Pace e guerra. Può una guerra essere giusta

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Può una guerra essere “giusta”? DI PIETRO ALOTTO

1. Siamo ancora una volta alla vigilia di una guerra dalle conseguenze imprevedibili, che vedrà coinvolte le potenze occidentali (quante ancora non è dato sapere), contro l’Iraq di Saddam Hussein. Sarà la seconda dopo la cosiddetta “guerra del golfo”. Ancora più di allora (’91?), questa guerra vede il mondo occidentale e la sua opinione pubblica spaccati fra chi la ritiene necessaria e doverosa, e chi no; fra chi ritiene doveroso e necessario un pronunciamento dell’ONU e chi no; fra chi è contrario alla guerra è basta, perché la guerra è male, e chi ritiene che le guerre sono un male necessario per sconfiggere mali peggiori. I governi si affannano per tentare di persuadere le rispettive opinioni pubbliche della necessità, della inevitabilità, della “giustezza” della guerra preventiva; oppure della necessità di utilizzare altri mezzi ( la diplomazia, p.e.) per ottenere gli stessi scopi, ecc. E’ bene dire che solo negli ultimi due secoli i governi (mano a mano che il ruolo e l’importanza dell’opinione pubblica si facevano sempre più strada) hanno sentito la necessità di argomentare in difesa di una guerra. Nei secoli precedenti le guerre erano imposte dai sovrani, e combattute da eserciti mercenari, il cui consenso si pagava; la società nel suo complesso era poco coinvolta direttamente nella guerra, anche se le conseguenze per i civili direttamente o indirettamente coinvolti nei luoghi degli scontri o attraversate dagli eserciti, erano pesantissime. La guerra era maledetta dai civili, ma veniva accettata alla stregua di una calamità naturale, contro cui ci si doveva proteggere per quanto possibile, ma che non si poteva evitare. Oggi la guerra è generalmente deprecata, e, almeno nei paesi civili, vista come un “soluzione estrema”, cui ricorrere soltanto quando ogni altro mezzo per sanare i conflitti è risultato inefficace. E’ per questo che la guerra non può essere semplicemente “dichiarata”, occorre


anche persuadere la propria opinione pubblica che è necessaria, utile, efficace e, soprattutto, “giusta”.

2. Ma che cos’è la “guerra”? Volendo semplificare, ogni forma di guerra è una lotta armata e sanguinosa che si svolge fra Stati o fazioni di uno stesso Stato (<<Guerra civile>>), con lo scopo o di abbattere, atterrare l’avversario, sconfiggerlo, rendendolo impotente, impossibilitato a rinnovare la lotta, e di imporgli la pace che si vuole. La guerra è una pratica sociale antichissima, qualcuno l’ha retrodatata al 3000 a.C. , e frequentissima, alcuni studiosi parlano di circa 2300 guerre, circa una in media ogni cinque anni. Come ha scritto L. Bonanate: “ Tra tutti gli eventi che hanno contrassegnato la storia dell’umanità, nessuna ha altrettanta importanza della guerra: nulla provoca un così grande impiego di vite umane, di risorse economiche, di distruzioni materiali, di devastazione di luoghi (naturali e costruiti), per la semplice ragione che essa consiste nell’applicazione della maggiore violenza possibile che è ritenuta necessaria al fine di piegare la volontà di un avversario.” In effetti, pensiamo che la sola seconda guerra mondiale produsse circa 50 milioni di morti, altrettante furono coinvolte nello sforzo bellico, intere città (Dresda, Hiroshima ecc.) vennero completamente distrutte … Oggi lo sviluppo della tecnica e della scienza applicata agli armamenti ha reso possibile la distruzione della civiltà e dell’intera specie umana. Oggi più che in passato gli uomini giocano con il fuoco, la posta è assoluta: la possibilità di mettere la parola fine all’avventura umana sulla Terra.

3. Checché ne dicano poeti, filosofi e cantori della guerra come “igiene del mondo”, la guerra è un inferno, come ha scritto M. Walzer. Un inferno per chi la combatte e muore o è ferito o mutilato; un inferno per i civili “innocenti” colpiti direttamente o indirettamente. Ed è proprio perché la guerra è un inferno ed è criminale iniziarle, che i leaders politici hanno da sempre cercato in qualche modo di “giustificarla”, per ottenere il consenso di chi doveva combatterla o di chi doveva sostenerla o subirne le conseguenze.


