Cura e Abitare: Architettura e partecipazione comunitaria

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Università degli studi di Roma Tre Dipartimento di architettura

Corso di laurea in Scienze dell'Architettura, a.a. 2023-4

Tutor: Prof. Andrea Filpa n. matricola: 583540

CURA E ABITARE

ARCHITETTURA E PARTECIPAZIONE COMUNITARIA

Progetti

04.1 Progetto per il parco di Tor Sapienza, Laboratorio di Urbanistica (2023/4)

04.2 Progetto per un polo studentesco presso gli ex frigoriferi di Testaccio, Laboratorio di progettazione architettonica 2 (2022/3)

04.3 Progetto per un complesso residenziale su Via Valco San Paolo, Laboratorio di progettazione architettonica 3 (2023/4)

Superstudio, “Gli Atti fondamentali Cerimonia Un rito espiatorio,” 1972.

“[...] l’architetto riconoscendo in sè e nella sua opera connotazioni di cosmesi, environmental pollution,e consolatrix afflictorum, si blocca di colpo sulla sua strada ben pavimentata. Diviene allora un atto di coerenza, o un ultimo tentativo di salvezza concentrarsi sulla ridefinizione degli atti primari (vita, educazione, cerimonia ,amore, morte.), ed esaminare in prima istanza quali sono le relazioni tra l’architettura e tali atti. Tale operazione diviene una terapia per la rimozione delle archimanie…”

(Casabella 367, 1972, p.15)

01 Introduzione

Nei tre anni di studio che mi accingo a concludere presso l’Università di Roma Tre, ho avuto l’opportunità preziosa di approcciarmi a dei concetti per me assolutamente inediti, che hanno richiesto lo sviluppo di capacità analitiche, sensibilità e modalità di pensiero profondamente diversi e nuovi rispetto a quanto avevo appreso nei miei precedenti percorsi formativi. Sin dalle prime esperienze nei laboratori di progettazione siamo stati spinti a ragionare con attenzione sulla nozione di Progetto, un termine vastissimo, carico di sotto-significati e sfaccettature che spesso non emergono nell’uso quotidiano. Per poterli cogliere, questo termine ci è stato frequentemente presentato a partire dalla sua peculiare etimologia:

Di fronte al significato latino, possiamo facilmente intuire perché ricondurre il progetto ad un mero atto tecnico, come spesso accade nel parlare e sentire quotidiano, è un errore e una grave semplificazione. Questo termine porta infatti su di sé un peso importantissimo, che è quello del tempo: il progettare deve essere quindi inteso come un’azione non statica e immediata, ma intrinsecamente legata all’idea di anticipazione, immaginazione e trasformazione.

Questo implica che a chiunque tenti di approcciarsi all’arte del progetto è richiesta la capacità di prevedere, sulla base dati analizzati nel presente, quali saranno esigenze e necessità che il progetto dovrà soddisfare nel futuro.

Ludovico Quaroni, autore fondamentale per chi muove i primi passi nel mondo dell’architettura, articola in tal modo la sua definizione di “processo progettuale” all’interno di uno scritto che dedicò proprio ai suoi studenti di architettura.

Il processo progettuale deve consistere dunque in una successione di operazioni, alcune delle quali dovranno, se si vuole un buon risultato, avvenire completamente all’interno del campo razionale delle capacità cerebrali, mentre altre dovranno avvenire, sempre mirando allo stesso scopo, in campi di maggiore o minore razionalità, a seconda della complessità dell’operazione “sensibile” che si sta compiendo.

(L. Quaroni, Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura, 1977)

L’aspetto su cui ho intenzione di focalizzarmi e approfondire in questo portfolio riguarda per l’appunto questo insieme di “operazioni sensibili” di cui parla Quaroni, ovvero l’indagine che riguarda la sfera dei bisogni sensibili ed emotivi che l’architettura deve soddisfare nei propri utenti: non si tratta solo di esigenze funzionali o estetiche, ma di una risposta più profonda e intima, legata alla capacità di un edificio o di uno spazio di risuonare con l’esperienza umana.

L’architettura non è un esercizio isolato di creatività, ma un’interazione continua tra il progettista e l’utente, in cui quest’ultimo non è mai un soggetto passivo, bensì un attore centrale. La sfida principale del progettista è quindi quella di saper anticipare e comprendere come un edificio o uno spazio sarà percepito e vissuto.

Da qui nasce l’importanza della Cura, concetto che intendo esplorare a fondo all’interno del portfolio. La Cura si manifesta come attenzione ai dettagli, alle esigenze particolari di chi vive gli spazi. Un’architettura che non si prenda cura dei suoi utenti finisce per svuotarsi di significato, riducendosi a un mero esercizio formale, a un compiacimento estetico del progettista. In un mondo in cui le nozioni di benessere sociale e comunità sono state messe da parte a favore della logica del miglioramento e del benessere individuale, promossa dall'industria della "cura di sè", un mondo dove prolificano, per riflesso, architetture altisonanti figlie esclusivamente delle logiche di mercato, ritengo che occorre ripensare l'architettura come un etica, un atto di responsabilità collettiva.

Fig. 2-4. immagini tratte da Quaroni L., Roma 1968. Edizione illustrata, a cura di F. Pecoraro, Humboldt Books, Roma,2021

il volume consiste in una raccolta di fotografie scattate dall’architetto Ludovico Quaroni a Roma: qui l’operazione sensibile consiste nel creare un racconto, un'indagine sullo stato della città, sui suoi spazi pubblici e privati, un commento visivo sulle conseguenze che le decisioni architettoniche e urbanistiche hanno sul tessuto urbano e sociale. Roma appare come un mosaico di elementi storici, moderni e degradati, rivelando il contrasto tra il glorioso passato e i segni di una modernizzazione spesso caotica.

Fig.1: Scultura "La corsa" di Amleto Castaldi al Villaggio Olimpico di Roma

Fig.2: Appia Antica percorsa dalle automobili Fig.3.: Impianto circense installato al Circo Massimo

Fig.4: Ponte delle Valli in zona Conca d'Oro a Roma

Fig 1.
Fig. 2.
Fig. 3.
Fig 4.

02 Cura e Progetto

Che cosa significa realmente abitare uno spazio? Qual è la distinzione tra abitare uno spazio e semplicemente occuparlo? E quale responsabilità ha l'architetto nel progettare luoghi destinati all'abitare, anziché spazi che si limitano a essere occupati o utilizzati?

Il significato letterale di “abitare” è collegato ai concetti di “stare” e “rimanere”, ma facendo nuovamente un’operazione di analisi etimologica, emerge che in questo verbo sia contenuta la radice latina di “habeo”: è quindi come se i concetti di stare e avere trovassero nell’abitare una sintesi. Si tratta di una pratica propria dell’essere umano, anzi si potrebbe dire, semplificando il concetto all’estremo, che abitare significa proprio “umanizzare” lo spazio rendendolo un luogo, o una casa, e quindi costruire intorno ad esso un racconto, fatto di relazioni, aspettative, sogni e immaginazioni:

Abitare non è conoscere, è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c'è bisogno di riconoscere perché nel loro sguardo ci sono le tracce dell'ultimo congedo. Abitare è sapere dove deporre l'abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l'altro. Abitare è trasfigurare le cose, è caricarle di sensi che trascendono la loro pura oggettività, è sottrarle all'anonimia che le trattiene nella loro inseità, per restituirle ai nostri gesti abituali, che consentono al nostro corpo di sentirsi tra le "sue cose", presso di sé.

