Andrea Sceresini Nicola Palma Maria Elena Scandaliato
Piazza Fontana, noi sapevamo Golpe e stragi di Stato Le veritĂ del generale Maletti
Aliberti editore
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Piazza Fontana
A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.
Milano, piazza Fontana. Il 12 dicembre del 1969 è un venerdì. La Banca Nazionale dell’Agricoltura, a pochi passi dal Duomo, quel giorno resta aperta più del solito. Il grande salone ancora pullula di gente: contadini, lavoratori, impiegati. Fuori, nella nebbia, le prime luminarie natalizie. La bomba scoppia alle 16.37, sotto a un tavolo, proprio in mezzo all’emiciclo: diciassette morti, ottantasei feriti. Sulle prime, si parla di una caldaia difettosa. Gli italiani ancora non lo sanno: quel grande boato cambierà per sempre la loro storia. Era l’inizio degli anni di piombo. Lei, generale, dove si trovava? Ero a Roma. All’epoca, come vi dicevo, ero capo dell’ufficio addestramento dello Stato maggiore dell’esercito. Non avevo nulla a che fare con i servizi. Quello stesso giorno, tra Milano e la capitale, furono piazzati altri quattro ordigni: uno a Milano, alla Comit di piazza della Scala, ma non esplose. Scoppiarono, invece, le tre bombe di Roma: una alla Bnl di via Veneto, l’altra all’altare della patria, la terza all’ingresso del museo del Risorgimento, in piazza Venezia. Totale, diciassette feriti. Lei come apprese la notizia? Mi trovavo nel mio ufficio. Un sottufficiale aveva sentito qualcosa alla radio. Venne da me e mi disse: «Ci sono sta� te delle bombe». Rimasi lì fino a tardi, perché la situazione
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appariva drammatica. Fuori, su via XX Settembre, comincia� rono a formarsi dei cortei. Li vedevo sfilare, da dietro i vetri della finestra. Ricordo che mia moglie mi telefonò, quella sera dovevamo uscire a cena. «Che fai? Vieni a casa». E io: «Scor� datelo, come faccio a mollare tutto, con le manifestazioni che ci sono in giro?» Questo fu il mio 12 dicembre. Che cosa pensò? Molte cose. Certo, fu un fatto terribile. C’era il rischio che la situazione degenerasse, che scoppiassero dei disordini. La gente era inferocita: gli italiani non volevano le bombe, e non volevano l’eversione. Furono proteste ordinate, ma al contem� po molto decise. Comunque sia, c’era da stare all’erta. La prima pista fu quella anarchica. Il 12 dicembre, poche ore dopo la strage, venne fermato Giuseppe Pinelli, ferroviere ed ex partigiano. Pinelli era un uomo pacifico, un idealista. Amava i libri, soprattutto quelli di poesia. Studiava l’esperanto, lui che aveva solo la terza elementare. Diceva: «Anche questo, forse, è un modo per affratellare i poveri». Quando vennero a prenderlo, montò sulla sua Lambretta, e seguì i poliziotti senza battere ciglio: sarebbe morto tre giorni dopo, precipitando da una finestra della questura di Milano. Il 16, poi, fu arrestato Pietro Valpreda, il ballerino anarchico. Contro di lui si accanì una furiosa campagna mediatica. Bruno Vespa, parlando ai microfoni della Rai, lo disse chiaro e tondo: «Valpreda è colpevole». Sulla stessa linea, radio, giornali e rotocalchi. «Il Secolo d’Italia», organo dell’Msi: «Egli è una belva oscura e ripugnante, penetrata fino al midollo dalla lue comunista». Ma il più accanito fu forse il quotidiano «Roma», che riuscì a concepire questo incredibile titolo: Il mostro è un comunista anarchico ballerino di Canzonissima. Valpreda resterà in carcere per millecento giorni, fino al 29 dicembre 1972. Era del tutto innocente, così come lo era Pinelli. Lei, all’epoca, come valutò questi fatti? Io ero un semplice militare, non lavoravo per l’intelligence. Ricordo che lo pensai subito: «Questo è un attentato anarchi� co». Molti, nell’esercito, ne erano convinti: e anche nei servizi segreti, come scoprii più tardi. C’era il precedente del teatro 86
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Diana, a Milano, nel 1921: anche lì ci fu una strage, e quella volta i colpevoli furono gli anarchici. Ricordo che se ne parla� va spesso, quando ero ragazzo. Insomma, sembrava la pista più logica. Era un caso eclatante. Mai, nell’Italia del dopo� guerra, era successo qualcosa di simile. Oggi, però, ne sappiamo qualcosa di più. Sono trascorsi quarantun anni: sette processi, una lunga lista di imputati. Nel 2005, la Corte di cassazione, pur assolvendo tutti, ha accertato che i responsabili dell’attentato furono i neofascisti di Ordine nuovo. Quello che ancora manca sono i nomi: mandanti ed esecutori. Lei, generale, è considerato uno dei maggiori depositari di questi segreti. Dopo il suo arrivo al Sid, nel 1971, condusse alcune indagini sull’argomento. Cominciamo dall’inizio: l’esplosivo. È vero, noi scoprimmo qualcosa. L’esplosivo giunse dal Brennero, a bordo di uno o più tir. Ricordo che arrivò una bre� ve informativa: poche pagine scritte. L’informativa, appunto, parlava di questi camion, che erano partiti dalla Germania, erano giunti in Italia e avevano scaricato una certa quantità di materiale in Veneto, a Mestre. Si trattava, come detto, di ma� teriale esplosivo: fu consegnato a un esponente della cellula mestrina di Ordine nuovo. Ecco il succo. Quando avvenne il trasporto? Questo non saprei dirlo. L’informativa era molto stringata, e non conteneva segnalazioni cronologiche. Poco prima della strage, comunque. E l’esplosivo? Da dove arrivava? Da un deposito militare americano, in Germania. Fu consegnato direttamente dagli americani? Difficile dirlo. L’esplosivo è uscito dalla polveriera. Può es� sere stato caricato su un camion, e spedito direttamente a Me� 87