Ora, le modalità attraverso cui indurre un uomo ad agire in un senso piuttosto che in un altro sono sempre le stesse: mostrare l’utilità, i vantaggi che possono venire da quell’azione; mostrare che è necessario, che non è possibile agire altrimenti; mostrare che è “giusto” Ebbene se andiamo a vedere le ragioni che i leaders politici di tutti i tempi hanno portato a giustificazione dei loro atti e dei loro incitamenti, ci accorgeremo che esse ricadono sempre sotto qualcuna di queste tre categorie: l’utile, il necessario, il giusto. Si tratta di tre categorie che non si escludono reciprocamente, in quanto si può ritenere che il giusto coincida con l’utile (variamente interpretato); oppure che sia giusto ciò che è necessario, ciò che non si può evitare (in natura vige la legge del più forte, ed quindi giusto che le nazioni più forti si impongano sulle più deboli). Il più delle volte (per non dire sempre) per giustificare la guerra si usano tutte e tre gli argomenti, questo perché tre sono le passioni le motivazioni forti che spingono gli uomini all’azione: la prospettiva di un vantaggio, la paura, il senso di giustizia. E’ su queste passioni che ha lavorato e lavora la propaganda sia pro che contro la guerra. E’ inevitabile perché la guerra è cosa degli uomini.

4. “… il fatto è che ciò che la maggior parte di noi vuole, persino in guerra, è agire o dare l’impressione di agire moralmente e il motivo per cui lo vogliamo è, semplicemente, che sappiamo cosa significa moralità… “(M. Walzer).

La guerra non è un fine in sé. Ma solo uno strumento, terribile, per raggiungere certi fini. La “giustificabilità” di una guerra deriva perciò dai fini “giusti” che si perseguono. Esistono fini “giusti” tali da giustificare una guerra, con tutta la sua carica di violenza, il suo carico di morte e distruzione? Di che tipo di “fini” stiamo parlando? Quando un fine può definirsi “giusto”? A noi in questa sede non interessa discutere come una singola guerra possa essere giustificata dai leaders di un dato paese alla propria opinione pubblica. Ogni comunità politica potrà trovare convincenti o persuasivi argomenti che altre comunità (sicuramente quelle che verranno attaccate) non reputerebbero tali (pensiamo, p. e., alle argomentazioni farneticanti di Hitler per giustificare le sue di guerre). In questi casi argomenti di valore universale si uniscono ad argomenti ad hominem che valgono solo per l’uditorio particolare. A noi interessa discutere le giustificazioni possibili della guerra che pretendono di valere in assoluto, di fronte, per così dire, al tribunale dell’Umanità. Le ragioni portate dovranno allora


essere tali da poter essere condivise da ogni essere umano razionale da ogni comunità eticopolitica. Ora, l’argomento principe per giustificare una guerra è l’argomento di giustizia. E’ l’”argomento principe” perché è quello che muove il cuore e la passione, è l’argomento che fa “morale”. Gli uomini hanno bisogno di sapere che stanno combattendo una guerra “giusta” affinché ci mettano tutta l’energia e l’entusiasmo necessari. E quando si trovano ad aver combattuto dalla parte sbagliata, la rimuovono o la vivono con un profondo senso di colpa (l’America dopo il Vietnam, e i Tedeschi dopo la 2^ guerra mondiale). Le nozioni di giusto/ingiusto sono nozioni vaghe. Nell’uso comune le usiamo riferendoci ad atti che discendono direttamente da diritti riconosciuti (giusto come lecito o legittimo); atti che rispondono a principi di equità (giusto come equo); atti che perseguono finalità giudicate come “buone”; atti che risultano mezzi adeguati al fine da raggiungere. Quando si parla di guerre “giuste” spesso si tende a confondere i diversi significati del termine. Una guerra può essere “giusta” dal punto di vista del diritto ed essere lo stesso sentita come ingiusta dal punto di vista etico. Ma può anche essere giudicata ingiusta o illecita o illegittima e tuttavia essere sentita come giusta dal punto di vista etico ( è il caso dell’intervento NATO in Bosnia). Una guerra può essere vista come giusta secondo il profilo del diritto e della moralità dei fini, ed essere considerata ingiusta quanto ai mezzi impiegati (pensiamo all’uso dell’Atomica o al bombardamento di Dresda). La riflessione intorno alla nozione di “guerra giusta” è antica. Già Cicerone aveva individuato i criteri per stabilire se una guerra può essere considerata giusta o meno. Per Cicerone una guerra può dirsi giusta soltanto quando ogni altro tentativo di composizione pacifica del conflitto sia fallito; che vi si ricorra solo per legittima difesa o per ovviare ad un torto; che sia annunciata e dunque non consista in una dichiarazione improvvisa; che si evitino forme di inutile violenza o crudeltà; e, infine, che sia ritualmente dichiarata. A queste condizioni Agostino d’Ippona ne aggiunge un’altra: la “giusta causa”. Sono “giuste soltanto quelle guerre che vendicano le ingiustizie”. La prima sistemazione della dottrina della guerra giusta è quella di Tommaso d’Aquino (iusta causa, auctoritas principis, intentio recta), integrata dal teologo spagnolo Francisco de Vitoria e che possiamo così sintetizzare: una guerra è giusta se rispetta queste cinque condizioni: 1. essa deve essere dichiarata dall’autorità legittima; 2. la guerra deve avere una giusta causa (in corrispondenza di una colpa commessa dal nemico); 3. l’intenzione di chi la combatte deve essere retta, ovvero mirante al ristabilimento del bene; 4. le operazioni belliche