(U. Galimberti, Il Corpo)

Nel definire il concetto di abitare, è indubbio che l’architettura giochi un ruolo cruciale, poiché si abitano luoghi che precedentemente sono costruiti. Nel corso del tempo, costruire e abitare si sono legati fra loro a formare due aspetti inscindibili di un’unica realtà, elementi fondamentali per comprendere l'interazione dell'uomo con il suo ambiente. Questa dualità esprime la natura più profonda dell’essere umano sulla Terra: l'architettura diventa quindi una forma di espressione esistenziale che non riguarda solo la funzionalità pratica degli spazi, ma anche la loro capacità di rispecchiare valori, identità e l'idea stessa di ciò che significa essere parte del mondo.

Varie riflessioni in ambito sia architettonico che filosofico hanno esplorato questo tema, descrivendo l'architettura come cornice del modo in cui l’uomo non solo occupa uno spazio, ma lo trasforma in un “luogo” che ha un senso, un significato più profondo. L’abitare un edificio, quindi, non si limita allo “stare” letterale contenuto nel significato più superficiale del termine, ma implica un rapporto simbolico e spirituale con lo spazio costruito, un rapporto che riflette il nostro essere e la nostra esistenza nel mondo.

Un autore che, nonostante non si sia occupato strettamente di architettura, ha prodotto a mio parere delle riflessioni molto profonde sul tema dello spazio, del progetto, e sul binomio del costruire/abitare, è il filosofo Martin Heidegger. Egli si sforzò di trovare un legante tra il momento del costruire e quello dell’abitare rintracciando come comune denominatore un elemento che ricorre trasversalmente nella sua filosofia, ovvero il tema della Cura.

“Abitare […] vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente, e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver cura.”

“Abitare è con ciò aver cura del proprio spazio, essere in rapporto con lo spazio, colmare lo iato artificiale tra il progetto, il costruire e infine l’abitare.”

M. Heidegger, “Costruire abitare pensare”[Conferenza tenuta il 5 agosto 1951, al ‘Secondo Colloquio Di Darmstadt’]

02.1 La Cura come fondamento del progetto architettonico

La definizione che Heidegger propone di Cura è strettamente legata alla caratteristica esistenzialista della sua filosofia:

La Cura (Sorge) esprime la condizione di un essere che, “gettato nel mondo”, progetta in avanti le sue possibilità: l’uomo nel suo esistere quotidiano si rapporta al mondo innanzitutto prendendosi cura delle cose che gli occorrono: costruendole, manipolandole, progettandole etc. Tale prendersi cura ha la caratteristica del progetto, ovvero l’uomo è nel mondo in modo tale da progettare questo stesso secondo un suo piano globale: esistere nel mondo significa per l’uomo progettare. Allo stesso modo come il rapporto tra l’uomo e le cose del mondo è quello del prendersi cura di esse, quello tra l’uomo e gli altri individui è quello di prendersi cura degli altri. L’aver cura costituisce la struttura fondamentale di tutti i rapporti possibili tra gli individui (Essere e Tempo,1927)

L’architettura secondo questa visione, si configura come l’attività umana per eccellenza, in quanto costituisce l’arte di costruire luoghi capaci di accogliere e favorire il processo di abitare, e assolve pienamente alla sua funzione solo quando agevola quanto più possibile la relazione intima tra l’uomo e lo spazio. Essa plasma i luoghi in modo che possano rispecchiare l'identità e la volontà di chi li vive. Questo legame tra uomo e spazio costruito diventa una componente essenziale del vivere, dove l’architettura assume il ruolo di intermediaria nella creazione di un mondo capace di sostenere e arricchire l’esperienza umana. Questo ragionamento conduce a interrogarci profondamente sul ruolo dell’architettura odierna: quanto i progetti di alcuni architetti di oggi favoriscono questa sintonia? Quanti di questi progetti creano invece degli spazi alieni e alienanti, incapaci a creare una connessione tra lo spazio stesso e i suoi utenti? E quali sono invece le caratteristiche che un progetto deve avere nei nostri tempi, per avere i caratteri della Cura?

A questi quesiti potrebbe aver risposto un sociologo spagnolo, ardente seguace di Heidegger, che commentò la conferenza da lui tenuta a Darmstadt nel 1951, in occasione della quale furono espresse molte idee sul concetto di abitare.

Lo stile gioca nell'architettura un ruolo particolarissimo che nelle altre arti non ha. Nelle altre arti lo stile dipende semplicemente dall'artista: egli decide […] per sé e davanti a sé. Il suo stile non deve né può dipendere da nessun altro se non da se stesso. Ma nell'architettura questo non accade […]. La ragione è ovvia: l'architettura non è, non può, non deve essere un'arte esclusivamente personale. È un'arte collettiva. L'autentico architetto è un intero popolo. Esso fornisce i mezzi per la costruzione, ne indica lo scopo e la rende unitaria. Si immagini una città costruita da architetti “geniali”, che operano però ognuno per conto proprio con un diverso stile personale. Gli edifici potranno anche essere magnifici presi singolarmente, ma l'insieme risulterà bizzarro e intollerabile. Ciò gli impone [all'architetto] di sottomettersi a determinate esigenze, a determinati principi che non possono né devono essere esclusivamente suoi. L'architettura non esprime come le altri arti sentimenti e preferenze personali, ma precisamente stati d'animo e intenzioni collettive. Gli edifici sono un'immensa espressione sociale.

(José Ortega Y Gasset, “Intorno al ‘colloquio di Darmstadt, 1951’”, in “Costruire, abitare, pensare” a cura di Fabio Filippuzzi e Luca Taddio).

Una buona architettura è quindi tale quando l’architetto prende coscienza della sua grande responsabilità sociale, e si rende organo della vita collettiva piuttosto che astrarsene: egli è tenuto a subordinarsi ai bisogni del contesto e ai principi della comunità in cui opera, ed è in questo che si differenzia dall’artista. Se ogni architetto operasse nelle città facendo del proprio progetto un’opera d’arte, espressione solamente della propria creatività e volontà, le città sarebbero un mosaico caotico di capricci stilistici, un assemblaggio eterogeneo e frammentato

di elementi incapaci a formare un’ unità.

A partire da queste riflessioni è a mio avviso rilevante analizzare il caso emblematico del Gugghenheim di Bilbao, progettato da Frank Gehry nel 1991. L'edificio, al tempo della sua costruzione, fu considerato un "miracolo", una redenzione per la città, che da polo commerciale e portuale in decadenza, privo di edifici di particolare rilevanza storica, aspirava a diventare un centro culturalmente attivo e vivace. L'entità del successo iniziale dell'opera è stata a dir poco prodigiosa: il progetto ha ridefinito completamente l'immagine della città al punto da generare il cosiddetto "Effetto Bilbao" (fig. 5), per il quale all'idea della città stessa viene immediatamente accostato il progetto magniloquente di Gehry, in un dualismo inscindibile. Dunque potremmo dire che l'effetto sortito dal Guggemheim sia stato duplice: se da un lato ha contribuito a far rifiorire economicamente e culturalmente una città in crisi come Bilbao, ponendosi come una centralità importante in grado di ampliare l’offerta culturale locale con eventi, mostre e collaborazioni, e attivando una spinta propulsiva al rinnovamento con una catena di ulteriori interventi, dall'altro si ritiene che l'intervento abbia tenuto poco conto delle radici storiche della città, quasi obliterandole.