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stre. Non è detto, però. Possono esserci stati altri canali: una sottrazione concordata, per esempio. L’esplosivo, comunque sia, proveniva da un deposito americano in Germania. È esatto? Be’, certo: questo è quanto risultò all’epoca. Gli americani diedero la loro autorizzazione. Avevano grande disponibili� tà di materiale, ed erano interessati a condurre un’operazio� ne politica in un paese vicino. Questo, soprattutto. Chi altri poteva trarre vantaggio da un’iniziativa del genere? La Ger� mania? No, alla Germania non importava nulla di scatenare disordini in Italia. Il Giappone? Suvvia… Non ricorda altro? Le targhe dei tir, per esempio… Guardate, posso dirvi questo: le targhe non erano italiane. Erano quasi certamente straniere: tedesche, forse. Certamen� te il trasporto non fu effettuato dagli americani. Stiamo par� lando di esplosivo militare, non dimentichiamolo. È difficile che il fornitore si esponga a essere smascherato. Poniamo un esempio. Alla frontiera, il convoglio viene fermato. Arrivano i finanzieri, aprono gli sportelli, e trovano un missile. Sarebbe uno scenario ben poco simpatico… C’è una teoria molto interessante, a tal proposito. Ne parla Paolo Cucchiarelli, nel suo libro Il segreto di piazza Fontana. L’esplosivo venne trasportato dagli ustascia croati, che poi lo depositarono presso il “Nasco” di Aurisina, poco lontano da Trieste. Il deposito, secondo l’autore del volume, era controllato dagli uomini di Gladio, ma vi attingevano anche i terroristi: dissidenti jugoslavi e neofascisti italiani. L’obiettivo: seminare il caos, colpendo sia a est che a ovest, su entrambi i versanti della cortina di ferro. Destabilizzare per stabilizzare. Ovviamente, in funzione antisovietica e filoamericana. Silvano Russomanno, l’ex numero due dell’Ufficio affari riservati del Viminale, è stato recentemente intervistato: ha detto che è vero, le cose sono andate così. Lei cosa ne pensa?
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Che dire? È una storia interessante, molto avvincente. Cer� to, gli americani avevano interesse a proteggere e foraggiare i gruppi estremisti: quelli che lottavano contro il comunismo, s’intende. Quindi, non mi meraviglio che tra statunitensi e ustascia ci fosse una sorta di alleanza. A ogni modo, mi di� spiace, non ne so assolutamente nulla. Ora che mi ci fate pen� sare, però, qualche ricordo comincia a emergere. Sì, può darsi che i trasportatori fossero di nazionalità jugoslava. Mi pare proprio, ma non ne sono sicuro… E i tir? Dove erano diretti? Questo non so proprio dirvelo. Può essere che siano finiti a Zara, o meglio ancora a Pola, oppure verso sud. Sono certo che su quei camion non viaggiava un solo carico di esplosivo: non una sola cassetta, ma molte di più. Generale, lei si ricorda di Carlo Digilio? Digilio era un personaggio molto complesso. Militava nel gruppo veneto di Ordine nuovo: era l’armiere della compagnia. I suoi camerati lo chiamavano “zio Otto”. Nel 1967, iniziò a collaborare con gli americani, in particolare, con il Cic, il Counter intellgence corps, che aveva sede a Verona, presso la base Ftase. Nome in codice, “Erodoto”. Faceva il doppio gioco, anche se nessuno ha mai capito bene per conto di chi. Nel 1993, si pentì e cominciò a parlare. Raccontò ai giudici che il 7 dicembre 1969 si trovava a Mestre. Alcuni camerati gli mostrarono delle cassette militari. Le cassette erano piene di esplosivo, e si trovavano nel bagagliaio di una macchina: sopra, c’erano delle scritte in inglese. Quel materiale era in partenza per Milano: così dissero a Digilio. Tutto ciò coincide con le sue parole, generale. Il disegno, a questo punto, appare piuttosto chiaro. Già. Digilio, poi, è un mistero nel mistero. Che fine ha fatto? Digilio è morto nel 2005. Il 12 dicembre, tra l’altro: un piccolo scherzo del destino. 89
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Peccato, è un vero peccato. Digilio sarebbe stato la chiave di tutto, se solo avesse voluto parlare. Ma Digilio ha parlato… Sì, certo, ha parlato. Ma evidentemente non ha detto tutto. Generale, torniamo a noi: il tipo di esplosivo utilizzato a piazza Fontana non è mai stato identificato. Lei forse può farlo. Cosa viaggiava su quei camion? Era un esplosivo dal doppio impiego: civile e militare. Al� meno in parte. Ricorda il nome? Trinitrotoluene, trotil. Ovvero, tritolo. Questo è quanto ricordo. È un elemento molto importante, generale. Nell’informativa c’era una sigla di riconoscimento ufficiale: PB7, poniamo. Viene utilizzata, fondamentalmente, per evita� re quel lungo nome: trinitrotoluene. Piuttosto complicato. Ma la merce è la stessa. Il tritolo viene avvolto nel plastico. È una sostanza pericolosa, ma non impossibile da trasportare. Que� sto perché ci sono delle componenti moderatrici nella violen� za, nella reattività del materiale. Insomma, può essere messo tranquillamente in una borsa: è così, credo, che è arrivato in piazza Fontana. Sui camion c’era un solo esplosivo? Non ne sono sicuro. Può darsi che ci fosse anche qualcos’al� tro, qualcosa di più prettamente militare. Ma ripeto: non ne sono sicuro. Il tritolo, comunque, si trova in tutti i depositi militari, e questo fa quadrare il cerchio. Quella di piazza Fon� tana fu un’esplosione di media potenza. Il tritolo, forse, fu 90