devono essere proporzionate al caso e limitate il più possibile; 5. la distinzione tra combattenti e civili dovrà essere rigorosamente rispettata. Qui troviamo un primo abbozzo di distinzione fra ius ad bellum e ius in bello. Una guerra deve essere giusta non solo quanto alle finalità e alle modalità di dichiarazione, ma anche nei metodi della sua condotta. Modalità che non devono essere sproporzionate rispetto al caso, inutilmente crudeli e rivolte soltanto ai combattenti. Una delle critiche più sensate mosse alla dottrina della “guerra giusta”, così come è andata definendosi nell’ambito del pensiero cristiano, è che “stando così le cose ci troviamo nella deludente conclusione che è giusta la guerra che è considerata tale da chi la vuole o la combatte!” (Bonanate) Quale contendente non ritiene di avere un torto da riparare o di avere intenzioni rette? E’ con Ugo Grozio che il dibattito si sposta dal piano etico a quello giuridico. Grozio infatti distingue fra il “giusto” morale e il lecito o legittimo, il “giusto” formale o giuridico. Per Grozio una guerra è giusta se rispetta queste due condizioni: che sia “pubblica”, decisa dall’autorità riconosciuta, e che sia preceduta da una rituale dichiarazione di guerra. Grozio svuota così di ogni portata morale la giustificazione della guerra. Con Grozio il diritto si avvia ad occupare il posto della morale. Stabilire se una guerra è giusta è stabilire se essa è legittima secondo i principi del Diritto internazionale. Così per il grande giurista Kelsen “… la guerra è permessa solo come una reazione ad un torto sofferto – vale a dire come una sanzione- e … ogni guerra che non ha questo carattere è un delitto, cioè una violazione del diritto internazionale.” Secondo kelsen, quindi, l’unica giustificazione possibile di una guerra è la legittima difesa. E’ stato M. Walzer che in un fortunato libro del 1977 ha la rilanciato la dottrina della “guerra giusta”, riportandola nell’alveo della sfera morale. Walzer partendo dall’assunzione che gli Stati, come gli individui, possiedono dei diritti, svolge un ragionamento di tipo analogico fondato sulla comparazione fra ordine civile e ordine internazionale. A partire da questa analogia Walzer sviluppa una teoria dell’aggressione che riassume in sei punti: 1. esiste una società internazionale di Stati indipendenti; questa società internazionale possiede un proprio codice che sancisce i diritti dei suoi membri – primi fra tutti i diritti all’integrità territoriale e alla sovranità politica; 3. il ricorso alla forza di qualsivoglia specie, o la pressante minaccia del ricorso ad essa da parte di uno Stato nei confronti della sovranità politica o dell’integrità territoriale di un altro Stato costituiscono altrettante aggressioni, e vanno perciò considerati atti criminali; 4. l’aggressione giustifica diversi generi di risposta violenta: una guerra di autodifesa da parte della vittima e una guerra di rivendicazione del diritto violato da


