Il Fantuttone - F.Merlo - Introduzione

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È di Renato Brunetta l’idea di raccogliere tutti i miei articoli su Renato Brunetta. Quando si polemizza con lui, e non importa su quale argomento, arriva sempre il momento in cui Brunetta grida: «Razzista, sei un razzista». Basta infatti un accenno, diretto o indiretto, alla sua statura, basta pronunziare le parole “basso” o “piccolo” o soltanto dire che il progresso umano è dovuto allo sforzo dei piccoli proprio perché insofferenti del poco spazio che occupano, e Brunetta tira fuori l’argomento che gli sta più a cuore: «Razzista» urla al telefono, «quello è razzista» racconta in tv e nei libri che scrive. E qualche volta lo fa con ironia: «Dica la verità, lei mi trova ancora più piccolo che in televisione?» Più spesso ricorre al tono stizzoso e bisbetico che lo ha reso famoso, «Come reagirebbe lei, se avesse un figlio al quale dicessero continuamente “nano, sei un nano”?» Ma sempre si avverte, neppure tanto fuori scena, il compiacimento per il disagio sopportato, per le presunte umiliazioni subite, per la grandine di dileggi e di sciagurate persecuzioni che si sarebbero abbattute sulla sua vita di piccolo ma ingombrante genio. È la prova di una grande fragilità, prima ancora di un’ossessione? È vero che la sua insistenza facilmente può far venire in mente l’idea – il luogo comune direi – che ci sia una voglia di risarcimento, anche fisico, oltre che psicologico e sociale, alla base delle sue sparate: «Avrei preso il Nobel per l’Economia se non avessi scelto di servire il mio Paese con la politica». E sono sicuramente materia di psicanalisi i mille insulti pronunziati non al bar ma nei convegni pomposi, nelle sedi istituzionali, da cattedre solenni e prestigiose: fannulloni, ignoranti, siete la peggiore Italia, vi prenderei a calci, la sinistra di merda… Quel ridere che subito degenera in sghignazzata, il carattere rancoroso, il malanimo che si percepisce nei suoi sfoghi sempre violenti, esprimono davvero l’animoso bisogno di un risarcimento, la rabbia che cerca riscatto. Sicuramente c’è qualcosa di andato a male. Ma si tratta evidentemente di una furia sociale, culturale e politica. Quella della statura fisica è invece una trappola nella quale Brunetta cerca sempre di far cadere i suoi critici per poter appunto dare una legittimità, nientemeno antirazzista, al disprezzo infantile che non riesce a governare ma dal quale, al contrario, si fa completamente dominare. Fortunatamente quasi nessuno lo prende sul serio come vittima di razzismo, se si escludono i giornalisti che lavorano per lui. Nessuno per esempio può davvero pensare che Massimo D’Alema gli abbia detto che è «un energumeno tascabile» per razzismo. È difficile immaginare che D’Alema coltivi forme di disprezzo che, come quelle di Brunetta del resto, non siano intellettuali ma legate alla struttura fisica. Anche perché D’Alema, il quale è umorale e spocchioso quanto Brunetta – anche se non vive di dinamite come lui ma semmai di veleno – è a vista d’occhio piccolo di statura. Viviamo in un Paese che ha costruito semmai un razzismo al contrario, trasformando la bassa statura in un punto di forza, a partire dallo sport dove Gianni Brera ha inventato la teoria degli abatini vincenti. Con cura e attenzione letteraria abbiamo sottolineato, insistito, martellato e magari