Un singolo intervento architettonico, per quanto ambizioso e sostenuto da ingenti investimenti, può davvero risanare una città in declino, ignorando le radici profonde e complesse delle sue criticità? A Bilbao l’immagine della città, ritenuta figurativamente insufficiente, è stata cancellata e sostituita con qualcosa di artefatto e, fondamentalmente, estraneo alla sua identità storica e urbana.

Nel resto d'Europa, in concomitanza con questo episodio, iniziarono a proliferare progetti che speravano di avere lo stesso effetto ottenuto a Bilbao, risultando in edifici colossali, spesso incompleti o inutilizzati, stonati rispetto all'armonia della scala urbana.

Fig.5: Pianta del Gugghenheim di Bilbao. Emerge il forte contrasto tra le forme organiche del progetto di Gehry con il tessuto storico del centro di Bilbao.

Immagine tratta da: https://www. architectural-review.com/

Fig.6: Fotografia dall'alto della città di Bilbao

Immagine tratta da: Archdaily

Fig. 5.
Fig 6.

02.2 L'architettura come "pre-occupazione" dell’altro

Essere nel mondo nell’ottica della Cura heideggeriana implica la dimensione dell’ “alterità”, ovvero del confronto necessario con l’altro. Il filosofo sostiene che non si possa instaurare un rapporto autentico fra soggetti finché si consideri l’altro all’interno di un orizzonte di utilizzabilità, come fosse uno strumento utile a raggiungere i nostri obiettivi, ma come un soggetto con un valore intrinseco e complementare al nostro, in cui egli sia a noi pari, e capace di arricchire la nostra personale esperienza nel mondo fornendo un differente spunto o punto di vista. Questo ragionamento conduce ad un peculiare modo di sentire, di entrare in empatia con ciò che ci circonda, rifiutando ogni forma di dominio e sfruttamento della natura e degli altri. Ancora una volta l’architettura può trarre una lezione preziosa da questi concetti: quando progettiamo siamo spinti a fare un’operazione di immaginazione volta a prevedere esigenze e bisogni di chi vivrà il nostro progetto. Una volta realizzato, non ci è concesso fornire ai futuri utenti un “manuale di istruzioni” delle modalità in cui il progetto dovrà essere utilizzato, ma ciascuno ne farà la propria interpretazione, personalizzata in base alla propria sensibilità ed esperienza. Di conseguenza, un progettista che realmente “ha cura” delle persone per cui progetta farà sì che il proprio spazio diventi un luogo interpretabile, non imponga di seguire un percorso univoco ma crei invece una piattaforma fluida e versatile su cui ogni individuo possa costruire il proprio racconto.

Per dare esempio di questi concetti è interessante tracciare un confronto tra due progetti, simili nell'ubicazione geografica e nella destinazione d'uso, ma completamente diversi nelle intenzioni: si tratta di due parchi olimpici, l' Olympiastadion di Berlino, costruito in occasione delle olimpiadi del 1936 per volere del governo nazista (fig.), e l'Olympiapark di Monaco, progetto realizzato da Gunther Benischen e Frei Otto per i giochi del 1972 (fig.).

Nel 1936, lo stadio per le Olimpiadi di Berlino, commissionato dal governo nazista e progettato da Werner March, era caratterizzato da proporzioni simmetriche e linee severe, tipiche dello stile architettonico nazista, concepite per impressionare e controllare le masse. La via per raggiungere lo stadio è univoca e ha dimensioni agorafobiche, tutti gli elementi sono in piano e "controllabili" da ogni punto di vista. Si trattava di un progetto pensato per la folla, e non per l'individuo.

Al contrario, Il parco Olimpico di Monaco, progettato dall'architetto Benischen con la collaborazione del paesaggista Frei Otto, è estremamente vario e differenziato in ogni suo elemento: dai percorsi sinuosi e ramificati, alle tortuose differenze di quota, fino alle coperture in tensostruttura che proteggono alcune parti del parco mentre ne lasciano altre scoperte. Queste continue variazioni incentivano la libertà di scelta dell’utente, consentendo a ciascuno di interpretare gli spazi secondo la propria inclinazione e volontà personale.

Fig7: Planimetria e fronte dello stadio olimpico di Berlino, Warner March, 1936.

Immagine tratta da: https://encyclopedia. ushmm.org/

Fig.8: Planimetria dell'Olympiapark di Monaco

Fig.9: Foto aerea dell'Olympiapark

Fig10: Sezione che mostra le differenze di quota e la complessità delle coperture in tensostruttura

Immagine tratta da: https://en.wikiarquitectura.com/

Fig 7.
Fig. 8
Fig 9
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02.3 L'architettura e il senso del limite

"il limite non è solo una separazione, ma anche un mezzo di connessione" (Norberg-Schulz, Genius Loci, 1979)

“Luogo?” è il primo capitolo dell’importantissimo saggio di Norberg-Schulz da cui è tratta la citazione. Questo autore, forte delle idee espresse da Heidegger in Costruire Abitare Pensare, contribuisce in modo definitivo alla sostituzione, avvenuta dal dopoguerra in poi, del concetto di “spazio” in architettura con quello di “luogo”. Il primo è figlio di una logica tipicamente modernista, che fa dell’idea di assolutezza e astrazione il proprio manifesto: ogni forma è idealmente universale, applicabile ovunque e in ogni tempo, perché pensata al di fuori delle specifiche contingenze. In contrasto, il luogo viene definito da Schulz come un “ambiente esistenziale”, e l’architettura la “concretizzazione” di questo spazio, il cui scopo ultimo è l’abitare. Lo spazio esistenziale si basa sul riconoscimento di un determinato ambiente come proprio, attraverso l’identificazione e l’orientamento, ed è quindi strettamente legato alla percezione personale e all’immagine che ogni individuo ne costituisce.

Per tale ragione, l’autore si scaglia contro il funzionalismo: i 5 punti dell’architettura di Le Corbusier (pilotis, tetto giardino, finestre a nastro, etc. ) sono secondo il nostro autore riduttivi, poiché si limitano a dare prescrizioni sulle modalità costruttive, restringendo le possibilità a precisi stilemi, che non vanno a prendere in considerazione la situazione in cui deve sorgere l’edificio, sottolineando «l’assoluto distacco dal luogo».

Norberg-Schulz introduce il concetto di Genius Loci, che può essere descritto come la personificazione della volontà del luogo: un’entità, quasi un daimon, che esprime la vocazione unica di ogni ambiente. Per lui, l’identità umana è strettamente legata al luogo, attraverso un processo di riconoscimento e appropriazione delle sue caratteristiche, che porta a identificarsi con esso. Progettare, secondo Nor

berg-Schulz, significa visualizzare il Genius Loci: cogliere l’essenza del luogo e tradurla in architettura. Questo approccio integra il contesto fisico, culturale e sociale, creando luoghi che gli utenti percepiscono come propri e significativi: quando un luogo che rispecchia la sua storia, cultura e caratteristiche naturali, gli utenti sono più inclini a prendersene cura, poiché lo avvertono come parte di sé e della propria comunità.

