L'ISOLA DEI CASSINTEGRATI... La prefazione di Luca Telese

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Tino Tellini

L’isola dei cassintegrati

Aliberti editore


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Murare una banca, o bucare sui media?

Tino racconta che all’inizio volevano murare una banca. Non era l’arresto che li spaventava, e nemmeno le conseguenze. Spiega, quasi con una ostentata noncuranza, che gli operai della Vinyls non hanno trovato tra di loro un buon muratore capace di stare nei tempi della ronda della polizia. Altrimenti, si deduce da queste pagine, lo avrebbero fatto. Non ne dubito. Subito dopo Tino ci spiega che a partire da quel momento, come se fosse saltato un freno inibitorio, si sono messi a fantasticare e a immaginare a ruota libera sulle possibili forme di lotta da adottare: occupazioni, recite, rappresentazioni simboliche, beffe mediatiche. Persino dell’elezione metaforica di un operaio alla testa dell’Ente Parco, la loro prima performance creativa che – una volta attuata - ha trovato eco sui giornali. È l’anno della grande crisi: nel silenzio sonnolento dei dirigenti della sinistra istituzionale, l’Italia del non lavoro sale sui tetti, loro occupano l’antica torre aragonese di Porto Torres popolandola di bandiere colorate. Ancora una volta


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bucano, le foto del bastione impavesato entrano nel circuito primario dell’informazione, quello delle agenzie fotografiche. Era già tanto, ma per loro non era ancora abbastanza. Dietro una grande idea che buca, ci sono sempre tante piccole idee dimenticate, un tragitto immaginifico che porta in modo non lineare fino alla meta. Solo alla fine di questo percorso, in una sorta di rincorsa senza freno, e dopo di un brain storming collettivo di cui nessuno di loro – giustamente – ha rivelato ancora una paternità esclusiva, gli operai della Vinyls hanno avuto l’idea delle idee. La lampadina che si accende, come nelle storie di Walt Disney: «E se occupassimo l’Asinara?» Pensateci un attimo: gli operai, privati del loro lavoro, che si autorecludono per protesta. E che contemporaneamente fanno la parodia al più noto dei format televisivi: l’isola dei cassintegrati contro l’isola dei famosi, il reale contro il futile, la verità che riprende il sopravvento sulla virtualità. Anche se un produttore televisivo avesse riunito in unico seminario un sinedrio con i migliori autori e i più prestigiosi intellettuali italiani, gente esperta in imprese creative, nessuno sarebbe riuscito a immaginare tanto. Per poter pensare l’impresa dell’isola “vera” che sfida l’isola “finta” bisogna mettere insieme un cocktail micidiale di elementi diversi, che in questa storia si sono riuniti apparentemente per caso: la conoscenza del territorio, la capacità istintiva di cortocircuitare i simboli, il coraggio personale, la messa a dura prova dei legami e degli affetti privati, il senso della sardità nella sua forma più estre10


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ma e immaginifica, il tempo, e – soprattutto – la fantasia. Ho una certezza: in America su una storia così ci avrebbero già girato un film. E avrebbero fatto bene. Perché chiunque legga questo libro di Tino Tellini o si appassioni alla storia dell’isola dei cassintegrati, non può non restare incantato dal ritmo incalzante del racconto, dalla successione drammaturgica degli eventi, dal tono antiretorico, da uno spirito di commedia che aleggia in queste pagine e che poi a tratti si fa improvvisamente dramma. Si rimane colpiti subito dalla forza vivida di questi operai e delle loro figure, che si stagliano sulle pagine con la dimensione dei protagonisti assoluti. Se questa storia fosse un film italiano, sarebbe un grande classico di Mario Monicelli. Tino, Pietro, Andrea, Gianmario, Emanuele e tutti gli altri operai della Vinyls che si sono messi in gioco nell’impresa dell’Asinara, non sono diventati delle maschere, dei simboli, dei feticci: sono degli uomini che hanno bucato sui media perché sono riusciti a comunicare, prima di ogni altra cosa, una carica di umanità dirompente. Nei tempi della comunicazione fredda e impersonale, nell’era dei dibattiti sull’economia combattuti a colpi di cifre e di diagrammi, nel tempo dei paesi che fanno bancarotta come le imprese dei manager truffaldini, questi operai hanno rimesso al centro del dibattito il fattore umano. Avevano detto che non esistevano più, che si erano dissolti come una delle tante variabili della modernità, e invece hanno preso in mano la loro storia e ci 11