un po’ stufato su quanto sia basso e tuttavia alto il genio italiano, e siamo tutti innamorati del Rascel corazziere: «Mamma ti ricordi quando ero piccoletto…» E difatti Brunetta, quando apparve sulla scena italiana, fu subito simpatico. Già nella prima foto di gruppo del governo Berlusconi sembrava appunto incarnare la figura retorica del piccolo che è grande e dai grandi merita l’omaggio. L’idea fissa è quella della terribile potenza del piccino che ha dominato il Novecento. E si va da Lenin (1,68) a Stalin (1,63). Da Hitler (1,69) a Francisco Franco (1,66). Per non parlare di Al Capone (1,63) e di Totò Riina (1,50). E della regina Elisabetta che, coi tacchi, supera appena l’altezza dell’amatissimo re Hussein di Giordania. E di Hirohito, sulla cui bassissima statura esistevano, quando l’imperatore del Giappone era in vita, diverse versioni, tutte apocrife, mormorate e insolenti perché non c’è sistema metrico che possa misurare la levatura di un dio in Terra. Negli anni dei teorici della razza, il già dotto e fantasioso Amintore Fanfani (1,63) scrisse un autorevole elogio dei brevilinei che, pubblicato nel 1936 a cura dell’Università Cattolica, dove Fanfani insegnava Storia economica, fu così giudicato dal Duce (1,66): «È magnifico, ma con un unico difetto: è un po’ lungo». Fanfani, che da leader democristiano avrebbe poi affrontato i giornalisti impertinenti con il classico «vile, tu uccidi un uomo corto», scrisse il suo saggio, oggi reperibile solo nella biblioteca Sormani a Milano (ne pubblichiamo un estratto qui, in appendice) in un fascicolo riassuntivo del dodicesimo Congresso internazionale di Sociologia, che si era tenuto a Bruxelles dal 25 al 29 agosto del 1935. L’articolo verteva su L’evoluzione costituzionalista delle classi dirigenti ed era accompagnato dagli interventi di altri costituzionalisti, tutti specialisti di Costituzione, ma nell’ovvio senso di costituzione fisica. Ed è sorprendente come, in quegli studi di allora, si ritrovino – purgati degli aspetti cosiddetti scientifici – tutte le convinzioni e i luoghi comuni di oggi, ai quali non si può negare una certa verità, anche a quelli nascosti nella retorica del piccolo perciò grande. La vulgata popolare, che si spinge sino alle barzellette sui nani, attribuisce infatti al longilineo un’intelligenza contemplativa, analitica e mesta, da taciturno indeciso e sognatore malinconico, con la chioma folta e le sopracciglia corrugate nello sconforto, mentre dall’altra parte c’è il faccione pieno e sorridente con il cranio quasi calvo, il doppio mento e il collo massiccio del brevilineo energico, persuasivo, ottimista, sintetico. Nell’Italia di Mussolini e Vittorio Emanuele iii, i cantori dei brevilinei non si limitavano, come implicitamente fanno oggi i cantori del piccolo-grande Brunetta, a invocare la rivincita sulla natura avara e ingiusta dei vari Napoleone (1,53), Luigi xiv (1,56), Alessandro il Grande (1,50), Carlo Magno (1,51), Attila (1,54) e Tamerlano (1,45). Nell’Italia dominata dalla «alta personalità brevilinea astenica, con la sagoma fisica quadrata, la mente cesarea, la volontà incrollabile e la duttilità delle risorse», non poteva certo bastare l’ipotesi, di povero buon senso, che il piccoletto si rivolti contro la fisica e la metafisica e sfrutti il suo astio in cerca di un risarcimento, e che diventi dunque tenace e irresistibile, e magari


