Ministero dell'Istruzione, dell'UniversitĂ e della Ricerca REPV
BBLICA ITALI ANA
Ufficio Scolastico per la Lombardia
Green Words.
PAROLE PER L'AMBIENTE. www.paroleambiente.it
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“Raccontami che aria tira”. Il premio letterario 2013, ideato da Associazione Itaca e organizzato da Multiconsult Srl ha cambiato veste… da “Racconti del parco” diviene “Raccontami che aria tira”. Il concorso, infatti, in occasione dell’Anno europeo dell’aria è stato promosso da Regione Lombardia, da Fondazione Lombardia per l’Ambiente (Fla), dall’Ufficio Scolastico Regionale con l’obiettivo specifico di coinvolgere gli studenti, ma anche gli adulti, sul tema dell’aria. L’Aria intesa non solo in termini di tutela della sua qualità e di promozione di comportamenti corretti per la salvaguardia dell’ambiente e della natura, ma anche come elemento della natura fonte di ispirazione e di emozioni. La valorizzazione condivisa delle risorse presenti in natura e del loro legame indissolubile con l’uomo ha così potuto raccogliere l’adesione sempre più sorprendente di un pubblico sensibile, composto da studenti, giovani e adulti di ogni parte d’Italia. Un’iniziativa consolidata anche dalla partecipazione di prestigiosi partner istituzionali, come la MIA (Fondazione della Misericordia Maggiore) e Associazione con Giulia, con un Premio riservato agli studenti della “Scuola in Pigiama”, e la Camera di Commercio di Bergamo, promotrice dell’omonimo riconoscimento speciale. Ancora una volta la molteplicità delle forze coinvolte e la ricchezza delle attitudini hanno dato vita a storie con abitanti reali e immaginari, indispensabili a incoraggiare la consapevolezza dei cittadini presenti e futuri al rispetto e tutela dell’ambiente.
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Indice
Indice
Sezione scuola Secondaria di I grado
Sezione scuola Secondaria di II grado
1° Classificato: “Bianchina nuvoletta speciale”
1° Classificato: “L’aria che respiri” (cortometraggio)
2° Classificato: “Aria, un elemento indispensabile”
2° Classificato ex aequo: “Ciò che non c’era”
Anna Lavetti, ITIS G. Natta - Bergamo
Anna Colosio, Scuola Petteni - Bergamo
Giulia Bonaldi, Scuola d’Arte Applicata Andrea Fantoni - Bergamo
Francesca Rota, Istituto Maria Immacolata - Bergamo
“ L’aria”
Segnalati:
Massimiliano Puppi, Istituto Tecnico Aeronautico A. Locatelli - Bergamo
“L’origine dei venti”
Segnalati:
Daniela Airoldi, Collegio Vescovile Sant’Alessandro - Bergamo
“Dagli occhi del cielo”
“Santa Maria aiutaci tu!”
Andrea Corsi, Istituto Superiore “Don L. Milani” - Bergamo
Daniel Bulla, Istituto A. Moro - Seriate - Bergamo
“L’ultimo sospiro”
“Dido all’aria”
Francesca Grossi, Scuola d’Arte Applicata Andrea Fantoni - Bergamo
Riccardo Rocchi, Istituto A. Moro - Seriate - Bergamo
“A little piece of heaven”
“ Le avventure di un palloncino”
Viola Ferrari, Liceo Linguistico G. Falcone - Bergamo
Benedetta Zerbini, Francesca Colleoni, Sofia Martinelli, Imiberg - Bergamo
“L’incontro tra l’aria e i 5 sensi”
Clelia Figoli, Istituto Tecnico Aeronautico A. Locatelli - Bergamo
“L’ultimo volo”
Alessandro Molteni, Istituto Tecnico Aeronautico A. Locatelli - Bergamo
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Indice
Sezione scuola Secondaria di I grado
Categoria Adulti 1° Classificato: “Vento” Alberto Arecchi
2° Classificato: “Il dono” Massimo Nicoli
Segnalati: “Autobiografia”
Alessandro Pelicioli
“Aria Cattiva” Stefania Petta
“Aria di pioggia” Paolo Meneghini
“L’ora d’aria” Silvia Valagussa
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primo classificato Sezione scuola Secondaria di I grado
“Bianchina nuvoletta speciale” Anna Colosio, Scuola Petteni - Bergamo
Era un sereno pomeriggio d’estate, quando la famiglia delle Nuvole Bianche, così famosa nel bosco della Pioggia incantata, si ritrovava, come al solito, a sonnecchiare tra l’aria pura di quel magico bosco. Questa grande famiglia era composta da mamma Biancona, da papà Biancone, dalla figlia più grande Bianca e dalla piccola Bianchina, una piccola nuvoletta che amava scorrazzare tra i limpidi cieli del suo amato bosco. Erano amici di tutti in quel posto: Lilly lo scoiattolo, Annalisa la lepre e ancora tutti gli uccellini che amavano posarsi sulla loro schiena così morbida. Erano le tre del pomeriggio, tutti si trovavano nel bel mezzo dei loro sogni, quando la piccola Bianchina decise di andare oltre il confine che la mamma le aveva proibito di sorpassare… Un bel salto e la nuvoletta si ritrovò in mezzo ad un altro mondo: sentiva rumori che la infastidivano, clacson di automobili, persone che litigavano e che buttavano spazzatura per terra e inoltre si poteva ben annusare un’aria del tutto diversa da quella del bosco, così pura e senza inquinamento: un’aria inquinata dalle auto, dalle fabbriche, dalle persone che fumavano. Fu allora che la piccola Bianchina non si perse d’animo, pur avendo abbastanza paura di quel mondo che ai suoi occhi appariva così diverso. Decise di abbassarsi dalle sue alte quote e di portare le persone nel “suo” magico bosco. Esse erano veramente entusiaste nel vedere una nuvola tra loro. Incominciarono le partenze, le persone erano così tante che non si riusciva a contarle. Con la prima partenza la nuvoletta ne portò moltissime. Quando arrivò al bosco i suoi genitori, preoccupati la salutarono e le chiesero dove fosse andata. Bianchina raccontò allora tutto a papà e mamma e loro, commossi decisero di aiutarla in questa grande impresa. Tutta la famiglia delle nuvole, tutti gli animali e piante aiutavano le persone per mostrare loro la bellezza della natura nella sua maestosità. Lilly lo scoiattolo portava le persone anche nei luoghi più nascosti di quel posto, Annalisa mostrava loro le vedute dalle alte vette e faceva sentire loro l’aria così fresca e pulita; i maestosi alberi facevano vedere 9
primo classificato Sezione scuola Secondaria di I grado
secondo classificato Sezione scuola Secondaria di I grado
tutti i fiori, gli uccelli. Le nuvole le facevano dondolare tra il dolce profumo del muschio. Le persone che mai prima d’ora avevano sentito quest’aria, si dimenticavano perfino di mangiare, dormire, bere, giocare. Anche i bambini più vivaci rimanevano estasiati e non saltavano, nè piangevano ma semplicemente rimanevano in silenzio ad ammirare quella meraviglia. Alla fine di questa grande impresa, la nuvoletta Bianchina rimase veramente delusa. Le persone tornarono in città ma non cambiarono il loro modo di vivere e di rapportarsi con la natura e l’ossigeno… di nuovo venivano ripetuti dei grossi sbagli che non facevano che peggiorare la situazione dell’aria, che si faceva sempre più inquinata e sporca. Un giorno, in uno dei ripetuti viaggi di Bianchina in città accadde un avvenimento veramente strano: la piccola nuvola, mentre si trovava con i suoi genitori a controllare la situazione di una strada in città, divenne, mano a mano che il tempo passava da bianca candida, a grigia e successivamente nera. A quel punto i suoi genitori si preoccuparono e la piccola, mentre piangeva una pioggia acida, disse: - È quest’aria che mi ha fatto diventare così, sta rovinando la salute e la natura di questa città! - e con un sospiro si addormentò. Dopo l’accaduto, tutta la popolazione della città si sentì veramente in colpa, sia per la nuvoletta sia per il comportamento che avevano avuto riguardo all’aria e alla natura. Le persone incominciarono ad andare al lavoro, a scuola con le biciclette o a piedi, le fabbriche misero dei filtri riducendo l’inquinamento, furono create delle zone verdi con tanti alberi e fiori. Era inoltre diventata una città pulita, la spazzatura veniva buttata nei cestini e tutti erano contenti. La gente e la popolazione del bosco si dava da fare per far risvegliare la piccola Bianchina. Fu proprio in un altro caldissimo giorno di quello stesso mese, che accadde un altro fatto veramente eccezionale: mentre erano tutti riuniti in una via della città intorno alla nuvoletta, un grande soffio di aria pulitissima investì tutta la popolazione, ed ecco che Bianchina, con grande sorpresa, si risvegliò più candida che mai. Ci fu una grande festa ed ogni settimana la popolazione del bosco, raggiungeva a cavallo delle nuvole della famiglia Bianchi, il nuovo ambiente depurato… Intanto la nuvoletta Bianchina si divertiva a fare capriole nei soffi di aria pulita!