Certamente non si tratta di un’ operazione semplice, quella di carpire pienamente lo spirito del luogo in cui l’architetto opera, per potersi rendere consapevole di quanto il contesto rappresenti un limite, quanto un’opportunità, quanto entrambi nello stesso tempo. Quali sono gli strumenti che un progettista ha a disposizione?

Durante gli anni di studio all’Università, siamo entrati a contatto con la pratica del sopralluogo, un esperimento che ho sempre ritenuto molto interessante, perché conduce ad una modalità totalmente nuova di esperire i luoghi, tuttavia si tratta di uno strumento sicuramente necessario, ma non sempre sufficiente.

Un autore che si è interrogato su come ampliare e rendere più completa e universale la pratica dell’analisi contestuale fu il biologo scozzese Patrick Geddes. Egli paragonava una regione urbana a un organismo vivente, un sistema complesso dove ogni parte è interrelata a formare un intricato tessuto rappresentato dal celebre schema della “Valley section” (in fig.). Geddes sostiene che la nozione di città vada ampliata sia nello spazio che nel tempo ben oltre i confini fisici: La città e la sua regione sono in una relazione simbiotica e reciprocamente dipendente. Non si può conoscere la città senza prima comprendere la sua relazione con la sua regione urbana.

Fig.11: Schema rappresentativo della Valley section, che rappresenta la stretta correlazione tra ambiente e società.

Fig.12: Schema esemplificativo della Synoptic Vision proposta da Geddes.

Fig.13: Copertina del volume più noto e diffuso di Geddes, Cities in Evolution, 1915.

Immagini tratte da: https://www.ovalpartnership.com/

Fig 12
Fig 13

In tal modo Geddes si rende iniziatore di un metodo che chiama Synoptic vision (fig.12), il quale si contrappone alla tendenza prevalente di suddividere lo studio delle città in argomenti isolati (trasporti, economia, infrastrutture e alloggi) promuovendo una visione globale e onnicomprensiva. Tale approccio mira a definire le linee di sviluppo di una Eutopia -una trasformazione concreta e realizzabile- da contrapporsi all’ Outopia, un modello astratto e non radicato in nessun luogo specifico.

Un altro aspetto cruciale del pensiero di Geddes risulta quindi l’importanza attribuita alla regionalità e alla specificità dei luoghi, in sintonia con le riflessioni di Norberg-Schulz. La sua Eutopia immagina

una società dove l'umanità viva una ricca esistenza culturale, in armonia con la natura, e benefici dei frutti dell'industrializzazione moderna senza esserne schiavizzata, e in questo si ispira alla corrente di pensiero proposta dall’anarchico Bakunin.

Compreso il passato e analizzato meticolosamente il presente, Geddes si rivolge al futuro, alla previsione dei futuri possibili per una determinata città. Per Geddes, lo strumento per assicurarsi il mantenimento della Eutopia sta nel comunicare con i cittadini attraverso un processo partecipativo. Una volta acceso l'orgoglio civico, i cittadini sono più che disposti ad assumersi il compito di fare città.

Geddes fu chiamato a lavorare ad alcuni piani urbani nelle colonie inglesi, prima nell'India britannica e poi per alcune città antiche e moderne in Palestina (fig.14). Applicò il suo metodo e i suoi studi, andando in controtendenza rispetto all'approccio di pianificazione tipica dei coloni del tempo, che vantavano di portare igiene nelle città attraverso ingegnti demolizioni delle zone più compromesse. Geddes invece operò con grande rispetto e attenzione nei confronti delle culture locali, nel tentativo di costruire in quei luoghi lontani la sua "Eutopia".

Il più audace esperimento condotto da Geddes per promuovere il processo partecipativo fu quello di progettare e costruire una Torre-osservatorio nella sua amata città, Edimburgo. L'Outlook Tower offre un'esperienza immersiva di osservazione regionale in tempo reale attraverso l'uso di una camera oscura. Al suo interno, ospita una mostra dedicata alla regione urbana, che presenta i più recenti risultati di sondaggi e ricerche, insieme a proposte per il miglioramento della città. Inoltre, dispone di spazi dedicati a eventi di partecipazione cittadina.

Fig.14: Schizzo realizzato da Geddes per la progettazione della torre.

Fig.15: Outlook tower di Edimburgo con camera oscura.

Fig.16: Piani urbani per Tel Aviv realizzati da Geddes negli anni '20.

Immagine tratta da: https://www.ovalpartnership.com/

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03.1 La Cura come Igiene nel Movimento Moderno

Nel 1925 emerse una rivoluzionaria proposta, avanzata dal giovane

Le Corbusier, di trasformare una parte di Parigi, precisamente l'insalubre quartiere storico di Marais, che doveva essere raso al suolo per far spazio a imponenti grattacieli cruciformi, isolati, disposti a partire da meticolosi studi su areazione e soleggiamento. Il quartiere Marais era principalmente popolato da poveri commercianti ebrei e contadini immigrati, stipati in vie anguste dal tessuto medievale. Le Corbusier individuò l'insalubrità come radice del male di vivere degli abitanti del quartiere, e l'impianto storico del tessuto urbano un veleno che impediva il miglioramento delle loro condizioni: le città sarebbero rifiorite se e solo se si fossero comportate come macchine efficienti, che permettono di sostituire le parti vecchie e difettose con nuove componenti scintillanti e più performanti.

Queste furono le idee di cui discussero pochi anni dopo la cerchia dei più noti architetti del tempo, in occasione del IV CIAM, idee che furono poi impresse nel documento-manifesto della Carta di Atene nel 1933.

All'interno della Carta vengono espresse nuove idee riguardo l'abi-

tare: ad ogni attività umana è destinato un preciso spazio, le attività ricreative sono concepite in modo formale, le distanze tra casa e lavoro dovevano essere ridotte al minimo, piuttosto che privilegiare l'attenzione sulla qualità del lavoro stesso.

Le proposte studiate in occasione del congresso non tenevano conto delle condizioni di partenza e delle diversità delle singole città prese in esame, miravano anzi a creare un modello universalmente applicabile, nella fiducia che le soluzioni proposte fossero l'unica possibile chiave per liberare l'uomo dai mali causati dalla città industriale. Si potrebbe dire quindi che, in quegli anni, l'idea di Cura nei confronti della comunità andasse a coincidere con l'igiene, l'aerosità di una città ordinata e luminosa, dove ogni parte è efficientemente controllata e separata dalle altre.

In quegli anni si andarono a definire modelli e tipologie totalmente nuovi, tutti riuniti sotto l'idea di una progettazione funzionale, dai parchi, alle residenze, ai luoghi di lavoro, tutto fu asservito alla logica della macchina efficiente.

Il Weissenhof e le Siedlungen: un nuovo modo di abitare

Le Siedlungen- parola tedesca che si traduce con "villaggio, colonia"sono quartieri residenziali sorti nelle periferie delle città industriali negli anni '20. Esse sono un perfetto esercizio di sperimentazione delle teorie urbanistiche e architettoniche espresse nella Carta di Atene: si tratta di piani di edilizia economica in cui si cimentarono i migliori architetti teorici del funzionalismo, le tipologie sono il risultato dello studio del massimo sfruttamento dell'esposizione solare e areazione dello spazio.