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in qualche modo potenziato. Se fosse stata un’esplosione di grande potenza, sarebbe venuto giù tutto l’edificio. Altri elementi? No, fermiamoci qua. L’informativa era molto breve. Arrivò sulla mia scrivania anni dopo la strage: dopo il mio ingres� so nel Sid, nel 1971. Anche io avrei voluto saperne di più: le targhe dei camion, le identità degli autisti. La fonte, eviden� temente, non voleva essere troppo precisa. Ed è normale. Ma lo sapete come funzionano queste cose? È molto semplice: se la fonte è troppo precisa, non ci sono eccezioni, viene subi� to smascherata. Facciamo un esempio. Voi venite da me e mi chiedete qual è la posizione segreta di un certo reparto. Io ve la do nei minimi particolari, perché è il mio mestiere. Voi la riferite, ed è fatta: risaliranno immediatamente a me. Gli in� formatori, insomma, si tengono un po’ sulle generali. Aspetti un attimo. Da dove arrivò l’informativa? Dal Centro di controspionaggio di Padova, che era diretto dal capitano Bottallo, un ufficiale di notevole valore. La no� tizia giunse da lui, e fu confermata, in seguito, dal tenente colonnello Pignatelli, che dirigeva il Centro di controspionag� gio di Trento. Ecco, Bottallo è un uomo che potrebbe saperne di più. Toccava a lui gestire la fonte. Già, peccato che sia morto qualche anno fa. Senta: a parte quel documento, lei non ricevette altre informazioni? Di solito, quando i miei uomini scoprivano qualcosa, se rite� nevano che si trattasse di una questione importante, correvano a informarmi. Se la cosa era urgente, mi telefonavano. Ovvia� mente, lo facevano con il bottoncino abbassato. Però, in genere, quello che contava era soprattutto il pezzo di carta. Solitamente, arrivava con grande celerità: via corriere, in treno, oppure con l’automobile. Ora, può anche essere che ci siano stati dei segui� ti: altre informative, intendo. Può darsi, ma non me ne ricordo. 91
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Si ricorda, almeno, il nome della fonte? Le fonti non venivano mai citate per nome. Questo è ovvio. C’erano nomi fittizi, di copertura: “Giglio”, “Legno”, cose co� sì. Le informative, lo ricordo benissimo, avevano tutte il me� desimo incipit: «Da fonte Tal dei Tali, si è appreso che…» Una delle fonti di Bottallo era Gianni Casalini, se lo ricorda? Casalini era un giovane neofascista veneto: militava nel gruppo padovano di Ordine nuovo. Collaborò con il Sid fino al 1975, ma su di lui torneremo più tardi. Il suo nome di copertura era “fonte Turco”. Fu lui a comunicarvi quelle informazioni? Sì, ora che mi ci fate pensare direi di sì. Le informazioni giunsero dalla fonte Turco. Ecco: un altro dato importante. Dunque, il Sid era a conoscenza di queste informazioni fin dai primi anni Settanta: la provenienza dell’esplosivo, la sua composizione, i suoi destinatari. In pratica, l’intera pista nera. L’anarchico Valpreda, all’epoca, non era ancora stato assolto: lo sarà solo nel 1979. Lei, quando le ricevette, passò queste informazioni alla magistratura? Non si può informare la magistratura così, tutto d’un botto. Una fonte viene da me e mi dice: «È arrivato dell’esplosivo dalla Germania». E io che faccio? Corro dal magistrato? No: aspettiamo. Il Servizio informazioni ha il compito, tra l’altro, di non precipitare le cose: più le lascia sviluppare, tenendole d’occhio, più efficace è la sua opera. Quindi, come facevamo noi a segnalare queste cose? Le segnalavamo, certo, ma quan� do avevano assunto più corpo. E comunque non alla magi� stratura, perché il contatto tra Sid e magistratura, all’epoca, era praticamente nullo. In che senso, scusi? Io non avevo alcun dovere nei confronti dei magistrati: non dipendevo da loro, e non dovevo riferire nulla. 92
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Si spieghi bene. Era un dato di fatto: il Sid lavorava in una propria capsu� la. La magistratura stava all’esterno. Tra i vari organi dello Stato, c’era all’epoca una sorta di diffidenza. La giustizia, del resto, poteva rappresentare un ostacolo alla nostra libertà d’azione: per quanto riguarda le intercettazioni telefoniche, per esempio. Quando divenni capo del reparto “D”, ricordo che qualcuno venne a dirmi: «Dobbiamo mettere sotto con� trollo il telefono di Tizio e Caio. Ma è meglio aspettare: c’è questo giudice, che non ci è favorevole. Aspettiamo che arri� vi quell’altro: è un ex carabiniere, quello ci dà il permesso e neppure ci chiede il perché». E poi, guardate: stiamo parlan� do di piazza Fontana. L’ingranaggio era già in moto. C’era la magistratura, c’erano i carabinieri, c’era la polizia, la guardia di finanza. Addirittura, c’erano i vigili urbani. Tutti al lavoro, per individuare i colpevoli della strage. Una nostra eventuale azione si sarebbe sovrapposta a quelle delle altre forze di si� curezza, intralciandole. Loro avevano più uomini e più mez� zi, e seguivano le loro piste: piste che poi si rivelarono, ahimé, non del tutto efficaci… Può dirlo forte. L’abbiamo già visto: prima furono accusati gli anarchici, che erano innocenti. Poi, quando finalmente si puntò sui neofascisti, era ormai troppo tardi. Mancavano le prove decisive: furono tutti assolti. Se il Sid fosse intervenuto, con le informazioni che aveva in mano, forse la vicenda sarebbe già stata chiusa. Ma lei, dunque, non comunicò nulla a nessuno? Certo, come no? Comunicai tutto ai miei superiori. Era una specie di fisarmonica: comunicazione urgente e importantis� sima, pochi indirizzi; comunicazione di routine, molti indi� rizzi. C’erano il ministro della Difesa, il ministro dell’Interno, il capo dell’Ufficio affari riservati, il capo di Stato maggiore dell’Arma dei carabinieri, raramente quello della guardia di finanza, qualche volta c’era il ministro degli Esteri o il presi� dente del Consiglio, casi rarissimi questi. Si faceva un’infor� mativa che andava a loro. 93