cattivo, ma pur sempre infine grande grazie all’inesauribile tensione e alla voglia di rivalsa. Invece, studiando i quadri di Gentile Bellini e di Tintoretto, il ventottenne professor Fanfani elabora tabelle e scopre che nei ritratti del primo sono prevalenti i brevilinei e in quelli del secondo i longilinei e da qui spiega il rigoglio dell’Italia del Trecento-Quattrocento e la crisi dell’Italia del QuattroCinquecento. Allora Fanfani leggeva la storia come lotta tra brevilinei e longilinei, e vedeva nella vittoria degli uni sugli altri il prevalere della produzione sul consumo, dell’accumulazione sulla dissipazione, della crescita sulla crisi, in definitiva del Bene sul Male. Anche nel mondo d’oggi, dominato dall’effimero e dallo spettacolo, si rimane sbalorditi misurando i piccoli-grandi miti del Secolo (breve): da Marilyn (1,62) a Marlon Brando (1,65), da Dustin Hoffman (1,58) a Woody Allen (1,63), da Paul Newman (1,62) a Humphrey Bogart che misurava 1,64 e si rialzava coi tacchi, come il Berlusca e come Sarkozy. Sono elenchi inspiegabili se non si accetta sommessamente, a mani alzate, l’elogio del brevilineo, magari evitando di spingersi troppo in là come il costituzionalista Fanfani che trovava i longilinei «ipertiroidei, iposurrenalici e ipogenitali» e i brevilinei «ipotiroidei» e, ovviamente, «ipergenitali»… Ecco: se mi sono dilungato su questo punto e ho riproposto le scientifiche corbellerie che fanno però parte dello spirito di un popolo, è perché Brunetta, dando del razzista a tutti i suoi antagonisti, rivali e competitori e dunque pure a me, meritava una risposta definitiva o, per dirla con ironia, una soluzione finale. Anche io del resto sono piccolo di statura, ma non mi agito come lui. Perciò ogni volta che mi ha dato del razzista la mia reazione è sempre stata: suvvia Brunetta, non fare così. E adesso ho portato a termine io quel che lui aveva solo cominciato e minacciato: ho detto sì alla gentile sollecitazione dell’editore Aliberti e ho raccolto qui i miei articoli su Brunetta, benché io non ami i libri dei giornalisti e meno che mai i libri che dei giornalisti ripropongono gli articoli. Ma l’ho fatto per ribadire con convinzione che la statura è probabilmente la cosa migliore che Brunetta ha. Sicuramente la più simpatica. E non è la sola. Si tratta di simpatie che ha dissipato. Al contrario di quel che va sostenendo, la sua bassa statura era infatti la tipica risorsa italiana, il suo straordinario piedistallo. Ma lui ne ha fatto una gabbia. Ha individuato il pregiudizio e invece di smentirlo lo ha confermato, ed è diventato come quel personaggio del libro di Achille Campanile (Il povero Piero) che sfidava tutti a duello e viveva con la sciabola in mano ma a ogni scontro invece di diventare più grande perdeva pezzi e diventa più piccolo, sempre più piccolo. Finì a vivere dentro un portapillole. Quando ancora non era diventato ministro e la sua antropologia di agitatissimo fantuttone non si era così bene espressa, mi piacque molto il racconto che Brunetta faceva delle sue origini, la storia del padre che vendeva oggetti vari su una bancarella a Venezia, e di come lui, da ragazzo, lo aiutasse. Insomma, i difficili inizi e la fame patita. Vedevo nel socialmente basso che diventa socialmente alto una rottura, un ingorgo di impulsi, un eccesso di sollecitazioni, il punto debole trasformato in


forza, l’elemento strategico di una personalità che ha dato scacco al destino. Il modello vincente è Vittorio Gassman che entra al liceo timidissimo e addirittura balbuziente perché ingolfato di pensieri e ne esce poeta e attore, tecnico della foné: da tartagliatore a fine dicitore. Ebbene ancora più sociale ed edificante è il salto dalla bancarella al governo del Paese. C’è infatti la prova che la democrazia funziona, e che anzi è proprio questo il bello della democrazia: l’ascensore sociale, la possibilità di farcela, la scalata dal bisogno al merito. Ma Brunetta ha sporcato tutto con l’astio, con il desiderio di “fargliela pagare”. Non sogna che tutti i venditori ambulanti diventino ministri, ma che tutti i non ministri diventino venditori ambulanti. Inoltre Brunetta era socialista di formazione, il che significa romanticismo e utopia, il luogo del risarcimento ideale e reale, la voglia di altrove che nel comunismo si coniugava con il partito, la disciplina e il cinismo, ma nel socialismo aveva l’imprinting dell’avventura e della fantasia. Tutto questo in Brunetta è andato a male: la simpatia della statura e l’esemplarità della formazione. E certo c’è anche l’idea infelicissima di mettere il socialismo al servizio di Berlusconi. Non si può fare il socialista agli ordini di Berlusconi. È come se il capitano di una nave corsara si mettesse al servizio di un armatore. Il corsaro cerca l’imprevisto, la creatività, il riscatto sociale, la libertà. L’armatore vuole la produttività, l’efficienza, il cartellino, l’orario, la gabbia e la punizione. È tutta qui la storia di Brunetta. È la storia di un rancore. È un bene deteriorato dalla bile. È un vino inacidito. È un’acqua avvelenata. Altro che piccolo! Il rancore è grande. E forse ogni volta che un ministro o, più genericamente, un potente si fa debordante e dunque impresentabile, bisognerebbe condannarlo all’autodimezzamento, fargli praticare l’autoriduzione. Dev’esser questo il senso del portapillole nel quale Campanile costringe a vivere quel suo agitato personaggio autoridotto a miniatura. Di sicuro Brunetta è stato il governante più stalinista che l’Italia abbia mai avuto: ha messo la sua collera antropologica al servizio di un modello di società che è ordinata e giusta solo se è regolata dalla frusta. Ha trattato i temi dell’innovazione, del mercato, della flessibilità, dell’inefficienza nel pubblico impiego come se fossero materia di delinquenza sociale. È legittimo sostenere, per esempio, che ci sono privilegi che spesso sono spacciati per conquiste sindacali. Ma solo il governo Prodi ha tentato, sia pure malamente, di far partire un processo di smantellamento di quelle rendite di posizione, di quelle incrostazioni e di quei privilegi che rendono più costosa e più pesante la vita quotidiana, dal prendere un taxi al comprare le medicine, dall’aprire un negozio al fare impresa. E infatti i tassisti romani ce l’hanno ancora con Veltroni e con Bersani. Eppure le liberalizzazioni erano il sogno dell’elettore di centrodestra. Sono state uno dei tanti tradimenti del governo Berlusconi. E Brunetta, che pure ha strepitato sui grandi temi del mondo del lavoro, alla fine, nell’Italia dei raccomandati inetti, dai banchieri ai macellai, dai giornalisti ai tabaccai, dai pizzicagnoli ai notai, ha