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“Aria, un elemento indispensabile” Francesca Rota, Istituto Maria Immacolata - Bergamo
Aria... invisibile e impercettibile, ma indispensabile. Debole, e fortissima. Può distruggere intere città, scatenare la furia di mari e fiumi; ma è dolce e piacevole la brezza che scompiglia i capelli in una calda giornata estiva. È ovunque ma io non me ne accorgo; mi guardo intorno e non vedo niente guardo ciò che mi circonda e la cerco: sembra che non ci sia penso che a lei di me non importi... ma c’è: tiro un lungo sospiro e la sento penetra nelle narici come la linfa scorre negli alberi:
mi rinfresca e ridà vita. È così potente e indispensabile... timida e ritrosa c’è e con generosità si concede sempre. io la tratto male; talvolta la inquino e non la rispetto ma lei non si arrabbia mai. È sempre pronta a tornare a perdonarci e a ripulire con un soffio ciò che noi avevamo sporcato. Invisibile, forte, debole, timida e generosa... silenziosa fiamma della vita.
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“L’origine dei venti”
“Santa Maria aiutaci tu!”
Daniela Airoldi, Collegio Vescovile Sant’Alessandro - Bergamo - 3ª B
Daniel Bulla, Istituto A. Moro - Seriate - Bergamo
Tanto tempo fa le nuvole erano immobili. Il loro destino era quello di rimanere immobili come delle statue nel cielo infinito. Questa maledizione era stata scagliata migliaia di anni prima dal Re delle Stelle, il Re Sole. Quando nacquero infatti, le nuvole erano troppo scatenate e continuavano a darsi fastidio l’un l’altra: una nuvola faceva il solletico alle sue sorelle; l’altra le pizzicava; un’altra provocava liti a non finire, un’altra ancora continuava a piangere. Le nuvole erano talmente maleducate che il Re Sole, esasperato dal loro comportamento scorretto, lanciò loro una maledizione: le nuvole sarebbero rimaste immobili nel cielo e, se una nuvola avesse pensato di fare del male ad una delle sue sorelle, una di loro sarebbe sparita. Solo se avessero imparato a rispettarsi reciprocamente, la maledizione si sarebbe sciolta. Le nuvole si lamentavano della crudele punizione. Un giorno, la nuvola che dava i pizzicotti pizzicò una delle sue sorelle e, poco dopo, la sorella scomparve. La nuvola si sentì talmente in colpa che decise di non dare più pizzicotti. Anche tutte le altre nuvole decisero che da quel momento sarebbero state buone e Rispettose. Così la maledizione si sciolse. Da allora le nuvole volano liberamente nel cielo azzurro, giocando e correndo talmente veloce che, quando si fermano, hanno un fiatone così forte da muovere anche gli alberi. Così ebbero origine i venti.
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In una città d’Italia c’era un ragazzo che ci teneva all’ambiente. Città fantastica la sua, si estendeva sul promontorio e degradava dolcemente verso il mare. Lì un porto non solo di pescatori, faceva d’attracco a navi provenienti da molte parti del mondo. L’unico inconveniente era quel maledetto maestrale che spingeva sulla città tutti gli odori del mare e dei suoi cantieri navali. E certi giorni immaginatevi l’aria che saliva su ed entrava nelle case. Da alcuni mesi la nave Santa Maria con i vecchi motori, partiva lasciando nell’aria un fumo nero inquinante. La città del ragazzo senza “quel piccolo inconveniente” sarebbe stata meravigliosa. Ma c’era un altro problema: i cittadini se ne fregavano di proteggere il territorio. La nave Santa Maria era particolarmente inquinante, il ragazzo vedendo che essa era causa di ciò decise di andare a parlare con il proprietario, un arrogante vecchietto. Il ragazzo gli disse: “La sua nave inquina tutto qui, lo sa!”, il vecchietto ringhiò: “Qua tutti inquinano! A tutta questa gente interessano solo i soldi”. Allora il ragazzo aggiunse: “Se lei mette a norma questa nave ci sarà meno smog e forse anche gli abitanti di questa città si decideranno a inquinare meno”, ma purtroppo il vecchietto, quasi convinto di quanto diceva il ragazzo... non aveva i soldi necessari... “Ha sempre questi maledetti soldi!”, pensò in quell’angolo del cuore meno burbero che aveva. Rivolse al ragazzo uno sguardo più dolce ma non gli rivolse più la parola. Ma il ragazzo, capì e tornò a casa molto triste perché quella nave non poteva essere messa a norma. Ma durante la notte gli venne una formidabile idea. La mattina seguente si recò a scuola e appena vide i suoi amici disse: “Avete presente la nave Santa Maria quella con i motori vecchi e arrugginiti?”; un suo compagno di classe a cui non interessava niente dell’ambiente urlò: “Ma che ce frega a noi, tanto
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tra una sessantina d’anni, io non ci sarò più, voi non ci sarete più”. La risposta però fu secca: “Sei sempre il solito. L’ambiente è importante! Se continuiamo ad inquinarlo tra qualche anno avremo seri problemi di salute... altro che moriremo tra sessanta o settant’anni. E le malattie? Non riusciremo più a respirare... i tumori arriveranno e poi non pensi ai bambini o ai nostri figli?”. Gli altri della classe si accorsero che la faccenda diventava seria. “Faremo un tentativo anche noi. Parleremo con quel vecchio e faremo valere le nostre ragioni”. “Vì ringrazio, ma penso che otterrete ben poco... perché infondo quel capitano è un bonaccione. Non ha i soldi! Perciò bisognerà inventarsi qualcos’altro!”. “ldeissima!” urlò Ugo al terzo banco “Facciamo uno spettacolo dove i fondi andranno al vecchio per sistemare la nave”. Gli amici gli risposero: “Buon’idea!”. All’intervallo si misero d’accordo su quando fare lo spettacolo, come strutturarlo, i ruoli e come pubblicizzarlo. Finita la scuola attaccarono dei cartelloni e andando casa per casa a dire che c’era questo spettacolo e che tutti i soldi guadagnati sarebbero andati al proprietario della Santa Maria per bonificare la nave. Il giorno seguente molta gente venne allo spettacolo e con i soldi guadagnati riuscirono a mettere a norma la nave e la gente prendendo esempio dal ragazzo e capendo che l’ambiente è importante misero a norma il loro cuore e la loro città.
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“Dido all’aria”
Riccardo Rocchi, Istituto A. Moro - Seriate - Bergamo
Candido detto Dido dai genitori e Ariafritta dai compagni aveva 9 anni, ogni mattina la mamma lo accompagnava a scuola in bicicletta. In una di queste, parcheggiata la sua mitica mountain bike tutta nera satinata, più del solito avverti una forte puzza intorno a lui. Finita la scuola Dido salì su un bus, che lo avrebbe portato in montagna... per strada la puzza continuava! “Ma da dove arriva questo tanfo intollerabile, più schifoso di quello dei calzini di mia sorella?, o delle divise fradice dei miei compagni alla fine della partita? Non ne posso più!... Vado a vivere in montagna alla faccia di tutti! Ma poi sarà vero che in montagna c’è l’aria buona? E che l’aria buona a venire l’appetito? Bhè, per quanto riguarda l’appetito... quello non mi manca... anche con la puzza, anche quando nasconde quel profumino di mortadella che arriva dalla bottega di Arturo... il salumiere”. E mentre fantasticava tutto ciò... il bus si allontanava pian piano dalla città e saliva, saliva. Intanto erano ormai le 14,30 del pomeriggio e i genitori non avevano visto ritornare il loro Dido. Preoccupati si precipitarono a scuola. Ma dal personale, professori e bidelli tutti, nulla si sapeva del ragazzo. Allora la mamma chiamò la polizia, che iniziò le indagini. E mentre giù in città erano alla sua ricerca... ormai Dido era arrivato alla sua meta. Quale? Un gigantesco albero che lui aveva soprannominato Dadà casa di Dodò. Si Dodò il pupazzo animato che aveva visto in tv, che usciva da un albero azzurro. Da quel momento si era messo in cerca su google maps di quel meraviglioso albero azzurro che non era molto distante dalla sua cittadina lombarda. In più aveva scoperto come argonauta di internet che Dodò non era altro che un uccello simpaticissimo vissuto davvero e scomparso per colpa dell’uomo intorno al 1681. Dido ricordava ancora che tutto era partito da lì, e ricordava ancora le sgridate della mamma “Maledetti noi quando ti abbiamo comprato quell’ag-
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geggio infernale, quella scatola luminosa... Vieni a cena, domani ti alzerai ancora una volta intontito e a scuola farai le tue solite figuracce!”, ricordava ancora anche le imprecazioni del papà: “Datti una mossa!, neanche la soddisfazione di vedere insieme una partita alla tv e tifare, urlare, bestemmiare insieme”. Si quello era proprio suo padre rude e generoso quando si buttava a sua insaputa sul letto e lo abbracciava sino a fargli mancare il fiato! Si era iniziato proprio allora quella spasmodica ricerca... il Dodo si era estinto perché i coloni delle Mauritius avevano stravolto l’ambiente dove questo simpatico e generoso uccello viveva. Allora Dido decise di ricercare un luogo dove poter godere di aria pulita e a contatto con la natura e con quell’albero che gli avrebbe fatto ricordare quel simpatico pennuto. Ora era lì tra terra e cielo, la notte si avvicinava... non pensava alle richieste del suo stomaco, forse voleva dimostrare che anche un ragazzo come lui ritenuto superficiale da essere soprannominato aria fritta perché non pretendeva mai nulla e quello che gli rimaneva della sua generosità era... nulla, anche un ragazzo come lui... aveva bisogno di sognare: e non si può sognare in un pianeta malato.