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E lei la fece? Sì, ora non ricordo in che termini, ma fu fatta. Lei sa che di queste informative, di quella ricevuta da lei e di quella inviata ai suoi superiori, non è mai stata trovata alcuna traccia? È strano, non le pare? Tutto sparì nel nulla. Il coinvolgimento americano, evidentemente, non doveva essere svelato. Lei cosa ci può dire? E che devo dirvi? Io non lo so che fine fecero quei docu� menti: forse sono ancora in qualche archivio, all’ex Sismi o altrove. Il mio compito era quello di ricevere le notizie. Quin� di, le diramavo a chi di dovere. È quello che ho fatto. Non chiedetemi altro. Va bene, generale. Passiamo agli esecutori. Non c’è molto da dire. La bomba, alla Banca dell’Agricoltu� ra, fu piazzata da elementi eversivi di destra. Questo è ormai assodato, direi. Sì, lo ha stabilito anche la Cassazione, nel 2005. Ma mancano i nomi. Io sono molto orientato verso un nome: Padova. Il gruppo di Ordine nuovo di Padova, dunque: una piccola formazione neofascista. I due leader carismatici erano Giovanni Ventura e Franco Freda: una coppia a dir poco inquietante. Ventura, di professione, faceva l’editore: trevigiano, corporatura robusta, barba e capelli lunghi. Aveva militato nell’Msi. Poi, nel 1966, era improvvisamente uscito dal partito: «È troppo molle» spiegò. Pubblicava pamphlet nazisti, ma anche libri di sinistra: aveva amici comunisti, che lo consideravano, in buona fede, uno di loro. Le sue specialità, l’infiltrazione e il doppio gioco. Freda, invece, era un uomo più all’antica. Aspetto inappuntabile, piglio cavalleresco: non usava il «tu», ma sempre il «voi». Anche lui, come Ventura, veniva da una lunga esperienza missina. Amava Evola, Hitler, lo spiritualismo e la 94
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tradizione ariana. Ha scritto: «Noi siamo per un’aristocrazia che è radicale rifiuto del modello egualitario. Noi assumiamo una prospettiva gerarchica e organica». Entrambi vennero arrestati nel 1971. Sarebbero stati loro, secondo gli inquirenti, ad acquistare le borse e i timer che furono poi utilizzati a piazza Fontana. Si dichiararono innocenti: saranno definitivamente assolti nel 1987, per insufficienza di prove. Eppure, secondo quanto stabilito dalla Cassazione nel 2005, furono proprio loro, Freda e Ventura, a capitanare il gruppo che organizzò la strage: il gruppo di Padova, per l’appunto. Certamente. Questo, ormai, è assodato. Il Sid, del resto, era molto ben informato sulle attività di questa congrega. C’era Guido Giannettini, per esempio: giornalista, ex dirigente dell’Msi. Giannettini era una delle sue fonti dirette: nome in codice, “agente Z”. Entrò nel servizio segreto nel 1965. Nel maggio di quell’anno, come abbiamo visto, fu tra i relatori del convegno dell’Istituto Pollio. Poi, nel 1967, passò all’ufficio “D” del Sid. Era amico di Freda e Ventura, un loro collaboratore. Professava idee filonaziste: spesso, i suoi rapporti segreti finivano sulle scrivanie dei due padovani. Ma anche di lui parleremo meglio più avanti. E poi, c’era Gianni Casalini, la fonte Turco: pure Casalini militava in quel gruppo. Dal 1972 al 1975 lavorò per il Sid. Infine, Marco Pozzan, un altro neofascista di Padova. Nel 1973, come vedremo, il Sid lo farà fuggire in Spagna. Sì, è vero. Tutto ciò faceva parte delle nostre attività di in� telligence. Ma capisco dove volete arrivare. Ve lo dico subito: la bomba non fu piazzata né da Pozzan, né da Giannettini. Come fa a esserne così sicuro? Entrambi erano dei pavidi. Giannettini aveva paura di tut� to, persino della sua ombra. Quando camminava per strada, ogni tanto, si voltava a guardarsi le spalle. Temeva di essere pedinato, aveva il terrore degli ascolti clandestini. Uno così non mette le bombe. Pozzan, personalmente, non l’ho mai co� nosciuto. Ma mi hanno detto che era un uomo debole, sia fisi� 95
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camente che moralmente. Non era un tipo lineare, aveva dei problemi. Del resto, ci sono degli altri nomi. Alcuni non sono mai usciti: gente che non è stata neppure citata in giudizio. Per esempio? Fine delle trasmissioni. Altri, che avrebbero potuto parlare delle bombe di Milano, non parlano. Qualcuno è ancora vivo, ma non parla: non venite a interrogare me. Generale, si tratta di una questione importantissima, cerchi di capire. Cari amici, io personalmente questi signori non li conosco. Conosco i loro nomi, ma non li dico. Generale, ci pensi bene. Sentite, accontentiamoci di questo. Vi ho detto molte cose, ed è tutto ciò che io mi sento di dire. Ve lo ripeto. Non porta� temi a dire di più: non ho alcuna intenzione di farlo. Ma perché? Per quale motivo? Qui non ci sono strumenti di tortura, ma se ci fossero voi potreste usarli contro di me. Sarebbe lo stesso: io non parlerei. Allora, proviamo a fare così. I nomi glieli facciamo noi. Lei ci dica cosa ne pensa. Uno dei personaggi più misteriosi, in questa vicenda, è Ivano Toniolo. La sua figura è giunta alla ribalta solo recentemente, durante l’ultimo processo per la strage di piazza della Loggia, a Brescia. Toniolo era un giovane neofascista padovano, amico di Freda e Ventura. Militava nella loro organizzazione: era considerato uno dei “duri”. Non è mai stato processato. Nonostante ciò, nei primi anni Settanta è espatriato in Spagna, e poi in Angola. Un comportamento piuttosto sospetto. Nessuno l’ha mai cercato. Lei cosa ne pensa, generale? Potrebbe essere il nome giusto?