preferito ordinare lo sterminio dei precari come fossero kulaki. Eppure in Italia non si entra nei mestieri, vale a dire nelle corporazioni, se non per cooptazione familistica. Ed è questo un filo che unisce fascismo, regime democristiano, berlusconismo e persino sindacato. La corporazione in Italia è una famiglia allargata, è tribalismo ristretto, è cosca feroce. Ma Brunetta ha dichiarato guerra ai poveri impiegati, ha cavalcato la demagogia qualunquistica de “il dottore è fuori stanza” e il suo famoso fannullone è diventato l’uomo delinquente di Lombroso. E, anche lì, il suo obiettivo non è stato l’accoglienza allo sportello ma l’assalto allo sportello. Non vuole cambiare e migliorare l’impiego, vuole fargliela pagare all’impiegato. Nessuno può negare che l’Italia sia incapace di misurarsi con il mercato, in nome della famiglia, della clientela, del clan, per la salvaguardia delle prerogative e degli interessi costituiti – si tratti di pescivendoli che fanno incetta di licenze o di politici che si aumentano gli stipendi e mettono a carico degli italiani mogli, figli e parenti, tutti da eleggere nella corporazione dei parlamentari, o si tratti di università dove la successione nelle cattedre sembra la dinastia dei Luigi di Francia, i quali si accanirono ben sedici volte, sino alla ghigliottina. Ebbene cosa ha fatto Brunetta? Nel 2011 ha dichiarato guerra, nientemeno, al 1968. Il Sessantotto è stato il suo fantasma, al Sessantotto doveva fargliela pagare. Nelle università i figli subentrano ai padri nella titolarità degli insegnamenti in consapevole opposizione alle regole del mercato e con la faccia tosta di ritenere che il criterio cooptativocorporativo assicuri la qualità professionale. Ma Brunetta vorrebbe tagliare gli stipendi dei professori di liceo meno pagati d’Europa. Sono infatti quasi tutti di sinistra, quella sinistra che lo tenne ai margini, la sinistra che non lo capì, la sinistra che gli chiuse le porte delle grandi case editrici, della cultura “alta”, dei salotti: bisognava fargliela pagare. È legittimo sostenere che la famosa flessibilità sia un valore di libertà. E si può flettere la flessibilità sino a includervi il pubblico impiego. L’argomento è serio. E merita un po’ di ri-flessione prima di arrivare all’in-flessibiltà di Brunetta. Un ministro socialista comincerebbe con l’ammettere che la flessibilità, pensiero importato, è certamente un valore epocale che comporta tuttavia rischi gravi, trasforma la vita degli uomini in un’avventura, estirpa radici e ci costringe tutti a fletterci secondo il soffio delle opportunità, senza più le rigidità della certezza, senza la protezione e il conforto, per quanto frustranti siano, degli scatti di anzianità e di tutto il resto. Ci dicono che nel mondo della flessibilità una folata di vento potrebbe farci perdere il lavoro, ma che la successiva ci rimetterebbe subito sul mercato, con la possibilità di avere tanti primi giorni, di provare vite nuove, di reincarnarci senza ricorrere al sogno della metempsicosi. Proprio come vuole, almeno in teoria, il modello americano, che è appunto la bibbia della flessibilità. Slogan, tormentone culturale, parola d’ordine e messaggio subliminale, la flessibilità dovrebbe


segnare anche la fine dell’eroe forzuto, del “mi spezzo ma non mi piego”, del tempo delle ideologie, dei padroni e delle fabbriche, del comunismo e del fascismo. La flessione moderna infatti è il contrario delle flessioni di Starace. L’acciaio e il cemento armato hanno ceduto il posto alla flessibile plastica. La letteratura, la saggistica e il cinema sono ritornati a esaltare i nomadi e persino i vagabondi, le doppie identità, la sfumatura, l’ambiguità, le flessibilità anche sessuali. Il Papa chiede continuamente scusa per le violenze dell’inflessibilità cattolica e la sua inflessibilità sui temi etici rischia di spezzare la Chiesa, che tutti auspicano più flessibile. Nel calcio si fluidifica e nella pallavolo anche l’alzatore si inarca, si flette, schiaccia e si riflette. Mai l’appartenenza politica destra-sinistra era stata così flessibile o, se preferite, così trasversale. Persino la natura, flettendo le stagioni, sovrappone estati e inverni, rendendoli irriconoscibili. Ebbene qual è la ricetta dell’inflessibile Brunetta? È la via italiana alla flessibilità, una violenza nostrana che serve solo a nascondere, con la retorica della flessibilità, l’inflessibilità del solito rancore sociale che ripropone la più antica e la più arrogante delle legnate, cioè il licenziamento facile… Al solito Brunetta dunque che vuole “fargliela pagare” è giusto che sia stato contrapposto il vecchio motto dei rigidi: «Qui nessuno è flesso». In Italia il tratto distintivo del mercato del lavoro, anche del lavoro usurante, non è il clientelismo, come qualcuno ha sostenuto, ma è il familismo, è la corporazione che si difende e si riproduce con la famiglia, è la premodernità come incapacità italiana di misurarsi con il mercato. Ma Brunetta ce l’ha invece con gli studenti che manifestano per strada. Li odia, vuole fargliela pagare. E ha rivendicato a sé il diritto-dovere, vale a dire l’arroganza, di disciplinare il mondo. La sua intelligenza vivace è diventata bile, ha disegnato un universo vessatorio, intollerante e sbrigativo, e nel paese dei ladri, dell’abuso di stato, delle leggi ad personam, del familismo e delle corporazioni, ha dichiarato guerra ai sindacati che lo bocciano e si ostinano a difendere il lavoro anche contro la produttività: qualcuno doveva fargliela pagare. Quella di Brunetta è la storia di un odio, di un malessere privato e personale proposto come filosofia di governo. Ma non bisogna pensare che sia solo pittoresco. Brunetta, infatti, è uno snodo importante e significativo dell’Italia nell’era del berlusconismo. Esponente di quella che fu la gens nova berlusconiana, Brunetta non è però un mascalzone, non sta dentro una cricca per sgraffignare. Non appartiene all’antropologia dei Verdini, dei Bertolaso, non telefona a Bisignani, non arraffa. A muoverlo non è l’interesse privato ma la vendetta privata. Il suo orizzonte, che poteva essere quello dell’energia, è stato quello della rivalsa, della rappresaglia: «Se i precari vogliono lavorare perché non si alzano alle 5 e vanno a scaricare cassette ai magazzini della frutta?» Il suo modello sono le bancarelle di gondole nelle calli di Venezia. E in tutti questi anni di potere Brunetta ha sempre urlato. Lui non espone, fa schiamazzo. E non vuole confrontarsi con chi lo contesta ma vuole annullarlo. Non vuole cambiare ma distruggere. In


questo senso è peggio dei mascalzoni: ci crede. Le polemiche con Brunetta si aprirono nel godimento dialettico e si chiusero nel patimento. Questo libro comincia dalla fine: dal patimento va al godimento Il Brunetta perdente infatti è malinconico. Il lettore vedrà, per esempio, che c’è un articolo sulla sua candidatura a sindaco di Venezia ma non c’è un articolo sulla sua bocciatura, quando appunto Brunetta fu “trombato” dai suoi concittadini che si divertirono (è il verbo giusto) a non votare le sue sbruffonate. Non gli rinfacciarono certamente gli umili natali, ma proprio quella sua antropologia da fantuttone appunto, un caratteraccio che non è più carattere ma ormai caricatura. Nel suo piccolo di deità minore, Brunetta incarna il peggio del berlusconismo per bene. Perciò, nel disastro finale di un mondo e di un regime, sarebbe elegante una rovina senza troppo rumore. Entrato nel potere come un mangiafuoco, tra polvere di zolfo e lampi di magnesio, sarebbe bello accompagnarlo fuori con dolcezza, e guardarlo allontanarsi con la grazia di una nuvola che esce da un paesaggio. Temo invece che gliele faranno pagare tutte, che gli chiederanno il conto anche delle colpe che non ha e dei debiti che non ha mai contratto. Brunetta si prepara a pagare di persona perché non è nascosto e protetto dalla gang. È un kamikaze che si è fatto esplodere in mezzo ai precari, ai professori, agli impiegati… Ma la precaria che egli ha maltrattato è diventata un’eroina mentre lui è per sempre su YouTube, protagonista dei video italiani più derisi, una specie di nichilista infilato appunto in un tubo senza uscita, un budello di immagini dal quale verrebbe voglia di tirarlo fuori tendendogli una mano. Come tutta un’epoca può essere contenuta in un aforisma o in una barzelletta, e come la storia può essere scandita da singole ore fatali, dai celebri Momenti di Stephen Zweig, così Brunetta è tutto dentro quei video cliccatissimi, spasso di milioni di internauti. Condannato dentro un piccolo video-recipiente dove sbraita, sbuffa, si batte a duello, sempre con la sciabola in mano come appunto il personaggio di Campanile: Brunetta è finito dentro YouTube come quello finì dentro il portapillole.


Francesco Merlo

BRUNETTA IL FANTUTTONE Aliberti editore

«Fantozzi ogni tanto aveva bisogno di correre lontano per liberarsi con un urlo; Brunetta invece corre in televisione e libera il suo oltranzismo ideologico con una bella scarica di insulti agli italiani» Mai nella storia del nostro Paese, che pure è piena di personaggi pittoreschi, un ministro aveva insultato così tanto gli italiani che avrebbe dovuto governare invece di insolentire: élite di merda, fannulloni, ignoranti… Figlio di un venditore ambulante, professore universitario, socialista di formazione, Renato Brunetta è l’uomo di governo che ha invitato i laureati disoccupati ad andare a scaricare cassette di frutta, che ha mandato a morire ammazzata quella «sinistra per male» che non gli piaceva, che ha dichiarato guerra ai precari, ai professori, agli studenti, agli impiegati, ai bidelli, insomma a molti di quegli elettori che pure lo avevano votato. Francesco Merlo racconta in un saggio introduttivo la storia di Brunetta come «la storia di un rancore» e ripercorre, attraverso una raccolta di articoli, lettere e corsivi allegramente polemici (spesso corredati dalle repliche dello stesso Brunetta), l’epopea, le altezze e le bassezze di uno degli uomini politici più discussi degli ultimi anni: l’uomo che aveva promesso di cambiare «l’Italia peggiore», ma che è riuscito a diventare invece il peggiore dei ministri, probabilmente il ministro dei peggiori, certamente il più agitato, il più caricaturale e, alla fine, il più malinconicamente comico. E in appendice una sorpresa: l’estratto di un elogio dei brevilinei scritto da Amintore Fanfani nel 1936, quando


Brunetta non era ancora nato. Animato sempre da una frenesia in bilico tra il desiderio di vendetta e la corsa utopica all’innovazione, dal desiderio di far espiare al Paese le sue frustrazioni ammantandole di battagliero iperattivismo, Brunetta incarna l’idealtipo dell’italiano che pensa di sapere fare tutto meglio di tutti, in una parola il fantuttone, che non è però il contrario del suo odiato fannullone ma ne è semmai la perfezione: il fantuttone è il fannullone indaffarato. Francesco Merlo è editorialista di «Repubblica».

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