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“Avventure di un palloncino”
Benedetta Zerbini, Francesca Colleoni, Sofia Martinelli, Imiberg - Bergamo
C’era una volta un palloncino di nome Nuvola dai grandi occhi azzurri, un naso paffuttello e rosso, una bocca sottile e tre capelli ricci e biondi, che da secoli sorvolava una distesa completamente candida e lucente come la neve colpita dal sole. Questa distesa era molto luminosa e non c’era niente, solo lui. Un giorno, sorvolando il cielo bianco e pallido, notò un’enorme chiazza grigia che piano piano si ingrandiva sempre di più e, tentato dalla curiosità, si avvicinò un po’ troppo, come un bambino innocente. A un certo punto vide un grosso tubo grigio che spandeva fumo ininterrottamente, provocando molto inquinamento. Il palloncino si avvicinò e, per il troppo fumo scuro e pesante, scoppiò. Dal suo interno uscirono milioni di coriandoli che, spandendosi nell’aria, formarono una distesa verdeggiante. I suoi tre capelli crearono il vento; i coriandoli verdi pianure, monti e molti alberi; quelli blu oceani, mari, fiumi, torrenti e l’immenso cielo azzurro; quelli gialli lo splendente sole. Tutti gli altri coriandoli crearono una quantità di bellissimi fiori di ogni forma e colore, lucenti e vivaci. Da allora tutti gli uomini si impegnarono a rispettare di piu’ il proprio ambiente, cercando di non inquinarlo più. E tutti gli abitanti vissero felici e contenti con il loro ambiente pulito e allegro.
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Sezione scuola Secondaria di II grado
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secondo classificato Sezione scuola Secondaria di II grado
“Ciò che non c’era”
Giulia Bonaldi, Scuola d’Arte Applicata Andrea Fantoni - Bergamo
Molto tempo fa non esisteva l’aria. Il mondo era completamente ricoperto d’acqua, le città erano sui fondali marini e le persone che vi abitavano erano moltissime. Purtroppo però per gli abitanti delle città era molto difficile vivere. Si muovevano lentissimi e non riuscivano a parlare e quindi dovevano scrivere tutto. Un giorno, in una di queste città, nacque la bambina molto belle particolare, avere capelli biondi e gli occhi blu. Come tutti i bambini non riusciva respirare bene, solitamente ci si abituava versi quali età, ma arrivata al quinto anno di vita faceva fatica a respirare. I dottori non ne capivano la ragione. Gli altri bambini la prendevano in giro per il suo strano aspetto. Lei invece era sempre molto disponibile con tutti ma quasi nessuno la rispettava. Arrivata a 17 anni ancora non riusciva a respirare bene un giorno dalla sua bocca usciranno delle strane bolle che salivano verso l’alto. In quel momento Aria, questo era il nome della bambina, decise di seguire le bolle nuotando verso l’alto. Questo inseguimento però sembrava che non portasse da nessuna parte ed allora si arrese e smise di seguire le bolle. Con il passare degli anni tutti suoi coetanei cominciavano a sposarsi ed avere figli dando vita così a nuove famiglie e aria rimase da sola. Un giorno uscirono ancora dalle sue labbra delle bolle. Una di queste era più grande delle altre al punto che aria c’è con successo riuscire ad entrarci. All’interno della bolla Aria si rese conto che riusciva respirare, a parlare e a muoversi più velocemente. La bolla però scoppiò e la ragazza cadde. Il giorno successivo riuscì ad entrare in un altra bolla, li riusciva a vedere molto più chiaro e non le facevano ma gli occhi anche quando li sbarrava. Quasi quotidianamente riusciva ad entrare nella bolla ed era felicissima di poterlo fare perché stava bene. Qualche anno dopo aria incontrò un bel ragazzo che l’aveva accettata e le voleva bene e dopo poco si fidanzarono. Aria arrivò a fidarsi di lui al punto che gli raccontò della bolla. Gli raccontò di come tutto era piu chiaro e semplice lì
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secondo classificato Sezione scuola Secondaria di II grado
secondo classificato Sezione scuola Secondaria di II grado
dentro ma il ragazzo si spaventò. Fu allora che litigarono e si lasciarono. Il ragazzo spaventato racconto a tutti di quello che gli aveva detto aria e così che venne considerata pazza e rimane ancora più sola e triste. Decise allora che non sarebbe più rientrante nella bolla e così fece. Con il passare degli anni dimenticarono cosa aria aveva detto e tutti la consideravano una ragazza normale. Un giorno mentre, la ormai donna, parlava con un suo amico, questo per fare una battuta le disse che non sembrava più la stessa persona di quella volta in cui aveva raccontato di essere stata in un posto dove si poteva parlare e muoversi velocemente. A quel punto aria si irritò e scappò via rifugiandosi, per la prima volta dopo tanti anni, nella sua bolla. Dopo molto tempo in cui stava lì, la bolla cominciò a cadere verso il basso. Arrivò vicino alla città dove tutti la videro arrivare e solo allora capirono che quello che diceva era vero. La bolla cadeva lentamente, come il fiocco di neve e tutti la guardavano cadere. Ogni bambino aveva smesso di giocare per guardarla. Tutti gli altri abitanti della città erano usciti dalle loro case per osservare la strana bolla che cadeva sopra di loro e video aria che si muoveva molto velocemente dentro la bolla. La bolla toccò il suolo della città, Aria che nel frattempo si era addormentata si svegliò. In quel momento la bolla scoppiò e Aria morì. Attorno a lei si formò un gruppo di persone, alcuni piangevano perché non avevano creduto a ciò che aveva raccontato a loro. Quando un uomo tentò di toccarla per portarla via si formò un turbine che abbassò il livello dell’acqua e il corpo di aria diventò vento e occupò il posto che prima era dell’acqua. Tutti riuscivano a respirare come fosse la prima volta, chiamarono ciò che gli permetteva di farlo aria in onore della ragazza che gliela aveva donata. Nessuno la dimenticò e tutti la ringraziarono e le volevano bene come non le avevano voluto mai…
“L’aria”
Massimiliano Puppi, Istituto Tecnico Aeronautico A. Locatelli - Bergamo
Inspira, espira. la senti l’aria che entra dal naso e scende giù a riempire i polmoni?! la senti l’aria che porta la vita?! non senti l’aria?! Inspira, espira. Inspira, espira. la vedi l’aria che sposta le nuvole?! la vedi l’aria che porta il bel tempo?! non vedi l’aria?! Inspira, espira. Inspira, espira. la senti l’aria che profuma dei fiori dei prati?! la senti l’aria che porta la primavera?! non senti l’aria?! Inspira, espira.
la vedi l’aria che porta il cambiamento?! la vedi l’aria?! Inspira, espira. Inspira, espira. la senti l’aria che passa sulle ali?! la senti l’aria che porta la libertà?! la senti l’aria?! Inspira, espira. Inspira, espira. la senti?! la vedi?! Inspira, espira. Inspira!
Inspira, espira. la vedi l’aria che muove la bandiera?! 22
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“Dagli occhi del cielo”
Andrea Corsi - Istituto Superiore “Don L. Milani” - Bergamo
Il volo di quella mattina era stato insolitamente piacevole. Una fresca brezza primaverile accarezzava le fronde degli alberi alle prime luci dell’alba. Il fruscio delle foglie risuonava come una dolce melodia nel cielo terso che si estendeva a perdita d’occhio. Il sole faceva capolino all’orizzonte, illuminando le nuvole con una luce soffusa e calda. L’aria era pungente e fresca, esattamente quello che serve per risvegliarsi dopo una notte insonne. Purtroppo, un paesaggio del genere si può ammirare solo dall’alto: è impensabile che laggiù si possa assaporare la natura in tutta la sua essenza, in quei grandi ammassi di cemento che chiamano città, dove non si vede nemmeno un briciolo di verde, di vegetazione, di natura, di vita. Mi chiedo come possano vivere in condizioni del genere. Hanno forse dimenticato la gioia del sentire il vento che sfiora dolcemente il viso, il piacere dell’annusare il profumo dell’erba impreziosita dalla rugiada, che come piccole perle purissime la ricopre di prima mattina? Non ricordano forse più le risate all’ombra degli alberi nei caldi giorni d’estate? Come possono non voler tornare a questa armonia perfetta che si instaura tra l’uomo e la Terra stessa? Mi ricordo, anni fa, quando sorvolavo i paesini di montagna e rimanevo senza parole dalla perfezione del paesaggio che si stagliava sotto di me. In autunno, i boschi che ricoprivano il versante del monte si tingevano di un arancione carico e si sentivano le grida gioiose dei bambini che giocavano a nascondino nella foresta mentre i genitori si godevano un po’ di meritato riposo e respiravano aria pura a pieni polmoni. I ruscelli scorrevano limpidi tra i manti erbosi e portavano acqua alla rigogliosa vegetazione, che sembrava trasmettere serenità solamente guardandola. Si sentivano gli uccelli cinguettare e i frastuoni assordanti della città diventavano solo un ricordo sbiadito.