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Può darsi. Ma c’erano anche altre persone, non solo Toniolo. Persone mai indagate? Non solo. Qualcuno fu indagato. Mettiamo le cose in chiaro, generale. Lei sta parlando di chi fisicamente mise la bomba in piazza Fontana? Certo. O di chi, in modo attivo, partecipò all’organizzazio� ne dell’attentato. Questo è un punto cruciale. Un altro nome è quello di Delfo Zorzi. Zorzi era studente di lingue orientali, a Napoli. Faceva parte del gruppo mestrino di Ordine nuovo, ed era in contatto con i padovani. Fu lui, secondo Carlo Digilio, ad averlo incontrato, il 7 dicembre 1969, fu lui che gli mostrò quelle cassette di esplosivo. Nel 2001, venne condannato in primo grado all’ergastolo come esecutore della strage. La sentenza fu ribaltata, nel 2004, dalla Corte d’assise d’appello di Milano. La Cassazione, poi, rigettò il ricorso dell’accusa. Oggi Zorzi vive in Giappone. Fa l’imprenditore, si occupa di moda. Si fa chiamare “Hagen Roi”, che in tedesco suona così: “croce uncinata”. Zorzi, certo: è un uomo molto determinato, molto deciso. Sì, il suo è un altro dei nomi. È uno di quelli che ho in mente. Zorzi, sempre secondo Digilio, avrebbe addirittura confessato. Era il 1973. Il futuro imprenditore prese da parte zio Otto e gli disse: «Guarda, io ho partecipato direttamente a quell’operazione. Me ne sono occupato di persona, e non è stata una cosa facile». Ma Toniolo? Che fine ha fatto Toniolo? Toniolo abita in Angola, o almeno così sembra. Nessuno è mai andato a cercarlo. A proposito, pare che per qualche anno, nel passato, abbia vissuto anche qui, in Sudafrica. Lei non lo ha mai incontrato? 97
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Questa mi giunge proprio nuova. In Sudafrica, dite? Può darsi, per carità, può darsi. Ma si sarebbe guardato bene dal venire da me. Senta generale, c’è un’altra cosa che vorremmo chiederle: in quanti erano, quel giorno, a piazza Fontana? I commando che compiono questo tipo di operazioni sono formati, in genere, da tre o quattro persone. E il 12 dicembre? In quanti erano? Erano in quattro: due dentro e due fuori dalla banca. Ma ora basta. Questo è veramente tutto. Generale, parliamo degli statunitensi. L’esplosivo, come lei stesso ci ha raccontato, proveniva da un deposito americano in Germania. Gli americani supportavano i neofascisti, fornendo loro le bombe. La strage, dunque, fu voluta da Washington… No, aspettate, fermiamoci un attimo. Io sono convinto di una cosa: gli americani non volevano la strage. La strage è avvenuta per caso, per disguido, per errato calcolo dei tempi. La banca era aperta, l’ora era sbagliata e le transazioni erano ancora in corso. La bomba, almeno nelle intenzioni, doveva essere quasi innocua. Non si trattò di un’azione militare, ma di una mossa psicologica, politica. È strano, generale: lei non è il primo a dire questa cosa. Nel 2000, un anno prima di morire, Paolo Emilio Taviani andò a testimoniare di fronte alla Commissione stragi. Taviani era uno dei grandi vecchi della Dc: senatore a vita, più volte ministro, mezzo secolo trascorso in Parlamento. Fu l’unico politico, probabilmente, che accettò di parlare, dicendo almeno qualche verità. E disse questo: che la bomba, in piazza Fontana, non avrebbe dovuto fare vittime. «L’esplosione» affermò «avrebbe dovuto essere un semplice atto intimidatorio, come lo furono quelli, contemporanei, di Roma». I morti, però, ci sono stati…
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Certo, e fu una cosa terribile. Ma bisogna capire questo: Washington, probabilmente, non conosceva il bersaglio. Gli americani, cioè, non avevano idea di dove la bomba sarebbe esplosa. Questa scelta spettava ai gruppi italiani. Non credo che gli statunitensi potessero puntare il dito contro la Banca Nazionale dell’Agricoltura, o contro qualsiasi altro obiettivo. La cernita delle provocazioni e delle intimidazioni era riser� vata esclusivamente ai terroristi. Gli americani, insomma, non eseguivano il lavoro sporco: mi pare ovvio. Quello tocca� va agli indigeni: agli italiani, ai cileni, ai greci. Una strategia ben collaudata. Gli americani fornivano il materiale, ovvero l’esplosivo. Per il resto, c’era una sorta di laissez-faire, cioè un indirizzo generale, che poi veniva messo in pratica da gruppi italiani o internazionali. Comunque sia, lo ripeto: dubito che Washing� ton volesse la strage. È stata una cosa che non doveva capita� re, un accidente. Può darsi. Però, lei concorderà con noi: gli americani rifornivano i neofascisti di tritolo. Non si tratta di una strategia pacifica. Era prevedibile che prima o poi ci scappasse il morto. Lo so, lo so. Ma cosa credete? Io ci penso a queste cose, ci ho pensato per anni. Sono milanese: piazza Fontana stava a due passi da casa mia. Ci sono cresciuto. Io abitavo in via Sant’An� tonio. Il farmacista di mia madre era il sciur Angelo, che aveva il negozio proprio lì, in piazza Fontana. Quando ero piccolo, mi mandavano da lui, «a ciapàr i medisìn», a comprare le medicine. Era un posto che amavo: era così bello, con tutti quegli alberi, l’arcivescovado da una parte, l’edicola con i giornali. Andavo al cinema all’Odeon: era il mio quartiere, il mio mondo. Ci ho pensato, eccome, a tutte queste cose. E ci penso ancora. Nessuno la accusa di nulla, generale: vogliamo solo capire. Quando lei parla degli americani, per esempio, che cosa intende? La Cia? 99