Un tema importante che emerge in questi spazi è lo studio dell'existenzminimum, letteralmente l’Abitazione per il livello minimo di esistenza, per cui viene studiato il massimo risultato ottenibile nel minimo

spazio. Questa necessità, discussa nel CIAM del 1929, è emersa per ottenere il duplice risultato di una abitazione economica e abbordabile per gli operai, e che allo stesso tempo fosse in grado di provvedere alle esigenze materiali e spirituali degli utenti.

Il Weissenhofsiedlung di Stoccarda, ideato come quartiere-esposizione, è un esempio paradigmatico. Coordinato da Ludwig Mies van der Rohe, coinvolse architetti del calibro di Le Corbusier, Walter Gropius e Peter Behrens. Ogni edificio fu progettato come un prototipo per esplorare soluzioni innovative, dai materiali alle tipologie abitative. Dopo l'esposizione del 1927, gli edifici divennero abitazioni reali, dimostrando la fattibilità delle soluzioni adottate.

Fig.17: Prospettiva della Ville Contemporaine, Le corbusier, 1922 Immagine tratta da: http://www.mediaarchitecture.at/

Fig.18: La cucina di Francoforte, esempio emblematico del tema dell'Existenzminimum, fu progettata da Margarete Lihotzky per la Siedlung di Ernst May. La sequenza di fotogrammi mostra come la cucina fosse pensata per una donna moderna, che vuole ridurre al minimo il tempo passato a svolgere faccende domestiche.

Fonte: Domus 695, giugno 1988

Fig 18

Weissenhof significa letteralmente "villaggio bianco": è il bianco il colore ufficiale del linguaggio funzionalista, esattamente come Le Corbusier aveva immaginato i grattacieli cruciformi del Plan Voisin, perchè è il colore dell'astrazione, dell'estraneità, quello che più si addice all'estetica della casa-macchina. Il quartiere si compone di 63 alloggi, divisi in 21 edifici di diverse tipologie, tutti accomunati da caratteristiche ricorrenti che sono proprio i segni distintivi del'architettura funzionalista: tetti piani, finestre a nastro, volumi stereometrici, edifici isolati e immersi nel verde e, soprattutto, pianta libera. Una pianta libera dalle costrizioni strutturali consente la piena interpretazione degli spazi dagli utenti. Queste erano le caratteristiche messe in mostra all'esposizione del Werkbund, che miravano a mostrare come vivesse l'uomo moderno.

L'uniformità delle abitazioni rappresenta per il modernismo coerenza progettuale ed un elemento in grado di rafforzare il senso di comunità. Tale concezione si ribalta nell'esempio di Villaggio Matteotti (cfr. cap. 03.2), dove a maggiore varietà corrisponde maggiore personalizzazione e libertà di scelta.

Fig.19: Planimetria della Siedlung con schema sulle tipologie progettate dai vari architetti.

Fig.20: L'alloggio all'avanguardia di Ludwig Mies van der Rohe nel Weissenhof fu utilizzato come sfondo iconico per la promozione della Mercedes-Benz tipo 8/38 PS nel 1931.

Fig.21: Piante del piano terra e primo piano delle case 1-4 a linea progettate da Mies Van Der Rohe.

Immagini tratte da: Joedicke J., Wiessenhofsiedlung Stuttgart, Kraemer Verlag, Stuttgart+ Zurich, 2016.

Fig 20
Fig 21

03.2 Il superamento della concezione modernista: il Team X

Differentemente dal gruppo della Carta di Atene, il Team X ha natura informale, sono labili e sfumati sia i confini temporali che quelli di appartenenza. Il periodo assunto vagamente come riferimento è quello che va dal 1953, anno del nono incontro dei CIAM, sino al 1981, anno della morte di Jacob Bakema, unico architetto che presenziò a tutti gli incontri.

Gli architetti del Team X si interrogano sul ruolo dell'architettura e dell'urbanistica in seguito alla scossa della seconda guerra mondiale, che ha reso ormai obsoleto e superato il modello prodotto dagli architetti della precedente generazione della Carta di Atene: le quattro categorie funzionaliste enunciate nel 1933- abitazione, lavoro, svago, circolazione- furono messe in crisi e ribaltate- casa, strada, distretto, città. L'obiettivo del team non era di costruire un modello universalmente applicabile, al contrario di formulare e discutere dei nuovi concetti su cui si doveva basare l'architettura, che potevano poi essere declinati caso per caso. Di conseguenza, ciascun membro del team avrà un approccio unico e personale al problema.

La ricerca del Team X era tesa a postulare un modello urbano che superasse la condizione meccaniscistica di città, formulando un modello più complesso, che sarebbe stato a loro avviso più rispondente al bisogno di identità, ritenendo che è proprio il "far parte" ciò da cui deriva il senso di comunità.

Come precedentemente ribadito, il team non ha mai rilasciato veri e propri atti fondativi. Esiste solamente un manifesto, redatto da Alison Smithson nel 1954, il Doorn Manifest (fig.22), nel quale viene introdotto per la prima volta il concetto di "habitat" e si fanno riferimenti a pensatori un tempo accantonati dalla cultura modernista, come Patrick Geddes con la sua sezione di valle (cfr. cap. 02.3). Il manifesto non è da considerarsi una dichiarazione di intenti univoca, nè un atto fondativo, quanto più una base, un compromesso, da cui poi ogni membro avrebbe articolato la propria ricerca.

Molti furono i membri del team, alcuni occasionali, altri più assidui, ciasuno con la propria interpretazione personale del problema.

Una delle personalità più interessanti fu l'olandese Aldo Van Eyck, egli dedicò la sua carriera alla ricerca di una "forma del luogo", intrisa con un forte interesse antropologico: era affascinato dalle culture primitive e gli aspetti atemporali della forma.

Un altra personalità singolare è l'italiano Giancarlo De Carlo, vicino ai credi delle correnti anarchiche, era interessato alle forme di riuso e ripristino del patrimonio esistente-come testimonia il suo piano per la città di Urbino- in totale antitesi all'idea del Plan Voisin.

Egli fu anche uno degli sperimentatori di una forma di partecipazione progettuale, che mise in atto nel villaggio Matteotti di Terni.

I PUNTI DEL MANIFESTO DI DOORN (1954)

1. È inutile considerare la casa se non come parte di una comunità, a causa dell'interazione reciproca tra queste.

2. Non dovremmo perdere tempo a codificare gli elementi della casa fino a quando l'altro rapporto non sia stato chiarito.

3. L’“habitat” riguarda la casa specifica in un tipo specifico di comunità.

4. Le comunità sono le stesse ovunque.

5. Possono essere rappresentate in relazione al loro ambiente (habitat) nella sezione di valle di Geddes.

6. Qualsiasi comunità deve essere internamente conveniente e avere facilità di circolazione; di conseguenza, indipendentemente dal tipo di trasporto disponibile, la densità deve aumentare all'aumentare della popolazione, ovvero: (1) è la meno densa, (4) è la più densa.

7. Dobbiamo quindi studiare l'abitazione e i raggruppamenti necessari per produrre comunità funzionali in diversi punti della sezione a valle.

8. L’appropriatezza di una soluzione potrebbe risiedere più nel campo dell'invenzione architettonica che in quello dell'antropologia sociale.