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Ora, la desolazione domina questo luogo. Hanno costruito una fabbrica. Probabilmente “fabbrica” nella loro lingua significherà qualcosa di terribile e infausto, perché tutto ciò che queste “fabbriche” causano è distruzione. Rendono l’aria nera e malsana, inquinano i fiumi e per costruirle vengono abbattuti migliaia di alberi. Non si sa nemmeno perché le costruiscano, visto che tutto quello che si vede consiste in un gran via vai di persone e di camion. Ormai non riesco più ad avvicinarmi alle città. Una volta andavo per vederle da vicino e per soddisfare la mia insaziabile curiosità, ma ormai non mi è più possibile. È come se una barriera intangibile mi impedisse l’accesso. Sottili veli di fumo mi offuscano la vista e mi rendono difficile persino respirare. Com’è possibile straziare l’aria fino a questo punto? Forse loro non se ne accorgono, ma volando si sentono le emozioni provate dall’aria stessa. Si sente la sua sofferenza, il suo dolore, il suo desiderio di tornare pura come un tempo, quando ancora gli uomini non si dilettavano nel riempirla di sostanze tossiche delle quali non conoscono nemmeno tutti gli effetti negativi. Probabilmente, non avendo mai avuto la gioia del sentire il vento che ti trasporta nel suo dolce soffio, non possono capire le sensazioni ed emozioni che la natura stessa prova. È un caso che, in alcune leggende, si parli di una vera e propria Madre Natura? Certo che no, basti vedere i terreni disboscati che sembrano piangere dal dolore che la distruzione operata dall’uomo ha causato. Mi sembra quasi di sentirei lamenti del suolo che si ritrova spoglio e brullo, le grida strazianti degli alberi mentre vengono tagliati selvaggiamente. La Terra che vi ospita non è forse viva tanto quanto voi? Evidentemente, non si pongono mai questa domanda. Altrimenti non sfrutterebbero in modo cosi sconsiderato quelle risorse cosi preziose che il mondo sta offrendo loro. Ma forse non possono accorgersi di tutto questo perché, semplicemente, non vivono più in armonia con la natura, in quella perfetta simbiosi che assicurava la vita e la prosperità ad entrambi. L’uomo ha voluto sopraffarla, come del resto fa con ogni cosa nel mondo. E, pensando ciò, mi posai sulla statua posta al centro della piazza, non molto ampia, di un piccolo paesino. Alzai l’ala sinistra e con il becco mi sistemai le piume.
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Da un’abitazione uscì un’anziana signora che agitava una scopa mentre camminava furiosamente lungo la strada, come se mi stesse venendo incontro. Via! Via! Togliti subito di li! Voi uccellacci rovinate sempre tutti i monumenti!- sbraitò la donna guardandomi fisso negli occhi. Volai via dopo qualche secondo, lasciandomi alle spalle l’anziana signora che rientrava in casa soddisfatta per l’ottimo lavoro svolto.
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“L’ultimo sospiro”
Francesca Grossi, Scuola d’Arte Applicata Andrea Fantoni - Bergamo
Sono saldo su questo cornicione. I calcagni ben puntellati sul cemento ruvido, su questa striscia di appena pochi centimetri, il mio ultimo appiglio alla vita. Alzo lo sguardo e il cielo mi appare reale per la prima volta, mi sembra quasi di vederci attraverso ed oltre scorgo la libertà. La respiro, la sento, la vivo. Aria. Osservo i tetti della mia piccola città, della mia prigione personale da cui non sono mai riuscito ad evadere. Bergamo mi è sempre stata troppo stretta. La sua gente, le sue vie, la scuola, non mi hanno mai lasciato libero. Non mi hanno mai lasciato un po’ d’aria. Aria. Ecco ciò che ho sempre bramato. Ecco ciò che non sono mai riuscito ad ottenere. Rivedo i miei sogni, ora, passarmi davanti agli occhi, e mi convinco ancora di più a tentare perché, anche se dovesse finire male, volare è un bel modo di morire. Provare la sensazione di nuotare nell’aria è un bel modo di andarsene da questo mondo. Allargo le braccia, lentamente, permettendo all’aria di invadermi. Respiro profondamente, lasciandola prendere possesso del mio corpo. Fletto i muscoli delle gambe e senza esitazione, non desiderando altro che diventare un tutt’uno con quell’elemento, simbolo di libertà, e mi lancio nel vuoto. Aria. 27
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“A little piece of heaven”
Viola Ferrari, Liceo Linguistico G. Falcone - Bergamo
Clanck. La pesante porta blindata si chiuse alle sue spalle. Quando sentì il familiare sibilo serpentesco e quindi gli fu chiaro che la chiusura ermetica e la sterilizzazione erano state effettuate e concluse con successo, si girò e cominciò a camminare. Aveva bisogno di sgranchire le gambe, di uscire da quelle quattro mura che cominciavano a diventare troppo opprimenti anche per lui. Per lui: Joe Scontroso-Solitario Tyler. I ragazzini del quartiere gli avevano affibbiato quei nomignoli, se così si potevano chiamare, diversi anni prima. Nomignoli che Joe trovava inopportuni e insensati. Capitava che si lamentasse, ed era vero che preferiva stare in casa piuttosto che uscire. Per fare cosa, poi? Non aveva un lavoro, non aveva nessuno da andare a trovare, i piccioni - ai quali di solito dava da mangiare - si erano definitivamente estinti. E da un momento all’altro, lui ne era sicuro, lo stesso destino sarebbe toccato alle papere. - Oh, signor Tyler, ha scelto proprio una bella giornata per uscire! - Una voce fin troppo squillante obbligò Joe a girare malvolentieri la testa. - I venti si sono calmati e la percentuale di polveri sembra essersi fermata all’ 87%. Una giornata magnifica! La signora - signorina, precisava sempre lei - Wright, strizzata nella sua tutina rosa shocking modello 5482, gli fece l’occhiolino, prima di ritornare a urlare a uno di quei suoi figli urlanti e irrispettosi, che lui tanto odiava. Mentre imboccava il vialetto per immettersi sulla strada principale, controllò il livello di ossigeno contenuto nelle piccole bombolette date in dotazione con la tuta: aveva un’ora. Un po’ meno di un’ora, precisamente. Lo sguardo di Joe scivolò lontano dal display elettronico, tor-
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nando a puntarsi sul paesaggio intorno a lui. Odiava quello che vedeva o, meglio, odiava quello che non vedeva. Niente alberi alti e possenti, nessun cespuglio, nessun filo d’erba verde e sano, solo quella fastidiosissima finta-nebbia che stava uccidendo tutto e tutti, pian piano. Tutto era peggiorato quando l’industria eolica, in cui lui aveva a lungo lavorato, aveva chiuso e a quella erano susseguite l’industria solare, geotermica e idroelettrica. Tutto era peggiorato quando avevano iniziato a sorgere sempre più industrie che usavano prodotti chimici e la combustione per sbarazzarsi dei rifiuti. Tutto era peggiorato quando il numero di automobili era triplicato. E in più quella stramaledettissima eruzione vulcanica’ pensò Tyler, ritornando indietro con la memoria a quattro anni prima. Come erano potuti arrivare a quello? Come avevano fatto a non accorgersi di quello che stava accadendo? Di quello che loro, stupidi esseri umani, stavano causando alloro pianeta? Christopher, il vero secondo nome di Joe, assumeva un’espressione disgustata ogni volta che pensava a quei continui errori che l’umanità aveva commesso e a tutte le disgrazie avvenute in seguito. La tuta faceva un rumore fastidioso, mentre camminava. Ogni mese, ogni anno l’Ambiente Esterno ovvero l’aria, per tutte quelle persone non laureate in materie scientifiche - era diventato sempre più ostile, finché non si erano dovuti chiudere in casa, nelle ore di punta, in cui le strade erano sovraffollate di automobili, finché non avevano dovuto indossare tute simili a quelle usate dagli astronauti, finché non avevano dovuto rinunciare a tutto ciò che era verde, naturale e bello. Era da tanto, davvero tanto tempo, che non sentiva l’aria fresca sferzargli il volto o scompigliargli i capelli. Era da tanto tempo che non sentiva il sole caldo sulla pelle. In estate non si vedevano più i bambini sdraiati sull’erba verde, che si interrogavano su che forma avesse una nuvola, perché ormai non ne esistevano più. Joe ricontrollò il display elettronico dell’ossigeno, scoprendo così di avere 12 minuti per ritornare a casa. Svoltò a destra, imboccando una via stretta e più buia delle altre, ma che lo avrebbe portato a casa più velocemente. Gli prudeva la punta del naso, ma non poteva grattarsela a causa della gonfia tuta protettiva e del casco. Doveva camminare in fretta, perché il prurito stava diventando insopportabile e
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un flebile vento stava cominciando ad alzarsi. Il vento era diventato il loro primo nemico. Se c’era vento, significava che quelle piccole, piccolissime particelle inquinate e inquinanti che infettavano il loro mondo, si sarebbero sparse ovunque, anche nelle zone abitate tenute sotto controllo. Il vento faceva sì che quell’aria irrespirabile e maligna si infiltrasse in qualsiasi angolo della città, in qualsiasi fessura di porte e finestre, in qualsiasi piega dei vestiti. E così, quello stesso vento che una volta lui tanto amava, era diventato uno dei più pericolosi nemici degli esseri viventi. Ma la domanda che frullava in continuazione nella mente del vecchio signor Tyler era: per quanto tempo ancora sopravviveremo? Insomma, obbligati a restare chiusi nelle nostre case, a indossare tute protettive, a girare per le strade collegati alle nostre bombolette di ossigeno. L’uomo non è fatto per vivere con così tante costrizioni. Siamo sempre stati liberi. Ognuno poteva decidere quando uscire, cosa fare durante la giornata. Ed ora, ora che abbiamo completamente rovinato e distrutto quell’elemento che teneva in vita noi e altre forme di vita, ci siamo trasformati in tanti topo lini. Tanti topolini rinchiusi in questo enorme pianeta che, passo dopo passo, si sta distruggendo. Sta venendo distrutto. La signorina Wright aveva cambiato espressione e aveva cominciato a ridere, una risata imbarazzata e finta, quando Joe aveva espresso i suoi pensieri a voce alta. Non camminava più, ormai correva. Correva più veloce che poteva. All’orizzonte spuntò il grande portone blindato tanto familiare, eppure sembrava così lontano. Il vento cominciava ad alzarsi. E l’ossigeno era praticamente finito.