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hanno anche fatto questo regalo. Pensi all’isola e ti vengono in mente le loro facce. Pensi alle loro facce e scopri che stai imparando le loro storie. Già questo basterebbe per dire che hanno ottenuto una vittoria epocale. Poi, ovviamente, ci sono le trappole della modernità. L’isola dei cassintegrati è molto più che la storia di una battaglia combattuta ad armi impari, con il solo ausilio dell’intelligenza, contro una controparte che spesso non ha un volto definito e disperde la sua responsabilità in un reticolo ineffabile ramificato tra istituzioni e imprese con noncuranza e metodo. L’isola dei cassintegrati, da questo punto di vista, è la storia di un capolavoro comunicativo. Prendere una vertenza dimenticata, considerata marginale da tutti i media e riuscire ad accenderci sopra i riflettori dell’informazione. Prendere un settore che tutti i nostri governi hanno considerato residuale, e tornare a porre al paese una domanda: ma è giusto che l’Italia accetti come un fatto ineluttabile di smantellare il suo apparato industriale in uno dei settore strategici? E se questo è stato deciso, quando è stato deciso, e da chi? In tutti i paesi occidentali, queste domande se le pone da sola la politica. E se la politica non lo fa, gliele pone il sistema dell’informazione. In Italia, gli unici a farle – invece – sono gli operai della Vinyls e i loro colleghi. Tino Tellini, insieme a tutti gli altri, è riuscito più di una volta – in questa storia – a diventare l’uomo giusto nel momento giusto. Ricordo la prima sera che lo invitai a Tetris, la battuta con cui lasciò il segno: «Scusate, ma noi facciamo pla12


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stica. Nel tempo in cui anche i partiti sono diventati di plastica, vi sembra che si possa fare a meno di noi?» Oppure ripercorro nella memoria il suo epico duello con Tremonti ad Annozero: «Io» diceva il ministro quasi con tono dimesso, «vengo a conoscenza oggi di questo caso…» Un fatto raro, per chi è abituato a vedere Tremonti che duella con i leader della sinistra come un maestrino sarcastico. E invece Tino, con la scaltrezza che solo chi è abituato a toreare da lungo tempo negli studi televisivi lo rimbeccava, lo aveva apostrofato così: «Ma lei non rappresenta il governo? E il governo non è l’azionista dell’Eni di cui controlla il trenta per cento? E se non lo sa lei chi lo deve sapere?» Bingo: colpito e affondato. Io però sono persino convinto che davvero Tremonti non sapesse. Il paradosso dell’era mediatica voleva che solo facendo “il giro del mondo” – ovvero mettendo in piedi la più creativa forma di protesta parasindacale che la storia ricordi – gli operai arrivassero al ministro passando dalle telecamere di Annozero. In politica e in economia, la linea più breve per congiungere due punti, non è mai una linea retta. Poi, ovviamente, c’è qualcosa di più che si è aggiunto a tutto questo. Insomma, è entrata dentro la narrazione della storia di Tino e dei suoi compagni “l’isola”, con tutto il suo carico di simboli, storie di suggestioni. Anzi, l’isola nell’isola. La Sardegna come metafora dell’Italia che si deindustrializza, e l’Asinara come metafora di tutte le reclusioni della storia nazionale. La prigione 13


