testo e foto di Mozhde Nourmohammadi
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Il viaggio continua testo e fotografie di Julia Tikhomirova La zona Pilastro del Quartiere San Donato, area situata nella periferia della città, è caratterizzata da una forte presenza di edilizia popolare e da un’alta concentrazione di residenti stranieri. I numerosi indicatori di forte disagio sociale (denunce penali a carico di minori, micro criminalità, consumo e spaccio di sostanze stupefacenti) oltre a fenomeni come l’abbandono scolastico, hanno determinato la necessità di operare concretamente nei confronti degli adolescenti, ai quali il territorio non offriva alcuna risposta educativa, formativa e di socializzazione. Per rispondere ad un preciso bisogno riscontrato nel territorio nell’anno 2003 è nato un progetto rivolto agli
adolescenti e ai giovani adulti residenti al Pilastro. Il gruppo a cui fu data la denominazione di “Katun” (la Giostra) iniziò la propria attività con l’apertura del centro per tre pomeriggi la settimana e la presenza di due educatori professionali. Il progetto cerca di rispecchiare la complessità del quartiere, dove si trovano a convivere diverse comunità, coinvolgendo ragazzi provenienti da contesti differenti. I giovani partecipanti sono per lo più rom originari della ex Yugoslavia e dell’Albania, i quali, in seguito alla dismissione dei campi-sosta agli inizi del 2000, vivono attualmente nelle case popolari. Ci sono comunque anche italiani ed africani dal Maghreb e dal Congo.
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Nella pagina accanto e qui sopra: il Pilastro, quartiere residenziale nella periferia nord-est, fu progettato negli 60 per soddisfare la grande richiesta di alloggi popolari per le ondate di immigrati meridionali
I componenti del gruppo sono tutti a forte rischio di esclusione sociale sia per l’appartenenza etnica, sia per le loro condizioni economiche. Il progetto “Katun” quindi punta non solo a contrastare questo fenomeno ma a far assumere al gruppo un ruolo di spinta nella creazione di relazioni positive nell’intera area del Pilastro e non solo. Tra le varie metodologie proposte l’arte svolge un ruolo fondamentale. Basti pensare al progetto Icaro, realizzato nello Spazio Giovani della Ausl con la produzione di un musical sui temi dell’affettività, rappresentato sia all’ex
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“Tirò” che al circolo “La Fattoria”. Sull’onda di quell’esperienza il gruppo, che ha assunto per volere dei ragazzi stessi il nome di “Katun Party”, ha iniziato a provare regolarmente una volta alla settimana, prima al “Centro Anni Verdi” del Pilastro e poi al “Vag61”. Fra gli obiettivi dell’ associazione vi è quello dell’organizzazione di uno spettacolo incentrato sui temi della cittadinanza attiva e partecipata (la cui prima prova ufficiale è stata al teatro del centro giovanile “Barrios” di Milano), e la creazione di varie animazioni e feste. Il percorso di crescita e di au
tonomia del gruppo verrà documentato in un diario, di prossima pubblicazione, elaborato collettivamente e costituito da testi scritti ed immagini. Dal diario di “Katun Party”: “Ci siamo, oggi inauguriamo la sede. Forse potevamo aspettare qualche giorno in più, forse potrebbero venire più persone… Ma è troppo tempo ormai che stiamo aspettando… anni. Un educatore incontra un gruppo di ragazzetti rom di un quartiere di periferia, li perde di vista per anni, li ritrova cresciuti, altri progetti, altra gente a lavorarci, stesso gruppo. Mi avevano fatto un’impressione bella forte quando erano piccoli, scatenati, uniti, adrenalinici, fantasiosi, non sono cambiati molto. Quindi il gruppo Katun, quindi i soggiorni estivi, i conflitti, le prove, i primi spettacoli… La bella notizia: “Il progetto è passato! Il viaggio continua...!”
Sotto: Pilastro, 2009. A fianco: “Katun Party”, le prove dello spettacolo, scritto dai ragazzi, che ha come soggetto la vita di un clandestino.
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La cena etnica di autofinanziamento, organizzata dal gruppo “Katun” al centro sociale “Vag61”, quartiere San Donato
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Accademia di Belle Arti di Bologna Realizzato dagli Studenti del corso di Fotografia del Biennio Specialistico di Fotografia
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