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La Cia, certo, ma non solo. C’era anche il Cic, il contro� spionaggio militare. Il fatto è questo: i servizi americani, o parte di essi, avevano interesse ad aiutare l’eversione di destra, per odio anticomunista. E lo fecero, non c’è alcun dubbio. Le bombe avevano una funzione ben precisa: creare insofferenza politica. È la strategia della tensione: creare il caos, seminare lutti, colpire alla cieca. I cittadini, esasperati, avrebbero cercato rifugio a destra. I partiti dell’ordine si sarebbero facilmente imposti, soffocando le proteste operaie e rintuzzando le ribellioni degli studenti. Addio democrazia, insomma. Quel che è impressionante è sentire lei, l’ex numero due del Sid, che ammette tutto ciò. Vada pure avanti. Gli americani, è vero, erano molto preoccupati della situa� zione politica italiana. Lo abbiamo già visto. Le sinistre stava� no avanzando. Agli Stati Uniti l’Italia interessava moltissimo: se lo stivale, in un modo o nell’altro, si fosse staccato dalla carta della Nato, sarebbero stati guai grossi. Molte ottime basi sarebbero andate perdute. Lo slittamento, insomma, andava bloccato: con ogni mezzo. Gli ordini, dunque, giungevano dall’alto? Sì, certo: dall’alto. E Nixon? Nixon sapeva delle bombe? Nixon sapeva di piazza Fontana? Certo. Il presidente degli Stati Uniti aveva senz’altro co� noscenza del fatto che la Cia stava lavorando in Italia, nel modo che abbiamo visto. Forse, non sapeva dell’episodio in sé, prima che questo si verificasse: ma può anche darsi. Non era uomo, Nixon, da guardare dall’altra parte. Nixon era un uomo d’azione, era spregiudicato, molto intelligente, e molto antisovietico. Su questo non c’è alcun dubbio.
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Veniamo all’Italia. Nel nostro paese, nel sistema politico italiano, chi era a conoscenza di questa strategia americana? E chi la avvallava? Io posso pensare a qualche presidente della Repubblica, i nomi non li faccio, e a qualche ministro multicolore, che ha inalberato varie bandiere: dalla Difesa all’Interno, alla Presi� denza del Consiglio. Perché ridete? Scusi generale. Lei parla per enigmi: ma i nomi, questa volta, sembrano piuttosto ovvi. Ah sì? Be’, il presidente della Repubblica, ai tempi di piazza Fontana, era Giuseppe Saragat. Ci fu, per esempio, il famoso incontro con Nixon. Era il 26 febbraio 1969: i due presidenti si ritirarono a parlare a quattr’occhi, in una stanza del Quirinale. Nove anni più tardi, il giornalista Fulvio Bellini scrisse un libro: Il segreto della Re� pubblica. Il volume si basava su un rapporto stilato da Kissinger e recuperato dai servizi inglesi: il 26 febbraio, secondo quel documento, Nixon si era impegnato con Saragat a tenere sotto controllo la situazione italiana, usando tutti i mezzi a disposizione per contrastare l’avanzata delle sinistre, «con discrezione, ma anche in termini e provvedimenti efficaci». Saragat era senza dubbio un uomo d’ordine. La piega che stavano prendendo gli avvenimenti, in Italia, non gli piaceva per nulla. Certamente era in contatto diretto con Nixon, e cer� tamente era a conoscenza delle varie manovre della Cia. C’era un rapporto, molto probabilmente, anche di tipo operativo. Si incontravano e si dicevano: «Che facciamo adesso?» Questo mi sembra probabilissimo. Quando lei dice che Saragat era a conoscenza delle ingerenze americane, si riferisce anche a piazza Fontana? Sì, certo: mi riferisco a piazza Fontana. 101
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C’è un altro episodio interessante. Il 16 dicembre 1969, quattro giorni dopo la strage, il Sid trasmise una lunga velina. Nella velina, venivano indicati i nomi di alcuni neofascisti, che avrebbero posizionato gli ordigni per poi far ricadere le colpe sulla sinistra. Sì, ricordo quella velina. Fu scritta dall’ufficio “D” del Sid, che allora era diretto dal generale Gasca. Le informazioni erano state diramate dal capo del Centro di controspionag� gio di Milano. Il documento sarebbe giunto sulla scrivania dell’onorevole Aldo Moro, che all’epoca era ministro degli Esteri. Moro stava lavorando all’apertura a sinistra. Leggendo quella velina, si rese conto che le cose, a piazza Fontana, erano andate diversamente da ciò che dicevano gli inquirenti: si trattava di un complotto, gli anarchici non erano colpevoli. Questo è quanto dichiarò l’allora ministro della Difesa, Luigi Gui, durante una seduta della Commissione stragi, nel 1987. Il resto della vicenda è raccontato in un libro di Antonio Baldassarre e Carlo Mezzanotte, Gli uomini del Quirinale. Il 23 dicembre, Moro