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“L’incontro tra l’aria e i 5 sensi”
Clelia Figoli, Istituto Tecnico Aeronautico A. Locatelli - Bergamo
È una mattina come tante altre; mi sveglio alle 06.30, mi vesto, esco di casa per recarmi alla stazione dove trovo il tram delle 07.17 ad aspettarmi, salgo ed aspetto che parta. È partito da poco, ma è già pieno di ragazzi che vanno a scuola, pendolari che vanno al lavoro, casalinghe che vanno a fare la spesa e chissà quanti altri, eppure, nonostante la moltitudine di persone non posso fare a meno di sentire il profumo di quelli che mi passano accanto per andare a sedersi, sempre con un po’ di fretta per evitare che qualcuno si sieda prima di loro sugli ultimi posti rimasti, lasciando così una scia di profumo. Ogni volta che ciò accade la mia mente inizia a viaggiare nel regno della fantasia pensando a come un profumo possa rispecchiare l’identità di una persona, la sua storia, la sua vita.. Questa piccola magia sfuma quando arrivo al capolinea, dove tutti iniziano a correre per non perdere le rispettive corrispondenze o per non arrivare in ritardo. Io per andare a scuola devo camminare una ventina di minuti su di una strada molto trafficata a tre corsie che affianca la ferrovia. Sto quasi male alcune mattine dallo smog così presente, che ti raschia la gola, che rende difficile respirare, che ti fa tossire, che ti fa rimpiangere i delicati profumi delle persone che poco tempo prima erano sedute in parte a me. Come se tutto ciò non bastasse, l’inverno, con la sua gelida brezza mattutina che ti sfiora, ma che allo stesso tempo sembra incida la pelle del viso, ti fa pensare ai giorni di maggio, in cui sei sdraiata in un prato e sulla tua pelle cadono delle minuscole goccioline d’acqua strappate da delle piccole cascate del fiumicello poco distante; l’aria fa compiere alle gocce d’acqua delle magnifiche figure asimmetriche nel cielo, uno spettacolo così maestoso da non poter fare a meno di alzarsi, aprire le braccia e chiudere gli occhi per sentirti a tua volta una di quelle goccioline. 31
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Una sensazione unica, quasi come volare.. Ad un tratto un suono mi coglie di sorpresa, mi spaventa.. Ma non è un suono continuo, perché il vento lo trascina via, facendomelo sentire qualche volta più forte, qualche volta meno.. Così, torno con il pensiero alla realtà, apro gli occhi e vedo, tutto d’un tratto, due grandi luci venirmi in contro, quasi come se due grandi occhi gialli mi stessero fissando, ma si ingrandiscono sempre più, fino a quando non vedo più nulla, sento solo gente che urla, rumore di macchine che inchiodano e una puzza di lamiere mista a quella dell’asfalto.. Ad un tratto, non so come, mi sento parte del vento. Mi sto librando in esso, e mi sento libera come in uno di quei lontani giorni di maggio.
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“L’ultimo volo”
Alessandro Molteni, Istituto Tecnico Aeronautico A. Locatelli - Bergamo
Aria. Per aria passano mille cose come l’ emozioni, gli amori, i profumi, gli odori e mille altre cose ancora. Queste sono le sensazioni che prova Jack quando vola. Una volta mentre volava tranquillo verso la sua meta, passo vicino ad un campo da calcio e sentiva tutte le sensazioni dei giocatori: emozione, tensione, insicurezza, passione e voglia di vincere. Jack si senti in qualche modo partecipe anche lui del pre partita negli spogliatoi, quando tutti sono ansiosi di sentire se giocano o se partono dalla panchina, ansia di scendere in campo e andare a vincere. Poi volò vicino ad un ristorante e sentì l’odore del risotto coi funghi, la specialità della casa. Gli venne voglia di mangiarne un chicco anche a lui. Si avvicinò ancor di più al ristorante e sentì nell’aria l’amore di una coppia che era innamorata e che purtroppo si stava lasciando. Jack in quel momento sentì la delusione del ragazzo che era innamorato e pensò che l’amore è una cosa difficile, soprattutto tra i giovani che spesso per inesperienza commettono molti errori e lasciano gli amori sospesi in aria. Vicino al ristorante c’ era una piccola bottega di falegname e senti nell’aria il profumo del legno appena lavorato con passione e l’impegno del falegname che fa lo stesso lavoro da anni. Involontariamente si accostò ad uno stadio, dove c’era un grande concerto e sentì le urla dei fans che veleggiavano in aria. Si sentiva coinvolto anche lui negli spalti e se avesse potuto contare a squarciagola con il contante e i fans, l’avrebbe fatto anche lui. Qualche battito di ali più in là Jack iniziò ad ansimare. Si sentiva soffocare. Non riusciva a respirare. Cercava con tutte le sue forze un soffio di vento che gli desse un po’ di respiro. Jack capi che nell’aria c’era troppo smog. Imperterrito continuava a sbattere le sue piccole ali, ma… Il piccolo Jack non potrà realizzare i suoi sogni. Avrebbe voluto innamorarsi anche lui. Avrebbe voluto fare qualcosa di speciale, importante per essere ricordato; ma ormai è tardi. Jack non potrà mai più volare libero nell’aria, seguendo la scia dell’arcobaleno sentendo nell’aria ancora il profumo della pioggia. 33
Categoria Adulti
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“Vento”
Alberto Arecchi
Non c’è mai vento in questa vasta pianura, lungo le sponde del Po. Non è come le basse terre del Belgio e dell’Olanda, spazzate dal vento del Nord. Non è come Trieste, animata dalla bora. Qui per lunghi mesi non si muove una foglia, neppure se lo ordina il boss locale. Perciò le giornate ventose irritano molto i miei concittadini: si tratta d’una variabile che non fa parte delle loro abitudini. Allora impazziscono, come le mosche in un’aria densa di fumi. Come le cavallette che sciamano nel deserto, prese da sconosciuta follia, quando viene la stagione, e anneriscono il cielo e divorano tutti i vegetali. Così vi consiglio di mantenere ben viva l’attenzione, quando guidate in una giornata ventosa, perché gli altri sono già distratti e imbambolati, intorno a voi. L’abitante della pianura non sopporta il vento, mentre si è perfettamente adattato all’afa, alla nebbia e alle zanzare che infestano il sonno notturno. Ecco perché mi sorprese molto quel giorno, nei campi, il mulinello che sollevava in vortice la grigia terra fresca d’aratura. Era come un ricciolo che si alzava nell’aria tersa e calda, come uno di quei folletti, o spiriti di natura, che ispirano gli sciamani. Ben presto mi trovai in un campo popolato da diecimila folletti. Come eliche di tanti frullatori, i vortici di terra mi roteavano intorno e mi facevano perdere l’equilibrio. I refoli si unirono, smisero di girare in turbinii, e ampie folate di vento spazzarono la campagna, piegando le chiome degli alberi. Forse si preparava un temporale. Ritornai in città. Tutte le cose sbattevano: i lampioni, i segnali stradali, le serrande dei negozi, le persiane delle case. I vasi sui balconi rotolavano come trottole. Per tutta la notte durò il vento, e pareva un essere vivente. Dialogava con le fronde degli alberi, spezzava un ramo e se lo portava all’altro capo della via, per bastonare un cane che si era azzardato ad abbaiargli contro. Roteavano per le vie mulinelli di foglie, ramoscelli e nidi infranti, insieme agli im37
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mancabili sacchetti di plastica e a giornali lacerati. Era come se la natura avesse deciso di dare una ripulita al mondo, con una magica scopa, al soffio di diecimila trombe d’argento. Nelle case stregate le persiane sbattevano, i vetri delle finestre cantavano e le porte stridevano o cigolavano, e ritmavano colpi cupi, come la grancassa d’una batteria. Non potevo dormire, per l’eccitazione sovrumana che era nell’aria. Nel buio della notte, col vento e con la polvere cominciarono a mischiarsi grosse gocce d’acqua. Lassù, da qualche parte, il vento aveva trovato una grossa nuvola e l’aveva portata su di noi. Nei turbini che spazzavano l’atmosfera, cominciarono a passare non solo polvere, foglie e rametti e qualche insetto sperduto nel vento, ma schizzi e spruzzi, acqua che puliva e lavava, come nel tamburo d’una gran macchina lavatrice. Il frastuono sui vetri e sui muri diventava più forte, sembrava ritmare il crescendo d’un concerto. Mi addormentai, cullato dalla tempesta. Al mattino, l’aria era limpida e tersa. Un tappeto di fronde, staccate dagli alberi dei viali, copriva il manto stradale, i parabrezza delle auto e i segnali stradali. Tutta la via appariva verde, come se mille arbusti fossero nati e cresciuti in ogni dove. Tutto intorno, all’orizzonte, si vedevano chiare le montagne, come se la notte e il vento le avessero ripulite e avvicinate. Sembrava di poterle toccare. Le Alpi da un lato, illuminate in pieno sole, gli Appennini dall’altro, controluce, coronati da qualche nuvoletta. Una di quelle mattine in cui persino la terra delle nebbie appare ridente e fantasiosa.