Fig.22: Doorn Manifest, Alison Smithson, 1954 Immagine tratta da: http://www.team10online.org/

I playground di Amsterdam, Aldo Van Eyck (1947-1977)

Amsterdam soffriva, nel Dopoguerra, di un gran numero di spazi disconnessi e intersiziali all'interno del tessuto urbano, dovuti ai bombardamenti del recente conflitto. Per "riempirli", a partire 1947 il dipartimento di pianificazione della città decide di installare dei playground all'aperto. Aldo Van Eyck ,coinvolto nel progetto, si occupò di progettare questo tipo di spazi con grandissima attenzione e meticolosità per i successivi trenta anni della sua carriera.

Il primo playground progettato da Van Eyck, situato nella piazza pubblica di Bertelmanplein, si distingue per la semplicità e l'efficacia della sua concezione. Una sabbiera circolare domina l'angolo settentrionale dello spazio, arricchita da panchine, mentre il resto della piazza viene lasciato libero, destinato ad accogliere attrezzature mobili e diverse attività. Questo intervento, tanto essenziale quanto innovativo, suscita un grande entusiasmo tra i cittadini, consolidando la reputazione di Van Eyck e aprendo la strada alla sua lunga carriera come progettista di playgrounds per la città.

L'approccio di Van Eyck nella progettazione di questi spazi è quello di un'esplorazione dell'area di progetto, attraverso un processo disegnatorio che riveli il senso profondo della morfologia mediante segni archetipici, che fossero manifestazione delle primordialità presenti nel luogo. In questo Van Eyck dimostra una capacità straordinaria nel cogliere l'essenza del Genius Loci, rendendo i suoi progetti intrinsecamente legati all’identità e all’anima dei contesti in cui sorgono.

Fig 23
Fig. 25
Fig. 24

Van Eyck, consapevole che la vita ludica rappresenti uno dei fattori principali nel costituire una comunità, voleva che questi spazi non fossero adatti solo ai più piccoli, ma a tutta la città, e ciò è reso possibile attraverso un attentissimo studio di forma e colore. Gli elementi di gioco, così come i disegni preparatori, consistono in semplici forme archetipiche capaci di evocare differenti usi e intepretazioni, solleticando la fantasia del bambino. Ritroviamo in questo progetto il concetto esposto nel capitolo due, per cui la creazione di un' architettura-piattaforma interpretabile diventa un mezzo di prendersi cura della comunità in cui si sta operando (cfr. cap. 02.2).

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Fig.23: Metafora della foglia e dell'albero, cfr. Vincent Ligtelijn - Aldo van Eyck, Works, Basil, Birkhäuser, 1999.

Fig.24: Immagini rappresentanti Berterlmanplein prima e dopo l'intervento di Van Eyck.

Fig.25: Bambini che giocano nel playground di Laagte Kadijk.

Fig.26: Disegno in pianta del playground di Nieuwmarkt (1968).

Fig.27: Foto dall'alto del playground di Dijkstraat (1954).

Immagini tratte da: https: The Amsterdam city archive/ Aldo Van Eyck Archive.

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Fig 27

Villaggio Matteotti, Giancarlo De Carlo (1969-75)

L'architettura- sosteneva De Carlo- è troppo importante per essere lasciata agli architetti.

De Carlo ha sempre intrecciato la professione di architetto con un forte senso civico, e ha dedicato la sua carriera alla ricerca e alla sperimentazione di nuovi approcci progettuali. Nel 1971, egli formalizzò molte delle sue riflessioni in un importante trattato, "Architettura della partecipazione", che segnò profondamente il dibattito architettonico. In esso, propose strumenti per integrare nel progetto la complessità delle dinamiche sociali, economiche e culturali delle comunità coinvolte attraverso un processo di interlocuzione diretta.

“la differenza fondamentale tra l’architettura autoritaria e l’architettura della partecipazione è che la prima nasce dal presupposto che per risolvere un problema bisogna ridurre le variabili al minimo per poterle controllare mentre la seconda fa entrare in gioco tutte le variabili possibili in modo da avere un risultato multiplo, aperto al cambiamento."

De Carlo Giancarlo, in Zucchi Benedict, “Giancarlo De Carlo”, Butterworth architecture, Oxford, 1992, p.114

De Carlo ebbe modo di applicare il metodo partecipativo quando nel 1969 gli fu commissionato dalla Società Terni Acciaierie il progetto di riqualificazione del quartiere Italo Balbo, villaggio operaio sorto durante gli anni del fascismo in una zona più o meno periferica di Terni. L'architetto si circondò di una equipe di lavoro, tra cui il sociologo Domenico de Masi, per far sì che l’iniziativa vedesse impegnate nel

dibattito preventivo tutte le forze interessate: sindacati, amministrazione comunale e cittadini.

In un' intervista con F. Colombo e V. Foscati andata in onda sulla Rai nel 2003, De Carlo racconta l'esperienza del progetto partecipato e la sua evoluzione. Da un primo approccio nell'interlocuzione con gli utenti, l'architetto si rende conto che molti residenti non avevano una chiara visione delle alternative abitative al di fuori del piccolo mondo di Terni, e non avevano gli strumenti per visualizzare una nuova abitazione al di fuori degli schemi che avevano conosciuto.

De Carlo realizzò allora per loro una mostra di fotografie di 7 quartieri residenziali realizzati all'estero, per stimolarne l'immaginazione.

Da quel momento la partecipazione si è compiuta mediante lo strumento dello schizzo, che era per De Carlo una modalità per visualizzare istantaneamente i desideri degli operai.

Il progetto originario prevedeva la realizzazione di 840 alloggi, ma a causa di contrasti politici e interferenze istituzionali, il numero fu ridotto a 250 unità abitative. Le critiche arrivarono sia da ambienti di estrema sinistra, come Lotta Continua, che consideravano il progetto elitario, sia dalla Chiesa, che temeva un eccessivo protagonismo delle forze operaie locali. Nonostante questi ostacoli, il Villaggio Matteotti ha rappresentato un precedente unico nel panorama italiano e continua a essere studiato come esempio di integrazione tra partecipazione comunitaria e sperimentazione architettonica.

Fig.28: Fotografia dei percorsi trasversali
Fig.29: Fotografia che mostra i percorsi pedonali tra gli edifici del complesso
Fig.30: Fotografia della tipologia 2
Fig31: Fotografia della tipologia 4
Immagini tratte da: Divisare (foto di Ferrara M.)

Giancarlo De Carlo descrive così il villaggio Matteotti:

“…il quartiere è trattato come se fosse un insieme di piastre sovrapposte nel quale sono scavati i sistemi di movimento pedonale e veicolare e i campi d’edificazione. I canali di movimento veicolare sono ridotti al minimo necessario per l’alimentazione delle residenze e dei servizi, e perciò corrono lungo un solo lato dei campi d’edificazione. Sull’altro lato corrono i canali del moto pedonale a terra, che però sono presenti anche sul lato opposto, ma a livello sopraelevato. La connessione tra i canali pedonali a terra e quelli sopraelevati avviene in corrispondenza dei collegamenti verticali che servono gli alloggi, poiché le scale e le rampe sono trattate come percorsi inclinati aperti. Un sistema supplementare di percorsi sopraelevati connette il sistema pedonale principale trasversalmente, incontrando sulle intersezioni i servizi di prolungamento dell’abitazione e scavalcando la spina principale automobilistica che alimenta tutto il quartiere. I campi d’edificazione sono i luoghi dove le diverse tipologie trovano collocazione. Per rendere possibile il collocamento è stata definita una griglia tridimensionale che indica la posizione dei collegamenti verticali e l’inviluppo massimo dei volumi ammessi.”