andò da Saragat e lo accusò di aver preso misteriosi accordi con Nixon. I due presidenti avrebbero organizzato un piano ben preciso: obiettivo, una radicale svolta a destra. Le responsabilità della strage sarebbero state attribuite all’estrema sinistra. Per tutta risposta, si sarebbe proceduto allo scioglimento delle camere e alla proclamazione dello stato d’emergenza. Moro e Saragat discussero a lungo. Alla fine, secondo le ricostruzioni, si sarebbe giunti a un accordo: Saragat rinunciò alla sua svolta politica, mentre Moro, in cambio, lasciò che le indagini proseguissero lungo la pista rossa. Lei pensa che sia credibile? Guardate, io dico di sì. Tendo a crederci, decisamente. Non so che colloquio sia stato, se fu violento o meno: ma credo che ci fu. Stiamo parlando di un ministro in carica, che improvvi� samente scopre questa cosa: ci sono state sospette collusioni dirette tra il capo dello Stato e il rappresentate di un paese straniero, con le conseguenze che noi tutti conosciamo. Io non lo escludo, assolutamente. E Andreotti? Anche lui sapeva? 102
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Andreotti è un uomo troppo misterioso. È indubbiamente un grande politico. Può darsi che Andreotti sapesse, che sa� pesse molte cose. Lo dico chiaro e tondo. C’era in atto, in Italia, una precisa strategia americana: sono certo che sia il capo dello Stato sia Andreotti ne fossero al corrente. Questa è un’affermazione molto grave. Si tratta di due altissime figure istituzionali. Giulio Andreotti era uno dei leader della Dc, uno dei massimi esponenti dell’ala destra del partito. Era stato per undici volte ministro. A piazza Fontana morirono diciassette cittadini italiani. Il nostro era un paese democratico, con venticinque anni di libere elezioni alle spalle. Attenzione: entrambi erano a conoscenza della strategia di fondo, ma non potevano certo prevedere l’esatto susseguirsi degli eventi. Andreotti, in particolar modo, non è da buttar via come politico, tutt’altro. Probabilmente, lasciò un po’ fata� listicamente che le cose prendessero il loro corso. Era questo il suo stile. Avrà pensato a una bomba, che può scoppiare, rompere un po’ di vetri… Rompere un po’ di vetri, generale?! Guardate, anche se fosse stato al corrente di ebollizioni vio� lente, non credo che si sarebbe preoccupato più di tanto. In precedenza, c’erano già stati episodi molto gravi. Non così gravi, ma abbastanza. Ebbene, tutti quegli episodi erano poi sfociati, dopo qualche tempo, in arresti e condanne. L’Italia, insomma, non era mai caduta. Certo, generale, ma come si fa? Stiamo parlando di bombe. Sapere certe cose, non fare nulla e starsene alla finestra a guardare, è una responsabilità terribile… È una cosa che mi ha sempre profondamente scosso. Io non c’entravo nulla, come ben sapete. Ero un semplice militare, non ero ancora il capo delle spie. 103
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Senz’altro. Ma capirà che le sue, comunque, sono parole molto importanti. Lei, dal 1971 al 1975, è stato il responsabile del controspionaggio italiano. Ha goduto di un punto d’osservazione privilegiato, forse il migliore. Sì, certo. Onori e oneri, si capisce. Quando si parla di piazza Fontana, spesso si fa riferimento all’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno. È una struttura molto interessante, e altrettanto oscura. La dirigeva Federico Umberto D’Amato, che durante la guerra aveva lavorato per i servizi segreti angloamericani. D’Amato non ha mai subìto alcun processo: è morto nel 1996. Grasso, con il doppio mento e i capelli bianchissimi. Era un grande esperto di gastronomia e ha diretto, durante gli ultimi anni della sua vita, una rubrica culinaria sull’«Espresso»: si firmava con uno pseudonimo, “Gault & Millau”. A chi gli chiedeva quale fosse il suo lavoro, rispondeva così: «Sono un bravo sbirro, e non mi faccio mai beccare». Quasi un manifesto programmatico: secondo molti, il regista occulto della strage di piazza Fontana sarebbe stato proprio lui. È quanto ha scritto Peter Tompkins, ex agente dell’Oss, la futura Cia. E poi c’è la confidenza del generale Giuseppe Aloja, il capo dello Stato maggiore della Difesa alla fine degli anni Sessanta. Aloja, parlando con un alto ufficiale del Sid, avrebbe detto: «L’attentato di piazza Fontana è stato in qualche modo organizzato dall’Ufficio affari riservati». L’episodio viene citato, tra l’altro, in una delle sentenzeordinanze del giudice Salvini, quella del 1995. Eh, D’Amato, D’Amato, D’Amato… L’Ufficio affari riser� vati era diretto, come voi ben sapete, da un buongustaio: arguto, simpatico, ma molto ermetico. Con il Sid non ha mai avuto mai nulla a che fare, se non a livelli superiori al mio: ai livelli del generale Miceli. Ricordo che Miceli, un bel giorno, venne da me e mi disse: «Stai attento a D’Amato, perché è un birichino». Tipico modo di esprimersi di certi circoli. Questo si riferiva al fatto che D’Amato, con ogni probabilità, cercava di avere notizie senza darle. Evidentemente, gli servivano per i suoi scopi particolari. Comunque, il rapporto tra l’uffi� 104