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“Il dono” Massimo Nicoli
Borgobrio sta rapidamente cambiando. Ora arriva la strada completamente asfaltata, sono state costruite nuove case e grandi parcheggi. La chiesetta di S. Ilario è stata ristrutturata e, da quando è morto Martino, il vecchio sagrestano, hanno messo le campane elettriche. La drogheria di Bastiano è diventata un supermarket. Sulla strada un via vai di macchine: è giorno di mercato. A valle del paese si sono insediate diverse fabbriche. Una ha un camino più alto del campanile della chiesetta di S. Ilario ma, a differenza del campanile, che emette un dolce concerto di campane, dalla bocca di quell’enorme camino esce solo fumo: gli uccelli girano al largo, gli alberi smettono di crescere e si piegano in basso. La nuvoletta Sara decide di andare a parlargli. Si avvicina al camino: “Perché soffi tutto quel fumo? l’aria si è fatta amara”. “E io che c’entro?” risponde un po’ seccato il camino “gli uomini bruciano tante cose, io non posso tenermi tutto dentro, rischierei di esplodere come una bomba. Allora soffio tutto in cielo. Loro bruciano, io butto in aria”. “Se solo questo fumo fosse un po’ più pulito!” si lamenta Sara. In quell’istante il grosso camino tossisce forte e dalla sua bocca fuoriesce uno sbuffo di vapore acre e puzzolente: “Io mi sento bene così, signorina candida. Se non ti va di star qui, vattene!” Dopo di che il fumo l’attraversa e prosegue oltre, come se Sara non esistesse. La nuvola è tutta sporca e impolverata, ha i capogiri e vomita vapori puzzolenti. “Mi laverò nel ruscello e mi libererò di questa roba”. Scesa al ruscello Sara s’immerge, si bagna, si lava ma: “Quest’acqua è sporca!”. Sara si ritira sbalordita, risale in cielo sbandando, si sente appesantita, appiccicosa: “Anche il ruscello è malato, non è il suo solito colore quello!” Un grosso tubo sputa liquami nell’acqua. Sara risale, oltre la collina, lungo un torrente di montagna e finalmente trova una cascata. “Questa è acqua pura.” Sara discende la cascata e finalmente si fa una bella doccia con l’acqua che profuma di 39
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fiori di montagna. Quella notte schiere di nuvole si affacciano all’orizzonte: nuvole scure, grandi come cupole, avanzano accompagnate da correnti d’aria forzute e invadono il cielo. “Ora ci penseranno loro a lavare tutta quella sporcizia” pensa Sara. Man mano che si avvicinano Sara trova che i grossi cumulonembi hanno qualcosa di insolito: sono minacciosi come sempre, neri come sempre ma velati da riflessi gialli: questo particolare Sara non l’aveva mai notato! Se ne sta bassa pronta a ricevere un’altra doccia. E la pioggia arriva: grossi goccioloni che cadono fitti. Fitti, fitti, fitti, fitti e fitte, fitte, fitte. Sara si sente trafitta, come stracciata. Fitti, fitte, fitti, fitte. Eppure non sta grandinando, fitti, fitte, quelle sono gocce d’acqua, fitti, fitte: grosse ma pur sempre acqua, fitti, fitte. Sara si sente male, vuole andar via da lì: “Aiuto, Frullo, mi sento male!”. “Proverò a portarti fuori di qui ma non sarà facile”, urla Frullo, il venticello leggero amico di Sara. Sara fatica a sentire la sua voce perché la bufera è violenta e rumorosa. Frullo ce la mette tutta per spingerla lontano. “Togliti di lì moccioso, ci pensiamo noi a quella!” urlano i venti che accompagnano il temporale. La fanno girare, rotolare poi la racchiudono in un vortice che la porta su e giù, su e giù. Sara è travolta, buttata per aria, in balìa dei venti prepotenti, tormentata da quelle gocce che bruciano. Frullo la segue preoccupato, si gonfia e soffia ma non può nulla contro quelli. D’un tratto scorge un buco tra le nuvole: scaglia con forza il suo soffio su Sara, “Ora Sara, ora!”, grida Frullo e la spinge all’interno di una corrente d’aria che sale e così Sara viene risucchiata sopra i cumulonembi, fuori dal temporale. Le gira un po’ la testa ma il tormento è finito. Resta una sensazione di nausea e un leggero bruciore tra i suoi ricci bianchicci. Passa la notte lassù, in alto, finché il temporale se ne va oltre le montagne muggendo e sbuffando. Il giorno dopo il sole risplende in un cielo chiaro come una tovaglia pulita. Distesa la terra si asciuga. Un venticello tiepido e leggero solletica l’erba e le foglie. Frullo sale a trovare Sara. “Come stai?” le chiede. “Molto meglio, grazie. Ma non capisco cosa sia successo. Ho come l’impressione di essere scampata ad
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un pericolo. Ma anche se quelle nuvole erano grandi e un po’ più chiassose di me, l’acqua che hanno lasciato cadere è un bene prezioso per la terra, i pozzi, i fiori, gli animali. Allora perché io mi sono..” “Vieni con me”, la interrompe Frullo, “ho una cosa da mostrarti”. Frullo e Sara sorvolano un boschetto di giovani larici in fondo al quale si apre una radura. Nel mezzo della radura c’è un pino secolare, maestoso. Frullo e Sara si avvicinano. Sara vede che alcuni rami sembrano ammalati: il legno secco, gli aghi anneriti, come bruciati. “Questo è l’albero più antico di tutta la zona. Il nonno di mio nonno lo aveva conosciuto quando era un pino giovane e vigoroso. Giocavano insieme a “tronco piega vento”. Il vento prende la rincorsa da in cima alla valle poi si precipita giù a tutta forza, fino a investire il pino che cerca di resistere senza piegarsi. Se l’albero si piega vince il vento o viceversa. Il nonno mi ha raccontato che il pino non si è piegato quasi mai” Poi Frullo tace e ondeggia fra i rami del vecchio pino. L’albero si scuote come da un sonno profondo, i suoi aghi sfrigolano, poi con voce stanca: “Benvenuti! Un vento leggero ed una nuvola pulita sono sempre i benvenuti”. “Sei ammalato?” chiede Sara. “Temo di sì”, risponde il pino, “ma non di vecchiaia, come si potrebbe pensare. I miei rami rinsecchiscono e le mie foglie bruciano a causa della pioggia”. “Della pioggia?”, ripete stupita Sara arricciandosi un poco. “Sì, le grosse nuvole sono cariche di acqua acida e avvelenata. L’acqua è sempre stata una bevanda preziosa e desiderata da noi alberi. Ci ridà forza e vigore, forza e vigore che noi restituiamo all’uomo sotto forma di aria pulita. Adesso però avremmo bisogno anche noi di ombrelli. L’acqua che scende brucia e ferisce. Io ho vissuto a lungo e posso anche morire ma cosa accadrà a quei giovani alberi?”. “Ora capisci perché questa notte ti sei sentita così male?” chiede Frullo a Sara. “Oh, Frullo! Allora anch’io sono causa di tanto dolore?”. “No, per fortuna tu te ne stai spesso dalle parti del Pizzo Stella e raccogli i vapori dei laghetti di montagna, così sei ancora una nuvola pulita. Anche se devi evitare di avvicinarti ai camini e alle acque di fogna”. “Ho capito. E non posso fare niente per lui?”.
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“Certo che puoi. E io ti aiuterò. Tu non hai molta acqua ma quella poca è preziosa perché è pulita. Falla gocciolare su di lui”. Con un soffio Frullo solleva Sara appena oltre la cima del grande albero. Sara si allarga e si restringe come una spugna di mare. Le gocce d’acqua scendono a bagnare, i rami, le foglie e la corteccia del grande albero e lentamente i suoi rami si distendono, le piccole foglie tintinnano e la corteccia schiarisce un po’.
