Lezione 4 - La struttura dell'argomentazione

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Introduzione all’analisi argomentativa

lunedĂŹ 28 febbraio 2011


La struttura dell’argomentazione lunedÏ 28 febbraio 2011


Nella sua forma più semplice un’argomentazione avrà una struttura del seguente tipo: Problema - Tesi - Argomenti - Conferma della tesi

Come nel testo di J. Locke, un filosofo del ‘600, che vediamo di seguito ...

Prof. Pietro Alotto

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Argomentazione probatoria

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L’Antitesi In alcuni testi si preferisce partire dall’opinione contraria alla propria (antitesi); esporre le ragioni dei propri avversari, per poi confutarle (cioè mostrarne la loro debolezza o falsità)

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Argomentazione confutatoria

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Come nel seguente testo di Anselmo d’Aosta ....

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1. Dio esiste veramente. Adunque, o Signore, che dài la comprensione alla fede, concedimi di capire, per quanto sai che mi giovi, che tu esisti, come crediamo, e sei quello che crediamo. Ora crediamo che tu sia qualche cosa di cui nulla può pensarsi più grande. O che forse non esiste una tale natura, poiché « lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste »? ( ' Ps., 13, 1 e 52, 1). Ma certo, quel medesimo stolto, quando sente ciò che io dico, e cioè la frase “qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande”, capisce quello che ode; e ciò che egli capisce è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti è che una cosa sia nell'intelletto, altro intendere che la cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell'intelletto l'opera e ma non intende ancora che esista quell'opera che egli non ha ancor fatto. Quando invece l'ha già dipinta, non solo l'ha nell'intelletto, ma intende che l'opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve convincersi che vi è almeno nell'intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi più grande, poiché egli capisce questa frase quando la ode, e tutto ciò che si capisce è nell'intelletto. Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell'intelletto. Infatti, se esistesse solo nell'intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe più grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell'intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare maggiore è nell'intelletto e nella realtà. (Anselmo d’Aosta, Prova ontologica dell’esistenza di Dio, dal “Proslogion”)

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• Il testo può presentare una struttura

ancora più articolata, in cui sono presenti sia una parte confutatoria sia parte probatoria

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Come nel testo seguente di Seneca ....

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La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d'animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l'arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell'esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all'uomo, nato a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell'indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall'estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l'abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l'investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla. Seneca, De brevitate vitae

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Il problema affrontato nel testo è se la natura sia cattiva per averci dato una vita breve.

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• Il testo può essere diviso in due parti: • La prima espone l’antitesi e le ragioni portate a suo favore

• La seconda espone la tesi dell’autore con le ragioni a sostegno

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• L’antitesi è che la natura è cattiva perché ci ha dato una vita breve.

• La tesi di Seneca è che la nostra vita non è breve e quindi la natura non è cattiva.

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• L’andamento dell’argomentazione può essere ancora più complesso

• Il problema generale può essere spezzato in sottoproblemi

• Vi saranno quindi: • una tesi generale come risposta al problema generale

• E delle sottotesi come risposta ai sottoproblemi

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Problema generale

1° sottoproblema

2° sottoproblema

Tesi generale

1^ sottotesi

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2^ sottotesi


• Come nel testo di Cesare Beccaria sulla pena di morte ....

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Questa inutile prodigalità di supplizii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la pena di morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno. Esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio d’ucciderlo? Come mai nel minimo sagrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutt’i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi? Ei doveva esserlo, se ha potuto dare altrui questo diritto, o alla società intera. Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale esser non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino; perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere: ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa della umanità [...]. Non è l’intenzione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni, che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente; e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni coll’aiuto di lei, cosí l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offeso, che è il freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto, ritorno sopra di noi medesimi: Io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione, se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggono sempre in una oscura lontananza [...]. La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte, e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più l’animo degli spettatori, che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue, il sentimento dominante è l’ultimo, perché è il solo. Il limite che fissare dovrebbe il legislatore al rigore delle pene, sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplizio più fatto per essi, che per il reo. Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, sceglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà, per quanto vantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intenzione della pena di schiavitù perpetua, sostituita alla pena di morte, ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato.

C. Beccaria, Dei delitti e delle pene

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