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cio “D” e l’Ufficio affari riservati si è limitato, nella stragran� de maggioranza dei casi, alla comunicazione da parte nostra di alcune informazioni: noi le sintetizzavamo, e poi gliele facevamo recapitare. È il famoso schema a fisarmonica, ne ho già parlato. Non c’è mai stata una collaborazione, né in� tensa né saltuaria. Ogni tanto c’era uno scambio di idee: ci vedevamo nelle missioni estere, questo sì. E lui? Che tipo era? Era un abile poliziotto, molto riservato. Tra noi due c’era una specie di cortina di diffidenza, una cosa reciproca. Ma credo che fosse più forte in me, perché D’Amato mi conside� rava un novellino, l’ultimo arrivato. Lui, invece, era un anzia� no, rappresentava la vecchia guardia: pratico, scaltro, e con notevoli agganci politici. È vero che collaborava con la Cia? Lei, in un’intervista del 2000, ha affermato che in un importante organo dello Stato lavorava, all’epoca, un infiltrato dei servizi americani. Il giornalista le chiese: «Sia più preciso, si riferisce a D’Amato?» E lei rispose: «Sì, era lui». Be’, certo. Gli americani avevano influenza sul Viminale, avevano influenza sul Sid, avevano influenza sul governo, avevano influenza sulla nostra politica estera. E indubbia� mente sapevano, a mio parere, molto più di quello che sape� vamo noi su quanto succedeva in Italia: anche sugli ambienti eversivi, che noi cercavamo faticosamente di infiltrare. Loro avevano una notevole abilità di sfruttamento delle fonti. An� che perché immagino che le pagassero molto bene. Secondo Tompkins, il nome in codice di D’Amato, durante la sua collaborazione con la Cia, era “Delilah”. Le risulta? Guardate, posso dirvi questo: D’Amato era senza dubbio un uomo molto abile, ed era molto appoggiato dagli america� ni. Per quanto riguarda il suo nome di copertura, non ne ho 105
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idea. Tutti noi, all’epoca, utilizzavamo nomi falsi: persino sul passaporto. Il mio passaporto era intestato a un tale Gianni� ni. Funzionava così. Il braccio destro di D’Amato era Silvano Russomanno. La sera del 12 dicembre 1969, Russomanno venne mandato a Milano: il suo compito era quello di gestire le prime indagini. E forse, ha ipotizzato qualcuno, i primi depistaggi. D’Amato era fatto così: aveva un entourage molto politiciz� zato. Russomanno, in questo senso, è un esempio lampante. Io l’ho incontrato varie volte, durante i convegni internazionali: era un uomo di destra, su questo non ci sono dubbi. Aveva militato nelle Ss italiane, credo. Aveva servito come artigliere, nell’esercito italiano, nientemeno che sul mar Baltico, ai tempi della Repubblica sociale. Poi, era passato nella Wehrmacht, oppure nella Luftwaffe. Ma restiamo a piazza Fontana. Furono loro, dunque, i registi della strage? Oddio, è un’ipotesi. Del resto, come abbiamo detto, l’Uffi� cio affari riservati era nelle mani di un uomo come D’Amato. Non lo escluderei, ecco. Al Ministero dell’Interno spirava una certa aria, su questo non ci piove. E quando dico Ministero dell’Interno, intendo dire D’Amato. In che senso? Che aria tirava? Una brutta aria. D’Amato aveva una casa: sulla via Aurelia, credo, a Roma, in una delle vie consolari. In quella casa, ave� va un suo personale archivio, che era il duplicato dell’archivio dell’Ufficio affari riservati. Questo archivio è stato rinvenuto anni dopo, e c’è stato uno scandalo, una grande agitazione su tutti i giornali. Lei si riferisce a un episodio del novembre 1996. La scoperta fu effettuata dallo storico Aldo Giannuli, che all’epoca lavorava come 106
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perito per conto del giudice Salvini. Furono rinvenuti 265 fascicoli, tutti declassificati. Quell’archivio, è chiaro, era tenuto con uno scopo ben pre� ciso: non certo per il piacere di sfogliarlo ogni tanto. Quindi, insomma, puntare il mirino sull’Ufficio affari riservati non è sbagliato. Può essere non esatto, non precisamente: ma ci si va molto vicino. Perché l’Ufficio affari riservati era un uffi� cio sostanzialmente operativo: molto più operativo di quanto non sembrasse. In che senso, operativo? Trattava faccende a livello operativo. Si occupava della rac� colta delle informazioni, ma anche degli atti pratici, delle pro� vocazioni, e di tante altre cose di questo tipo. Lei come lo sa? Era risaputo. Se ne parlava spesso, anche nell’ambito del reparto “D”. D’Amato, dunque, sapeva? Avrebbe potuto dire la verità? Anche sulla strage di piazza Fontana? Ma certo che sapeva. E avrebbe potuto dire tutto. Peccato che sia morto… E Russomanno? Immagino che anche lui sia kaputt. No, Russomanno dovrebbe essere vivo. Ah, è vivo? Russomanno era un uomo del mestiere, molto più di me. Sa certamente parecchie cose. Ecco, lui è un altro che può cantare. Ma non è il solo, ragazzi, non dimenticatelo: non è il solo… 107
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