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“Autobiografia” Alessandro Pelicioli
Non ho molto da dire. Dondolo tranquilla, sempre, lì fra terra e cielo, nell’impercettibile stagno di trasparenti ninfe. Immota come un mare senza onde resto sospesa, indugiando voli, in attesa che i lembi d’una mantella calda e d’un pastrano freddo si sormontino, annodandosi in un tremore che è semplicemente sbadiglio. Sbadiglio di vento, del fratello vento, che diviene per me ali e gambe, piedi e mani. Preziosi doni, che si aggiungono al mio semplice osservare senza nulla dire, al mio sfiorare che è toccare con quell’essere carezza, abbraccio o schiaffo a seconda della delicatezza o forza della mia pelle. Tuttavia, per gli uomini, per le creature perfette, è come se non ci fossi: loro han sempre bisogno di vedere con gli occhi, di sentir con la pelle, per capire il senso delle cose - del dolore, del freddo, del piacere – anche se io, discretamente, sempre li assisto e vivo, facendoli vivere, anche quando su di loro non soffio il mio respiro. Eppure ciò che si può vedere e toccare, è sempre poca cosa, rispetto a ciò che non si può scorgere: ciò che conta veramente non è sempre invisibile? A cominciare dalla vita, perché la vita non si può vedere, solo si può scorgere la sua ombra, proiezione di chissà quale luce. Luce della quale son servitrice - come il sole, le stelle, il cielo – e che mi vuole ovunque vi sia vita, ma non lì. Lì dove tutto inizia, dove più conta. Lì son costretta a restare fuori: fuori! Lontana pochi millimetri, ma pur sempre distante e staccata da quell’acqua mare che è l’albume uovo di un grembo. Fuori. Ma levatrice di un’altra levatrice meno importante, protesa all’emerge del corallo implume per regalargli l’unico pianto che vale più dei sorrisi.
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“Aria cattiva” Stefania Petta
Il piccolo Tom, accovacciato sul pavimento, vegliava la sua mamma che giaceva sofferente sul letto. Il respiro affannoso era l’unico segno di vita della giovane donna. Le voci del medico e di suo padre, che arrivavano dalla stanza accanto, attrassero Tom che affinò l’udito per ascoltare. - Dottore, mi dica la verità, ci sono speranze? - Non vedo miglioramenti. Le cure non fanno più effetto. I polmoni sono sempre stati il suo punto debole e ora, a causa dell’aria cattiva che tira da queste parti, la situazione si è aggravata. Poveretta, non vivrà a lungo. Si faccia forza! Il cuore di Tom mancò un colpo e la cruda rivelazione lo gettò nel panico. Uscì correndo da casa per andare ad appartarsi in un luogo a lui caro a metabolizzare il dispiacere. Ansimante, raggiunse la collinetta dove sua madre soleva portarlo per farlo giocare all’aria aperta. Era arrabbiato e disperato. Le parole del medico gli martellavano nella testa. Odiava con tutte le forze quella maledetta aria cattiva. - Aria, prendi questo e anche questo -, urlò, mentre una fitta sassaiola precipitava rumorosamente sul sentiero. Lo sfogo diluì la rabbia e Tom si accasciò al suolo sciogliendosi in un pianto irrefrenabile. Poi i singhiozzi lentamente si acquietarono. Era stremato, ora. Aveva bisogno di riprendersi prima di tornare a casa e perciò si appoggiò al tronco di un albero, con le braccia serrò le ginocchia e vi appoggiò la testa. Improvvisamente avvertì un’impercettibile carezza sul viso. Si guardò intorno, ma non scorse nulla. Dopo un po’, ancora quella sensazione, ma stavolta il tocco fu più deciso. - C’è qualcuno? -, domandò alzandosi impaurito. Sentì un soffio nell’orecchio: - Sono l’Aria, non temere. 44
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Tom serrò i pugni, pronto a picchiare. - Come osi presentarti a me? - Sei stato tu a invocarmi e a provocarmi. Mi hai presa a sassate, mi hai chiamata brutta Aria cattiva e mi hai fatto delle accuse gravi e gratuite -, sibilò Aria. - È quel che meriti perché sei malvagia. - Malvagia, io? Che avrei fatto di tanto terribile per scatenare la tua ira? Tom era indignato davanti a tanta tracotanza. - Falsa, fingi di non sapere che stai uccidendo la mia mamma! -, sbottò brandendo un ramo secco che fendette l’aria. - Così, sarei un’assassina? Ci vai giù pesante. Bada piccoletto, che mi sto alterando. -, ululò e un vortice stizzoso alzò un gran polverone. - Il medico ha detto che è tutta colpa dell’aria cattiva che tira da queste parti. L’aria tornò immobile, poi alitò mestamente: - Ho capito. - Cosa hai capito? - Il motivo del tuo rancore. È ovvio che tu ce l’abbia con me, se le cose stanno come dice il dottore. - Dunque, riconosci il tuo odioso crimine. - Dico sì e no! - Mi prendi in giro? - Macché! Il fatto è che la faccenda è piuttosto complicata, lascia che ti spieghi. Tom era indeciso se ascoltarla o scacciarla via. Per quanto fosse restio a sentire le ciance di quella bugiarda, non poté, tuttavia, resistere alla curiosità. - Parla, antipatica -, concesse. - Guardati intorno -, sbuffò imperiosa Aria. Da lassù si poteva vedere tutta la vallata. Un oceano di fabbriche e ciminiere con enormi pennacchi di fumo che svettavano verso il cielo. - Ti piace la vista? - Sì, è bella. Si vede il complesso industriale, dove lavora il mio papà. - Hai un pessimo gusto, figliolo. 45
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- E tu un’orribile reputazione. - Se ti dicessi che la causa del male che affligge tua madre è da imputare proprio a quelle bocche nere dalle quali esce il vapore, mi crederesti? - Per nulla! Il babbo afferma che è una fortuna che ci siano le fabbriche perché danno da vivere a tante famiglie. Lui è sincero. - Sei un allocco e non vedi al di là del tuo naso. - Vuoi dire che sono scemo? -. - Niente affatto! Dico che sei soltanto un bambino ingenuo e non hai ancora capacità di giudizio -, fece conciliante Aria. Pungolato nell’orgoglio, Tom protestò e dichiarò di essere in grado di ragionare con la sua testa. - Allora, taci e ascolta quel che ho da dire! -, ordinò e Tom assentì con il capo. - Tanti anni fa questa vallata era interamente ricoperta di foreste. Vista da qui era uno spettacolo mozzafiato, tanto era bella e rigogliosa. Mio ignaro ometto, quel panorama era magnificamente bello, non questo squallore! Io giocavo con le fronde degli alberi che mi regalavano l’ossigeno e i fiori mi affidavano le loro fragranze. La gente respirava boccate di salute e si inebriava dei profumi. Poi, venne l’epoca delle invenzioni, delle grandi costruzioni e dell’ industrializzazione. In nome del progresso sono stati commessi dagli uomini errori scriteriati a danno dell’ambiente. Guarda, quelle ciminiere sono enormi bocche che rigurgitano veleni maleodoranti provenienti dalle viscere delle fabbriche. Senti che fetore, ne sono impregnata! Incessantemente, giorno per giorno, mi hanno insozzata. Ora, carica di sostanze tossiche, sibilo tra le case grigie e i fumaioli anneriti e, ahimè, mio malgrado, sono veicolo di malattie. Purtroppo, lo stai constatando a tue spese. Partecipo al tuo dolore e giustifico il tuo astio, però tengo a puntualizzare che non sono carnefice ma vittima io stessa della follia umana! Quel che è fatto, è reso, sfortunatamente. Ne sei convinto, adesso? Tom fissava pensieroso la valle e per la prima volta notò la densa cappa plumbea che oscurava il cielo. - Sembri perplesso! -, lo stuzzicò Aria - Sono molto confuso e… -
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- Sospettoso! -, concluse Aria. - Non avevo mai sentito questi discorsi e penso che tu potresti imbrogliarmi. - Comprendo la tua diffidenza. Non angustiarti, per il momento. Sei giovane e hai davanti tutto il tempo per cogliere il senso di ciò che ti ho spiegato e di capirne l’enorme importanza. Bisogna risanare il nostro pianeta prima che le catastrofi ambientali lo distruggano annientando ogni forma di vita. - Oh no! Sarebbe terribile! -, esclamò sgomento Tom Aria fece una piroetta, spettinò affettuosamente i capelli del bimbo, mosse le foglie, alzò un po’ di polvere. - Un giorno noi due faremo la pace! -, fischiò e rinfrancata si allontanò.