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volontaria come proiezione inevitabile della disoccupazione. Il coraggio di questa scelta ha trasformato l’immagine dolente del disoccupato in quella del guerrigliero del primo reality autentico. Anche questo non era previsto, o pianificabile: ma è stato reso possibile dalla scelta di sbarcare sull’isola e di andarci ad abitare a tempo indeterminato, senza sapere chi avrebbe scritto il finale di questa storia. Si potrebbe dire – leggendo queste pagine di Tino, e ricorrendo alla semplificazione un po’ brutale dei codici cinematografici – che agli operai della Vinyls, per essere definitivamente trasfigurati in eroi popolari e televisivi serviva un nuovo set. E che sull’isola lo hanno trovato già pronto: naturale, immaginifico, potentissimo. Sono attraccato per la prima volta al molo di Fornelli, per provare a raccontare la loro storia da giornalista: a quel tempo gli operai della Vinyls erano al nono giorno della loro impresa. Quando Tino e Pietro mi fecero traversare per la prima volta l’isola – scorrendo lungo la strada il filo della sua storia affascinante e terribile – di questo scenario erano già diventati completamente padroni. Senza toccare nulla, senza intervenire nel paesaggio, semplicemente inserendo la loro narrazione nel fiume di tutte le altre che erano racchiuse in quello scrigno di bellezze dimenticate. In tutto il mondo su come realizzare questo tipo di operazioni si rompono la testa gli spin doctor. A loro è venuto semplicemente spontaneo. Perché questo potesse accadere, però, si era verificato un altro decisivo incastro di eventi. Sull’isola, per combattere questa strana e meravi14


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gliosa battaglia mediatica, si erano unite (e parlate) tre diverse generazioni di operai. “I giovani” come Andrea Spanu e Gianmario Sanna avevano partorito l’intuizione del “reality occupazionale”, l’idea delle magliette personalizzate in cui ognuno di loro portava sul petto la foto di se stesso dietro le sbarre: quasi una vera divisa. Gli “anziani, dal canto loro, avevano portato il know how delle vecchie battaglie: la progettazione della logistica (alquanto complessa sull’isola), il reperimento dei mezzi necessari, il calcolo sul calendario dell’impresa da ponderare con cura, perché nelle prime settimane la lotta contro il freddo, sarebbe stata terribile. Oggi sappiamo che quel dibattito è stato decisivo: se l’isola – per dire – fosse stata occupata a dicembre, invece di una festa gioiosa, probabilmente avremmo contato delle vittime. E malgrado tutto questo, quando arrivai per la prima volta nel carcere trovai Andrea in una branda, con la febbre alta. Insomma, attraversare in macchina i ventitré chilometri di strada che si dipanavano lungo la dorsale dell’isola per arrivare fino alla piccola ghost town occupata dagli operai, aveva voluto dire disegnare un percorso nella storia dei secoli: partire proprio vicino al molo da Fornelli, il carcere che fu il sepolcro della lotta armata degli anni di piombo, quello da cui Curcio e Franceschini volevano evadere. Incontrare lungo la strada il villaggio dei pedofili, che furono separati dagli altri perché si moltiplicavano le violenze sommarie. Affacciarsi, a metà del tragitto sui ruderi dei monasteri abbandonati nell’Ottocento e sugli 15


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ossari della prima guerra mondiale, dove erano morti di stenti e di malattie i prigionieri ungheresi della seconda guerra mondiale. E poi passare vicino a due scheletri divorati dalla salsedine, quelli dove era morta di malattia la figlia del Negus, ostaggio di rango delle guerre coloniali fasciste. Infine, proprio vicino alla diramazione dove si erano accampati gli operai della Vinyls, la cella più grande del mondo, o – a scelta – il carcere più piccolo della storia: ovvero il piccolo bunker che ha custodito Totò Riina, oggi ridotto quasi a un rudere. In quei giorni l’isola era colorata di giallo per le fioriture primaverili dell’Euphorbia. A maggio, quando ero tornato, avevo trovato tonalità incendiate di colore, degradanti fra il giallo e il rosso, come in un magico Avatar sardo. Senza questo paesaggio e questo cortocircuito di storie, l’isola dei cassintegrati non avrebbe incantato giornalisti e opinion leader. Senza questo scenario non avrebbe ritrovato sangue e vita l’antico grido di battaglia di Che Guevara che riassume meglio di ogni altra cosa lo stato d’animo di tutti i cassintegrati: «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso». Senza questo immaginario non avrebbe potuto partire il fenomeno di moltiplicazione che Tino documenta con una progressione impressionante, il successo del sito. All’inizio era quasi un gioco, adesso tutte le mattine la «Nuova Sardegna» prende il diario dell’isola compilato da Tellini e lo pubblica. Come ha risposto la politica di fronte a tutto questo? Si può dirlo senza sfiorare il qualunqui16