(De Carlo Giancarlo, “La progettazione nel rapporto con le istituzioni e i cittadini. Il caso del Villaggio Matteotti a Terni”, in Meneghetti Lodovico. “Introduzione alla cultura delle città” Clup, Milano, 1981)

De Carlo si sforzò di creare, attraverso la sovraposizione e lo slittamento dei volumi, una differenziazione tra spazi pubblici, semi-pubblici e privati. Come si può evincere dallo schema al lato, i balconi sono privati e non affacciano l'uno sull'altro, a questi si affiancano spazi che De Carlo intreccia intenzionalmente, corridoi pubblici e terrazze semipubbliche, con l'obiettivo di favorire le opportunità di incontri casuali tra i residenti. L'estrema varietà di questo progetto emerge anche dalle soluzioni abitative presentate: Ogni tipologia si sviluppa su tre livelli e ospita, su ciascun piano, due appartamenti identici tra loro ma distinti rispetto a quelli dei restanti due piani. Le differenze si basano sulla presenza o meno di piante sfalsate, 5 diverse configurazioni di appartamenti, ciascuna declinata in tre varianti, per un totale di 45 soluzioni abitative. Ogni unità è progettata per rispondere a specifiche necessità e dispone di uno spazio verde, che può essere un giardino pensile o a livello del terreno.

Fig 32
Fig 33

Fig.32: Schema che mostra il sistema delle piastre sovrapposte.

Fig.33: Planivolumetria del progetto realizzato, che ne dimostra la complessità volumetrica.

Immagini tratte da: Archivio IUAV

Fig.34: Schema assonometrico delle visuali possibili dei residenti del complesso.

Immagine tratta da: New(er) Urbanism, Kummer Q., University of Cincinnati, BS Architecture, 2011, p. 76.

Rielaborazione grafica a cura dell'autore

Fig.35: Sequenza dei primi livelli per ognuna delle 5 tipologie presenti nel complesso.

Immagine tratta da: Beyond Expression Blog by Antonio Millan-Gomez

Fig.34

04.1 Progetto per il parco di Tor Sapienza,

Laboratorio di Urbanistica (2023/4)

Per il progetto del parco di Tor Sapienza il metodo impiegato è stato quello di una progressiva restrizione del focus di progetto: dal generale al particolare.

Si è dunque partiti con un'attenta analisi del quartiere, un'area ricca di tante criticità quante potenzalità. A partire da questa si sono individuati poi degli ambiti di intervento, ovvero nuclei particolarmente problematici dove urge la necessità di un intervento progettuale per imprimere un nuovo assetto all'intera area.

Attraverso lo strumento del sopralluogo si è tentato di "entrare" all'interno della comunità, immaginandoci di vivere come gli abitanti del quartiere, individuando in questo modo cosa avremmo voluto di più, se fossimo in loro, dal quartiere in cui abitiamo.

La zona, nonostante da un lato sia tristemente nota per situazioni di degrado e abbandono, costellata di numerosi stabili abbandonati o semi-abbandonati dalla dubbia destinazione d'uso, e quasi completamente ignorata dalle principali tratte dei mezzi urbani più efficienti, dall'altro è inserita all'interno di un sistema interconnesso e molto vario di aree verdi, non sempre opportunamente valorizzate. Inoltre il clima che si respira a Tor Sapienza è quello di una forte coesione sociale, basata sulla cura della comunità e sull'aiuto vicendevole: servizi per la comunità, attività ricreative proposte ai bambini, aiuto agli stranieri, molto presenti sul territorio, oltre che la presenza, nel sito di progetto, di orti urbani, curati dalla comunità locale. Ho trovato questo fenomeno molto interessante, considerata l'evidente assenza di effettivi luoghi di aggregazione o socialità.

Le immagini scattate durante il sopralluogo rivelano una situazione di estrema incuria, con spazi che appaiono desolati e privi di qualsiasi elemento funzionale o attrattivo. L'ampiezza dell'area, non valorizzata da infrastrutture o attrezzature, genera una sensazione di vuoto e disorientamento, contribuendo a un'atmosfera poco accogliente, agorafobica. Le potenzialità del luogo sono evidenti: l'ampiezza dello spazio disponibile costituisce una base ideale per la realizzazione di aree multifunzionali dedicate a sport, socialità e tempo libero. Inoltre, la posizione strategica del parco, situato in un contesto baricentrico tra due poli significativi del quartiere — gli abitati lungo via di Tor Sapienza e il complesso di case popolari IACP di via Morandi — lo rende un ideale spazio di cerniera tra queste realtà.

Fig.36: Inquadramento del parco all'interno del quartiere di Tor Sapienza (elaborazione dell'autore)

Fig.37: L'edificio dismesso ex-Polifarma sullo sfondo del parco

Fig.38: il mercato, attualmente in disuso, animato da pochi banchi

Fig.39: Facciate degli edifici IACP di Via Morandi visibili dal parco.

Fotografie di sopralluogo del gruppo di progetto (G. Ariolfo, A. Bernardeschi, G. Campoli)

Fig 36

LUOGO DESTINATO AD EVENTI ALL'APERTO (cinema, teatro etc.)

POLO ATTREZZATO PER LE ATTIVITA' SPORTIVE

NUOVA COLLOCAZIONE E RISISTEMAZIONE DEGLI ORTI URBANI COOGESTITI

EX EDIFICIO POLIFARMA RIQUALIFICATO (biblioteca, attività per la comunità, aula studio), CON PARCHEGGIO SOTTOSTANTE

NUOVO MERCATO DI QUARTIERE
Fig.

Fig.40: Masterplan dell'intervento sul parco di Tor Sapienza.

Fig.41: Vista renderizzata del parco, sono visibili il cinema all'aperto, il mercato e l'impianto sportivo.

Fig.42: Vista renderizzata del mercato.

Fig.43 Vista renderizzata della nuova sistemazione per gli orti urbani.

Fig.44: Sezione trasversale del mercato B-B'

Fig.45: Sezione longitudinale del parco A-A'

Elaborati grafici a cura del gruppo di progetto G. Ariolfo, A. Bernardeschi, G. Campoli e rielaborazione dell'autore (A. Bernardeschi), Laboratorio di Urbanistica, Prof. Simone Ombuen, a.a. 2023/4

Fig. 44 Fig 45

Progetto per un polo studentesco presso gli ex-frigoriferi di Testaccio,

Laboratorio di progettazione architettonica 2 (2022/3)

Situato nel cuore di Testaccio, appena adiacente all'Università, questo progetto incarna perfettamente l'idea di un luogo di vita per gli studenti, che sia di studio, di svago, incontro e socialità.

L’aspetto più stimolante di questo esercizio progettuale è stato il suo carattere fortemente partecipativo, in cui progettista e utente si fondono in un unico ruolo: le scelte architettoniche e funzionali sono una traduzione diretta dei desideri degli studenti stessi. Ogni decisione riflette il sogno di avere un luogo su misura, pensato per soddisfare le necessità di chi vive quotidianamente l’esperienza universitaria. Un rifugio accanto al dipartimento, in cui ogni studente può trovare il proprio equilibrio tra produttività e relax,, tra introspezione e convivialità; in poche parole un "terzo luogo".

La teoria del terzo luogo fu formulata dal sociologo R. Oldenburg e si riferisce a luoghi in cui le persone trascorrono il tempo oltre alla casa (primo luogo) e al lavoro (secondo luogo). Si tratta di luoghi caratterizzati da un’atmosfera rilassata, dalla promozione della conversazione e dalla capacità di annullare le gerarchie sociali, diventando un punto di equilibrio tra i ritmi frenetici del lavoro e la dimensione privata della casa.

Le funzioni presenti all'interno del progetto sono un' aula studio, una caffetteria, una terrazza all'aperto e uno spazio espositivo, che occupa l'intero secondo livello: l'arte incarna in questo progetto un elemento fondamentale di discussione ed identificazione per gli studenti

Il progetto non si limita quindi a offrire uno spazio fisico, ma diventa un laboratorio di comunità, che contribuisce anche alla costruzione di relazioni e alla creazione di un’identità comune per chi vive e anima il quartiere di Testaccio.

Pianta piano terra_Scala 1:200

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Fig.46: Vista renderizzata e fotomontaggio del progetto nel contesto del quartiere Testaccio.

Fig.47: Planimetria del contesto urbano con il sito di progetto evidenziato

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Fig.48: Pianta del piano terra in relazione con l'immediato contesto circostante e Prospetto Est.

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Fig.49: Sezione longitudinale B-B'

Fig.50: Vista renderizzata della vetrata rivolta verso Piazza Giustiniani con fotomontaggio a cura dell'autore della vista sulla piazza..

Fig.51: Vista renderizzata dell'aula studio al piano terra.

Fig.52: Vista renderizzata dello spazio espositivo sulla doppia altezza, in concomitanza con l'uscita sulla terrazza.

Fig.53: Esploso assonometrico

Fig. 54: Prospetto Sud

Fig. 55: Sezione trasversale D-D'

Elaborati grafici a cura del gruppo di progetto A. Bernardeschi, G. Campoli, Fotomontaggi a cura di A. Bernardeschi, Laboratorio di Progettazione

Fig 49
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Fig 54
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Progetto per un complesso residenziale su Via Valco San Paolo,

Laboratorio di progettazione architettonica 3 (2023/4)

“Ho passato qualche ora di domenica, in primavera, ad osservare da un caffè di fronte il moto degli abitanti della mia casa; ho subito la violenza che mettevano nell’aggredirla per farla diventare la loro casa; ho verificato l’inesattezza dei miei calcoli.

Le logge al sole erano colme di panni stesi e la gente era a nord, tutta sui ballatoi, davanti a ogni porta, con sedie a sdraio e sgabelli, per partecipare da attori e spettatori al teatro di loro stessi e della strada. [...] Conta l’orientamento e conta il verde e la luce e potersi isolare, ma più di tutto conta vedersi, parlare, stare insieme. Più di tutto conta comunicare.”

G. De Carlo, “Case a Sesto san Giovanni e a Baveno”.

La citazione di De Carlo mi ha condotto a riflettere alle infinite declinazioni e interpretazioni diverse che il progetto può ottenere, se fosse lasciato alla libertà di essere abitato, per verficare "l'esattezza dei calcoli" avanzati da questo esercizio progettuale.

ll progetto per un complesso residenziale a Valco San Paolo vuole essere un punto di riferimento non solo per i residenti ma per l'intero quartiere. Provvisto di un piano terra di servizi, una palestra, una sala conferenze e una biblioteca, il complesso vuole porsi come un polo attraversabile e permeabile, grazie al sollevamento su pilotis e le corti interne.

Come per villaggio Matteotti, questo progetto fa della varietà il suo punto di forza, che si rfilette sia nelle tipologie abitative che nelle dimensioni e negli arrangiamenti degli alloggi: coesistono nel complesso la tipologia a linea e a ballatoio, in più le piante sono sfalsate e gli alloggi hanno sistemazioni diverse per ogni piano. Gli alloggi si suddividono in tipi di tre dimensioni per adattarsi alle dimensioni di ogni nucleo, e gli spazi comuni si differenziano tra pubblici (il parco a Nord del lotto A), semi pubblici (le due corti interne nei due lotti), e riservati ai residenti (ballatoi e terrazze).

Fig. 60

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Fig.56: Inquadramento urbano del progetto.

Fig.57: Vista renderizzata degli edifici sui due lotti di progetto visti da Ovest.

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Fig.58: Pianta del piano terra sui due lotti.

Fig.59: Vista renderizzata degli edifici sui due lotti visti da Est.

Fig.60: Sezione trasversale A-A'

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Fig.:61 Vista renderizzata della corte interna nel Lotto A.

Fig.62: Pianta del piano tipo 2,4,6.

Fig.63: Pianta della tipologia di appartamenti duplex.

Fig.64: Schema della disposizione delle varie tipologie di appartamento nei due lotti.

Elaborati grafici a cura del gruppo di progetto A. Bernardeschi, E. Buglioni, Laboratorio di Progettazione 3, Prof. Luca Montuori, a.a. 2023/4

LOTTO A
LOTTO B
Fig. 61
Fig 64

Conclusioni 05

Con il racconto tracciato all'interno di questo portfolio, ho voluto esplorare quello che considero l'aspetto più affascinante e vitale dell'architettura: il momento in cui uno spazio diventa vivo, animato dalle persone che lo attraversano, lo trasformano e, soprattutto, lo abitano.

Durante i laboratori di progettazione, non sempre l'attenzione era rivolta alla dimensione vissuta degli spazi che immaginavamo. Spesso il progetto si limita alla fase concettuale o alla formalizzazione tecnica. Tuttavia, ciò che mi ha guidato in ogni occasione è stato un interesse verso l'abitabilità: cosa significa realmente vivere uno spazio, trasformarlo in qualcosa di proprio, e come un progetto può facilitare questo processo?

Nei progetti che ho avuto l'opportunità di sviluppare, ho cercato di far emergere questo tema in modi diversi. È stata un'esplorazione personale che mi ha permesso di coniugare l'apprendimento accademico con una personale visione dell'architettura, che metta al centro le persone e il loro modo di vivere. Questa consapevolezza ha guidato il mio percorso, e spero che continui a essere il cuore della mia ricerca.

"Abitare", da Vocabolario Treccani (edizione online), alla voce https://www.treccani.it/vocabolario/abitare/

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"The Life and Times of Sir Patrick Geddes". Camera Obscura and World of Illusions Edinburgh. Retrieved 8 November 2024: https://camera-obscura.co.uk/

In copertina

Fronte: fotografia sul paesaggio del quartiere Casilino 23 visto dalla vicina Villa De Santis a Roma, progettato da Ludovico Quaroni.

Retro: fotografia della scultura "La Luna" realizzata dall'artista greco Costas Varotsos nel 2003. L'opera, realizzata in vetro e acciaio, è un omaggio a Pier Paolo Pasolini.

Fotografie ed elaborazioni grafiche a cura di Alice Bernardeschi (autore).

A tutte le persone a cui voglio bene: grazie per aver condiviso con me il vostro affetto, il vostro supporto e la vostra presenza, che mi hanno dato la forza e l’ispirazione per arrivare fin qui. Ogni passo di questo percorso porta un pezzo di voi, ed è anche grazie a voi se questo traguardo è diventato possibile.

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