parte della vittima e da parte di ogni altro membro della società internazionale; nulla fuorché l’aggressione può giustificare la guerra; 6. una volta che lo Stato aggressore sia stato militarmente respinto, può anche essere punito. Per Walzer queste sei proposizioni rispecchiano i criteri a cui ci atteniamo nei “ giudizi che siamo soliti esprimere quando ci troviamo di fronte a un nuovo conflitto”. E’ chiaro come per Walzer, così come per Kelsen, l’autodifesa e la punizione dell’aggressore siano gli unici scopi “legittimi” sia sul piano morale che su quello del diritto, e quindi le uniche giustificazioni possibili di una guerra. In questo modo è stata giustificata la 1^guerra del golfo. L’Iraq aveva aggredito, il Kuwait, paese confinante e membro delle Nazioni Unite. La comunità internazionale ha reagito con la costituzione di una coalizione che, su preciso mandato dell’ONU, ha ricacciato le truppe irakene oltre la frontiera e ha punito il paese invasore comminando sanzioni ecc. A partire dall’intervento militare della Nato in Kosovo, si è da più parti avanzata la necessità di aggiungere a questi due un’ulteriore “giusta causa”: la difesa dei diritti umani. Si è parlato a questo proposito di guerra umanitaria. In effetti, la guerra in Kosovo è stata la prima ad essere combattuta in nome dei diritti umani, per fermare il genocidio delle popolazioni kosovare da parte dei serbi. Si è trattato di un intervento illegittimo sotto il profilo del Diritto internazionale, in quanto mancava la copertura dell’ONU, e tuttavia, fortemente impressionati dalle immagini che i media trasmettevano delle stragi, dello stupro etnico, dei campi di concentramento ecc. , l’opinione pubblica occidentale ha approvato l’intervento della Nato. Ma v’è chi ha rilevato l’ambiguità e l’intima contraddittorietà della guerra umanitaria. “Il bilancio delle vittime (kosovare e serbe), quasi esclusivamente civili, e delle distruzioni (in Serbia come in Kosovo), ancora una volta quasi esclusivamente civili (ad essere distrutti sono stati non tanto gli armamentari militari, quanto piuttosto strade, ponti, fabbriche, raffinerie, case e scuole), per quanto incerto e ancora approssimato ne conferma, infatti, tutta la drammaticità e ripropone in pieno la contrapposizione lacerante tra chi nella guerra individua uno strumento terribile, ma necessario per la tutela dei diritti umani quando questi siano massicciamente e reiteratamente violati e chi, invece, nella guerra vede uno strumento che, inevitabilmente, non può non provocare, accanto alla violazione massiccia e reiterata dei diritti umani che si dichiara di voler tutelare, una nuova, non meno odiosa, violazione di quegli stessi diritti.” (T. Mazzarese) E’ paradossale che una guerra combattuta in nome e in difesa dei diritti dell'uomo, violi essa stessa quegli stessi diritti. E’ in realtà il paradosso “di tutte le crociate e di tutte le guerre di


civilizzazione: i valori per i quali si combatte (i diritti dell'uomo) sono proprio gli stessi valori che non si possono non calpestare combattendo (i diritti dell'uomo); non sono, cioè, valori altri e diversi in nome della cui superiorità si possa accampare la pretesa di uccidere e distruggere. E ancora, sono, ex definitione, valori universali che, quindi, non possono non valere anche nei confronti di coloro ai quali li si voglia imporre. (Detto altrimenti, se l'universalità dei diritti viene fatta valere come ragione per giustificare la guerra, non la si può poi disconoscere quando si è in guerra.)” (Mazzarese) Si tratta di una contraddizione logica, ma soprattutto è una contraddizione pragmatica in quanto le forme e i modi in cui si combattono le "nuove guerre" non possono non costituire una sistematica violazione dei principî dello ius in bello, e quindi una violazione delle condizioni di legittimazione della guerra tout court. E’ chiaro, infatti, che “l'eventuale titolo di legittimazione di una guerra viene meno … se le forme e i modi in cui essa viene combattuta violino i principî del diritto umanitario (i canoni dello ius in bello); in particolare, se ed in quanto violino il principio di proporzionalità (dei danni inflitti) e il principio di discriminazione (tra combattenti e non combattenti).” (Mazzarese) Per la ventilata guerra all’Iraq si parla addirittura di guerra preventiva. Il concetto di autodifesa si amplia così fino a comprendere la possibilità di aggredire un altro Stato che non dichiara, né mostra intenzioni aggressive, ma che produce o si procura armi che potrebbero essere usate un domani contro altri Stati.

5. “Voi dite che è la buona causa che rende santa persino la guerra. Io vi dico: è la buona guerra che rende santa qualsiasi causa” (F. Nietzsche)

Fin qui la discussione si è mossa assumendo che la guerra sia qualcosa di evitabile, che cioè esista la possibilità di scegliere fra il fare o non fare la guerra, a partire da considerazioni di tipo etico e di diritto. Ma c‘è chi ritiene che la guerra sia una male necessario, inevitabile. Lo sostengono i cosiddetti “realisti”, i quali prospettano una visione anarchica delle relazioni internazionali. Secondo questa visione, la causa fondamentale della guerra risiede nell’assenza di un governo internazionale, nell’anarchia degli Stati sovrani (M. Wight). Gli Stati vivono in un ambiente naturalmente anarchico, e lo Stato è portatore di un interesse


nazionale, che lo Statista ha il dovere di perseguire. Gli statisti faranno la guerra o la eviteranno quando una delle alternative incarni meglio il fine dell’interesse nazionale (Morghentau). Ora, posto che gli Stati hanno spesso interessi contrastanti o conflittuali, ancorché legittimi, la guerra è inevitabile per risolvere il conflitto, attraverso la vittoria di uno dei contendenti. La guerra è “un mondo a sè, un mondo nel quale è in gioco la vita stessa … in cui prevalgono egoismo e stato di necessità …e non vi è alcun posto per la moralità e la legge. Inter arma silent leges: in tempo di guerra tacciono le leggi” (M. Walzer). Ma se così è perché i leaders politici usano sempre il linguaggio della morale o del diritto per giustificare le loro guerre? E’ veramente solo una “maschera verbale con la quale tentiamo di dissimulare persino a noi stessi la terribile verità” (M. Walzer)? Oppure, si tratta solo di menzogne dette a fin di bene, come quelle che si dicono ai bambini per spingerli a fare cose altrimenti sgradite? La risposta più semplice è forse anche quella che più si avvicina alla verità. Neanche nella sfera delle relazioni sociali noi ci sentiremmo di giustificare un atto di violenza verso un altro individuo con la pretesa del nostro diritto a far prevalere il nostro interesse individuale (o anche familiare). Come può allora uno Stato che vieta ai suoi cittadini e sanziona questi comportamenti al suo interno, agire nello stesso modo in ambito internazionale? Del resto, questa interpretazione della guerra, come inevitabile strumento di risoluzione dei conflitti fra Stati è stata ripudiata dal consesso degli Stati (vedi carta dell’ONU, ma anche la nostra Costituzione) attraverso la sottoscrizione libera di un patto. Pura ipocrisia anche quella?

6. Per quanto ancora? Per circa cinquantanni l’esperienza nefasta della seconda guerra mondiale ha fatto sì che la stragrande maggioranza degli Stati condividesse l’idea che la guerra era il male assoluto, sottoscrivendo liberamente un patto, la Carta dell’ONU, che ripudiava la guerra come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali. La guerra era l’extrema ratio, quando ogni altro mezzo pacifico, dalla diplomazia alle sanzioni, si fosse rivelato inadeguato. Oggi, ci troviamo alle soglie di una guerra che la più grande superpotenza mondiale, gli USA, si appresta a scatenare contro l’Iraq. Gli argomenti usati dai fautori di questa guerra si rifanno agli schemi giustificatori di ogni guerra. E’ una guerra utile, necessaria e giusta. Buona parte dell’opinione pubblica mondiale ritiene questa volta che le ragioni per intraprendere una nuova guerra siano deboli. Gli Stati Uniti e i loro alleati della prima e dell’ultima ora non sono stati capaci finora di persuadere l’opinione pubblica (ed anche molti governi di potenze non


secondarie come la Russia, la Cina, la Francia, la Germania ecc.) che questa probabile guerra sia veramente giusta, che sia veramente utile e che sia veramente necessaria, e che valga le migliaia di morti che si appresta a fare. Fautori e contrari hanno armato i cannoni della retorica bellicista o pacifista, sparando ad alzo zero contro il nemico: Pacifisti senza cervello! Servi degli Americani! Chi abbia ragione non è dato sapere. Potrebbe avere ragione Tony Blair quando dice che quando questa guerra sarà vinta, il mondo si renderà davvero conto che avevano ragione loro. Ci piacerebbe avere la sicurezza nelle proprie convinzioni di questi leaders, nel momento in cui con le loro decisioni firmano la morte di migliaia di persone. Ma noi crediamo (o almeno speriamo) che nell’intimo delle loro coscienze il tormento dell’incertezza, l’angosciosa domanda sia sempre presente: avremo fatto la cosa “giusta”?


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