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smo. Male. Basta scorrere la cronaca asciutta del libro di Tino per capire che purtroppo non è un problema di destra e sinistra. C’è stato il Berlusconi che dice agli operai della chimica: «Niente paura, faccio intervenire la Rusal». Che quando si passò alla crisi dell’Alcoa disse: «Niente paura, chiamo io Obama e risolvo» (chiamate mai intercettate, purtroppo). E c’è il Bersani che non è mai riuscito a mettere piede nell’isola. Ha deciso di andarci, non a caso, solo dopo il successo della seconda puntata di Annozero, in cui si è trovato ospite con gli operai (ancora una volta, Tellini e compagni, sono arrivati alla politica attraverso la televisione e non in televisione grazie alla politica). Poi ci sono gli amministratori locali, i deputati sardi, i piccoli pesci incapaci di interagire. Dal racconto di Tino si capisce benissimo quale sia il problema: la politica non riesce più a dare risposte. Quindi spara promesse che non può mantenere, o tace. Vive con disagio ogni narrazione di cui non possa essere protagonista. Ma intanto l’isola dei cassintegrati è andata avanti. Durante le puntate del mio programma, in cui continuavo a invitarli, mi rendevo conto che con la stessa naturalità con cui avevano avviato l’impresa, gli operai riuscivano a continuare ad aggiungere nuove puntate alla storia. L’incontro straziante con le famiglie, di cui filmammo lo sbarco in traghetto. Gli incontri-scontri con i sindacalisti che erano costretti ad attraccare per spiegare le loro ragioni (mi capitò di essere testimone di un dialogo-match con Tore Corveddu, della Cgil). L’arrivo del governatore, 17


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che nel libro di Tino è una delle pagine più vivide e più belle, interrotto e sconvolto dalle lacrime dell’operaio. E anche qui un ribaltamento di ruoli: le lacrime – contrariamente a quello che si pensa di solito sono il segno della forza – il silenzio umano di Cappellacci è la prova della sua debolezza. E poi l’ultima trovata, la festa del 2 maggio. Ovvero: una festa del lavoro che si prolunga per due giorni, che inizia l’1 e prosegue il 2, una sorta di kermesse all’Asinara, una piccola Woodstock sarda a metà fra festa del lavoro e concerto politico musicale, un evento nell’evento, nel cuore dell’isola che è dentro l’isola. Se ci pensate, in questo racconto, sono state almeno due le rivoluzioni che hanno infranto le due costanti di tutte le altre lotte – anche epiche – di questi mesi: la solitudine e l’impossibilità di comunicare. Nel momento in cui questo libro va in tipografia nessuno di noi è in grado di dire come andrà a finire questa storia. Sappiamo però che c’è una trattativa in piedi con la Ramco (la società araba che si è detta disposta a comprare la fabbrica del PVC) che senza la protesta dell’Isola non sarebbe nemmeno esistita. E c’è oggi una disponibilità dichiarata dell’Eni ad agevolare questa vendita, che prima era una indisponibilità certa. Alla fine di questo viaggio nessuno di noi sa che fine faranno gli operai della Vinyls. Hanno tutti il timer della cassa integrazione, che corre, fino al novembre prossimo. Poi più nulla. Sono dipendenti di una ditta commissariata che potrebbe morire (o essere uccisa) da cause e accordi che passano sopra le loro teste. Ma a prescindere dalla 18


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soluzione collettiva che questo paese e il suo governo troveranno, Tino e tutti i suoi compagni sono già cambiati, individualmente, dentro di loro. Sono diventati soggetti. Hanno trovato in loro stessi una forza che non conoscevano. Questo non è il tributo romantico che di solito si concede agli sconfitti. È la constatazione di una condizione di grazia di cui solo i vincitori possono godere. Solo chi ha vinto una battaglia di simboli, sa che può sopravvivere nella modernità, alla condanna apparentemente ineluttabile del non-lavoro. Se avessero “solo” murato una banca, probabilmente, si sarebbero presi una bella soddisfazione: ma tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. Luca Telese

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