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“Aria di pioggia” Paolo Meneghini
Pioveva cheiddiolamandava. Erano giorni, settimane, mesi ormai che una perturbazione rincorreva l’altra e l’allarme meteo era costantemente al massimo livello in tutta Italia. Si stava sempre con la valigia pronta, eterni commessi viaggiatori pronti a spostarsi fuori dalla zona a rischio esondazione. Ma ormai i fiumi, i torrenti e i canali erano gonfi dappertutto. Bisognava cercare i rilievi per restare all’asciutto e anche lì incombeva il pericolo di frane e smottamenti. Tutta quell’acqua forse era il prodotto del riscaldamento globale che trasformava il clima. Omagari non lo sapevamo e tutte le farfalle si erano date appuntamento in Messico per produrre un unico enorme famigerato “Effetto” del loro sbatter d’ali. Non si sapeva più cosa pensare... fatto sta che le quattro stagioni erano rimaste solo nell’aria di Vivaldi e nei listini in pizzeria: nel ciclo del tempo, invece, esistevano solo un’epoca secca ed una bagnata, fatta di scrosci violenti ed abbondanti più simili ai monsoni indiani che agli acquazzoni di bucolica nonnesca memoria. Probabilmente avevano ragione i Maya: la fine del mondo era davvero prossima e quel piovere continuo era solo un’avvisaglia della catastrofe annunciata. Anche quel giorno, umido e grigio, aveva portato con sé un carico di nuvole pesanti. Rincasato, la cosa migliore che potessi fare era mettermi comodo in ciabatte. Già prima di cena avevo calato le tapparelle, serrandole in modo pressoché ermetico. Si provava una certa soddisfazione ad ascoltare il diluvio di fuori restandosene chiusi e al coperto. E che goduria, poi, a infilarsi sotto le coltri! n fitto e costante ticchettare delle gocce mi aveva sempre conciliato il sonno. Quella notte, però, mi capitò di svegliarmi più di una volta per lo scroscio sonoro della pioggia ed il rombo potente del temporale. Ogni volta mi rannicchiavo di più sotto le coperte e stavo così, raccolto, 48
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mentre il cielo si rovesciava giù a secchiate. Al risveglio, la mattina mi sorprese con un perfetto silenzio. Doveva aver cessato finalmente, pensai. Avvertivo però una sfuggente inquietudine e come se quel silenzio non fosse il solito silenzio... Mi trascinai ciabattando fino in cucina e tirai la corda accanto alla finestra, ancora con le palpebre mezze abbassate. Dai vetri filtrava una luce strana, carica di note azzurrognole. Strizzai gli occhi e passai una mano con l’intento di spannare il vetro. Era da un po’ che mi proponevo di dare una passata di Vetri!, ma con quel piovere continuo che senso aveva...? La lustrata non sortì effetto. Mi stropicciai la faccia per liberarmi dalle nebbie del torpore e allora rimasi lì, immobile, a bocca aperta ed occhi spalancati con quel riflesso azzurrino che mi rischiarava il viso. Davanti a me, oltre quell’oblò rettangolare, si muovevano trote, carpe, persici e cavedani, a coppie, in banchi o solitari. Vedevo i lucci usciti dai torrenti e i pesci rossi evasi dalle loro bocce. Ecco davanti a me il risultato ultimo della negligenza umana c di tutto quel piovere. Ascoltavo quell’immenso silenzio liquido e non potevo crederci: senz’altro stavo ancora sognando... Passò un’ombra che mi fece alzare lo sguardo: un’enorme sagoma nera che incrociava in quell’acquario sconfinato. Mi figurai subito uno squalo, ma osservando meglio mi parve di riconoscere un’ immagine che avevo visto, di uno strano pesce catturato in un lontano fiume d’oriente. Una sorta di pesce-gatto esagerato. La bestiaccia ad occhio e croce non pesava meno di mezza tonnellata e come fosse finita lì, vai a saperlo... Osservai il mostro allontanarsi placidamente e poi il mio sguardo libero poté salire qualche metro più in su. Sul filo trasparente che separava l’acqua dal cielo si susseguivano senza sosta microesplosioni di cerchi concentrici. La pioggia non era cessata affatto.
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“L’ora d’aria” Silvia Valagussa
C’era una volta un re. Non era un cattivo re, ma era un tipo piuttosto sbrigativo: per fortuna aveva un bravo consigliere che lo aiutava a riflettere attentamente prima di prendere le decisioni che riguardavano il suo regno. È di una di queste decisioni che andiamo a raccontare: a tutta prima non sembrerebbe una decisione importante, però se alla fine ci pensate bene vi accorgerete che ha un bel significato... Be’, ma partiamo dall’inizio. In quel regno c’erano delle leggi, delle regole che impedivano alle persone di fare prepotenze: chi non le rispettava, beninteso, finiva in prigione per un po’. I prigionieri mangiavano (a sufficienza, ma non da leccarsi i baffi: niente lasagne della nonna o torta di compleanno, ecco), dormivano (a sufficienza, ma non in grandi letti morbidi con lo scaldino d’inverno e la zanzariera d’estate: in brandine come quelle dei dormitori del campeggio, ecco), ma soprattutto stavano richiusi in delle piccole celle tutto il giorno; tutto il giorno, tranne un’ora. Un’ora al giorno, i prigionieri potevano uscire nel cortile a respirare un po’ d’aria fresca. Un giorno, il direttore della prigione fece chiamare il Re, che venne in visita con il suo fido consigliere. - Vostra Maestà - esordì il direttore, - vorrei consultarvi per una questione inerente il vocabolario del nostro regno. Quel regno, infatti, era piuttosto giovane, e ancora non c’erano parole per indicare tutte le cose. Fateci caso, di nuove parole se ne inventano tutti i giorni: ad esempio, non si diceva “lapalissiano” prima che il signor di La Palisse alla battaglia di Pavia... Ma questa è un’altra storia. - Non abbiamo un nome – continuò il direttore, - per l’ora in cui i prigionieri escono in cortile. I nostri carcerieri sono in difficoltà, perché quando annunciano: “Tutti fuori, è l’ora...” non sanno come andare avanti. 50
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- Ohibò! È un bel problema. Avete fatto bene a chiamarmi: oggi stesso risolveremo la questione. - Io avrei un’idea, Maestà... - intervenne il consigliere. - Sicuro, sicuro! È senz’altro la stessa che ho avuto io! Sentite: “l’ora di libertà”! Semplice ed efficace. - Ci abbiamo provato, ma così i prigionieri si montano la testa e si mettono a organizzare piani di fuga. Ce n’è uno, poi, che non fa che brontolare e ripetere: “Non è questa la vera libertà”, irritando sommamente tutti gli altri. - Ohibò, ohibò. Mio caro consigliere, vedete che la vostra idea non era poi così buona...! Direttore, facciamo così: conducetemi dai prigionieri, in modo che io possa accertarmi subito di come verranno accolte le mie prossime proposte. Il gruppetto andò allora nel corridoio di fronte alle celle dei carcerati; alla comparsa del Re, esplose un gran baccano (che per fortuna il Re scambiò per acclamazioni di giubilo). - Silenzio! - urlò il direttore. - Sua Maestà è qui per dare un nome all’ora... l’ora... -... “l’ora X”! - s’intromise trionfante il Re. - X? Il tesoro! Dove devo scavare?? - disse un prigioniero con una benda su un occhio e con più orecchini che denti. - Altezza, quello è un vecchio pirata... già così ci riempie di buchi tutte le celle, non vorrei che cominciasse a traforare anche il cortile... - Oh, va bene. Allora che ne dite di “l’ora del passeggio”? - Pfui! - sbuffò un carcerato con una gamba di legno. - È “lo zoppo”, Maestà: cacciava di frodo gli orsi, uno di loro gli ha staccato una gamba. Fa molta fatica a camminare, non mi sembra carino ricordarglielo tutti i giorni... - “L’ora del gioco”, allora! Pensate, che bella idea: si possono fare le squadre e organizzare un torneo di guardie e ladri... o di briscola chiamata, per chi non può correre...! - aggiunse il buon Re, con un’occhiata magnanima allo zoppo. - Sì, giochiamo!!! Io punto su... - Tu non punti su nessuno! Altezza, quell’uomo ha rovinato la sua famiglia con le scommesse e il gioco d’azzardo... Così non gli passerebbe più il vizio...! - Ma insomma, signor direttore, non vi va bene niente! E voi, consigliere? Non dite nulla? Il consigliere aprì la bocca per parlare, quando... - Io avrei una proposta! - si udì dall’ultima cella in fondo. - È il brontolone di cui vi parlavo, Maestà... Un prigioniero politico... brutta razza, sapete... - Ah, voi avete una proposta? E sarebbe migliore delle mie, immagino... Dite, dite pure! - disse il Re con degnazione. - “L’ora d’aria” - affermò il prigioniero in tono di sfida. - Difatti... - Difatti – interruppe il consigliere – l’aria, si sa, è il bene più prezioso del mondo: tutti ne hanno diritto,
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tutti ne possono godere; senza aria buona si soffoca; in uno Stato civile, l’aria va tutelata con la massima cura, e persino i carcerati devono poterne avere la loro giusta quota. - “L’ora d’aria”... Mio caro consigliere, perché non l’avete detto subito? Io, a dire il vero, l’avevo sulla punta della lingua fin dal principio... Orbene, la faccenda è sistemata. Venite, beviamoci un caffè per festeggiare. Mentre il Re si allontanava con il direttore, il consigliere rimase indietro per bisbigliare al prigioniero: - So bene cosa stavate per dire: “l’aria è la miglior metafora della libertà”. Ora, vi sembra il caso di andare a sbandierare il nostro motto sotto il naso del Re? - Ma come, voi...? - Ma certo! Non avete seguito il mio discorso? Sono repubblicano anch’io. E se ne andò fischiettando, mentre il prigioniero ripeteva fra sé: “L’aria è la miglior metafora della libertà”.
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Giuria
_ Bruno Bozzetto (cartoonist) _ Paola Crippa (Ufficio Scolastico Territoriale Educazione Ambientale) _ G.Matteo Crovetto (FLA, Responsabile Settore Educazione Ambientale; UniversitĂ degli Studi di Milano) _ Marco Gianfala (Regione Lombardia DG Ambiente, energia e reti) _ Silvia Macalli (FLA, Settore Educazione Ambientale) _ Susanna Pesenti (giornalista) _ Tiziana Sallese (giornalista)
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Coordinamento editoriale e progetto grafico: Multiconsult Bergamo
Raccontami che aria tira - 2013Š
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Green Words.
PAROLE PER L'AMBIENTE. www.paroleambiente.it
Si ringraziano per il prezioso contributo:
Ideatori e organizzatori: