1861/2011. I 150 anni dell'Unità d'Italia

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Associazione Amici del Museo Storico di Bergamo Fondazione Bergamo nella Storia Onlus

1861 2011 150 I ANNI DELL’UNITÀ D’ITALIA



Per Mauro Gelfi


1861 2011

ASSOCIAZIONE AMICI DEL MUSEO STORICO DI BERGAMO FONDAZIONE BERGAMO NELLA STORIA ONLUS

I 150 ANNI DELL’UNITÀ D’ITALIA Celebrazioni organizzate dalla Fondazione Bergamo nella Storia Onlus e dall’Associazione Amici del Museo Storico di Bergamo

A cura di: Giovanni Marieni Saredo, Rosanna Paccanelli, Pierfranco Pilenga, Carlo Salvioni In collaborazione con: Silvana Agazzi, Roberta Marchetti.


MAURO GELFI

Questo libro è dedicato a

MAURO GELFI

Straordinario uomo e studioso Direttore del Museo Storico e della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus dal 1997 al 2010

Questo libro è dedicato a Mauro Gelfi, prima conservatore e poi direttore del Museo Storico di Bergamo dal 1997 e, in seguito, direttore della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, dal 2002 al 6 maggio 2010, data della sua prematura scomparsa. In tutti quegli anni Gelfi ha dedicato, fino all’ultimo, anche quando la malattia l’aveva gravemente colpito, ogni sua energia al migliore funzionamento e alla crescita dell’istituzione che gli era stata affidata, tanto da farla diventare uno dei poli culturali più vivaci della nostra città. Tra le numerose iniziative assunte durante la direzione di Mauro, vanno ricordate le mostre: “Incanto di Tessuti”, “Per Filo e Per Segni”, “Bicentenario di Garibaldi”, “Ludere et Ledere”, “Centenario dell’ATB”, “Age of Extremes”, “La Città Visibile, Bergamo nell’Archivio Sestini”. Nel contempo l’équipe del Museo, guidata dal suo Direttore, molto attento anche a tessere opportune relazioni con i vari soggetti della vita economica e sociale della città, ha continuato a lavorare per realizzare gli ulteriori sviluppi del percorso museale che era stato posto come obiettivo della nascita della Fondazione. Il museo dell’Età Veneta, nel suggestivo spazio del Palazzo del Podestà in piazza Vecchia, e quello del Novecento. Il primo è oggi una splendida realtà con la sua tecnologia interattiva, che lo pone all’avanguardia nei sistemi museali europei e rappresenta un momento di riflessione su un periodo, il Cinquecento, tra i più significativi della storia moderna. Il secondo che resta un lascito ai suoi successori, con la speranza che riescano a portarlo a termine. Senza dimenticare la sezione dell’Ottocento, ritornata nella sua sede tradizionale della Rocca, che la Fondazione e l’Amministrazione Comunale, su esplicita richiesta degli Amici del Museo, hanno voluto dedicare a Mauro in omaggio al suo primo e grande amore per la storia di Bergamo: il Risorgimento e l’Epopea Garibaldina.


INDICE

INTRODUZIONE 6 DISCORSI UFFICIALI

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2 febbraio 2011 - Teatro Donizetti Bergamo per i 150 anni - Sindaco Franco Tentorio

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16 marzo 2011 - Palazzo Frizzoni - Sala Consiliare Bergamo per l’Unità d’Italia Carlo Salvioni e Silvana Agazzi

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19 dicembre 2011 - Consiglio Provinciale di Bergamo 150 ANNI di Unità Nazionale - Carlo Salvioni 25

CONFERENZE E INCONTRI

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Gli aspetti diplomatici della spedizione dei Mille - Carlo Salvioni 30 Agostino Salvioni (Bergamo 1768-1853) - Carlo Salvioni 37 Spielberg. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859 - Margherita Cancarini Petroboni

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Risorgimento e identità nazionale - Margherita Cancarini Petroboni 54 1848 anno primo della stampa satirica italiana - Paolo Moretti 65 Le donne di casa Camozzi - Rosanna Paccanelli 68 Il salotto di Clara Maffei - Rosanna Paccanelli 74

MOSTRE 82 Le carte dell’identità. Bergamo negli Anni del Risorgimento 84 150 anni di scienza nella storia 86 Padri e zii della patria. Il volto della caricatura 87


ATTIVITÀ EDUCATIVE 90

Mercoledì per la Notte tricolore Fresu suona l’inno di Mameli - 15 marzo 2011 119

Attività educative per le scuole 92

Fondazione Bergamo nella Storia: ecco le iniziative per i 150 anni - 15 marzo 2011

La costruzione dell’identità nazionale dall’Unità d’Italia alla Prima Guerra Mondiale corso di aggiornamento per insegnanti 93

Bergamo per i 150 anni dell’Unità d’Italia - 16 marzo 2011 121

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Si canta l’inno sotto la pioggia Tanta partecipazione alla Rocca - 17 marzo 2011 128

Indagine conoscitiva rivolta alle scuole secondarie di secondo grado di Bergamo e Provincia 94

Rivolte e cannonate in piazza Vecchia. A Bergamo si combattè nel 1848-‘49 - 17 marzo 2011 129

“…sì bella e perduta…” L’Età del Risorgimento 1861-2011 95

Unità d’Italia: il concorso per le scuole è stato prorogato fino al 31 maggio - 6 aprile 2011 130

11 novembre a Bergamo. La chiusura per i 150 anni dell’Unità d’Italia e premiazione del concorso per le scuole 96

150° Unità d’Italia Bergamo. Il ritorno a casa dei Mille

INIZIATIVE COLLATERALI

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A tu per tu con i 150 anni dell’unità d’Italia 100 Dall’archivio al museo 150 anni di Unità d’Italia 101 Sigilli e armi nel Risorgimento - 25 novembre 2011 102 Trasmissioni televisive 103

NEWSLETTERS

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Museo, incontri e laboratori per i 150 anni dell’unità d’Italia - 25 settembre 2010 106 Alla scoperta dell’Unità d’Italia i laboratori del Museo Storico - 22 ottobre 2010 107 Annita Garibaldi a Bergamo Convegno sull’Unità d’Italia - 3 novembre 2010 108 Notte Tricolore e temi nelle scuole Bergamo celebra l’Unità d’Italia - 6 dicembre 2010

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La giornata di Giorgio Napolitano Dal municipio sino in Città Alta - 2 febbraio 2011

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Notte Tricolore - Programma - 7 marzo 2011

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Notte Tricolore per l’Unità d’Italia Pirovano: Garibaldi? Un Buffalo Bill - 7 marzo 2011

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«Notte tricolore» a Bergamo Manifestazioni al via da mercoledì - 15 marzo 2011 117

«Mille camicie e una storia» Musica e racconti su Garibaldi - 15 maggio 2011 131 Mostra: «Le carte dell’identità» - 26 giugno 2011 132 Ora anche due visite guidate - 18 agosto 2011 133 Concorso: Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia in Bergamo e provincia (1848-1870) 134 Satira al Museo Storico i 150 anni dell’Unità d’Italia - 22 dicembre 2011 135 Con i F.lli Calvi addio al 150° Si spengono le luci tricolori - 14 gennaio 2012 136


INTRODUZIONE

INTRODUZIONE Bergamo svolse un ruolo non certo secondario in tutte le vicende risorgimentali. Lo ricordava Giuseppe Garibaldi nella celebre lettera, inviata il 10 febbraio 1861, a Giovan Battista Camozzi, primo sindaco della città dopo l’Unità d’Italia, con la quale individuava la gioventù patriottica bergamasca come rappresentante dell’intero processo di unificazione nazionale. E nel 1898, in occasione del cinquantesimo anniversario dei fatti del 1848, il re Umberto I insigniva il gonfalone della Città della Medaglia d’Oro al valore risorgimentale per i grande contributo offerto al riscatto della Patria. Per queste ragioni, il 2 febbraio 2011, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, si recava in visita nella nostra città, dando così inizio alle celebrazioni ufficiali dell’importante ricorrenza. Sotto la guida dell’Amministrazione Comunale e con la presenza operativa della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, veniva costituito il comitato “Bergamo per i 150 anni”, a cui partecipavano le principali istituzioni pubbliche del territorio, con il compito di organizzare e di coordinare le diverse iniziative che enti pubblici e associazioni private intendevano promuovere durante l’intero corso dell’anno. Ne sono scaturiti oltre duecento, tra incontri, dibattiti, convegni, lezioni, rappresentazioni teatrali e proiezioni cinematografiche, concerti musicali ed esecuzioni operistiche, mostre d’arte, di eventi storici, esposizioni di documenti, carte, dipinti e oggetti, articoli su quotidiani e riviste, trasmissioni radiofoniche, televisive e sul web, che hanno coinvolto gli enti locali, le istituzioni, le agenzie culturali, le associazioni politiche, economiche e sociali e soprattutto tantissimi uomini e donne della nostra città e della nostra provincia. Un successo di partecipazione che pochi si sarebbero aspettati. Si parlò, allora, di un recupero da parte degli italiani (perché iniziative simili a quelle proposte Bergamo si verificarono un po’ dappertutto) del senso di appartenenza a una vicenda di riscatto politico e di conquista, nella libertà, dell’unità e dell’indipendenza della propria nazione, rilevante e significativa, ancorché variamente giudicabile. E che tale impressione fosse pienamente fondata lo hanno dimostrato gli anni successivi. Oggi, nessuno più pone in discussione l’unità del Paese. Di molti, di quanti ci è stato possibile raccogliere qualche forma di documentazione, di quegli eventi, abbiamo voluto dare contezza in questo libro, perché la memoria non andasse perduta. Ci auguriamo che questo impegno, per cui vogliamo ringraziare in particolare gli Amici del Museo Storico: Giovanni Marieni Saredo, Rosanna Paccanelli e Pierfranco Pilenga, nonché Roberta Marchetti e lo staff della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, possa essere apprezzato da studiosi e cittadini.

Associazione Amici del Museo Storico

Fondazione Bergamo nella Storia

Il Presidente

Il Consigliere Delegato

Carlo Salvioni

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Emilio Moreschi


DISCORSI UFFICIALI

DISCORSI UFFICIALI


2 febbraio 2011 - Teatro Donizetti

BERGAMO PER I 150 ANNI

Sindaco Franco Tentorio in occasione della visita del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Caro Presidente, oso rivolgermi a Lei con questo aggettivo un poco familiare, ma assolutamente rispettoso, perché penso che meglio di ogni altro possa testimoniare la stima e l’affetto che la Comunità bergamasca, che ho l’onore di rappresentare, desidera manifestare nei suoi confronti. Stima per il grande e apprezzato impegno di garante dell’Unità nazionale e difensore dei valori fondanti della nostra Costituzione. Affetto per l’attenzione che dimostra, in ogni suo atto, nei confronti della gente italiana, i giovani, i lavoratori e gli imprenditori, le donne, i più deboli. È quindi per noi motivo di gioia e di orgoglio accoglierLa in questa nostra città, la Città dei Mille, nell’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia. Questa è l’occasione per ricordare e affermare quanto sia stata significativa la partecipazione della comunità bergamasca al processo storico del Risorgimento nazionale che si concluse con I’Unità d’Italia. La nostra Città, dal 1848 al 1860, per limitarci ad un arco di tempo che per gli storici è stato il periodo centrale del Risorgimento, fu uno dei centri più attivi del pensiero e dell’azione sia del volontariato garibaldino, sia del più ampio processo risorgimentale. Per far riferimento ad un evento che potremmo assumere come iniziale, ricorderemo che, in coincidenza con le Cinque Giornate di Milano, nel marzo del 1848, anche Bergamo ebbe la propria insurrezione e che quegli avvenimenti, successivamente, vennero riconosciuti come “altamente patriottici” tanto che Re Umberto I concesse alla Città una Medaglia d’Oro: “In ricompensa del valore dimostrato dalla cittadinanza negli episodi militari del 1848”: la medaglia, da allora, è appesa al nostro Gonfalone come ricordo orgoglioso di quegli avvenimenti. In quei giorni, inoltre, venne organizzata una colonna di volontari in aiuto ai

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rivoltosi milanesi ed anche in quei drammatici avvenimenti i giovani bergamaschi contribuirono, in modo decisivo, alla liberazione della città. L’anno successivo, nell’imminenza della ripresa della prima guerra di Indipendenza, pensando che fosse possibile una insurrezione in Lombardia, dal Governo Sardo venne dato al bergamasco Gabriele Camozzi, amico fedele di Giuseppe Garibaldi, il compito di organizzare una diffusa azione rivoluzionaria in tutta la regione, azione che ebbe inizio in Città, ma che si concluse sanguinosamente nei pressi di Brescia in soccorso della quale era partita una colonna di 800 volontari: molti di questi morirono in combattimento ed altri furono catturati e fucilati nel Castello di quella città. Ci fu poi un decennio di sofferenza e di attesa, ma quando, l’8 Giugno 1859, accolto entusiasticamente, alla guida delle truppe Piemontesi, il generale Giuseppe Garibaldi entrò in una Città già liberata, la Municipalità, in piena sintonia con lo spirito cittadino, chiese l’immediata annessione della Città e della Provincia al Regno Sardo Piemontese e, per esprimere in modo pieno la propria partecipazione agli ideali nazionali, deliberò uno stanziamento finanziario elevatissimo per le modeste risorse municipali di allora, ma che venne ritenuto necessario per sostenere in ogni modo “il trionfo della politica del Governo per l’annessione dell’Italia Centrale e per il processo dell’indipendenza Nazionale”. In quel breve arco di tempo, che concludeva il decennio dell’attesa, la classe dirigente cittadina assunse decisioni fondamentali che cambiarono radicalmente la nostra storia e che testimoniarono, in modo libero e cosciente, la volontà di partecipazione dei Bergamaschi agli ideali fondativi della “nuova Italia” che ormai si andava delineando. Nel corso dell’anno successivo, il fatale 1860, si svolsero però gli avvenimenti più importanti che avrebbero avuto conseguenze fondamentali per la storia italiana: la gioventù bergamasca, rispondendo al proclama di Giuseppe Garibaldi, aderì in modo massiccio alla Spedizione dei Mille. Devo ricordare che dei Mille che salparono da Quarto per la Sicilia, almeno 180 erano Bergamaschi e che molti altri vennero rispediti a casa perché non ancora sedicenni. Il Generale sapeva che nella nostra Città era presente una diffusa condivisione degli ideali nazionali ed una stima profonda, quasi filiare, nei Suoi confronti, tanto che, già da anni, aveva definito Bergamo “la Città Garibaldina” per eccellenza. Dal 1960, infatti, sul Gonfalone cittadino, massimo emblema della nostra comunità è riportata, in oro, la scritta “Bergamo - Città dei Mille” e il nostro è l’unico Gonfalone che riporta questa dicitura. Qui, infatti, stava il cuore dei “Cacciatori delle Alpi”, uomini, classe dirigente e popolo, che volontariamente erano sempre disposti a seguirlo in nome degli ideali di umanità e di libertà dei popoli. Anche con la costituzione del Regno d’ Italia questi ideali non si spensero. Infatti, pochi anni dopo, proprio da Bergamo partì una spedizione di volontari in aiuto al Popolo polacco che stava combattendo per la propria indipendenza, guidata da un fedelissimo di Giuseppe Garibaldi, Francesco Nullo che morì, con molti suoi compagni, in quella terra lontana. Molti altri, Signor Presidente, sarebbero gli avvenimenti da ricordare, per testimoniarLe come la storia e la cultura della nostra Città abbiano sempre 12

custodito ed espresso un profondo sentimento di condivisione degli ideali di libertà dei popoli e come la stessa partecipazione attiva alla costruzione della nuova Italia sia stato, e sia ancora oggi, un elemento determinante, non casuale, della nostra storia collettiva. Da questa consapevolezza, la progettazione di una serie di iniziative condivisa fra tutte le Istituzioni: Comune, Provincia, Regione, Università, Prefettura, riuniti in un Comitato chiamato “Bergamo per i 150 anni”. Tante le iniziative che punteggiano le date-chiave di questo anno da poco iniziato. A partire dalla “notte tricolore” del 16 marzo, che vede l’apertura straordinaria di musei e palazzi storici della città. Un percorso nei luoghi della Bergamo del Risorgimento, punteggiato dalla proiezione di frasi storiche sui palazzi della città, tra apertivi musicali, concerti e fuochi d’artificio. Il 26 e 27 maggio, in corrispondenza del passaggio di un Giro d’Italia dedicato ai “150 anni”, un percorso tricolore amatoriale cui parteciperanno personalità delle Istituzioni e campioni ciclisti del passato raggiungerà San Pellegrino Terme, sede di tappa: al rientro a Bergamo, salutati da una fanfara, i grandi nomi dello sport celebreranno i 150 anni in un gemellaggio tra sport e storia, non inconsueto nella nostra terra. E la sera al Teatro Donizetti una speciale serata del Festival Pianistico di Brescia e Bergamo, protagonista Uto Ughi. Il 2 giugno vedrà in nome di Giuseppe Garibaldi un significativo gemellaggio: una delegazione dell’amministrazione della Città di Nizza in visita alla città dei Mille accompagnata dalla sua orchestra. Mentre il 20 settembre sarà salutato dalla prima proiezione pubblica dopo il Festival di Venezia di “Piazza Garibaldi’’, film documentario del regista Davide Ferrario, sull’itinerario della spedizione dei Mille. Infine l’11 novembre il gran finale: “Il ritorno a casa dei Mille” sarà il tema di questa giornata che vedrà l’inaugurazione a Bergamo della prestigiosa iniziativa organizzata dal Comitato Nazionale. Una mostra, “Bergamo e i Mille’’, dedicata ai monumenti risorgimentali italiani incentrata sulla nostra città. 180 ragazzi, simbolicamente i Mille bergamaschi, sfileranno per la città dalla Stazione alla sede della Mostra. Nella stessa data si terrà la premiazione finale del concorso per le scuole “Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia in Bergamo e provincia (1848-1870)” già bandito a cura dell’Ufficio ex Provveditorato e verrà presentata una pubblicazione “Il mio risorgimento” contenente i lavori più rilevanti realizzati dalle scuole della Bergamasca. Nella sera, al Teatro Donizetti, un galà del Risorgimento che prevede anche l’esecuzione dell’Inno alle nazioni composto da Giuseppe Verdi nel 1862, su parole di Arrigo Boito. Ci saranno eccellenze dell’arte, della cultura, dello spettacolo, in un’alternanza tra due giganti della musica: il Cigno di Busseto e il grande bergamasco Gaetano Donizetti. Oltre a queste, mille altre iniziative, di cui sono protagonisti sia la Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, sia numerosissime Associazioni, Organizzazioni e Circoli che vogliono dare il loro qualificato e convinto contributo: convegni, mostre, dibattiti, le sagome dei garibaldini sparse per la città in forma di crack art. Linguaggi diversi per generazioni diverse, ma un progetto preciso: raccontare il Risorgimento dal 1848 al 1870, soprattutto alle giovani generazioni, a partire 13


dalle vicende nate da questo territorio che sono divenute Storia. Un patrimonio di cui la nostra Città va fiera. Ho l’orgoglio di dire - conclusivamente - che, a distanza di 150 anni dal 1861, la nostra Città fa orgogliosamente parte della Patria italiana. Con i suoi 120mila laboriosi abitanti, distribuiti fra la pianura e i colli, al centro di un’ampia provincia di 244 Comuni e di un milione di abitanti, che va dalle vette delle Prealpi Orobie al cuore della pianura padana, che ospita 100mila imprese con i loro imprenditori, professionisti e lavoratori. Che in passato ha avuto l’onore di dare i natali a Gaetano Donizetti, a Torquato Tasso, a Giacomo Quarenghi a Bartolomeo Colleoni, ad Antonio Locatelli, a Michelangelo Merisi da Caravaggio, al Beato Papa Giovanni XXIII. La Comunità bergamasca in questi 150 anni ha difeso e rafforzato i valori che erano propri dei nostri padri fondatori. La Patria, come riferimento essenziale della vita, delle scelte e dei sentimenti della nostra gente. Basta ricordare la recentissima grandiosa Adunata Nazionale di 500mila Alpini, in cui i bergamaschi si sono distinti per numero, per impegno e per partecipazione. La Famiglia, quale nucleo essenziale della società, così come ricordata nell’articolo 29 della nostra Costituzione. Il Lavoro, come impegno personale e sociale, affrontato con lo spirito e la professionalità più elevati, che consentono di affrontare anche le difficoltà in spirito di solidarietà. Infine il Volontariato, che nella Bergamasca coinvolge centinaia di migliaia di persone che dedicano gratuitamente il loro tempo, le loro energie e la loro intelligenza per il bene del prossimo, nei settori dell’assistenza alle persone, della cultura, dello sport, della politica. Caro Presidente, la Gente Bergamasca che in passato è stata protagonista di tanti momenti del Risorgimento italiano, intende oggi ricordare e riconfermare quell’impegno che ha portato all’Unità della nostra Patria. Ma intende anche mantenere vivi in sé quei valori che hanno guidato, fino al sacrificio, i padri costituenti e che oggi confermano tutta la loro assoluta forza. Questi ideali esprimono lo spirito più profondo della Gente Bergamasca che, unitamente all’orgogliosa difesa delle proprie tradizioni, vuole essere parte integrante dell’Italia e della più ampia comunità dei popoli europei.

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16 marzo 2011 - Palazzo Frizzoni - Sala Consiliare

BERGAMO PER L’UNITÀ D’ITALIA Carlo Salvioni e Silvana Agazzi

Il 20 gennaio 1960 il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi concedeva alla Città di Bergamo la facoltà di accompagnare lo stemma cittadino con l’iscrizione “Bergamo Città dei Mille”; la richiesta, avanzata dalla Città di Bergamo l’8 maggio 1959, riprendeva compiutamente una frase di Giuseppe Garibaldi, il quale, dopo la raggiunta Unità d’Italia, aveva individuato Bergamo come rappresentante dell’intero processo di Unità nazionale. Così, da Caprera, il Generale scriveva il 10 febbraio 1861 a Giovanni Battista Camozzi, primo sindaco di Bergamo nell’Italia unita: Caro Camozzi Nella gioventù Lombarda, sempre pronta a lanciarsi nel pericolo per la redenzione della patria,e che partecipò alla prima spedizione di Sicilia e Napoli, contano in prima riga i prodi figli di Bergamo. Se la provvidenza ha deciso ch’io divida le ultime battaglie della patria per l’intiero suo affrancamento io legherò alle generazioni venture - accanto a quelle di Bergamo – il nome della città Italiana – che con più figli avrà gettato più ferro sulla bilancia liberatrice. Un caro saluto alla famiglia Vostro G. Garibaldi” Non era solo, quindi, perché la provincia orobica aveva dato 180 dei propri uomini alla spedizione dei Mille, partita da Quarto la notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, ma, e diremmo soprattutto, perché i cittadini bergamaschi avevano seguito tutto il processo risorgimentale. Ne ricorderemo qui le principali tappe: Nel marzo 1797 Bergamo è la prima delle città della Terraferma a ribellarsi a Venezia. Un’autentica rivoluzione non solo politica, ma anche culturale e negli stessi modi di vita. Ma Bergamo era andata oltre: terminata l’esperienza della Repubblica Bergamasca, aveva contribuito con un giurista d’eccezione, Marco Alessandri, a compilare il nuovo codice legislativo napoleonico del Regno d’Italia; i principali industriali della città e della provincia avevano partecipato alle Conferenze di Lione; i migliori scienziati avevano contribuito a delineare le conoscenze del territorio nazionale (si pensi ad esempio a Maironi da Ponte) e a rifondare il sistema delle unità di peso e di misura (il matematico Lorenzo Mascheroni membro della commissione scientifica insediata a Sèvres). Nel 1848 Bergamo è ancora in prima fila durante la “primavera dei popoli”; la rivolta, che temporaneamente scaccerà gli austriaci dalla Città, è partecipata da una gran moltitudine di popolo sia nel capoluogo sia in provincia. Per questi fatti d’arme, Bergamo sarà insignita di medaglia d’oro, con decreto reale del 15 giugno 1899.

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Medaglia veramente meritata. Infatti, alla notizia dell’insurrezione milanese anche Bergamo insorge e si combatte per cinque giornate, dal 18 al 22 marzo, a Borgo San Leonardo, a Porta Broseta, alle caserme di Santa Marta e Sant’Agostino, alle carceri di San Francesco e alla polveriera situata presso il cimitero di San Maurizio. Sono scontri duri, che vedono il coinvolgimento di buona parte della popolazione e l’intervento, accanto al popolo urbano, di gruppi di valligiani e di contadini, come testimoniano le cronache coeve. Il 20 marzo in Piazza Vecchia si innalza l’albero della libertà, questa volta coronato dal tricolore. Tutte le truppe austriache, 1600 uomini divisi in 15 compagnie distribuite tra le caserme di Sant’Agostino, della Fara, di San Giovanni e il Lazzaretto, sono costrette ad abbandonare la città entro il 23 marzo. Contemporaneamente da Bergamo e dalla provincia gruppi di volontari, guidati da Nicola Bonorandi, partono per Milano e determinante è il loro contributo nella presa di Porta Tosa (oggi Porta Vittoria). Fra i nomi di coloro che si distinguono nei diversi combattimenti figurano, tra gli altri, molti di coloro che poi partirono con Garibaldi (Francesco Nullo, Vittore Tasca, Daniele Piccinini). È in questi frangenti che i bergamaschi incontrano per la prima volta i principali uomini del Risorgimento italiano: ai primi di agosto si trovano a Bergamo Garibaldi, Cattaneo e Mazzini. Con Garibaldi si creerà subito un rapporto speciale che durerà per tutta l’epopea risorgimentale e oltre. Il 30/07/1848 Garibaldi arriva a Bergamo con 1.500 uomini; altri 700 ne arruolerà in città per l’impegno di Gabriele Camozzi. Veste all’americana e i garibaldini della Legione italiana di Montevideo indossano la camicia rossa. Gli altri vestono nelle fogge più strane. Si stabiliscono al Lazzaretto e al Seminario, mentre Garibaldi è ospite in casa Camozzi alla Rocchetta. Gli erano stati affidati due compiti: contenere l’avanzata austriaca verso Brescia e se ciò fosse stato impossibile, portarsi sull’Adda in direzione di Milano. Mazzini il 3 agosto 1848 da Milano si sposta a Bergamo, dove viene ospitato in una casa sopra il portico dei Mercati in Piazza della Legna. Parla ai cittadini richiamando la guerra di popolo. Il 9 agosto, però, Bergamo torna sotto la dominazione austriaca, ma i patrioti bergamaschi non si arrenderanno e, sotto la guida di Federico Alborghetti, alimenteranno per oltre due mesi una guerriglia contro l’occupante. Il 14 marzo 1849 il Ministero della Guerra del Regno di Sardegna incarica Gabriele Camozzi di mettersi a capo di una colonna di 150 Lombardi emigrati per penetrare in Lombardia e suscitare l’insurrezione nelle città pedemontane. Camozzi entra in città da Longuelo e trova la popolazione già in armi che assedia gli austriaci asserragliati in Rocca. Regge la città per cinque giorni, poi si dirige verso Brescia. Alla “Leonessa d’ Italia” che combatte contro gli austriaci giunge in soccorso la colonna Camozzi composta da circa 800 giovani, suddivisi in 4 compagnie comandate da Carlo Crivelli, Ecoliano Bentivoglio, Agostino Locatelli, Eugenio Pezzoli. Non riescono a entrare nella città, che, stremata dalla lotta, aveva appena capitolato e devono ritirarsi, ma di notte gli austriaci li sorprendono a Ospitaletto. Sconfiggono il nemico dopo un accanito combattimento, 35 sono i caduti e 11, fatti prigionieri, vengono fucilati la mattina seguente nel fossato del Castello. Garibaldi, in una lettera inviata alla città di Brescia il 15 aprile 1860 così ricordava l’impresa di Gabriele Camozzi. “Una sola voce rispose dalla montagna al maschio grido dei patrioti bresciani! Camozzi, modesto come una vergine, ma con l’animo di un Camillo, faceva risuonare le valli bergamasche dal tonante suono del dovere e della solidarietà Nazionale e muoveva con un pugno di bravi montanari al soccorso di Brescia!”. La repressione è durissima. Tra il 1848 e il 1851 vengono emesse 18 sentenze di morte, eseguite con fucilazione alla Rocca e in S. Agostino e con impiccagione sulla spianata della Fara. Gabriele Camozzi, condannato a morte in contumacia, e a cui vengono confiscati gli averi, si rifugia a Lugano e, a partire dal 1850, a Genova nella villa dello Zerbino. Nelle prime elezioni dopo la liberazione della Lombardia, sarà eletto deputato al Parlamento Subalpino, dove 18

nell’aprile del 1860, con grande dispiacere del Generale, voterà per la cessione di Nizza alla Francia. Altri bergamaschi parteciperanno all’eroica difesa della Repubblica Romana (Francesco Nullo, Enrico Dall’Ovo, Coloandro Baroni, Lorenzo Balicco, Felice Airoldi, Bettino Grassi, Antonio David, Egidio Locatelli, Annibale Lombardini) e della Repubblica di Venezia (Michele Caffi, Angelo Milesi e Pietro Paleocapa che rivestì anche la carica di Ministro). Francesco Nullo seguirà Garibaldi anche nella ritirata e verrà incaricato dal Generale di trattare con i capitani della Repubblica di S. Marino la temporanea ospitalità per lui e i suoi uomini, braccati da ben quattro eserciti: francese, austriaco, borbonico e spagnolo. Gli sarà vicino anche nel tentativo di imbarcarsi per prestare soccorso alla Repubblica di Venezia, che ancora resisteva all’assedio austriaco, e nel doloroso frangente della morte di Anita. Poi, dovrà separarsi dal suo Generale e fortunosamente, riparerà a Genova dove si fermerà alcuni giorni nella vana speranza di rivedere Garibaldi. Nel lungo periodo dell’esilio genovese, la casa di Giovan Battista e Gabriele Camozzi ad Albaro divenne un luogo di rifugio e di generosa ospitalità per i tanti patrioti che si trovavano in esilio. Medici, Cosenz, Bertani, Bixio e tanti altri abitarono per periodi più o meno lunghi allo Zerbino. Anche la compagna, Enrichetta di Lorenzo e la figlia in tenera età di Carlo Pisacane furono ospiti per molti mesi dei Camozzi dopo la fallita spedizione di Sapri e la morte dell’eroe, nel 1857. Garibaldi, tornato da Tangeri nella primavera del 1850 e in partenza per l’America, si ritrovava in gravi difficoltà economiche. Fu allora che alcuni amici, tra cui i Camozzi, per aiutare il Generale, costituirono una società per azioni e acquistarono una nave mercantile, la Carmen, il cui comando fu affidato a Garibaldi che potette così riprendere il suo antico mestiere e tornare a navigare sulle rotte mediterranee e da Genova a New York. L’intrapresa purtroppo non andò bene e i Camozzi ci rimisero la loro parte di capitale. Ma Garibaldi non dimenticò mai questo atto di generosità e chiamerà sempre Gabriele “Mio fratello d’armi” e “protettore mio nella sventura”. Mentre si trovava in Egitto per affari, il 4 dicembre 1858 giunse a Gabriele Camozzi una missiva di Garibaldi che lo richiamava in patria: “Rallegrati: noi pugneremo questa primavera coi nemici del nostro paese. A te giovane veterano della Libertà italiana, toccherà certamente una parte brillante. Preparati, dunque, e fa preparare i numerosi tuoi aderenti. Si propaghi con certezza la voce di guerra, senza parlare del come per ora; ma t’assicuro che l’Italia si presenterà questa volta con l’imponenza degna dei tempi di Roma”. Camozzi rientrò subito, lasciando all’amico e socio Giuseppe Gamba la cura dei suoi affari e, appena sbarcato, rispondeva da Genova a Garibaldi con una lettera del 9 dicembre nella quale manifestava tutta la sua perplessità nei confronti di una guerra che, se fosse stata condotta come nel 1848-49, non avrebbe portato che a ulteriori disastri. Ma Garibaldi, recandosi allo Zerbino pochi giorni dopo, rassicurava Gabriele. Questa volta sarebbe stato diverso e anche i volontari sarebbero stati inquadrati nella strategia complessiva della campagna prevista per la prossima primavera. A quelle notizie, l’entusiasmo dei patrioti e degli esuli era altissimo in quella fine del 1858 e proprio la notte di capodanno nella villa Camozzi venne suonato per la prima volta l’inno di Garibaldi da Luigi Mercantini, il suo autore. E ancora: nel 1859 Bergamo, all’inizio delle operazioni belliche, dà circa 300 uomini al corpo volontario dei “Cacciatori delle Alpi” guidato da Garibaldi, che sbaraglierà gli austriaci e libererà definitivamente la Lombardia pedemontana dall’occupazione straniera. Molti altri saranno arruolati nell’esercito piemontese. Con il grado di tenente portabandiera del 1° Reggimento Cosenz troviamo Gabriele Camozzi, che verrà anche nominato Commissario Governativo da Emilio Visconti Venosta, e, in virtù del suo duplice ruolo, occuperà prima Como e poi Lecco, 19


per attestarsi ad Almenno S. Salvatore. Di lì invierà Francesco Nullo e Antonio Curò, travestiti da contadini, in città il 7 giugno 1859, per preparare l’arrivo di Garibaldi, che entrerà, l’8 successivo, da porta San Lorenzo, poi ribattezza porta Garibaldi, in Bergamo senza trovare resistenza da parte delle truppe austriache, che nella notte avevano lasciato la città e si erano dirette verso Brescia. Altre due colonne entreranno per porta S. Caterina e porta Cologno. La prima bandiera tricolore appare da una finestra sopra il Caffè centrale del Sentierone. Il Generale, accolto da una folla enorme che gli tributerà ogni onore, si intratterrà con semplicità con i cittadini festanti suscitando il più grande entusiasmo. A Seriate, un migliaio di austriaci vengono messi in fuga dai Cacciatori (una settantina) guidati da Narciso Bronzetti. Nello scontro muoiono Decò e Cannetta, due studenti milanesi. Bronzetti è promosso maggiore. Cadrà tre giorni dopo nello scontro di Rezzato. In tre giorni Camozzi, nominato maggiore da Garibaldi per gli alti servigi resi, e Federico Alborghetti arruolano altri mille volontari. Il 12 febbraio 1860 viene eletto primo sindaco di Bergamo libera Giovan Battista Camozzi, fratello di Gabriele. E già nella primavera di quell’anno si diffonde la voce che Garibaldi stia preparando una spedizione di volontari per sostenere i patrioti siciliani insorti contro il regime borbonico. Gli arruolamenti a Bergamo iniziano dopo il 20 aprile a cura di Francesco Nullo e Francesco Cucchi presso il Teatrino dei Filodrammatici di via Borfuro, nel cuore del Borgo S. Leonardo. Nonostante i volontari scelti siano 180, dopo un’accurata selezione che privilegiava chi aveva già combattuto nelle campagne del ’48-49 e del ’59, la sera del 3 maggio, alla stazione ferroviaria di Bergamo si presentarono in 300. Nuova selezione, una volta arrivati a Milano e ordine di tornarsene a casa a tutti coloro che non avevano i requisiti richiesti. I volontari sono per il 60% giovani in età compresa tra i 18-22 anni, di provenienza soprattutto cittadina e di professione operai di mestiere. Numerosi anche gli studenti, liceali e universitari, e gli appartenenti alle categorie professionali, come insegnanti, medici e avvocati. I più giovani: Adolfo Biffi di Caprino Bergamasco, 13 anni (cadrà nel primo scontro a Calatafimi) e Guido Sylva, di 15 anni; il più pittoresco: Daniele Piccinini, di Pradalunga, abbigliato in foggia piratesca e veterano del ’48 e del ’59. I bergamaschi sono i più numerosi rispetto a tutte le altre provenienze e si imbarcano, la notte tra il 5 e il 6 maggio, in prevalenza sul “Piemonte”. Il 7 maggio i due vapori della società Rubattino fanno scalo a Talamone per rifornirsi di armi. Nella sosta si distribuiscono i fucili e le camicie rosse, tinte a Gandino, la maggior parte dalla famiglia Fiori, già indossate dalla Legione garibaldina in Uruguay. I bergamaschi vengono riorganizzati e formano l’VIII Compagnia, al comando del pavese Angelo Bassini, detta poi, per il coraggio dimostrato in battaglia, “di ferro”. Francesco Nullo non ne fa parte, essendo stato assegnato al corpo delle “guide” col grado di capitano. È in tale veste che entra per primo a Palermo sul suo cavallo, saltando la barricata di porta Termini e trascinandosi dietro i suoi uomini tra cui molti dei bergamaschi. Garibaldi lo promuove maggiore (finirà la campagna con il grado di tenente colonnello) e lo rispedisce a Bergamo per arruolare altri volontari. Nullo torna in città agli inizi di luglio e dispone, con il conte Albani, nuovi arruolamenti (circa trecento). Saranno poi un migliaio, con le spedizioni successive, i volontari venuti da Bergamo, a ingrossare le file dell’esercito garibaldino fino alla decisiva battaglia del Volturno. Francesco Nullo sarà ancora protagonista di episodi di sicuro valore e coraggio. Sbarcherà tra i primi in Calabria portandosi dietro parte delle armate nemiche per consentire, così, il più agevole sbarco di Garibaldi con il grosso dell’esercito, e verrà inviato, al comando di una colonna di volontari meridionali, a Isernia per reprimere una rivolta di contadini armati e diretti da ufficiali borbonici. La spedizione non avrà il risultato sperato, ma Nullo si comporterà da valoroso e riceverà da Garibaldi l’encomio come se fosse tornato vittorioso. Il Consiglio Comunale di Bergamo decreta, 24 maggio 1860, di istituire un libro d’onore in cui annotare tutti i nomi dei volontari e destinare una somma di denaro alle famiglie che si erano private di un sostegno di lavoro. 20

Il 19 marzo 1861, su la Gazzetta di Bergamo, apparivano queste parole: “Ieri a mezzogiorno il cannone, tuonando dalle mura di S. Giacomo, avvisava i cittadini bergamaschi, che l’amatissimo monarca Vittorio Emanuele venne proclamato Re d’Italia…l’Italia novella eroina, si asside al banchetto delle Nazioni. Ella ha rotto i suoi ceppi e vestita di regio paludamento si mostra ai popoli d’Europa e dice: riconoscete la mia indipendenza, io vi darò in contraccambio l’ordine e la pace, vi comunicherò il patrimonio delle mie scienze, delle mie lettere, delle mie arti. No, non si riderà più al nome d’Italia, ma si tacerà riverenti o si tremerà…”. Dal 1 al 26 maggio 1862 Garibaldi è alle Terme di Trescore Balneario per curare i reumatismi. L’8 maggio alcuni studenti del liceo di Bergamo gli fanno visita. Francesco Nullo e G. Battista Cattabene, in accordo con il generale, iniziano gli arruolamenti per una nuova spedizione che attui un piano mazziniano di sollevazione del Trentino. I registri degli arruolamenti dei volontari erano tenuti presso il caffè Carini in Contrada Broseta. Il 13 maggio il Cattabene viene arrestato. Vengono scoperti i documenti che descrivono i piani d’azione e le Prefetture di Bergamo e di Brescia intervengono con la forza a bloccare i volontari e i capi del movimento. Il 14 maggio Francesco Nullo è arrestato e incarcerato. Intanto, studenti e patrioti chiedono la liberazione dei detenuti. L’esercito interviene e vengono arrestati altri volontari e dimostranti a Sarnico e Alzano, in numero di 132, che vengono trasferiti alla cittadella di Alessandria. Garibaldi protesta e ottiene la liberazione di Nullo e di altri volontari. Di lì a pochi mesi Francesco Nullo, con Francesco Cucchi e Daniele Piccinini, sarà ancora una volta al fianco di Garibaldi nella spedizione dell’Aspromonte. Sarà uno dei primi a soccorrere il Generale ferito, a ricoverarlo all’ombra di un albero e a mettergli a fianco il figlio Menotti anch’esso leggermente ferito. Lo accompagnerà anche nella dolorosa discesa fino a Scilla, cercando in tutti i modi di alleviargli la sofferenza. Qui, con pochissimi altri, avrà il permesso di salire a bordo della pirofregata Duca di Genova, che condurrà Garibaldi a La Spezia. Di nuovo incarcerato, questa volta nel Forte di Fenestrelle, verrà rimesso in libertà qualche tempo dopo a seguito di un’amnistia. Da Caprera, dove il Generale si trova in volontario esilio dopo i fatti di Aspromonte, giunge un proclama: “Non lasciate sola la Polonia!” I patrioti polacchi, già compagni d’arme dei garibaldini nella difesa della Repubblica Romana e nella spedizione di Mille, sono insorti contro la Russia che occupa parte del territorio polacco. Francesco Nullo risponde all’invito di Garibaldi e organizza una spedizione di volontari italiani (ventidue, di cui sedici bergamaschi) oltre a otto francesi e tre polacchi esiliati, che parte in soccorso degli insorti, animata dallo “spirito di fratellanza” tra i popoli nell’ambito di un più vasto programma democratico europeo. Finanziatore dell’impresa, oltre che partecipe, è il bergamasco Luigi Caroli. I volontari partono a piccoli gruppi, per non destare sospetti, con il treno per Vienna e da lì a Cracovia, epicentro della rivolta, il 19 aprile 1863. Qui Nullo organizza la sua legione - circa cinquecento uomini con l’apporto di altri volontari polacchi, armati e finanziati dal giovane patriota Miniewski e con il grado di colonnello ne assume il comando. La legione si scontra con i russi nella periferia di Cracovia, a Olkutz, e nello scontro armato l’eroe garibaldino cade sul campo di battaglia. È il 5 maggio 1863. La legione si sfalda. Parte dei combattenti riesce a fuggire attraverso il vicino confine austriaco. Altri sono presi prigionieri dai russi. Luigi Caroli, Febo Arcangeli, Ambrogio Gipponi e Alessandro Venanzio sono deportati in Siberia. Caroli morirà nella terribile prigionia. Gli altri riusciranno a tornare a Bergamo nel 1866, a seguito di un’amnistia. Garibaldi con una lettera da Caprera il 27 maggio 1863, diretta alla madre, così ricorderà il sacrificio di Nullo: “Egli è caduto da valoroso per una causa santa - e quando gli uomini capiranno - tutta l’altezza del sacrificio del vostro Francesco - oh allora l’Umanità potrà decantare senza sacrilegio - Libertà, Virtù, Eroismo. Sono con tutto l’affetto dell’anima mia Vostro G. Garibaldi”. 21


Palermo insorge contro il “governo piemontese” il 16 settembre 1866. Gabriele Camozzi, nominato generale della Guardia Nazionale, viene spedito in Sicilia per riorganizzare la Guardia Nazionale di Palermo e reprimere la rivolta. Rischierà di essere ucciso dai rivoltosi e si salverà solo per il coraggio suo e dei suoi uomini, segnatamente di Giuseppe Gamba suo luogotenente. Nelle parole che scrive a sua moglie, Alba Coralli, vi è tutta l’amarezza del presente e la consapevolezza di combattere contro il popolo italiano al cui riscatto aveva dedicato l’esistenza:” Comincio questa mia due giorni dopo aver lasciato il Municipio dopo due giorni di combattimento e solo quando eravamo senza pane, senz’acqua e senza munizioni! Credo di non aver mancato al mio dovere, ma è un dovere troppo crudele quello di dover far fuoco sopra individui italiani…”. A Palermo Camozzi tornerà altre due volte nel 1867 e nel 1868 sempre con il grado di Generale e con il compito di portare a compimento la riorganizzazione della Guardia Nazionale di quella provincia. Ma il 1866 è anche l’anno della terza guerra di indipendenza. I patrioti bergamaschi accorreranno ancora una volta ad arruolarsi nel Corpo dei Volontari Italiani sotto il comando di Garibaldi. Lo faranno soprattutto per la devozione che nutrono per il loro Generale, dimentichi, ma non troppo, delle disillusioni patite, in particolare per i fatti dell’Aspromonte. Sintomatico il comportamento di Daniele Piccinini, uno dei più valorosi. Si arruolerà, ma rinuncerà ostentatamente ai gradi di capitano che si era conquistato nella spedizione dei Mille. Il 17 giugno 1866 Garibaldi è a Bergamo e, accompagnato da Francesco Cucchi, vede sfilare sul Campo di Marte due battaglioni di volontari al comando dei maggiori Mosto e Castellini. Sul campo di battaglia Francesco Cucchi si guadagnerà la medaglia d’argento al valore e suo fratello Luigi, quella di bronzo. Nel 1867 Francesco Cucchi viene inviato da Garibaldi, che gode in quel momento della massima popolarità, essendo l’unico generale italiano vittorioso nella guerra del 1866, a Roma per provocare l’insurrezione della città e aprire così la strada alla spedizione guidata dal Generale. Cucchi con alcuni ardimentosi tenta l’assalto al Campidoglio che non riesce. Nel tentativo insurrezionale cadono i fratelli Cairoli a Villa Glori. Nel contempo Garibaldi, in difficoltà per la mancata rivolta della Città Eterna, sconfigge i papalini a Monterotondo, ma viene battuto a Mentana, anche grazie ai nuovi fucili “chassepot” a retrocarica e a lunga gittata, in dotazione al corpo di spedizione francese. Il tentativo fallisce e Cucchi riesce a sfuggire all’arresto. Il coraggio e l’abnegazione dimostrati sui campi di battaglia porteranno alcuni dei più significativi rappresentanti del Risorgimento bergamasco e del volontarismo garibaldino nelle aule parlamentari. Gabriele Camozzi, che già era stato deputato subalpino, approdato alla scelta monarchica e cavouriana nel decennio di preparazione, dopo il periodo repubblicano e mazziniano del ’48-’49, siederà sui banchi della Destra Storica dalla VII (1862) alla IX Legislatura, sempre eletto nel Collegio di Trescore Balneario, distaccandosene di nuovo nel suo ultimo mandato (X legislatura, 1867-1869) in polemica con il Ministero per i fatti di Mentana, dove aveva appoggiato il tentativo di Garibaldi, per il mancato rimborso da parte dello Stato italiano delle spese da lui sostenute nelle campagne del ’48 e del ’49, nonché per l’incapacità del Governo ad affrontare le gravi tensioni sociali avvenute nelle province meridionali se non con provvedimenti di ordine pubblico. La sua vita, era nato nel 1823, terminerà presto. Nella notte tra il 16 e il 17 aprile 1869 morirà nel suo letto nella villa di Dalmine per una febbre tifoidea. Ricevuta la dolorosa notizia, Garibaldi scrisse il 27 aprile da Caprera al fratello Giovan Battista Camozzi: “Ho sempre amato il vostro Gabrio e come voi ne sento la perdita. L’Italia ha perduto in lui uno dei più forti campioni del Risorgimento”.

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Vittore Tasca, maggiore garibaldino e comandante della Guardia Nazionale di Bergamo, sarà in Parlamento per le legislature XI (1870-74), XIII (1876-1880), XVI (1886-1890), XVII (1890-1892) tra i deputati della Sinistra. Così come Luigi Cucchi, fratello di Francesco, che rappresenterà il Collegio di Zogno e successivamente quello di Bergamo tra il 1876 e il 1897. Francesco Cucchi, eletto nel Collegio di Zogno nelle elezioni del 1867 e del 1870, siederà sui banchi della sinistra dal 1876 al 1892 in rappresentanza del Collegio di Sondrio. Un cenno a parte merita Giovan Battista Camozzi che nominato senatore nel 1861, farà eleggere nel Collegio di Bergamo Silvio Spaventa, rimasto privo del seggio parlamentare nel suo Collegio di Vasto, per le oblique manovre del barone Nicotera, Ministro dell’Interno con l’avvento della Sinistra storica al potere. Molto importante è la figura di Francesco Cucchi, che abbiamo sopra ricordato. Egli sarà incaricato da Garibaldi, di cui era ascoltato consigliere politico, nell’agosto del 1861, e poi ancora nel ’64, con il probabile accordo di Vittorio Emanuele II, di delicate missioni diplomatiche nei Balcani per studiare e verificare le possibilità di una sollevazione di quelle popolazioni contro l’Austria in vista di un’azione congiunta di patrioti italiani, ungheresi, serbi, croati e greci avente lo scopo, per parte italiana, della liberazione delle Venezie. Nel 1870, durante la guerra franco-prussiana, verrà inviato in missione presso Garibaldi che era accorso a difendere la Repubblica Francese con un corpo di volontari. E più tardi, dopo l’avvento della Sinistra al potere, da Francesco Crispi presso il Cancelliere Bismark per rinsaldare i rapporti tra l’Italia e l’impero germanico. La partecipazione di Bergamo al Risorgimento è stata soprattutto la storia di alcune migliaia di giovani appartenenti a quel popolo di operai, artigiani, studenti, insegnanti, professionisti, che spinti dall’amore per la libertà e l’unità della patria italiana, non hanno esitato a rischiare la propria vita, spesso ancora acerba, per il grande ideale che li animava. L’età romantica è stata un’epoca di forti passioni, difficile, a volte, da capire nel nostro tempo così segnato dalla sola dimensione dell’“homo oeconomicus”. Ma così è stato e fino a un certo punto reggono le analisi fondate prevalentemente sull’interesse all’allargamento dei mercati che avrebbe mosso la borghesia, in specie lombarda, al compimento del disegno unitario. I figli del popolo bergamasco accorsero generosamente al richiamo di Garibaldi con il quale stabilirono un rapporto speciale fin da primo incontro nel luglio del 1848. La figura dell’Eroe dei Due Mondi corrispondeva all’ideale di una gioventù, nata tra gli anni venti e quaranta dell’Ottocento, fortemente segnata dagli ideali mazziniani, repubblicani e unitari, che avevano avuto il loro massimo sviluppo nelle vicende del ’48-49. I patrioti bergamaschi si erano identificati in Garibaldi anche perché nel loro Generale ritrovavano appieno le virtù della gente in cui si riconoscevano. L’audacia, il preferire l’azione alla parola, l’assenza di ogni sotterfugio politico, l’essere popolo. Questo legame non sarebbe mai più cessato, al punto che ancora oggi i discendenti di quei volontari, a distanza di tanti anni trascorsi, si fanno giusto vanto dell’appartenenza a una stirpe che suscita sempre la nostra gratitudine e il nostro rispetto. Essi hanno scritto una pagina, tra le non molte della nostra recente storia, di cui non ci dobbiamo vergognare. 17 marzo: Cerimonia Istituzionale di celebrazione dell’Unità d’Italia Le celebrazioni del 17 marzo in Rocca, alla presenza delle autorità, con concerto della Fanfara Città dei Mille, intervento delle Autorità presenti, visita guidata al Museo Storico di Bergamo con introduzione a cura di Carlo Salvioni, hanno visto la partecipazione e la visita al nostro museo presso la Rocca di 2700 persone; alla cerimonia hanno preso parte anche una rappresentanza degli Alpini della Sezione di Bergamo e dell’Associazione Bergamaschi nel Mondo.

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19 dicembre 2011 - Consiglio Provinciale di Bergamo

150 ANNI DI UNITÀ NAZIONALE. Carlo Salvioni

Signor Presidente, signori consiglieri, si concludono in questa forma ufficiale le manifestazioni di ricordo dei centocinquant’anni dell’Unità Nazionale, che si erano aperte nella nostra città il 2 febbraio scorso con la visita del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Oltre duecento tra incontri, dibattiti, convegni, lezioni, rappresentazioni teatrali e proiezioni cinematografiche, concerti musicali ed esecuzioni operistiche, mostre d’arte, di storia, esposizioni di documenti, carte, dipinti e oggetti, trasmissioni radiofoniche, televisive e sul web, che hanno coinvolto gli enti locali, le istituzioni e le agenzie culturali, le associazioni politiche, economiche e sociali e soprattutto tanti, tanti, uomini e donne della nostra città e della nostra provincia. Un successo di partecipazione che pochi all’inizio di quest’anno si sarebbero aspettati. Considerando che quanto avvenuto qui si è verificato quasi ovunque nel nostro paese, possiamo pensare che ne sarà stato contento il Presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi che tanto impegno profuse negli anni del suo mandato perché gli italiani recuperassero il senso di appartenenza a una vicenda di riscatto politico e di conquista della propria unità nella libertà, non disprezzabile, né banale. Si è proprio trattato di un recupero, dato che negli anni del secondo dopoguerra, il concetto stesso di Patria fu in larga misura accantonato, sia per l’uso insopportabilmente nazionalista che ne aveva fatto il fascismo, sia perché i due principali partiti di quel periodo, la DC e il PCI, erano portatori di una visione sovranazionale dell’azione politica. Invece in questi mesi si è assistito a un ritorno di attenzione per le vicende risorgimentali, seppure variamente interpretate. Qualcuno ha voluto leggere tale rinato entusiasmo in chiave “identitaria”. Di fronte a una virata della storia verso la globalizzazione, la società multiculturale e multirazziale e alla risposta, spesso data, in forma di neonazionalismo su scala regionale, l’appartenenza a una società più vasta, fondata su territorio, sangue, lingua, cultura, tradizione e storia comuni, poteva apparire più rassicurante e veritiera. Di qui la rinnovata attenzione

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per la vicenda di una nazione, in cui erano sedimentati frammenti di un discorso pregresso (insegnamento scolastico, legge di cittadinanza, retorica sportiva) e nella quale ci si poteva riconoscere anche al di fuori di olimpiadi, campionati del mondo e altre manifestazioni consimili. Certo, se l’identità ci aiuta a ritrovare le ragioni della nostra storia, essa è, tuttavia, una delle questioni irrisolte del processo di unità nazionale. O meglio, la sua definizione nei termini che abbiamo ricordato “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” appare oggi quantomeno insufficiente a comprendere e di conseguenza ad affrontare i problemi della società italiana, in rapporto anche alla sua appartenenza all’Europa, nel secondo decennio del XXI secolo. Si pensi solo al fenomeno, non solo italiano, delle immigrazioni che ha così segnato la vicenda di questi ultimi vent’anni. Problema complesso, non affrontabile con terapie della negazione o della rimozione, ma con la difficile seppur necessaria applicazione del dettato costituzionale che configura una società dove i diritti civili e sociali hanno una valenza universale. Che non prevede inclusioni annessionistiche, ma, senza rinunzia alla propria storia e alla propria cultura, rispetto per i diversi. Che alla lex sanguinis, che esclude, può affiancare la lex soli, che include e protegge. Che alle derive del nazionalismo oppone il rifiuto di ogni aggressione bellica e la delega di sovranità a enti sovranazionali. Ripercorriamo, però, seppure a rapide tappe, questo cammino unitario con una particolare attenzione alle vicende del nostro territorio. Nel 1848 Bergamo insorge contro gli austriaci. Sono gli stessi giorni di Milano, dal 18 al 22 marzo. La guarnigione militare che occupa la città, forte di 1.600 uomini, viene bloccata dai cittadini in armi della guardia civica nazionale nelle caserme e viene così impedito agli imperiali di raggiungere Milano, dove il maresciallo Radezky li aveva chiamati per reprimere il moto rivoluzionario. Solo dopo sanguinosi scontri armati e lunghe trattative, agli austriaci il 22 marzo viene concesso di uscire da Bergamo, ma con direzione Brescia- Verona. Intanto una colonna di patrioti bergamaschi, guidata da Bonorandi e Nullo, raggiunge Milano dove contribuisce alla conquista di Porta Tosa. Nel luglio del 1848 saranno a Bergamo alcuni dei protagonisti del Risorgimento: Mazzini, che invita alla guerra di popolo, Cattaneo e Garibaldi, venuto per arruolare volontari. In tale occasione il generale darà inizio a quel rapporto di stima e di fiducia con la meglio gioventù bergamasca, che durerà per tutti gli anni a venire. Con la ripresa della guerra, nel marzo 1849, Gabriele Camozzi, su incarico del governo piemontese, guiderà una colonna di circa novecento volontari lombardi per liberare le città pedemontane e soccorrere Brescia che eroicamente resisteva agli austriaci. L’impresa non riuscirà per la sconfitta di Novara e tanti patrioti dovranno rifugiarsi in Svizzera e in Piemonte. Cinquant’anni dopo, nel 1898, il re Umberto I conferirà alla città di Bergamo la medaglia d’oro per il valore dimostrato dai suoi figli in quel biennio 1848-49. Nella seconda guerra di indipendenza molti bergamaschi, circa trecento, si arruoleranno nei Cacciatori delle Alpi con Garibaldi e almeno altrettanti nell’esercito regolare piemontese. Altri mille, in soli tre giorni di arruolamenti, dopo la liberazione di Bergamo, avvenuta l’8 giugno del 1859, si uniranno alle truppe garibaldine per la parte conclusiva della campagna.

ne andarono, con la prima spedizione, diciassette dalla penultima classe, ma si calcola che furono circa una quarantina quelli che partirono con le spedizioni successive. I bergamaschi costituirono l’VIII Compagnia, detta “de fer” per il valore dimostrato nella battaglia di Calatafimi. Ai 180 della prima spedizione molti altri si aggiunsero durante il prosieguo della campagna, così che si stima che sul Volturno, in un esercito che contava cinquantamila volontari, almeno mille provenissero da Bergamo e provincia. Uno dei più valorosi garibaldini, Francesco Nullo, sarà protagonista della spedizione in Polonia del 1863. Aveva risposto all’appello di Garibaldi di non lasciare sola la Polonia insorta contro la dominazione russa. Alla testa di un migliaio di uomini, che costituivano la Legione straniera, formata da patrioti italiani, francesi, polacchi fuoriusciti e altri provenienti da vari paesi d’Europa, Nullo cadde in combattimento il 5 maggio 1863 nelle vicinanze di Cracovia. La sua presenza e quella dei suoi compagni bergamaschi e italiani ci ricorda come il Risorgimento non fu solo un fatto italiano ma si legò all’idea di un’internazionale di popoli oppressi che reclamavano la propria unità e libertà nel rispetto e nel concerto con le altre nazioni d’Europa. La spedizione in Sicilia entrò nella storia d’Italia e d’Europa come un evento unico e straordinario. L’avervi partecipato sarà titolo di merito per tutta la vita. I patrioti bergamaschi si erano identificati in Garibaldi anche perché nel loro generale ritrovavano appieno le virtù in cui si riconoscevano. L’audacia, il preferire l’azione alla parola, l’assenza di ogni sotterfugio politico, l’essere popolo. Questo legame non sarebbe più cessato, al punto che ancora oggi i discendenti di quei volontari, a distanza dei tanti anni trascorsi, si fanno giusto vanto dell’appartenenza a una stirpe che suscita sempre la nostra gratitudine e il nostro rispetto. Essi hanno scritto una pagina, tra le non molte della nostra recente storia, di cui non ci dobbiamo vergognare.

Ma il nome di Bergamo nel Risorgimento è indissolubilmente legato alla spedizione dei Mille. Almeno 180, il numero maggiore per una sola provincia, furono i volontari venuti dal nostro territorio. Dalla città e dai paesi, giovani, l’età media tra i venti e ventidue anni, il più giovane Adolfo Biffi di non ancora quattordici anni, da Caprino Bergamasco, il più eccentrico Daniele Piccinini, da Pradalunga, veterano del 48 e del 59. Nelle professioni prevalevano gli operai di mestiere. Molti erano anche gli studenti medi e universitari. Dal liceo ginnasio della città se 26

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CONFERENZE E INCONTRI

CONFERENZE E INCONTRI


GLI ASPETTI DIPLOMATICI DELLA SPEDIZIONE DEI MILLE Carlo Salvioni

Il 1860 non era cominciato bene per il Generale Garibaldi. Dopo la felice campagna del 1859 che aveva portato i suoi Cacciatori delle Alpi a liberare tutta la Lombardia pedemontana e a dirigersi verso Trento con gli austriaci in fuga, fermati solo dall’armistizio di Villafranca, l’anno seguente gli aveva riservato due grandi dolori: uno privato e uno pubblico. Durante la guerra del ‘59 aveva conosciuto nella villa del patriota marchese Giorgio Raimondi, situata a Fino, nei pressi di Como, la figlia Giuseppina che aveva fatto da staffetta in quella campagna. Il Generale se ne era invaghito subito, ma la ragazza aveva mostrato di non gradire particolarmente le sue avances. Però, alcuni mesi dopo, aveva ricevuto da lei una lettera in cui gli dichiarava il suo amore e la sua disponibilità a incontrarlo di nuovo. Garibaldi non aveva indugiato e dopo un soggiorno nella dimora paterna, protrattosi per un lieve incidente che aveva patito, il 24 gennaio del 1860 se l’era sposata. Mentre usciva, al braccio della consorte, dalla cappella della villa Raimondi, dove si era svolta la cerimonia, veniva furtivamente avvicinato da un uomo che gli consegnava un biglietto. Vi era scritto che la sposa era incinta, ma che il padre era un altro. Garibaldi era visibilmente arrossito per la collera, si era svincolato dal braccio della Raimondi ed era entrato nella villa per chiedere al marchese e alla figlia conto e ragione di quella notizia. C’era stato un vivace confronto a tre durante il quale la marchesina aveva confessato la sua “colpa”. Il Generale se ne era allora andato via, su tutte le furie. Il padre del nascituro (in realtà una bimba che vivrà poco) era un brillante ufficiale del Saluzzo Cavalleria. Il nostro concittadino Luigi Caròli, che morirà in Siberia, cinque anni più tardi, prigioniero dei Russi, dopo la sfortunata spedizione in Polonia di Francesco Nullo, di cui era finanziatore e partecipe. Il matrimonio tra Garibaldi e la Raimondi verrà annullato, molti anni dopo, dalla Cassazione romana (o dalla Corte d’Appello) - gli storici non sono precisi al proposito - per una felice intuizione del grande giurista Pasquale Stanislao Mancini che ritenne applicabile alla fattispecie il codice austriaco, allora ancora vigente nelle province lombarde liberate, che prevedeva la nullità del matrimonio “rato e non consumato”. La seconda cocente delusione del Generale era stata la cessione della sua città natale, Nizza, alla Francia per compensare Napoleone III delle annessioni al Piemonte delle Legazioni di Bologna

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e delle Romagne, dei ducati di Parma, di Modena e della Toscana, avvenute in quei mesi con i plebisciti. Garibaldi aveva tenuto un forte discorso al Parlamento Subalpino, di cui era deputato, contro quell’accordo, ma senza successo, perché a stragrande maggioranza si era votato per la cessione, oltre che di Nizza anche della Savoia, seguendo le indicazioni di Cavour. Si trovava, quindi, in questo stato d’animo piuttosto depresso, quando due esuli siciliani, Rosolino Pilo e Francesco Crispi, gli avevano chiesto di guidare una spedizione in Sicilia, dov’era in corso una rivolta contro il re Borbone e liberarla dal giogo dell’oppressione per riunirla alla patria italiana, la cui unità si stava compiendo proprio in quei giorni. Garibaldi si era portato, così, a Genova, da dove sarebbe dovuta partire la spedizione e dove già stavano confluendo un migliaio di volontari, provenienti da molte parti d’Italia, che avevano invaso le vie della città, a dispetto della segretezza con cui avrebbe dovuto essere organizzata. Erano gli ultimi giorni dell’aprile 1860. Ma le notizie che arrivavano dalla Sicilia non erano rassicuranti. Rosolino Pilo e Giovanni Corrao si trovavano già nell’isola per guidare la rivoluzione, ma la rivolta del convento della Gancia, a Palermo, era purtroppo fallita e i congiurati quasi tutti morti o arrestati, sicché i due patrioti si erano rifugiati sui monti intorno a Palermo dove alimentavano la guerriglia. Garibaldi doveva quindi, in tempi assai brevi, prendere una decisione. O partire, con tutti i gravi rischi che questo comportava, o rispedire tutti a casa in attesa di giorni migliori. Aveva preso alloggio a Villa Spinola, nel quartiere di Quarto e lì teneva le riunioni con il suo stato maggiore, formato da uomini come Nino Bixio, Giovanni Sirtori, Giacomo Medici, Francesco Crispi, Stefano Turr, Agostino Bertani. Il gruppo dirigente garibaldino era diviso. Francesco Crispi e Nino Bixio volevano partire immediatamente. Giovanni Sirtori considerava quella spedizione una follia. Le pressioni di ogni tipo non mancavano (qualcuno aveva persino immaginato una spedizione senza Garibaldi, ipotesi poi rientrata perché impraticabile). Il rappresentante del governo piemontese a Genova, Lodovico Frapolli, aveva manifestato tutta la contrarietà di Cavour all’impresa. La villa era circondata da nugoli di spie che riferivano ai consoli dei vari paesi di stanza a Genova le mosse di Garibaldi. I diplomatici ne curavano, poi, la puntuale trasmissione ai rispettivi governi. Molto attivo era l’agente di Napoli che inviava in continuazione al suo governo dispacci allarmati. Garibaldi, invece, era incerto sul da farsi e, ricevute le ultime notizie dalla Sicilia, che parlavano di cessazione di ogni attività insurrezionale, sembrava aver optato per la rinuncia alla spedizione. D’altra parte il suo piano prevedeva che il successo dell’avventura era strettamente legato al fatto che i suoi volontari dovessero essere accolti come liberatori e aiutati dalla popolazione a sconfiggere le truppe borboniche, bene armate e infinitamente superiori di numero. L’obiettivo era la conquista della Sicilia e dell’intero Regno meridionale per poi puntare su Roma e Venezia, completando così il processo di unità nazionale. Ma senza l’attiva partecipazione delle popolazioni del sud, tutto questo era da considerare impossibile. Il piano di Garibaldi, annunciato dalla presenza dei suoi volontari, era ben noto. E questo metteva in allarme sia Cavour che le cancellerie europee. Garibaldi, però, si accingeva a ritornare a Caprera rinunciando alla spedizione, quando un telegramma, ricevuto da Crispi il 29 aprile e a lui inviato in cifra dall’esule mazziniano Nicola Fabrizi, da Malta, sembrò ribaltare la situazione. Il testo, decifrato dal patriota siciliano (qualcuno sostiene che fosse stato confezionato da lui medesimo) dichiarava che la rivoluzione nell’isola continuava. Questo bastò a Garibaldi. “Dobbiamo soccorrerla”, disse. Si partiva, finalmente. L’imbarco dei volontari avvenne nella notte tra il 5 e il 6 maggio. Furono requisite, con l’accordo del procuratore generale della società Rubattino, Fauché, due navi mercantili a vapore, il Piemonte su cui salirono circa trecento volontari, al comando di Garibaldi e il Lombardo, più grande, ma più lento, che ne trasportava ottocento, al comando di Nino Bixio. Su quest’ultimo furono caricati anche un migliaio di vecchi fucili. Mancavano però le munizioni. Cavour aveva fatto in modo che le moderne carabine Enfield, a retrocarica, acquistate con la sottoscrizione 31


“Un milione di fucili” non fossero consegnate agli emissari di Garibaldi da Massimo d’Azeglio, governatore di Milano, che le custodiva in un deposito. Dopo le dure rimostranze del Generale, La Farina, Presidente della Società Nazionale, col tacito accordo del governo piemontese, aveva fatto in modo che fossero consegnati ai volontari dei vecchi fucili ad avancarica, la cui efficienza era molto ridotta. Le munizioni dovevano essere consegnate durante la navigazione al largo di Punta Chiappa dove incrociava una barca di contrabbandieri che portava il carico. Ma l’incontro non avvenne. Garibaldi, dopo un consulto con i suoi ufficiali, decise allora di fermarsi a Talamone per procurarsi armi, munizioni, acqua e viveri e da lì continuare la spedizione verso la Sicilia. La notizia della partenza dei volontari - subito comunicata - aveva creato allarme e sconcerto nel governo napoletano. Il ministro degli esteri Carafa aveva convocato immediatamente l’ambasciatore del Piemonte, il marchese di Villamarina, per protestare formalmente per il fatto che i vapori erano partiti da un porto del regno di Sardegna e tutto questo non era ammissibile, viste anche le buone relazioni che intercorrevano tra i due stati. Villamarina, secondo le istruzioni ricevute, aveva risposto che il governo piemontese era all’oscuro dell’avvenimento e comunque era contrario alla spedizione. Anche a Torino vi era grande preoccupazione. Cavour, sebbene impegnato in una difficile tornata elettorale, aveva ostacolato in tutti i modi possibili l’azione di Garibaldi, ma non aveva potuto fermarlo per la popolarità di cui godeva il Generale dopo la vittoriosa campagna del ‘59. Inoltre, non solo gli ambienti democratici, ma anche quelli moderati erano favorevoli alla spedizione, senza dimenticare il re che lo appoggiava neanche troppo velatamente. Il Presidente del Consiglio temeva particolarmente la reazione delle diverse potenze europee. Aveva dato ordine all’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, comandante della flotta sarda nel Tirreno, di arrestare Garibaldi qualora le navi dei volontari si fossero avvicinate o avessero attraccato ai porti della Sardegna e comunque di tenere sotto osservazione il naviglio garibaldino senza però intervenire in acque territoriali napoletane per non violare la sovranità di quel paese. Il Regno delle Due Sicilie, il più esteso territorialmente degli stati italiani, era molto isolato sul piano diplomatico. I governi di Francia e di Gran Bretagna avevano ritirato i loro ambasciatori a Napoli, tre anni prima. Le accuse che le opinioni pubbliche dei due paesi muovevano al governo borbonico erano molto gravi. I processi e le condanne dei patrioti liberali napoletani, avevano avuto parecchio risalto sui giornali inglesi e francesi dell’epoca anche per la notorietà di cui godevano a livello europeo alcuni dei condannati, come Luigi Settembrini, Bertrando e Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis, Giovanni Nicotera. In particolare il governo inglese, dopo l’avvicendamento, avvenuto nel 1859 tra i Tories e i Whigs, Primo Ministro era lord Palmerston, Ministro degli Esteri lord Russell, Cancelliere dello Scacchiere Gladstone (autore di una celebre invettiva contro l’assolutismo borbonico), era decisamente ostile al regime poliziesco napoletano, proseguito anche con il nuovo re Francesco II e osservava, a proposito della spedizione garibaldina, una stretta neutralità. La Francia di Napoleone III diffidava del Regno delle Due Sicilie anche se non ne auspicava l’immediata caduta, ma soprattutto temeva per Roma. L’ambasciatore francese aveva consegnato al governo piemontese una nota minacciosa: in particolare essa non avrebbe tollerato una qualsiasi azione che danneggiasse lo stato pontificio. Il Piemonte di Cavour aveva un atteggiamento amichevole e non scartava il progetto di una spartizione provvisoria dell’Italia tra Vittorio Emanuele II e Francesco II, ma nello stesso tempo ospitava e mobilitava gli esuli napoletani e non era stato in grado di fermare Garibaldi. Ostili allo stato borbonico erano gli Stati Uniti d’America. Lungimirante era la previsione che l’ambasciatore di Washington a Torino, John M. Daniel, aveva fatto, scrivendo al suo governo, ai primi di quell’anno 1860: “È ragionevole prevedere che alla fine di quest’anno tutta la penisola sarà unificata sotto il regno di Vittorio Emanuele II dalle Alpi fino alla Sicilia. Venezia seguirà appresso e a Roma il governo del papa sarà ridotto intra muros.” Cauta era stata la reazione dell’Austria, alle prese in quel momento con una nuova rivolta ungherese, che si era limitata a esprimere simpatia al governo napoletano. Dopo la sconfitta di Solferino e l’annessione dell’Italia centrale, la sua influenza politica e militare sulla penisola italiana si era grandemente ridotta. La 32

Prussia, invece, aveva dichiarato che se avesse avuto navi da guerra nelle acque italiane, avrebbe usato la forza per fermare i “filibustieri”. A Napoli non restavano che due alleati. Lo Stato della Chiesa, che tuttavia doveva ricorrere alla protezione francese per garantire la propria sicurezza e la Russia che era grata ai Borboni per la loro neutralità nella guerra di Crimea. Ma nonostante il linguaggio di dura condanna usato nei confronti dei “pirati” garibaldini poteva fare poco o nulla per bloccarne la spedizione. L’allarme era alto, per motivi diversi, soprattutto a Torino e a Napoli. “Da ventiquattr’ore in poi” scriveva la Gazzetta di Torino “le proteste per la spedizione piovono sul nostro governo”. Il Regno delle Due Sicilie aveva mobilitato dodici cannoniere nel Mediterraneo e ne aveva dislocate quattro lungo le coste occidentali dell’Isola, fra Trapani e Mazzara del Vallo, dove era prevedibile lo sbarco. Tuttavia le informazioni di cui beneficiava il governo di Francesco II erano contradditorie, come riferiva il marchese di Villamarina al suo governo. In un primo tempo si pensava che le navi guidate da Garibaldi fossero cinque e solo in seguito che “i pirati” fossero imbarcati su due vapori, come erano stati visti dal golfo di La Spezia. Nonostante l’irritazione, il governo di Napoli era convinto che avrebbe impedito l’invasione e il ministro degli Esteri Carafa, conversando con l’inviato francese barone Anatole Bernier, dichiarava che il re era tranquillo. Gli isolani, a suo parere, erano così “vani e volubili” e così attaccati alle forme monarchiche e allo sfarzo aristocratico che “se il Re avesse attraversato lo stretto e avesse tenuto corte, dando pubblici ricevimenti, la regalità avrebbe subito ritrovato il suo prestigio”, con una benevola influenza sull’animo popolare. E torniamo a Garibaldi, che avevamo lasciato in navigazione diretto a Talamone. Qui egli riusciva, dicendo che agiva in nome del Re - aveva indossato l’uniforme di generale piemontese - a farsi consegnare dal comandante del forte: armi, tra cui anche una vetusta colubrina risalente al XVII secolo, munizioni, in particolare polvere da sparo, acqua, vettovaglie e carbone per alimentare le macchine. Il povero comandante, colonnello Giorgini, pagherà con un processo davanti alla Corte Marziale la sua accondiscendenza. Eviterà la condanna per un vizio di forma, ma il Tribunale Militare Supremo annullerà la sentenza senza tuttavia degradarlo. Solo dopo la vittoriosa campagna garibaldina, sarà definitivamente prosciolto. La sosta a Talamone era anche servita per dare una struttura organizzativa al corpo di spedizione. I volontari furono tutti censiti. Erano 1089, di cui 180 bergamaschi, il gruppo più numeroso. Andavano ad affrontare, male armati e senza nemmeno una divisa (solo trecento circa indossavano la camicia rossa) un esercito di 125 mila uomini e dotato di una marina tra le più forti d’Europa. Furono divisi in otto compagnie di fanteria. I bergamaschi entrarono quasi tutti a formare l’ottava, al comando però di un medico pavese, Angelo Bassini. Francesco Nullo, con il grado di capitano, faceva parte del corpo delle Guide, per il momento non ancora a cavallo. Le prime quattro compagnie formavano il primo battaglione al comando di Nino Bixio, genovese, marinaio, combattente della Repubblica Romana, già mazziniano e ora politicamente moderato. Le seconde quattro: il secondo battaglione, al comando di Giacinto Carini, bell’uomo, alto, biondo, di trentatré anni, esule siciliano. Poi c’erano lo Stato Maggiore, i carabinieri genovesi, gli unici dotati di carabine moderne, al comando del tenente Mosto, l’artiglieria e le guide. Una sessantina d’uomini, al comando di Callimaco Zambianchi, forlivese, già combattente in Uruguay e nella difesa della Repubblica Romana, era stata inviata da Garibaldi all’interno della Stato Pontificio, per simulare una diversione e per alimentare la rivolta anche con il contributo di un centinaio di volontari toscani e livornesi che non avevano fatto a tempo a imbarcarsi coi Mille. La spedizione Zambianchi, anche per colpa del suo comandante, considerato un “incapace arruffone”, non ebbe, però, alcun successo. Il Piemonte e il Lombardo ripresero il mare. Il primo, più leggero e veloce, doveva ogni tanto fermarsi per attendere il secondo, più grande e più lento. A bordo c’era anche una donna, Rosa Montmasson, la moglie savoiarda di Francesco Crispi. Quattordici navi da guerra borboniche e due rimorchiatori 33


erano stati dislocati attorno alla Sicilia per dare la caccia ai “pirati” e anche la marina piemontese incrociava lungo le coste della Sardegna con l’ordine di catturarli. Ma Garibaldi era un marinaio sperimentato e aveva imparato la guerra di corsa negli anni delle battaglie per l’indipendenza del Rio Grande do Sul e poi come comandante della marina uruguaiana nella guerra contro il dittatore argentino Rosas. Fece dunque rotta su Capo Bon in Tunisia per evitare cattivi incontri. All’epoca non c’era il radar e questo, insieme alla sua perizia, aiutava. Di lì risalì verso le isole Egadi e il passaggio delle navi tra Marettimo e Favignana fu segnalato dal telegrafo ottico dell’isola che fu visto mandare segnali luminosi verso Trapani. Il porto di Marsala, dove avevano deciso lo sbarco si vedeva ormai in lontananza con il biancore delle sue case. Era venerdì 11 maggio. Nel porto erano alla fonda due navi inglesi: l’Argus a due - tre miglia da terra e l’Intrepid fra i tre quarti e il miglio. Per un momento Garibaldi aveva temuto che una delle due navi fosse borbonica e aveva dato ordine ai suoi uomini di prepararsi all’abbordaggio. Poi, avvicinandosi e vedendo meglio, l’allarme era rientrato perché anche questa batteva bandiera inglese. Lo sbarco era però minacciato dall’arrivo, ormai prossimo, della pirocorvetta napoletana, Stromboli, dotata di sei cannoni, che, uscita qualche ora prima dal porto di Marsala in perlustrazione ora vi faceva ritorno e che, per andare più veloce, aveva abbandonato il traino della fregata a vela Partenope. La città era sguarnita di difese militari, perché i soldati del generale Letizia erano stati richiamati a Palermo dal principe di Castelcicala, governatore della Sicilia, che temeva uno sbarco garibaldino a Palermo dove erano incorso agitazioni e moti rivoltosi. E gli uomini del generale Landi, mandati a sostituirli, non erano ancora arrivati. Anche a Marsala c’erano stati dei disordini e per questo gli inglesi da Malta avevano mandato i due legni a protezione dei sudditi britannici e delle loro ingenti attività economiche (produzione di vino). I garibaldini si infilarono in questa confusione tattica e strategica delle difese napoletane. Il primo a sbarcare fu il colonnello Turr coi suoi volontari. Intanto la Stromboli, al comando di Guglielmo Acton, si era pericolosamente avvicinata alle navi garibaldine che stavano sbarcando in perfetto ordine uomini, armi e bagagli. Ma non si decideva a sparare, sia per via degli ordini contradditori ricevuti, sia per la presenza dei due legni inglesi e delle proprietà straniere situate nel porto. Solo dopo aver conferito coi comandanti inglesi e rassicurato dalla loro neutralità, si decise a sparare coi suoi sei cannoni, ma tirando basso, per evitare di colpire le proprietà britanniche, sicché i proiettili finirono in mare senza alcun danno per i volontari. Giunsero, nel frattempo, anche le altre due navi borboniche, la Capri, agli ordini di Marino Caracciolo e la grande fregata a vela Partenope, comandata da Francesco Cossovich con i suoi sessanta cannoni. Il tiro cominciò a infittirsi, ma senza causare danni al nemico. L’unica e innocente vittima di quella gloriosa giornata sarà solo un cane, colpito da una bomba scoppiata non lungi dalla porta di accesso alla città, dentro le cui mura anche l’ultimo garibaldino era riuscito a rifugiarsi. Dopo la fondamentale vittoria di Calatafimi, Garibaldi, a seguito di una spericolata manovra compiuta coi suoi volontari sui monti intorno a Palermo, che aveva tratto in inganno il nemico, era piombato sulla capitale. L’opposizione borbonica all’ entrata in città delle truppe garibaldine era stata superata dall’eroismo di Nullo e dei suoi bergamaschi che avevano sfondato le difese napoletane di Porta Termini. Tuttavia, da giorni si combatteva nelle strade di Palermo, casa per casa, barricata per barricata, senza che né gli uni, né gli altri prevalessero in maniera definitiva. I napoletani, forti di ventimila uomini bene armati, al comando del luogotenente Lanza che aveva sostituito il principe di Castelcicala, erano confinati a Pazzo Reale, al Forte di Castellamare e al Palazzo della Finanza. Tenevano però la città sotto il costante tiro dei cannoni di Palazzo Reale e di nove imbarcazioni da guerra i cui proiettili spazzavano via Maqueda e le sue barricate. Garibaldi e i suoi uomini, cui si erano aggiunti i picciotti delle squadre, controllavano quasi tutta la città: il Municipio, le vie centrali, l’accesso al porto, le vie di comunicazione tra città e campagna impedendo i rifornimenti all’esercito napoletano. Anche l’ospedale era nelle mani dei garibaldini. La città era insorta e i rivoltosi avevano costruito barricate quasi ovunque. L’esercito napoletano non poteva curare i feriti ed era a corto di viveri. I garibaldini di munizioni. Fu così che il generale 34

Lanza chiese la mediazione inglese per negoziare una tregua, che Garibaldi accettò prontamente. Il “bandito”, il “pirata”, il “filibustiere” diventava ora nella missiva che il Luogotenente gli aveva diretto per invitarlo alla trattativa, “Sua Eccellenza il Generale Garibaldi”. Nel porto di Palermo, poco prima dell’arrivo delle camicie rosse, erano giunte, al comando dell’ammiraglio George Mundy, vice capo della flotta inglese nel Mediterraneo, che era a bordo dell’Hannibal, l’Amphion, l’Argus e l’Intrepid. Vi erano anche navi austriache, francesi, piemontesi e americane. L’ ordine del governo britannico all’ammiraglio Mundy era stato molto chiaro: “Vostra cura principale sarà offrire ogni assistenza e protezione a sudditi e proprietà britannici”. L’ammiraglio doveva restare strettamente neutrale rispetto ai contendenti, ma riteneva che una tregua delle armi sarebbe sommamente giovata anche al compito di protezione degli interessi britannici che gli era stato affidato. Mise, quindi, a disposizione delle parti l’Hannibal quale sede dell’incontro. A bordo salirono Garibaldi, in divisa da generale piemontese, i generali Letizia e Chretien, inviati di Lanza e i comandanti delle navi francese, piemontese e americana. Il generale Letizia chiese l’esclusione di Garibaldi dalla trattativa, dicendo che egli avrebbe discusso solo con Mundy le condizioni dell’armistizio. Garibaldi avrebbe dovuto, poi, accettarle o respingerle. L’Ammiraglio rifiutò recisamente tale impostazione del negoziato, asserendo che così egli e, di conseguenza, il suo governo sarebbero stati parte della trattativa, mentre gli ordini ricevuti erano quelli della stretta neutralità tra i combattenti. La trattativa, dopo qualche momento di tensione, proseguì direttamente tra Garibaldi e i generali borbonici. Fu raggiunto un accordo per una tregua di tre giorni. Letizia e il colonnello Buonopane si recarono a Napoli per ottenere l’assenso del re e per ulteriori istruzioni. La tregua fu prorogata più di una volta e infine, dal governo di Napoli, fu dato l’ordine alle truppe borboniche di evacuare Palermo, con il riconoscimento, da parte garibaldina, dell’onore delle armi. Il primo giugno il Consiglio dei Ministri decise di dare al Regno di Francesco II una nuova costituzione sul modello di quella napoletana del ‘48 e di quella piemontese. Ci si affrettò a comunicare l’idea ai rappresentanti di Francia, Inghilterra, Piemonte, Austria, Prussia, Stati Uniti, Russia e Stati della Chiesa. Ma era troppo tardi. La proposta fu considerata solo un espediente per salvare uno stato ormai in disfacimento, condannato dalle circostanze sfavorevoli e oggetto di severe critiche anche da parte degli storici di appartenenza borbonica. Scriveva infatti Giacinto de’ Sivo: “Parve consiglio tenere il Regno chiuso dal Tronto al Liri con cancelli puerili; tacersi i fatti contemporanei e dormire sui fiori…Temuti gli uomini di testa, s’andò cercando la mediocrità… Per non fidarsi di nessuno e per non aver bisogno d’intelletto, fu ridotta a macchina l’amministrazione e il governo. Ma gli ufficiali stessi usati a mo’ di strumenti, se ne ridevano e protestavano l’impossibilità della durata”. L’impresa dei Mille aveva suscitato entusiasmi inenarrabili in tutta Europa e nelle Americhe. L’opinione pubblica mondiale e gli intellettuali più famosi dell’epoca erano con Garibaldi. A Palermo era arrivato a bordo del suo yacht “Emma”, Alexandre Dumas, accompagnato da una bellissima e giovanissima donna, chiamata anch’essa Emma. Le sue corrispondenze a ‘Le Siècle’ avevano fatto sì che la posizione del governo di Napoleone III, sostanzialmente contrario all’impresa per i noti timori romani e per il ritorno dell’Inghilterra negli equilibri mediterranei, fosse giudicata negativamente da una gran parte dell’opinione pubblica francese. George Sand esaltò l’impresa garibaldina. Victor Hugo, dal suo esilio inglese, aveva definito Garibaldi “uomo della libertà, uomo dell’umanità”. In Inghilterra Charles Dickens e Charles Darwin erano con Garibaldi così come Florence Nigthingale, inventrice del mestiere di infermiera professionale e la vedova di Lord Byron. Due straordinari corrispondenti del New York Daily Tribune, Karl Marx e Frederich Engels avevano dedicato alle condizioni di arretratezza del Regno delle due Sicilie e alla spedizione garibaldina una serie di approfonditi articoli. Quest’ultimo aveva definito la conquista di Palermo “una delle più stupefacenti imprese militari del secolo”. Anche nella reazionaria Spagna la spedizione trovò ampio risalto sui giornali e fu paragonata alla guerra del 1808 contro l’invasione napoleonica. Furono raccolti fondi. Furono inviati volontari da diversi paesi d’Europa e da ogni continente. Arrivarono dall’Algeria, dalla Turchia, dall’India, dal Canada. Raggiunsero la Sicilia serbi, albanesi, istriani, dalmati, polacchi. Dopo una traversata avventurosa giunse anche un gruppo di giovani americani. Furono costituite una 35


compagnia svizzera e una legione ungherese. I volontari francesi, in dissenso con la politica del loro governo, furono più di quattrocento, così come gli inglesi. Anche una decina di russi, sfuggiti alle prigioni dello zar, si unirono alla spedizione.

AGOSTINO SALVIONI

In Piemonte e in tutte le regioni italiane recentemente annesse, l’entusiasmo fu travolgente. Nuove spedizioni di volontari, organizzate da Agostino Bertani e guidate da Giacomo Medici e da Enrico Cosenz, raggiunsero la Sicilia, dove fu costituito l’Esercito Meridionale che ora poteva contare su circa ventimila uomini. Alla fine della campagna, al momento della decisiva battaglia del Volturno, saranno un contingente di ben cinquantamila volontari. Cavour, che non aveva previsto un simile successo, si trovava in ambasce. Tutti, moderati e democratici, plaudivano all’impresa. Il grande istinto politico del Presidente del Consiglio, lo aveva portato, però, a valutare realisticamente l’eccezionalità dell’impresa e i rischi o vantaggi che ne sarebbero derivati al Piemonte e alla dinastia Savoia. Cavour temeva sommamente due cose, una di politica interna e una di politica estera. In politica interna vedeva come il fumo negli occhi l’influenza, che a suo dire, esercitavano su Garibaldi i mazziniani. Aveva quindi spedito in Sicilia il fido La Farina con il compito di tenere sotto controllo la situazione e in particolare di impedire a Crispi, cui Garibaldi, Dittatore in nome di Vittorio Emanuele II, aveva conferito la carica di Segretario Generale del Regno, di compiere effettivi atti di governo. Crispi aveva riformato l’ordinamento dei poteri locali, abolito l’odiata tassa sul macinato e disposto un’equa divisione delle terre di proprietà dei municipi, venendo incontro a un’antica richiesta dei contadini siciliani. Queste iniziative non erano piaciute alle classi dominanti, ormai schieratesi dalla parte della monarchia piemontese e La Farina se ne era fatto, in qualche modo, portavoce. Garibaldi era allora intervenuto e aveva allontanato La Farina dall’isola. Le preoccupazioni di Cavour si erano accentuate quando, a seguito della vittoriosa campagna garibaldina anche sul Continente e ormai convintosi della necessità di aggregare le province meridionali liberate al Regno sabaudo, aveva temuto che l’influenza di Mazzini e Cattaneo, giunti nel frattempo a Napoli, potesse convincere Garibaldi a venir meno al suo impegno con il re. I repubblicani e i federalisti chiedevano che non si procedesse con i plebisciti di annessione al Piemonte, come voleva Cavour, ma si convocasse un’Assemblea Costituente con il compito di decidere la forma istituzionale dello stato meridionale e di proporre, eventualmente, un patto federativo con la monarchia sabauda. A ciò si aggiungevano i problemi di politica estera. Se il grande entusiasmo suscitato dall’impresa dei Mille aveva fatto sì che i vari governi europei dovessero tenere conto delle loro opinioni pubbliche con la conseguenza che nessun sostegno estero era prevedibile alla causa borbonica, tuttavia, la dichiarata volontà di Garibaldi di puntare, dopo la resa dell’esercito di Francesco II, su Roma e successivamente anche su Venezia, rappresentava un’opzione realistica. Cavour era, quindi, preoccupato, soprattutto delle possibili reazioni francesi. Decise allora di mandare un corpo di spedizione di trentamila uomini, al comando dei generali Fanti, Cialdini e Della Rocca, con il compito apparente di supportare le camicie rosse nell’ ultima battaglia contro i borbonici, ma in realtà per bloccare Garibaldi, che era arrivato a Napoli il 7 settembre accolto trionfalmente, e annettere le province meridionali. Informò, tramite l’ambasciatore Nigra, il governo francese di questa sua intenzione, chiedendone l’assenso. I domini pontifici sarebbero stati, di necessità, attraversati dai Piemontesi, senza minacciare Roma. La risposta fu “Faites, mais faites vite”. L’esercito piemontese sconfisse i papalini, comandati dal generale Lamorcière, a Castelfidardo, il 18 settembre. Occupò Umbria e Marche, poi annesse, e raggiunse il suo scopo. Garibaldi fu fermato. Il Generale non venne meno al suo impegno. Donò a Vittorio Emanuele un regno, nel famoso incontro di Teano, che fu contrassegnato da un clima di grande freddezza. Si imbarcò, pochi giorni dopo, per Caprera con il figlio Menotti e pochi intimi, tenendo in mano un sacco di sementi. Questi ragazzi, tra i quali tanti venuti dalla nostra terra, scrissero così una pagina della storia, tra le non molte, purtroppo, in questi centocinquant’anni di unità nazionale, di cui non dobbiamo vergognarci. Rotary Club di Sarnico - 24 Settembre 2012

Carlo Salvioni

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(Bergamo 1768-1853)

Agostino Salvioni discendeva da un’antica famiglia, originaria di Sottochiesa in Val Taleggio. Bortolo Belotti (Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, a cura della Banca Popolare di Bergamo, Poligrafiche Bolis, Bergamo, 1959, II, pp. 273-282) narra le vicende, fatte di assalti, agguati, tregue, uccisioni, incendi e furti di bestiame, che contrapposero i Salvioni, guelfi, agli Arrigoni, ghibellini, per il dominio della Val Taleggio nel secolo XIV e che si protrassero anche nel secolo seguente, quando i due clan passarono dalle posizioni guelfe a quelle filo veneziane, i primi, e da quelle ghibelline a filo milanesi, i secondi. Bernardino Luiselli, che si è a lungo occupato delle vicende taleggine, in un articolo pubblicato dall’Eco di Bergamo, in “L’Eco di Bergamo”, n.33, 3 aprile 1995, “Quando la Val Taleggio era una piccola Bosnia”, ricorda che le due fazioni fecero la pace, redatta con strumento notarile da messer Catalano de’Cristiani, ma poco dopo, settembre 1393, a Peghera furono passati a fil di spada “homines duo de Salvionibus”. I Salvioni, però, piombati a loro volta su Vedeseta, la misero a ferro e fuoco. Il ramo della famiglia da cui discendeva Agostino si era portato a Bergamo, probabilmente nel XVII secolo, dove dal Maggior Consiglio, in quello successivo, fu conferito a Faustino Salvioni, con diritto di trasmetterlo ai suoi discendenti, il titolo di “Nobilis Homo”. Dalla natia Valle alcuni Salvioni si trasferirono ad Ancona e a Roma dove esercitarono l’attività di stampatori (B.Belotti, op. cit., III, 469 e V, 233). Una celebrità della famiglia fu la pittrice Rosalba (n. 1703), figlia di Giovanni Maria, stampatore a Roma. Un suo quadro, raffigurante il Battesimo di Gesù, fu da lei donato alla parrocchiale di Sottochiesa, donde appunto proveniva la sua famiglia (B.Belotti, op. cit., V, 170). Contemporanei di Agostino e probabilmente suoi parenti furono Antonio Salvioni, ferito a Brescia nel 1797 nella difesa di quella Repubblica (B.Belotti, op. Cit., V, 258), Faustino e Giuseppe Salvioni, nominati il 5 ottobre 1810 Consiglieri Comunali di Bergamo a seguito delle elezioni tenutesi in quella tornata (Giovanni Carullo, Bergamo e il suo Consiglio, Due secoli di Storia, 2006 edizioni Junior srl, Azzano S.Paolo (BG),35-36). Tornando ad Agostino, sappiamo che egli era nato il 20 settembre 1768 – a Bergamo - e non nel 1770, come erroneamente riportato da Bortolo Belotti (op.cit. Indice Analitico,164), in quanto sul registro delle esequie, celebrate nella Cattedrale di Bergamo il 30 ottobre 1853, l’età del defunto viene indicata in anni 85. Il dato trova pieno riscontro nel necrologio, pubblicato il I° novembre successivo, (“Giornale di Bergamo”, 1 novembre 1853) che dice essere la morte sopravvenuta “nell’ottantaseiesimo anno” della sua esistenza, il 28 ottobre 1853. Il che altro non può significare che gli ottantacinque erano stati interamente compiuti.

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Sempre dal registro della Parrocchia della Cattedrale apprendiamo che Agostino era figlio di Giovanni Battista (nome ricorrente nella famiglia) e di Lucia Colleoni. Al momento della sua scomparsa era residente in Città Alta, contrada di S. Giacomo.

una spedizione in Egitto per combattere gli inglesi e allentare così la pressione sul fronte del Reno, dove la Francia, attaccata dalle potenze reazionarie, non aveva colto i successi avuti invece in Italia contro gli austro-piemontesi.

Fin dalla più giovane età abbraccia gli studi religiosi che compie sotto la guida di Mons. Tadini. Si trasferisce, ancora novizio presso il convento dei Benedettini di Padova dove prosegue e perfeziona gli studi teologici e di diritto canonico. Straordinariamente dotato per l’apprendimento e la ricerca, diviene ben presto profondo conoscitore del latino, del greco, del siriano e dell’ebraico, nonché raffinato scrittore nella lingua italiana, che difese da ogni gallicismo aderendo alla corrente dei puristi. Conosceva sicuramente anche il francese e aveva nozioni di inglese e spagnolo. Abate benedettino presso il convento di S. Paolo d’Argon, dove nel Settecento erano circolate le teorie gianseniste, quindi lettore, presso il convento di S. Giustina in Padova, di teologia dogmatica e diritto canonico, era destinato a una sicura carriera universitaria nel Cenobio patavino “in una delle materie più importanti dell’istruzione a cui dal pubblico voto era da tempo designato” (“Giornale di Bergamo” cit.),quando il grande turbine della conquista napoleonica sovverte l’ordinamento generale, mettendo in discussione i programmi d’insegnamento e in particolare quelli fondati sulle materie religiose e teologiche, che avevano reso famosa nei secoli l’Università di Padova. Come tanti altri giovani colti della sua generazione- sicuramente aveva letto “l’Enciclopedie” - viene sedotto dalle idee rivoluzionarie e dalla figura del generale Bonaparte. Era un momento di grande ripensamento di tutto quello che era stato in precedenza insegnato e il Salvioni non si negò a questo nuovo confronto. Per illustrare il momento straordinario dell’esistenza di tanti giovani di allora mi piace leggervi questo breve passaggio, richiamato dal più autorevole biografo di Stendhal, Michel Crouzet, (Stendhal, Il Signor Me Stesso, Ed. Riuniti, 1997) che vuole sintetizzare l’impresa vittoriosa del 1796, “Come una fanfara del mattino, una fanfara che risveglia la storia e la gaiezza assopite, che dà la gioia di vivere e di morire nell’assalto irresistibile e beffardo: Dego, Millesimo, Mondovì, Lodi, Montenotte, Castiglione, Lonato, Arcole, Rovereto, Rivoli, Montebello”. L’entusiasmo, cagionato dalla campagna d’Italia e dall’avventura che essa rappresentava per i mutamenti profondi che introduceva nell’immobile società dell’antico regime, fece sì che Agostino Salvioni lasciasse l’abito talare - la soppressione dei conventi benedettini di S.Paolo e Pontida avverrà in seguito, il 13 maggio 1798 - e si dedicasse intensamente all’attività politica, aderendo alla Repubblica Bergamasca del marzo 1797 e alla successiva Repubblica Cisalpina. Il 5 ottobre del 1797 lo troviamo ricompreso in un elenco dei “Trenta giovani requisiti dal Generale in Capo dell’Armata d’Italia Bonaparte” (Mauro Gelfi, Tra la fine dell’Età Moderna e l’Inizio dell’Età Contemporanea: La Repubblica Bergamasca, Bergamo - Sede dell’Ateneo - 8 novembre 1996) probabilmente per essere destinato a qualche pubblico incarico di rilevo. Infatti nel febbraio del 1798 viene chiamato a fare parte del Tribunale speciale per “chiunque macchinasse contro la Repubblica, per chiunque farà acclamazioni in pubblico a qualunque sovrano o governo non democratico” e infine “per coloro che spargessero voci false d’allarme tendenti a mettere in dubbio l’esistenza della Repubblica e atte a seminare timori” (B.Belotti, op. cit., V, 319). Con Agostino ne faranno parte Antonio Pozzi e Giuseppe Noris. Come si vede un incarico molto delicato che non poteva essere assegnato se non a un cittadino di provata e sicura fede repubblicana.

Ma Bonaparte aveva voluto che della spedizione facessero parte anche degli scienziati per portare all’Egitto, considerato paese semi-incivile, la nuova civiltà della Rivoluzione, per studiarne la storia, conoscerne la geografia, ricercare e classificare i minerali, la flora e la fauna, conoscerne la lingua, l’arte, la musica, gli usi e i costumi, l’economia e forse decifrarne l’antica scrittura.

Ma il 1798 riservava al Salvioni ben altra sorpresa. In poche parole, quella che avrebbe potuto essere l’avventura della sua vita e che ne avrebbe completamente mutato il destino (Pietro Moroni, Commemorazione dell’Abate Agostino Salvioni, tenuta il 12 gennaio 1854, Tip. Mazzoleni, Bergamo, 1854). Il generale Bonaparte, dopo la gloria di cui si era circonfuso per la vittoriosa campagna d’Italia, conclusasi con il trattato di Campoformio, 1797, era stato incaricato dal Direttorio di preparare 38

In una parola, fondare una scienza che ancora non esisteva: l’egittologia (Robert Solé, Les Savants de Bonaparte, Editions du Seuil, Paris, 1997). Aveva incaricato per la bisogna due illustri studiosi, il matematico Gaspard Monge e il chimico Claude Louis Berthollet che aveva incontrato in Italia, quando l’armata francese aveva fatto razzia di opere d’arte, destinate ai musei di Francia. Entrambi sulla cinquantina, figuravano in testa alla lista dei partenti. Monge aveva anche partecipato al negoziato che era sfociato nel trattato di Campoformio, di cui aveva riferito al Direttorio. Conosceva, presumibilmente, il mondo degli studiosi italiani, come peraltro Berthollet. L’ordine del Direttorio, che ai due scienziati aveva affiancato il generale del Genio Maximilien Caffarelli, un filosofo in divisa, era di arruolare, in tutti i campi dello scibile, soprattutto dei giovani. Il clima e le fatiche della spedizione non avrebbero dato scampo ai più anziani. Un’autorità del mondo scientifico, Dominique Vivant Denon (il futuro primo direttore del Louvre), che aveva pure lui cinquant’anni, aveva fatto un’enorme fatica a farsi accettare tra i partenti. La media dei prescelti era di venticinque anni. Agostino aveva allora ventinove anni, quindi sopra la media per età, tuttavia ancora giovane. Ma, come abbiamo detto, era una sicura promessa della scienza, destinato a una cattedra universitaria e già conosciuto per le sua padronanza delle lingue antiche e orientali, fatto estremamente raro a quell’epoca. Fu scelto. Possiamo presumere che fossero proprio i due scienziati francesi a fare il suo nome, avendolo essi conosciuto nel cenacolo patavino, come ci ricorda il conte Moroni (op. cit.). Il Salvioni si sentì lusingato, non credo che ci si possa sbagliare su questo aspetto. Descrivendo il suo carattere, sia l’anonimo cronista del Giornale di Bergamo, che il conte Moroni concordano nel definirlo come uomo disinteressato sul piano economico, ma sensibile all’elogio e alla gloria. Possiamo quindi ragionevolmente ritenere che Agostino, fiero di essere stato arruolato, per quella che riteneva fosse la più importante spedizione scientifica del suo tempo, si preparò a partire. La sua fede negli ideali della Rivoluzione, che aveva così chiaramente manifestato e praticato, gli furono certo di viatico. Partì, dunque, per Genova, dove avrebbe dovuto imbarcarsi per raggiungere Tolone. Là, nella rada, letteralmente coperta dalla foresta degli alberi delle navi, lo aspettava “l’Orient”, la nave che doveva trasportare i “savants” a seguito dell’armata, che, forte di ben 10.000 marinai e 38.000 soldati, si preparava all’imbarco, per raggiungere l’Egitto, sotto il comando di Bonaparte (R.S., cit.). Erano i primi di maggio del 1798. Agostino giunge a Genova e la sera del suo arrivo (avrebbe dovuto imbarcarsi la mattina del giorno dopo) vede nelle acque del porto i resti di una nave che aveva fatto naufragio. Ci sono viveri, sartiame e pezzi di alberi, suppellettili, ma anche corpi di naufraghi senza vita. Agostino Salvioni passa una notte insonne. La paura lo attanaglia. La mattina prenderà la decisione che darà una svolta alla sua vita. Inosservato, si dileguerà e prenderà di nuovo la strada per Bergamo, da dove non si sarebbe più mosso. Il suo non è un temperamento - e lo vedremo nel proseguo della sua vita - avventuroso. È un uomo quieto, riflessivo, dotato per gli studi e non per l’azione. Il conte Moroni, nel suo precitato elogio, ricorderà che Agostino aveva rinunciato al più bel sogno della sua vita. E aggiungerà, forse con un pizzico d’ironia, “Quali onorevoli palme su quella terra già 39


maestra di Grecia in ogni sapienza politica e morale, e piena ancora di grandi arcane memorie avrebbe raccolto il nostro Salvioni, egli dotato di acuta instancabile mente, e versato nelle lingue dotte, quali la Greca, l’Ebraica e la Siriaca non giova or ripensarvi; ma era fatale che per quel incidente non insolito dei mari forse la patria nostra perdesse il vanto di avere essa dato mano a squarciare il velo misterioso, onde in quelle libiche regioni coprivasi alla colta Europa l’aspetto maestoso di tanti secoli.” Di questo episodio, un suo successore, il bibliotecario Gianni Baracchetti, ci darà una gustosa versione, due secoli dopo (“L’Eco di Bergamo”, 4 maggio 1991, 7). Riposti i sogni nel cassetto, cacciati gli austro-russi, dopo la vittoria del Primo Console a Marengo, il 14 giugno 1800 e tornata la Repubblica Cisalpina, detta la “seconda”, per Agostino Salvioni, la cui fede nelle nuove idee non era venuta meno, pur coi necessari adattamenti al nuovo corso napoleonico, si apre un fecondo periodo di lavoro. In quello stesso anno 1800 egli assume l’incarico di Civico Bibliotecario, per scelta unanime del Municipio. Sarà un impegno professionale che segnerà tutta la sua vita e che egli adempirà, per ben cinquanta tre anni ininterrottamente, cogliendo e applicando tutte le innovazioni che la cultura del suo tempo gli metterà a disposizione per questa delicata mansione. Un immenso patrimonio librario era stato raccolto nelle biblioteche dei monasteri di Bergamo e provincia, come quelli degli Agostiniani, dei Domenicani, dei Francescani, dei Benedettini, dei Vallombrosani. Nessuna di queste biblioteche sopravvisse alla rivoluzione di Bergamo nel 1797 e all’avvento della Repubblica Cisalpina. La ricordata soppressione dei conventi e monasteri determinò il trasferimento dei beni mobili e immobili all’Ospedale di San Marco e agli istituti assistenziali, mentre il patrimonio librario confluì nella biblioteca comunale che si arricchì di un’ingente quantità di nuovi volumi (Barbara Cattaneo, Storia della Cultura a Bergamo 1797-1870, Quaderni del Museo Storico di Bergamo, 1997). Lo stesso Agostino Salvioni calcola che dagli ordini soppressi pervennero alla biblioteca civica circa 70.000 volumi (Del modo di ordinare una pubblica biblioteca - Ragionamenti di Agostino Salvioni, bibliotecario della Regia Città di Bergamo, Bergamo, Crescini, 1843). Anche la biblioteca del Capitolo della Cattedrale e l’edificio annesso vennero requisiti dalla Municipalità. In una sala della stessa Canonica del Duomo vennero trasferiti i libri del Comune - in gran parte antichi testi di diritto - per costituire un’unica biblioteca comunale. “È evidente il significato politico di tali decisioni, tanto più se si considera l’assoluta egemonia che gli enti religiosi avevano avuto sino ad allora nella gestione della cultura a Bergamo e dei conflitti che ne erano derivati coi sostenitori di una cultura laica e aperta agli sviluppi della scienza moderna” (B.Cattaneo, op. cit.). Fin dagli inizi del Settecento la biblioteca si presenta come luogo alternativo alle istituzioni culturali tradizionali e alle accademie in particolare per l’incontro di tutti quegli intellettuali che, favorevoli al progetto muratoriano di costituire “una Repubblica de’ Letterati”, sono attivamente impegnati nel programma di rinnovamento e svecchiamento della cultura italiana, mettendosi a confronto con le correnti di pensiero europee, spezzando, dopo quasi due secoli, l’isolamento imposto dall’egemonia politica e culturale dei gesuiti (B.Cattaneo, op. cit.). Ed è emblematico in tal senso che sia proprio un intellettuale dello spessore di Agostino Salvioni, formatosi sugli antichi autori, ma anche sui filosofi dei lumi, a svolgere il ruolo di bibliotecario della Biblioteca di Bergamo con l’incarico specifico, assegnatogli dal Municipio, di “classificare quell’ammassamento di libri” (G. Bini) provenienti anche dalle biblioteche degli enti religiosi. Tra i suoi principali saggi abbiamo ricordato Del modo di ordinare una pubblica biblioteca. Ragionamento di Agostino Salvioni bibliotecario della Regia Città di Bergamo, v. cit. e ricorderemo qui anche La statua della Pace inaugurata solennemente nella pubblica biblioteca di Bergamo lì 25 Agosto 1844. Discorso del bibliotecario L’Ab. Agostino Salvioni, Bergamo, Crescini, 1844. 40

In queste opere viene riproposto tutto il lungo iter che portò al trasferimento della biblioteca, prima dai locali situati nel Palazzo Nuovo (sede del Municipio) poi a quelli nella Cattedrale e infine, nel 1843, al trasferimento nella più idonea sede del Palazzo della Ragione. Agostino Salvioni si sofferma a lungo sui criteri con i quali, nella nuova sede, l’immenso patrimonio librario è stato ordinato. Per materia, cominciando dal “Libro dei Libri” tà biblà e dalle opere teologiche, per poi proseguire con quelle filosofiche, scientifiche, letterarie, storiche, giuridiche e via discorrendo. Per ciascuna classe di scienze vi è una ripartizione per autore secondo l’ordine alfabetico. Un settore distinto comprenderà anche gli autori stranieri. Il materiale a stampa verrà diviso da quello manoscritto. È un lavoro molto impegnativo che Agostino eseguirà con la collaborazione del vice bibliotecario, di tre sacerdoti e dei conti Leonino e Bartolomeo Secco Suardo. Inoltre verrà iniziata la compilazione del Catalogo Generale della Pubblica Biblioteca della Regia Città di Bergamo, redatto per studio e fatica del conte Bartolomeo Secco Suardo tra il 1844 e il 1865. Questo trasloco avrebbe dovuto essere effettuato già nel 1825 in occasione della visita dell’Imperatore Francesco I a Bergamo. Procrastinato al 1838 per la venuta di Ferdinando I, venne effettivamente realizzato nel 1843. Sull’attività e l’impegno del bibliotecario Salvioni ci piace ricordare questo giudizio del letterato Giacomo Bini (Sulla Biblioteca Pubblica di Bergamo e circa il decretato traslocamento della stessa. Cenni storici, Bergamo, 1839): “Al nostro ch. Salvioni voglionsi le debite laudi per quella costante diligenza, per quel fino discernimento ed amor patrio, che adopera nello scegliere, sempre con superiore approvazione, libri ed opere di una decisa utilità; mirando egli più presto all’acquisto di opere importanti e costose anziché a volumi di lieve momento e di poca spesa (…) il Salvioni adoperando in tal modo, provvede anche al maggior lustro dello Stabilimento, arricchendolo di sontuose e magnifiche edizioni, proprie, direi quasi esclusivamente, delle pubbliche Biblioteche”. Da queste righe emerge la consapevolezza delle potenzialità di un istituto pubblico di conservazione e consultazione del materiale librario in contrapposizione alla scarsa flessibilità di una biblioteca privata. “Imperocché l’opera che costa una decina di franchi può essere comperata da qualsivoglia individuo col proprio dinaro: mentre non può accadere così per tutti, ove si tratti di una che ne costi a migliaia”. Anche Gianni Baracchetti (op. cit.) commenterà la direzione della biblioteca svolta per più di cinquant’anni da Agostino come “Antesignano dei nostri tempi, è nella logica di una professione intesa come servizio che il Salvioni esercita questa nuova funzione, mettendo a disposizione degli studiosi i materiali catalogati sia con i rigidi dettami della scienza biblioteconomica, sia con l’intento di facilitare e di stimolare la ricerca: e in questo il Salvioni si dimostra bibliotecario moderno”. I contemporanei lo tengono in tanta stima e considerazione da sottoporre a lui ogni saggio, ogni opuscolo destinato ad arricchire la storia patria e il Salvioni rivede, corregge, consiglia, indirizza con animo aperto e senza gelosie. Lo criticheranno per non aver scritto che brevi saggi, memorie storiche, discorsi in memoriam, poesie d’occasione senza comporre la grande opera letteraria che doveva lasciare il segno. Ma egli svolge un altro ruolo: è maestro, insegnante, consigliere, organizzatore delle attività culturali del suo tempo. Punto di riferimento e passaggio dall’accademia sei-settecentesca alla modernità della cultura neoclassica dei lumi. Agostino Salvioni aveva aderito, presumibilmente fin dalla nascita della Repubblica democratica bergamasca, e cioè dal 1797, alla Massoneria di Bergamo (a quale delle due logge allora esistenti - quella di Contrada S. Lorenzino o quella del Mattume, l’attuale via S. Alessandro, angolo vicolo S. Carlo - non è dato sapere anche se appare più probabile la prima, posta nei pressi della sua abitazione di contrada S. Giacomo), di cui facevano parte figure di spicco della Rivoluzione bergamasca come Marco Alessandri, Girolamo Adelasio, Pietro Calepio, Lorenzo Mascheroni, Giuseppe e Bernardo Ambrosioni, Simone Mayr, Alessandro Tadini, Vincenzo Antoine, Antonio Piccinelli, Andrea Vertova, Alessandro Carissimi, Girolamo Longaretti, Ippolito Passi, Antonio Roncalli (Mauro Gelfi, La Repubblica Bergamasca tra Ancien Régime ed Età 41


Contemporanea, “Rivista di Bergamo” n.6, luglio settembre 1996, pp. 56-59). In tale ambiente circolavano oltre alle idee massoniche anche quelle pedagogiche degli Illuminati di Baviera e reminiscenze gianseniste. Agostino Salvioni ne sarà, a un certo momento, anche Maestro Venerabile (Alessandro Olimpo, L’Oriente di Bergamo, in www.ritosimbolico.it, 2011). Le Logge saranno attive durante tutto il periodo francese, anzi, saranno “il partito francese”, ma, con il ritorno dell’Austria, ordinanza del generale Bellegarde del 26 agosto 1814, verranno proibite. Quando il 10 gennaio del 1820, al fine di reprimere le cospirazioni dei carbonari e dei federati in atto a Milano e in Lombardia, la Delegazione (di polizia) di Bergamo manderà al conte di Strassoldo un elenco di persone considerate ancora iscritte alle logge massoniche (B.Belotti, op. cit., V, 426), tra cui l’abate Agostino Salvioni, gli antichi massoni non rappresentavano più pericolo di sorta. Solo alcuni giovani, in particolare studenti universitari, ma non solo, tennero accesa la fiamma della ribellione, che passerà poi alle generazioni successive che compiranno il moto risorgimentale. Tra essi vanno ricordati, nei processi del 1821, l’avvocato Antonio Solera, Pretore di Lovere, arrestato nel gennaio del 1820, condannato a morte, per alto tradimento, con sentenza poi commutata in vent’anni di carcere duro allo Spielberg e liberato nel 1827, l’ing. Andrea Magoni, di Bracca, arrestato per appartenenza alla Carboneria e gli studenti Giacomo Azzolari di Presezzo, Giovanni Battista Montanelli di Urgnano, Andrea Zendrini di Breno e Giuseppe Rossi di Bergamo, che erano passati in Piemonte per partecipare a quei moti, anch’essi condannati a pene gravi (B.Belotti, op.cit., V,425, 426, 427; Marcello Ballini, Storia del Volontariato Bergamasco, pp. 22 e 23, Istituto Civitas Garibaldina, Bergamo, 1960). Di essi il solo Zendrini fu catturato, condannato a morte e, poi, a soli tre anni di carcere (M. Ballini, op.cit., p.23). A maggiore ragione - erano passati più di dieci anni - i nostri antichi giacobini non avranno alcun ruolo nelle azioni sovversive e nella propaganda mazziniana degli anni trenta, pure presenti in città nella persona del dott. Belcredi e in provincia con lo speziale Foresti di Tavernola, l’avv. Alessandro Bargnani di Sarnico e soprattutto Gabriele Rosa, che sarà anch’egli condannato a morte con successiva commutazione a tre anni di detenzione nella fortezza moldava (Gabriele Rosa, Cenni Autobiografici, Tipografia degli Operai, Milano, 1891; idem, Autobiografia, Brescia, Ed. F. Apollonio, 1912). Tuttavia la polizia austriaca non cessava la sua ormai inutile sorveglianza e nel 1831, formando il ricordato elenco di ex massoni diceva di Agostino: “Salvioni don Agostino, bergamasco, si sfratò durante la rivoluzione del 1797, diventò professore al Liceo, segretario e bibliotecario dell’Ateneo. Perdè la cattedra nel 1825 essendo risultato che era stato venerabile della loggia di Bergamo. Cerca ora di salvare le apparenze col suo contegno. Ma in fondo è rimasto massone. Ha molte cognizioni letterarie” (Alessandro Luzio, La Massoneria e il Risorgimento Italiano, vol. I, 123, Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1925, ristampa anastatica; B.Belotti, op. cit. V, 577n,). Ma, come si dice nelle narrazioni, facciamo, ora, un passo indietro e torniamo agli anni napoleonici e, più precisamente, a quelli del Regno d’Italia. Il 5 maggio 1811, come tutti sapete, a seguito di decreto di un anno prima, nasce l’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo dalla fusione delle due precedenti Accademie degli Eccitati e degli Arvali. In realtà, per i noti eventi di quegli anni, culminati con la caduta dell’astro napoleonico, le prime riunioni di quest’alto consesso si avranno solo nel 1817, quindi già in periodo austriaco. Primo Presidente è Girolamo Adelasio, uno dei protagonisti della Repubblica bergamasca del 1797. Agostino Salvioni, ne sarà il Vice Presidente, Giovanni Maironi da Ponte, il Segretario. Nel 1818 viene stampato lo statuto, Giuseppe Terzi diviene il Presidente, Maironi il Vice e Salvioni il Segretario. Un incarico che cesserà solo sette lustri dopo, con la sua morte. Il primo maggio 1818 viene convocata l’Assemblea dei soci. E’ in discussione l’allestimento della nuova sede dell’Ateneo nell’ edificio posto sopra la Cisterna, in piazza Mercato del Pesce. Il Vice Presidente Salvioni ricorda che il Consiglio Comunale di Bergamo aveva disposto la ristrutturazione del Museo Lapidario che si trovava in quel luogo, ristrutturazione che non era, però, mai stata eseguita. 42

Vantava quindi un credito nei confronti dell’Amministrazione. L’assemblea dette allora mandato al Vice Presidente di nominare una commissione di quattro componenti per definire la pratica con il Municipio. Salvioni nominò: Giuseppe Terzi, Pietro Benaglio, Pietro Moroni e Bartolomeo Secco Suardo. La commissione così composta trattò con la Congregazione Municipale e la ristrutturazione fu compiuta (B.Cattaneo, op. cit.). Nel 1819 l’Imperial Regio Governo, per i suoi meriti filologici, nomina Agostino Salvioni professore al Liceo e Prefetto del medesimo, dove le sue lezioni di filologia latina riscuotono molto successo. Nel 1825, il Salvioni, inviso all’Austria, per le ragioni che abbiamo ricordate, e perché si diceva che non perdesse occasione per criticare l’Imperial Regio Governo, viene sollevato dall’incarico (P. Moroni, op.cit.; B.Belotti, op. cit.). Da allora la vita del civico bibliotecario, nonostante i timori dell’occhiuta polizia absburgica, sarà esclusivamente dedicata agli studi letterari e alle incombenze dei suoi due incarichi nella Biblioteca e nell’Ateneo, senza alcuna intromissione nell’attività politica. Certo è logico pensare, conoscendo le sue frequentazioni e un passato, se non mai evocato, in nessuna occasione rinnegato, che i suoi intimi sentimenti siano stati sempre quelli di un uomo che amava la patria e che l’avrebbe voluta vedere unita e retta da ordinamenti fondati sui grandi principi della Rivoluzione. Ci suggeriscono queste riflessioni il suo impegno, già ricordato, per la difesa della purezza della lingua italiana, che voleva fosse solo “risciacquata in Arno”. Egli infatti scriveva: “sino a che il parlar nostro servirà all’espressione del pensiero di oltre venti milioni di popolo, si dovrà sempre avere in singolar pregio e benemerito del bel paese quello scrittore che vorrà procacciare di tener mondo di ogni corruttela e scevro di ambigue interpretazioni questo vincolo di nostra grande famiglia, pegno prezioso di suo non perituro intellettuale dominio.” Anche le sue ricerche storiche, cui poi accenneremo, su fatti e personaggi importanti della piccola (o grande?) patria ci inducono a trarre queste conclusioni, così come le sue amicizie e i versi alquanto espliciti che il patriota e socio dell’Ateneo prof. Pasino Locatelli gli dedicò a conclusione dell’elegia funebre: “Egli nutriva intemerato affetto a questa patria Italia, a questa terra, unica nelle glorie e nell’aspetto.” La patria, quel concetto che aveva cambiato il mondo “prima dovevate dire: abbiamo un luogo dove siamo nati, ora potete dire: abbiamo una patria” (Discorso del I germinale, 21 marzo, di Ottavio Morali, in M.G., cit.). Di più, in tempi di dura repressione austriaca – era il 1854 con i martiri del Belfiore e le condanne dei patrioti - non si poteva dire. Considerevoli e numerosi, degni di pubblicazione, sono gli scritti sui più diversi argomenti che Agostino Salvioni ci ha lasciato, quasi tutti conservati presso la civica Biblioteca A. Mai. Nel 1819 commemora in Ateneo il marchese Giuseppe Terzi, Presidente dell’Istituzione, prematuramente scomparso. Giuseppe Terzi, ufficiale dell’Armata d’Italia, partecipa alla campagna di Russia con l’Imperatore Napoleone. Cade prigioniero, ma ottimo pittore dilettante si fa benvolere da un Generale russo che lo condurrà con sé a San Pietroburgo. Qui incontra il concittadino Giacomo Quarenghi che lo introduce presso l’aristocrazia della capitale dove viene accolto di buon grado per la sua cultura e la sua arte. Frequenta la casa dei principi Gallitzin e si innamora, corrisposto, della giovane principessa Elisabetta Gallitzin. La sposa e torna con lei a Bergamo dove riprende la sua vita di aristocratico e di artista. Da poco divenuto Presidente dell’Ateneo, si ammala e muore in giovane età. Nel 1820 commemora il socio Alberto Antonio Baldis, studioso, parroco della Casa di Ricovero e benefattore (testo conservato in Ateneo, v. anche Antonia Abbatista Finocchiaro, Quaderni, Officina dell’Ateneo, 2010, 16). Nel 1828 legge in Ateneo l’elogio del Vescovo Giovanni Paolo Dolfin. Patrizio veneto, il vescovo Dolfin si trova a fronteggiare la rivoluzione del 1797. Il suo atteggiamento, dopo un primo momento 43


di sorpresa e incertezza, sarà di benevolenza nei confronti del potere rivoluzionario e inviterà i parroci della provincia, decisamente ostili alle idee democratiche, a un atteggiamento di rispetto nei confronti dei nuovi reggitori. Il potere va sempre accettato perché, con venatura giansenista, diceva Dolfin, promana da Dio. Per questo suo comportamento verrà criticato da molti e in particolare da quei settori del clero locale, ampiamente maggioritari, di orientamento marciano e reazionario. Agostino Salvioni, nella sua memoria, difenderà il Vescovo Dolfin dai suoi critici, dicendo che aveva vissuto tempi molto difficili e che in quelle circostanze il suo comportamento doveva considerarsi giustificato. E difendendo Dolfin, difendeva anche il proprio passato. Nel 1829 pronuncia l’Elogio funebre del Vescovo Mola. Sempre di quell’anno è un suo studio Sull’origine delle antiche e nuove fortificazioni dove ricostruisce fatti, vicende e descrizioni che portarono alla realizzazione delle fortificazioni della città di Bergamo. Dalla cinta muraria romana a quella medievale delle “muraine”, fino alla costruzione delle mura venete a partire dal 1561, inclusa la vicenda dei frati di S.Agostino che riuscirono a impedire la distruzione del loro convento e della chiesa annessa versando una “tangente”. A questo proposito lasciamo a lui la parola: “Ma quei claustrali supplicarono con ogni fervorosa maniera acciò non avvenisse la triste ventura. Vedendo però tornar vuota ogni loro preghiera credettero intimorire con l’arma della scomunica i capi delle operazioni. Ma il Pallavicino e i suoi ingegneri per nulla si spaventarono di questo per essi strano armeggiare e stavano saldi nel loro disegno. Fatti allora più accorti quei Reverendi Padri raccolsero dai fedeli buona somma di denaro e questo fu mezzo valente ad ottenere il desiato intento”. Egli manifesta anche un timore: che le fortificazioni divenute inutili, per via dell’evoluzione della tecnica militare, trasformate in ameni passeggi, possano essere abbandonate e di esse perduta la memoria. Fortunatamente questa eventualità sarà scongiurata. Del 1830 è la Relazione accademica sulla vita e gli scritti di Giuseppe Mangili, naturalista e professore all’Università di Pavia. Sempre in quell’anno, mese di luglio, scrive all’amico Giuseppe Diotti una lettera con la descrizione della cascata del Serio al Barbellino. I toni sono entusiastici: ”Sembra una colonna d’amianto o una nube che precipita dall’alpe; in certe ore del giorno, specialmente al calare del sole, tu contempli un’iride bellissima; tu vedi l’acqua, rotta alla gran caduta, scorrere bianchissima per lungo tratto come fiume di candido latte”. Da questa visita trarrà anche un opuscoletto dal titolo Della sorgente del Serio e della grande cascata del Barbellino (Lettera di Agostino Salvioni all’amico suo prof. Giuseppe Diotti, Stamperia Mazzoleni, Bergamo, 1830). Del 1831 è lo scritto Sulla storia di Bergamo dell’Angelini. Nel 1833 commemora in Ateneo Giovanni Maironi da Ponte, Vice Presidente dell’Istituzione tra il 1818 e il 1832, ricordandone i grandi meriti di studioso, insegnante al Liceo, “grand commis” dello stato per aver fedelmente servito tre regimi, quello veneto, quello francese e quello austriaco, nonché autore del celebre Dizionario Odeporico della provincia bergamasca. Nel 1838 redige una Memoria sulle visite di imperatori e regnanti alla nostra città, in particolare quelle di Francesco I nel 1816 e con la consorte, Carolina di Baviera, nel 1825, nonché del successore Ferdinando I proprio in quel medesimo 1838. Del 1839 è un’opera di notevole impegno: Di Ambrogio Calepino e del suo dizionario. Salvioni, da ottimo conoscitore della lingua latina e degli autori classici, difende con energia e dottrina, dai suoi invidiosi detrattori, l’opera di Ambrogio da Calepio, detto il Calepino, frate agostiniano bergamasco appartenente alla nobile famiglia dei conti di Calepio, vissuto nel XV secolo e autore del celebre dizionario latino, che ha dato il nome a tutti i dizionari successivi.

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Il 1842 è un anno di notevole produzione di scritti da parte del Salvioni. Redige infatti una memoria su Alberico da Rosciate, intitolata Intorno ad Alberico da Rosciate e alle sue opere con alcune notizie relative a Dante. Memorie storiche, in cui narra la vita e le opere del grande giureconsulto bergamasco, vissuto nel XIV secolo, da non considerarsi secondo né a Baldo degli Ubaldi , né a Bartolo da Sassoferrato. Delle sue missioni diplomatiche e giuridiche, per incarico dei signori di Milano, presso la corte papale di Avignone. Dei suoi scritti di diritto comune e di diritto statutario, della sua attività presso i tribunali e le corti di giustizia e della sua grande ammirazione per il suo coevo Dante. Sempre di quell’anno è una Memoria storica sulle vicende dei Gesuiti a Bergamo, dove narra delle gravi difficoltà incontrate dagli appartenenti a quell’ordine nel farsi ammettere a Bergamo per esercitare l’insegnamento. Le vicende narrate vanno dal 1572 al 1729, anno in cui, dopo essere stati finalmente ammessi nel territorio di Bergamo nel 1711, ne furono definitivamente allontanati. Le ragioni di questo ostracismo sono molteplici, ma l’autore ne elenca almeno tre: l’opposizione degli altri ordini religiosi che avevano scuole a Bergamo, l’essere filospagnoli, posizione malvista anche dal Senato veneto, non avere congiunti o amici influenti nell’organo che doveva decidere sulla loro ammissione e cioè il consiglio comunale della città. Ancora di quell’anno così fecondo sarà la pubblicazione del saggio Della lingua latina e dei classici scrittori di essa: prelezioni storiche. Ai giovani studenti di latina filologia, che contiene una raccolta delle sue lezioni di professore al Liceo. Sempre del 1842, 4 marzo, è un suo dotto articolo, pubblicato sul Giornale Patrio, sul trasporto delle spoglie di Medea, figlia di Bartolomeo, dalla Basella alla Cappella Colleoni. Nel 1844, socio d’onore di molte Accademie in tutta l’Italia, partecipa, con una folta delegazione di soci dell’Ateneo, alla sesta riunione degli scienziati italiani a Milano. Con lui sono, tra gli altri, Giuseppe Bravi e Giovanni Finazzi, destinati a un ruolo importante nelle vicende risorgimentali. Agostino Salvioni non si occupa solo di filologia, letteratura, storia, lingue antiche, ma anche d’arte e di pittura. È nota la sua grande amicizia con Giuseppe Diotti, pittore neoclassico e primo direttore dell’Accademia Carrara. Discute con l’amico d’arte e di letteratura durante le visite alle chiese della nostra provincia per ammirare gli affreschi e i dipinti che le adornano. Trarrà da queste conversazioni lo spunto per un’altra pubblicazione, che è del 1846, Memorie di Giuseppe Diotti e delle sue dipinture. Come ebbe a dire “il Diotti in pegno d’amistà fecemi il ritratto”. Infatti è del 1825 il quadro di inconfondibile stile neoclassico, conservato nell’anticamera della sala di consultazione posta a pianterreno della Biblioteca A. Mai, in cui Agostino viene ritratto, a figura intera, mentre siede al suo tavolo di lavoro consultando antichi testi latini e greci. Un’altra copia, a mezzo busto, sempre eseguita dal Diotti , è rimasta alla famiglia. Inoltre Il pittore eseguì, nel 1840, un altro ritratto di “Agostino Salvioni come Socrate” e nella tela, sempre del Diotti, che raffigura la corte di Ludovico il Moro, nella figura di Bernardino Corio si riconosce il Salvioni. Nel 1842 poi, Giovanni Benzoni, scultore di qualche rinomanza, scolpirà un busto marmoreo di Agostino Salvioni, donato nel 1854 dal nipote Don Pietro Salvioni all’Ateneo, che si conserva nella sala Furietti della Biblioteca A. Mai. Sempre nel 1846 redige l’elogio funebre, sul Giornale della Provincia di Bergamo (poi divenuto Giornale di Bergamo), di cui è assiduo collaboratore fin dal 1828 (B.Belotti, op. cit., V, pp. 493, 501), dell’abate Paolo Fumeo poeta e scrittore di scuola romantica, molto considerato dai suoi contemporanei. Accanto alle opere che abbiamo ricordato vi sono tanti altri documenti della vita e dell’impegno lavorativo, proseguito fino alla fine della sua lunga esistenza, di Agostino Salvioni, che testimoniano le sue amicizie, per esempio con Andrea ed Elisabetta Vertova, con J.S. Mayr, con Gaetano Donizetti e le relazioni con le tante accademie italiane. Inoltre vi compaiono le poesie d’occasione, il ricco epistolario, le lezioni morali, lo zibaldone di memorie diverse. Un 45


terreno ancora in gran parte inesplorato che potrà essere visitato in futuro per una migliore conoscenza dell’uomo e dello studioso. L’Ottocento è stato un secolo molto riservato sulla vita privata delle persone. Non c’era quella moda voyeuristica dei nostri tempi né il desiderio di conoscerne i particolari scabrosi. È quindi molto difficile, in mancanza di un diario intimo o di lettere molto personali, sapere di più sulla vita di Agostino. Le memorie familiari dicono poco o nulla. In fondo su di lui, monaco smonacato ed ex massone, si era abbattuta una specie di damnatio memoriae della famiglia, molto cattolica ( le origini guelfe e marciane non si erano perse) e austriacante. Tuttavia due secoli dopo la sua nascita, si era nel 1968 o giù di lì, mio padre, Gianfranco, ricevette da un sacerdote che era legato alla nostra famiglia da antichi vincoli di amicizia, Mons. Don Pietro Biennati, Arciprete di Telgate e già Economo curiale, il cui padre era stato fattore e uomo di fiducia del mio bisnonno, un documento, perché fosse conservato tra le carte di famiglia. Il documento in parola era una poesia, con qualche problema di ritmica, scritta da una donna, Teresa Parenti, che inneggiava all’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Bergamo l’8 giugno del 1859. La poesia portava la data di qualche giorno successivo, il 12 di giugno. Il monsignore dichiarò a mio padre che la poetessa era la figlia di Agostino, Teresa, appunto, che egli non aveva mai potuto riconoscere perché il codice austriaco, vigente all’epoca negli stati lombardo veneti, impediva anche agli ex sacerdoti di riconoscere i figli naturali. Non so se la poesia e la dichiarazione del monsignore bastino a costituire la prova, quantomeno sul piano della storia, della discendenza di Teresa da Agostino. Il buon sangue però non mentiva, gli ideali patriottici erano stati trasmessi. Agostino Salvioni ebbe un funerale solenne in Cattedrale, a cui parteciparono gli ottimati della città, una delegazione del Municipio, una folta rappresentanza dell’Ateneo, i professori del liceo e molti cittadini (“Giornale di Bergamo” cit.) Nel registro della Parrocchia è annotato, con rigore di precisione, che era morto per l’aggravarsi dell’età e munito dei conforti religiosi. Era tornato, se mai se ne discostò, alla fede dei padri. Del resto: Semel abbas semper abbas. Fu sepolto a S. Paolo d’Argon, dove la famiglia Salvioni aveva villa e possedimenti terrieri, accanto alle tombe dei suoi avi. Già edito in "Risorgimento... quanti uomini, quante storie" - Studi dell'Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo - Officina dell'Ateneo, 2012, pagg. 167-180 - Sestante Edizioni

SPIELBERG. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859 Margherita Cancarini Petroboni

Quando nel giugno 1814 l’Austria si insediò nella provincia orobica dopo l’esperienza napoleonica non aveva un’opposizione da debellare. Anzi, le agevolazioni in materia fiscale approvate dal nuovo governo, la fine momentanea dell’odiata coscrizione militare, la pace promessa fecero sì che Bergamo accettasse quasi con favore il passaggio dai Francesi agli Austriaci. La visita in città dell’imperatore Francesco I avvenne in un clima di tranquillità. In quel periodo le preoccupazioni per il delegato, che era il rappresentante del governo centrale in periferia, erano più di ordine sociale che politico. Lo attestano i documenti conservati sia nell’Archivio di Stato di Bergamo, sia nell’Archivio Comunale. Alla richiesta da parte della polizia di Milano di un elenco di persone sospette, il delegato replicò con l’indicazione di alcuni accattoni e all’invito a sorvegliare i Massoni locali ribadì che essi non erano «né temerari né cattivi». Nell’ottobre del 1815 il commissario di polizia scrisse che il prezzo del grano e la leva erano gli unici argomenti che tenevano occupato lo spirito pubblico.

Il testo che qui si pubblica è la trascrizione dell’intervento della dott. Cancarini in occasione della presentazione del volume Spielberg. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859, avvenuta nella sede dell’Archivio di Stato di Bergamo nel maggio 2011. Il libro, edito nel 2010 dall’Associazione culturale Minelliana di Rovigo e curato da Luigi Contegiacomo, contiene l’inventario dei documenti conservati a Brno, capoluogo della Moravia e sede del carcere austriaco, riguardanti i detenuti politici italiani. Si tratta di oltre 40.000 carte ufficiali del governo asburgico, che sono state ora consegnate all’Archivio di Stato di Rovigo in formato digitale. Al dott. Mario Cavriana, in rappresentanza dell’Associazione Culturale Minelliana, e alla dott. Luisa Onesta Tamassia, in rappresentanza dell’Archivio di Stato di Bergamo, è spettata la descrizione della documentazione d’archivio, del suo valore storico e delle nuove possibilità di indagine che essa apre agli studiosi. Alla dott. Cancarini una rapida carrellata sull’adesione alla Carboneria e alla Giovine Italia di alcuni patrioti bergamaschi (o che hanno operato nella Bergamasca), i quali hanno conosciuto il carcere duro dello Spielberg.

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Gli avvenimenti del 1820-21, legati all’insurrezione di Napoli e poi del Piemonte, non trovarono particolare eco in terra bergamasca. Dagli atti processuali custoditi nell’Archivio di Stato di Milano risultano poche inquisizioni e pochissimi arresti (furono denunciati alcuni studenti universitari cittadini, che da Pavia erano accorsi in Piemonte e vennero interrogati alcuni giovani per aver diffuso componimenti satirici), ma furono inchieste relative a episodi isolati, non collocabili in un movimento organizzato, tutti più presenti in provincia che in città e in particolare nella zona del lago d’Iseo, al confine con Brescia, dove la cospirazione ebbe radici più profonde. A Brescia infatti il gruppo coinvolto nei tentativi insurrezionali era numeroso, politicamente attivo e organizzato, in stretto contatto con i Federati (alcuni letterati e patrioti bresciani avevano collaborato al “Conciliatore” e alle sue iniziative civili, quali le scuole di mutuo insegnamento). Della diversa atmosfera che si respirava nelle due città era consapevole lo stesso generale comandante della Lombardia che in un rapporto del 1820 lodò l’attaccamento alla monarchia austriaca di alcune province come Bergamo e Pavia, mentre sottolineò la maggiore potenzialità eversiva di Brescia. Analogamente, dieci anni dopo circa, il delegato così sintetizzò la situazione politica nella città orobica: «La gran massa... tanto per i suoi principi quanto per le sue abitudini e ancor più per i suoi interessi è disposta alla quiete». Comunque, tornando al 1820-21, anche a Bergamo vennero emesse sentenze pesanti per una cospirazione che in fondo non era andata molto più in là delle parole. Due in particolare le persone colpite. Andrea Zendrini di Breno (allora la Val Camonica faceva parte della provincia), studente del Collegio Ghislieri di Pavia, fu condannato a morte in prima istanza, pena successivamente ridotta a tre anni di carcere duro. Ma la sanzione più severa fu quella che colpì l’avvocato Antonio Solera, milanese di nascita, che all’epoca esercitava a Lovere in qualità di pretore. Nel gennaio 1820 il magistrato fu dichiarato in arresto. Egli era stato precedentemente giudice a Ferrara e l’inchiesta riguardava quel periodo della sua vita, quando, così diceva l’accusa, era stato in relazione con i Carbonari del Polesine. Condannato a morte, pena poi commutata in vent’anni di carcere duro allo Spielberg, Solera ottenne la grazia nel 1827. Si disse che la liberazione anticipata fosse conseguenza di delazioni e collaborazioni, accuse da cui l’ex magistrato si difese anche per iscritto portando a sua discolpa tra le altre la testimonianza di Confalonieri. All’inizio del 1832 anche nella Bergamasca iniziò a propagarsi la Giovine Italia, l’associazione fondata da Mazzini l’anno precedente, e si diffuse in particolare sulla costa orientale del Sebino ad opera di Giovan Battista Cavallini, imprenditore di Iseo (già pesantemente compromesso nei moti del 1821 e rientrato da qualche tempo dall’esilio), di Gabriele Rosa, sempre di Iseo, di Alessandro Bargnani, avvocato bresciano residente a Sarnico, che fece propaganda nell’ambiente della borghesia professionale della zona. La Giovine Italia inoltre riuscì a trovare adepti anche nel clero, uno dei canali privilegiati attraverso cui si proponeva di raggiungere gli strati popolari, come attesta la diffusione di scritti mazziniani nei seminari di Bergamo e Brescia. Un nucleo dell’associazione si costituì anche in città, dove peraltro ebbe scarsa diffusione, ad opera del medico Gaspare Belcredi, di origine pavese. Depose il milanese Luigi Tinelli: «In generale egli [Belcredi] si lagnava moltissimo dello spirito della gioventù di Bergamo, e mi ripeté sempre, che le maggiori sue relazioni e le sue speranze esistevano nelle valli».

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Abbastanza numerosi gli affiliati o presunti tali nella provincia (soprattutto professionisti, studenti universitari, qualche negoziante e artigiano), a dimostrazione che la Giovine Italia fece presa in particolare sulla borghesia media e piccola. La dissidenza era nuovamente più viva nelle valli che in città, in particolare nelle zone comunicanti con la Svizzera, da sempre transito, oltre che di merci, di idee, di libri, di materiale propagandistico. Si ricordi inoltre che dopo il 1821 proprio in Svizzera operava un’attiva colonia di esuli italiani e che da qui provenivano diverse famiglie nel tempo stabilitesi in terra orobica. Sempre Luigi Tinelli così dichiarò in proposito: «Circa le valli del Bergamasco seppi che un certo Piazzoni aveva gran credito nelle valli di S. Martino e del Brembo, e che era assai attivo nel lavorare i montanari e la gente di campagna: si crede che egli solo potesse contare su circa 400 paesani».

La repressione della polizia si abbatté sui federati già a metà del 1833 e, a peggiorare la situazione, vi furono le aperte rivelazioni di Carlo Foresti, un giovane farmacista di Tavernola, che confessò i rapporti avuti con i mazziniani. Alla fine delle inquisizioni, mentre i più furono assolti per assenza di prove, alcuni vennero condannati e, di questi, pochi presero la via dello Spielberg. Chi furono i bergamaschi, o meglio coloro che operarono nella provincia bergamasca per Mazzini, che conobbero il regime del carcere boemo? Sono quattro e nessuno di questi proveniva dalla città, a conferma di quella scarsa disponibilità alla parola rivoluzionaria di cui si è detto. Così si legge nel volume «I fogli matricolari dello Spielberg», edito a cura di Aldo Zaniboni nel 1937: «Giovanni Zambelli, alto tradimento per aver diffuso e propagato la Giovine Italia; pena di morte commutata in 2 anni, entrato il 21 aprile 1835, termine pena 11 marzo 1837. Innocuo. Nativo di Vailate…, d’anni 23, celibe, cattolico, figlio di padre vivente e studente di matematica». Così al rilascio: «Debole di costituzione, è incapace di sopportare aggravamenti di pena. Egli si comportò sempre con rispetto e correttezza; da principio mostrò un carattere molto ostinato, ma in breve si vide subentrare un lodevole cambiamento poiché egli divenne molto timorato di Dio e a un certo momento si lasciò trasportare fino all’esaltazione religiosa. Si mostrò sempre inclinato a migliorare i suoi principi. Denota modeste qualità spirituali e poca istruzione. Anche senza tener conto del suo innegabile miglioramento lo Zambelli non appare un congiurato molto pericoloso». «Alessandro Moscheni, alto tradimento, condanna a morte, commutata per grazia in 3 anni, per aver disegnato su commissione un’allegoria contro l’Austria secondo le idee della Giovine Italia e per aver distribuito stampe patriottiche. Entrato il 6 giugno 1835, termine pena 20 aprile 1838. Incensurato». «Nato a Valsecca in provincia di Bergamo, d’anni 36, cattolico, celibe, già soldato, ora architetto e incisore. È d’alta statura, di costituzione normale, ha viso lungo e smunto, capelli castano-bruni chiari, barba rossiccia, occhi azzurri, naso e bocca grandi, mento sporgente». Così al rilascio: «Soffre presentemente mal di petto e difficoltà di respiro, e gli si riscontra un battito nella regione addominale superiore; è un uomo di molte doti spirituali e di corrispondente coltura, di carattere fermo e freddo». «Carlo Foresti, pena di morte alto tradimento commutata in 2 anni, entrato il 6 giugno 1835, termine pena 20 aprile 1837. Incensurato». «Nato a Tavernola nella provincia di Bergamo, di anni 25, celibe, cattolico, praticante in farmacia. Di statura normale, magro, ha il viso ovale, di colorito sano, con capelli e sopracciglia castano-bruni chiari, occhi azzurri e profondi, naso grande, bocca regolare». Al momento del rilascio: «È di sana complessione, di qualità spirituali molto deficienti, incapace di servire quale organo rivoluzionario e dimostra sincero pentimento dei suoi delitti». «Gabriele Rosa, alto tradimento, pena di morte commutata in 3 anni di carcere duro». «Nato a Iseo, d’anni 23, cattolico, celibe, senza professione. È di piccola statura, di corporatura normale, di viso oblungo, pallido, butterato, di capelli castano chiari, barba, occhi castani, naso lungo, bocca grande, mento regolare». Sullo stesso registro al momento della liberazione il 20 aprile 1838 è annotato: «Il suo corpo è debole e dimagrito; egli è fornito di doti spirituali e di coltura, il suo carattere è dolce».

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È su quest’ultimo personaggio che desidero in particolare fermare l’attenzione non solo perché egli avrebbe avuto successivamente parte attiva nella vita politica bergamasca, ma perché lasciò memoria scritta degli anni trascorsi nella fortezza dello Spielberg in un’Autobiografia che fu data alle stampe postuma nel 1912. Sono pagine che non hanno certo la notorietà delle Mie prigioni di Pellico, ma non mancano di valore documentario e letterario. Seguiamo quindi le vicende di Gabriele Rosa attraverso il suo stesso racconto. Il patriota, che divise la sua esistenza tra Bergamo e Brescia, nacque a Iseo, in provincia di Brescia, nel 1812, da famiglia proveniente da Carenno, in val San Martino, e morì sempre a Iseo nel 1897. Frequentò le scuole normali a Bergamo, ma fu costretto ad abbandonare gli studi per aiutare il padre nella bottega da fornaio. Proseguì la sua formazione come autodidatta e non aveva ancora vent’anni quando la lettera aperta che Mazzini indirizzò nel 1831 a Carlo Alberto per spingerlo sulla strada del liberalismo lo infiammò di un entusiasmo simile a «corrente elettrica» che lo rapì «in vita nuova»: «[Giovan Battista Cavallini] venne con grande secretezza da me, e mi aprì il progetto di farmi capo di propaganda accorta, cautissima, secretissima, di società politica: la Giovine Italia, che proponeva di sollevare il popolo italiano contro gli stranieri e i despoti, e fare nazione unita, e libera. Quel secreto di cosa altissima, quella fiducia per affare gravissimo, quel piano progetto di tanto splendore, quello stile insolito, limpido, vibrato, tumultuante di Mazzini, mi suscitarono le intime fibre, mi diedero quasi le vertigini, mi pareva essere rinato altro uomo. Fu corrente elettrica che mi rapì in vita nuova. Decisi di sacrificare anche la vita per l’indipendenza e la libertà d’Italia, rinunciai ad ogni altro affetto, ad ogni divertimento e mi posi all’opera febbrilmente. Trovai una decina di giovinetti popolani energici in Iseo, stesi le file nella Riviera e nella Valle Camonica. Preparavamo cartucce e fucili, facevamo qualche esercizio di tiro a segno nei monti e ci preparavamo all’appello. Mi difesi da ogni allettamento d’amore femminile per non ammollirmi. Ai parenti, agli amici intimi non lasciai travedere segno alcuno: mi volsi di preferenza a giovanetti popolani animosi, virtuosi, ad uomini operai, saldi di spirito ed influenti, e rispettati, ed intelligenti. Andai ad appiccare fila a Pisogne.., a Darfo, a Breno, ad Edolo, a Gardone: mi posi in relazione coll’avvocato Bargnani Alessandro che era centro bergamasco a Sarnico, col D.re Belcredi a Bergamo».

Rosa aderì alla Giovine Italia e ben presto mise a disposizione dell’associazione la sua capillare conoscenza delle località bresciane e bergamasche con un intenso lavoro di propaganda lungo le rive del lago d’Iseo, ove «il contagio settario erasi più che in altro luogo dispiegato», in Valcamonica e Valtellina, e facendo la spola tra Bergamo, Brescia e Milano come latore di lettere e materiali a stampa. L’arresto nell’ottobre del 1833 è conseguenza della confessione del giovane Foresti. Così si legge nel costituto di un inquisito: «Rosa gli narrò, che prima dello spirare del 1833 sarebbe accaduta la rivoluzione in Piemonte, a Napoli, e in queste provincie ancora, che tutti si munivano perciò di armi, e che egli pure avea puliti degli schioppi per servirsene in quella occasione, animandolo a provvedersi di qualche arma egli pure».

Durante la perquisizione nella casa di Iseo gli vennero sequestrati alcuni testi sulla Costituzione inglese e sulla Repubblica cisalpina, oltre a un alfabeto a cifre convenzionali e a un lungo coltello. Al momento dell’arresto il patriota, che si descrive nell’Autobiografia molto forte da punto di vista fisico per le lunghissime marce cui era abituato, aveva 21 anni. Fu trasportato a Milano, prima nelle prigioni di Santa Margherita e quindi in quelle di Porta Nuova, «la bolgia centrale della polizia e del governo secreto d’Italia», «un vero pandemonio», in cui si vedevano capitare «prostitute... ruffiani, borsaiuoli, ladri e spie... d’ogni risma e d’ogni classe». Rievocando le vicende processuali che procedevano con esasperante lentezza, Rosa denunciò senza mezzi termini il comportamento scorretto dell’inquisitore Antonio Zaiotti e le «diaboliche» e perfide torture morali inflitte agli imputati, che «alteravano il cervello alla metà circa degli inquisiti». 50

Dalle celle vicine udiva «a forti colpi di martello ribadire i chiodi de’ ceppi» ai piedi di alcuni patrioti condannati e mandati in fortezza: «Que’ colpi ci piombarono sul cuore, ci parvero terribili: ma quando si applicarono a noi, forse per l’agitazione di tante cose nuove, non ci sembrarono sì spaventevoli».

Nell’aprile del 1835 affrontò con dignità la lettura della condanna alla pena di morte, poi commutata in tre anni di carcere duro da scontarsi allo Spielberg, nutrendo sempre comunque nell’animo la certezza di uscirne per riprendere la lotta contro il nemico. Così il trasferimento: «Pure nella miseria il viaggio fu piacevole. La varietà e novità de’ luoghi, il trovarsi insieme, per la prima volta a mangiare, a dormire, a riposare sette compagni, la compassione che si vedeva dipinta nel popolo pel quale passavamo, tutto contribuiva a farci dimentichi di nostra destinazione».

Nel libro largo spazio è dato alla descrizione delle condizioni di vita all’interno del carcere. Qui ci limitiamo a riferire alcuni passi significativi del racconto di Rosa. Per tutto il periodo della prigionia forte rimase in lui il desiderio di leggere e di studiare. Mentre gli venne proibita la lettura della Divina Commedia, gli fu concesso l’uso di pochi libri scientifici; si dedicò inoltre allo studio del tedesco e del greco, ma non ebbe il permesso di scrivere. Perciò cercava di memorizzare le nozioni che riteneva più importanti incidendo con un chiodo dei segni sul muro: «Per le cose lunghe e stabili con un chiodino facevo segni impercettibili da lungi sul muro, per le cose giornaliere segnavo leggere incisioni sulla tavoletta sulla quale posavansi le vivande, incisioni che si cancellavano passando sopra un dito bagnato».

E dalle guardie, nell’ora d’aria, «ogni giorno […] mi facevo dare una quindicina di vocaboli nuovi tedeschi, cinque li riponevo nella memoria, dieci li segnavo sulle unghie della mano sinistra, e poi li registravo sul muro della cella».

Per fare esercizio di lingua inventò, ovviamente “a mente”, un romanzo in tedesco e il compagno di cella uno in francese; così i due ingannavano le lunghe sere invernali narrandosi a sere alterne un capitolo della rispettiva opera. Nonostante i divieti, riuscì comunque a munirsi di un rudimentale strumento per scrivere qualche parola: «Avevo rubato un pezzettino di ferro dal badile che mi prestavano per sgomberare la neve, e quello sull’orinale rovesciato avevo affilato, indi assodato in caviglia di legno della lettiera nella quale lo nascondeva. Con quella specie di coltellino preparavo penne di paglia, e con carbone e grasso facevo inchiostro».

Un vero conforto erano le conversazioni che di notte riusciva ad avere con Confalonieri, rinchiuso a due celle di distanza: «Egli bramava tanto sentire nuove nostre, e dell’Italia, e dell’Europa quanto noi di comunicargliele, di stringere relazione con lui. Ratto mi feci sentire a lui, e furando le ore di minor attenzione de’ custodi, gli raccontai tutto ciò che sapevo e che a lui poteva importare. Ed egli poscia la sera al dolce lume della luna mi raccontò […] de’ suoi viaggi a Parigi e d’altre cose pubbliche che mi deliziarono. Io ero il più giovane a Spielberg, egli il più vecchio».

Come lavoro forzato allo Spielberg era rimasto l’obbligo di fare ogni settimana un paio di calzettoni di «fetida lana» con aghi di legno e il patriota, come gli altri carcerati, fu costretto ad apprendere l’«arte della maglia» e a trasmetterla poi ai compagni. Per rendere più sopportabile la vita quotidiana i carcerati ricorrevano a diversi stratagemmi. 51


Utilizzavano, ad esempio, piccoli gomitoli di lana per simulare il gioco delle bocce («giuoco innocentissimo nella stanza, che non faceva rumore di sorta») o si servivano delle verghe con cui battevano le coperte per tirare di scherma, ma il divertimento venne ben presto proibito perché «fu scritto che erano lì per soffrire, non per giuocare». Potremmo continuare con molti altri particolari, ma ciò che preme rilevare in questa sede è piuttosto la storia della stesura dell’Autobiografia. Rosa iniziò a scrivere quando venne confinato ad Iseo dopo la liberazione avvenuta nel 1838. È qui che verosimilmente avvertì l’esigenza di dare testimonianza della propria esperienza carceraria. Nel 1840 compose la prima parte, quella relativa alla famiglia e ai suoi primi anni. Sono pagine fredde, formali, con qualche eco manzoniano, senza valore letterario. Ma ben presto l’attività di studioso e giornalista, in contatto con il mondo milanese dove collaborò al Politecnico di Cattaneo e alla Rivista europea di Tenca, lo coinvolse intensamente ed abbandonò la redazione del testo. Ricominciò a scrivere solo due decenni dopo, nel settembre 1861, ad Unità acquisita, quando era impegnato a Bergamo su vari fronti (provveditore, membro della Giunta del Consiglio comunale, presidente del Comizio agrario e della Società industriale). Certo in quel frangente c’era la volontà concreta di dare un contributo alla ricostruzione del patriottismo preunitario, ma anche allora si limitò a redigere poche pagine, relative agli anni dal 1823 al 1830. È solo nell’estate del 1863 che riprese la penna e in due mesi compose di getto la parte più corposa dell’opera, quella che va dal 1830 al 1848, con il resoconto dell’adesione alla Giovine Italia, del successivo processo e della prigionia, fino alla partecipazione attiva alle vicende del 1848 e in particolare alla direzione dell’Unione, il primo giornale democratico orobico. Quando nel 1863 ricominciò a scrivere le sue memorie, il clima era quello della delusione per come si andava realizzando l’unificazione italiana. Rosa, che per convincimento e per carattere era lontano da qualunque posizione settaria (nel maggio 1848 aveva accettato contro le proprie opinioni il decreto di fusione con il Piemonte approvato dalla grande maggioranza dei Lombardi e dopo l’Unità, pur professandosi convintamente repubblicano, aveva deciso di servire la patria come provveditore), dopo i fatti di Sarnico e di Aspromonte si dimise dalla carica di provveditore e da allora venne accentuando la sua posizione antimonarchica, che tale coerentemente sarebbe rimasta anche dopo l’avvento della Sinistra al governo. In quel 1863 di cui si è detto Rosa rinunciò a partecipare in prima persona alla costruzione dello stato unitario e si dedicò all’Autobiografia, una sorta di bilancio della propria esistenza che assunse i connotati di una conversazione con sé stesso. L’opera, lo si è detto, si arresta al 1848, quando l’autore interruppe definitivamente la stesura. Del resto la data non è casuale: il 1848 corrisponde alla fase eroica della sua esperienza politica; gli anni successivi, pur con il raggiungimento dell’Unità, rappresentano per il patriota la delusione per la vittoria della soluzione monarchica e unitaria e la sconfitta del modello repubblicano e federalista in cui egli credeva. Solo più tardi, nel 1891, quando ormai «reliquia stanca della [sua] generazione» si ritirò ad Iseo a praticare la bachicoltura, egli scrisse una seconda autobiografia (Cenni biografici), molto più breve e concisa, ma cronologicamente completa.

La carcerazione, che in altri ha prodotto immagini di persecuzione e di morte, trova nelle sue pagine parole nuove. Il pensiero va a Pellico e alle sue ben note memorie. La testimonianza del letterato di Saluzzo è segnata dalla cristiana rassegnazione («Simile a un amante maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle il broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro»). E Rosa lo avvertiva quando scrisse: «Come i Promessi Sposi, le Mie prigioni è il libro della rassegnazione: commosse i cuori di una moltitudine, ma non suscitò un cospiratore, un martire per la libertà nazionale. In fatti Pellico, ch’io vidi dopo con sottile filo di vita fisica, nulla sperava di prossimo per questa patria, ma s’occupava di più di quella celeste. Ed il libro di lui, capo d’opera d’arte e verità psicologica, è più umanitario che nazionale».

In effetti, quando uscì dal carcere, Pellico non credeva più in nessuna forma di lotta, tanto da giungere più tardi a rimproverare agli italiani i moti del 1848, convinto com’era che solo la provvidenza e il ravvedimento degli oppressori potessero portare alla liberazione della patria. Diverso, come detto, è il resoconto che ci offre Rosa. Con le sue informazioni sullo Spielberg, senza negare la durezza della prigionia e la severità delle prescrizioni, egli delineò un Risorgimento meno retorico. Così Enzo Quarenghi nella prefazione alla riedizione dell’Autobiografia prima, edita nel 1997 dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso Maschile e Femminile di Iseo: «[Rosa] avvince il lettore senza stancarlo, lo commuove e lo fa sorridere per la sua naturale carica di ottimismo». È vero che non è corretto paragonare le esperienze dei due patrioti per l’interpretazione più umana dei regolamenti in vigore dopo gli anni Trenta (proprio la pubblicazione delle Mie prigioni nel 1832 aveva infatti in parte attenuato il rigore carcerario in uso allo Spielberg). Ma la diversità della narrazione sembra piuttosto determinata dalla profonda diversità dei loro caratteri. E l’impegno politico di Rosa dopo la liberazione ne è la prova più evidente. Con ciò non si vuole in alcun modo avvalorare la tesi che le condizioni di detenzione nella fortezza fossero quasi da «vacanza forzata» per dei «patrioti da salotto», come si legge in certa letteratura filoaustriaca (da ultimo anche il romanzo di Fausta Garavini In nome dell’imperatore, 2008, offre un’immagine del tutto edulcorata della reclusione). Come attestano ampiamente proprio i documenti editi nel libro che qui si presenta “Spielberg. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859”, nel quale per di più le fonti non sono le memorie dei patrioti ma i verbali, i rapporti, le lettere delle autorità centrali e locali, lo Spielberg fu e rimase, è bene sottolinearlo, una prigione di massima sicurezza, dove i condannati erano sottoposti a un regime assai duro e in cui l’esercizio di qualsiasi diritto, come ricevere cure mediche o scrivere lettere, era sottoposto all’autorizzazione dell’imperatore. Concludendo, a distanza di un ventennio da quell’«esercizio di libertà nella solitudine», Rosa con l’Autobiografia volle rendere testimonianza della sua personale evoluzione e delineare il suo progetto di vita, la decisione cioè di farsi storico che era maturata in carcere. E questo grazie all’«educazione di Spielberg», in cui «i forti diventa[va]no più tolleranti e chi meditava si riconciliava con gli uomini». Archivio di Stato di Bergamo, maggio 2011

Nell’Autobiografia Rosa sembra concentrare la sua esistenza negli eventi che la qualificarono: l’adesione alla Giovine Italia, il processo e soprattutto il carcere duro, che gli fece scoprire non solo la sua vocazione politica, ma anche quella intellettuale. Nella disgrazia egli trovò la sua esperienza decisiva e formativa, la possibilità di maturazione. Per questo forse la descrizione della prigionia allo Spielberg è lo scritto letterariamente più convincente del patriota iseano. 52

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Risorgimento e identità nazionale Margherita Cancarini Petroboni

Negli ultimi anni il ricorrere di anniversari significativi per la storia d’Italia ha concorso ad alimentare il dibattito sul senso di appartenenza nazionale, già periodicamente sollecitato da polemiche politiche che sono giunte a negare la struttura unitaria del paese. La ripetuta messa in discussione dello Stato nazionale ha prodotto, per una sorta di «eterogenesi dei fini», un risveglio di interesse per il Risorgimento, momento fondante del nostro passato e snodo risolutivo nella vita pubblica della penisola, che ha conosciuto una ritrovata attenzione sia a livello scientifico sia divulgativo. Nelle pagine che seguono, presentate in occasione di un intervento seminariale organizzato da Archivio Bergamasco per il 150° anniversario dell’Unità, si ripercorrono alcuni indirizzi di ricerca della recente storiografia che, allargando il campo di osservazione rispetto alla più tradizionale lettura del Risorgimento in chiave militare, politico-diplomatica e socio-economica, ha affrontato anche per l’Italia il tema del nation building con indagini prevalentemente centrate sull’età liberale, quando la memoria delle vicende connesse al processo risorgimentale poté agire più incisivamente come collante e fattore di aggregazione culturale. Sullo sfondo di un excursus di lungo periodo che inquadra storicamente la questione identitaria, filo conduttore del discorso sono le variegate politiche di pedagogia patriottica che lo Stato e la classe dirigente misero in atto dopo il 1861 con il fine programmatico di cementare le ragioni dell’Unità e mostrare la legittimità dei propri titoli.1 «Mi pare che l’eccezionale gravità del peso della storia nella coscienza collettiva italiana derivi dall’esplosiva combinazione di tre elementi: la coscienza di essere un popolo vecchissimo, il sentimento di una decadenza fra la gloria delle origini e lo stato attuale, l’inquietudine di esistere veramente solo da poco tempo». (Jacques Le Goff)

Senza il ricorso al concetto di nazione e ai termini a esso correlati di nazionalità e nazionalismo la storia europea dell’Ottocento sarebbe poco leggibile. Se è vero che convenzionalmente per nazione si intende una collettività di individui insediati in un determinato territorio, vincolati tra loro da comunanza di memorie, di cultura e di costumi, assai spesso (ma non sempre) di una stessa lingua e di una stessa religione, con un’unione rinsaldata dalla consapevolezza di questi legami, non si può non concordare con il filosofo francese Ernest Renan che nel 1882 in una celebre conferenza ebbe a dire che quella della nazione era «un’idea chiara in apparenza, ma facile a essere gravemente fraintesa» e con l’economista inglese Walter Bagehot che cinque anni dopo scrisse: «Sappiamo di che si tratta se non ce lo si chiede con precisione; ma incontriamo una qualche difficoltà a illustrarla e definirla in poche parole». Oggi, dopo oltre un secolo, con una prospettiva storica molto più articolata, sembra ancora più difficile dare della nazione una definizione soddisfacente. Nel corso del Novecento le due guerre mondiali, la scomparsa di imperi plurinazionali secolari quali l’impero asburgico e quello ottomano, il processo di decolonizzazione e la nascita di nuovi Stati nei continenti extra-europei, il rafforzamento degli integralismi religiosi e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, cui sono seguite la disgregazione violenta della Jugoslavia e la pacifica divisione della Cecoslovacchia in due Stati nazionali, hanno contribuito alla riproposizione delle problematiche connesse al ruolo delle nazioni e delle nazionalità e alle loro spesso drammatiche e laceranti conseguenze.

Il seminario cui si fa riferimento, dal titolo 1861-2011. Riflessioni su identità nazionale e identità locali, è stato tenuto da Margherita Cancarini Petroboni e Gianluigi Della Valentina il 4 marzo 2011, nel corso della XIII edizione del ciclo di seminari “Fonti e temi di storia locale” organizzati da Archivio Bergamasco. Il testo della presente relazione è stato pubblicato per la prima volta in «Quaderni di Archivio Bergamasco», n. 5, 2011, pp. 15-50, corredato da un robusto apparato bibliografico cui si rimanda per gli opportuni approfondimenti.

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L’identità nazionale con un’embrionale valenza politica iniziò come noto a delinearsi in età moderna in Francia, Inghilterra e Spagna. Con un’operazione dinastica concepita dall’alto le case regnanti, contenendo il peso della nobiltà e accentrando nelle loro mani un potere progressivamente sempre più deciso, costituirono delle realtà unitarie dotate di efficienti apparati amministrativi e militari e favorirono la formazione di consapevoli comunità nazionali, «principalmente limitate [...] a gruppi politici e culturali ristretti […], che tuttavia rappresentavano la prima esperienza di connessione del sentimento di nazione con la realtà di uno Stato indipendente e sovrano» (Emilio Gentile). Nel mondo germanico, nelle regioni dell’Europa centro-orientale e in Italia, dove a lungo mancò una dinastia solida, l’affermazione del senso di coesione nazionale fu più tarda, databile intorno alla metà del XVIII secolo, quando le élites intellettuali locali, in contrapposizione al cosmopolitismo di matrice illuministica e sotto l’influsso della cultura preromantica e romantica, rivendicarono l’identità dei singoli popoli basata sulla ricerca di comuni tradizioni storiche, letterarie e artistiche e sul patrimonio collettivo fatto di lingua e letteratura, di miti e monumenti. Fu tale conquista che nel corso dell’Ottocento mobilitò in Europa un numero crescente di uomini diventando un punto di riferimento normativo nella lotta per la libertà e l’indipendenza. La connotazione politica dell’idea di nazione e l’identificazione della stessa con il popolo e la patria è il portato forte della Rivoluzione francese: «Il principio di ogni sovranità risiede nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente». La nazione, in quanto fondamento etico del corpo dei cittadini, assunse il primato tra le forze politiche quale caposaldo di legittimazione dello Stato costituzionale e garante dei diritti degli uomini che a quello Stato dovevano lealtà e fedeltà. Anche in Italia la nascita della moderna coscienza nazionale, che segnò il passaggio dal «paese Italia», fatto assai antico, alla «nazione Italia», idea giovane, si intreccia strettamente con l’influenza ideologica esercitata dalla Rivoluzione francese sin dal 1796, quando Napoleone e i suoi simpatizzanti si illusero di poter ridisegnare la carta politica della penisola. Per i secoli precedenti si parla giustamente di «storia dell’Italia prima dell’Italia», imperniata sulla comprensione, sin dai tempi dell’antichità, di uno spazio fisico unitario compreso tra le Alpi e il mare; dell’uso, sempre dall’antichità, della parola «Italia» per denominare geograficamente quella superficie; dei molti lasciti culturali e pratici del passato romano, tra cui la consapevolezza di un’unità non solo geografica; del fatto che con il secolo XIII il termine «italiano», con richiamo a tutti gli abitanti, sostituì le precedenti denominazioni relative ad ambiti territoriali diversi (italici, itali, lombardi, romani o romanici, apuli o pugliesi); del formarsi di una cognizione unitaria di natura linguistica, letteraria e artistica tra il XIII e il XV secolo e contemporaneamente di un’area politica italiana, la cui unitarietà venne avvertita nel contesto europeo già con l’alleanza tra Comuni guelfi, Papato, Venezia e Regno normanno in Sicilia nella lotta contro il Barbarossa. Senza la costituzione di un’identità italiana nel lungo periodo e al di fuori della millenaria storia d’Italia, «tutta utile alla definizione dei suoi caratteri attuali e alla possibilità di emendarli» (Walter Barberis), non si potrebbe capire su quale terreno etnicoculturale la nazione politica avrebbe potuto porre in tempi successivi le sue fondamenta. Ma, se ci si riferisce alla realtà statuale nazionale o alla volontà politica concreta di una realtà statuale nazionale, la storia dello Stato italiano ebbe inizio con l’Ottocento. Grazie alle esperienze vissute a fine Settecento e in età napoleonica che rafforzarono le condizioni favorevoli alla crescita del movimento nazionale, il sentimento di italianità, da ‘mito culturale e letterario’ quale era stato fin dal Medioevo, maturò in ‘mito politico’, inteso come proposito di azione per liberare, unificare e rigenerare l’Italia. Il nesso tra idea di libertà e idea di nazione, ereditato dalla Rivoluzione francese, fu il nucleo essenziale del Risorgimento: liberali e democratici, unitari e federalisti, monarchici

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e repubblicani, discordi nella designazione di mezzi, metodi e obiettivi per la rivoluzione italiana e principalmente nella determinazione della struttura che la nuova organizzazione politica avrebbe dovuto assumere, condivisero fortemente l’idea dello Stato nazionale come presupposto necessario per affrancare il popolo secondo una visione basata su libertà, uguaglianza e dignità dei cittadini. È Mazzini a formulare e sostenere con passione e insistenza, nonostante i ripetuti insuccessi e le dure repressioni subite, un progetto politico centrato sull’unità della nazione: «L’unità d’Italia è cosa di Dio: parte del disegno provvidenziale che vuole il progresso dell’umanità, per mezzo di ciò che noi chiamiamo nazionalità [...]: è scritta nella nostra configurazione geografica, nelle tendenze manifestate dalla storia nostra, nella lingua che noi tutti scriviamo, nell’indole e nelle attitudini di quanti abitano la nostra terra: fu il verbo dei più potenti fra i nostri intelletti, l’aspirazione visibile, da Roma in poi, del nostro popolo nelle sue grandi e spontanee manifestazioni; la fede di centinaia, di migliaia di martiri, taluni monarchici, repubblicani i più».

Per il fondatore della Giovine Italia la nazionalità è pensiero comune, diritto comune, fine comune, ed è soprattutto coscienza comune. Grazie al suo programma nettamente definito in senso nazionale, democratico, unitario e diffuso da molte migliaia di affiliati con un’opera di proselitismo continuo e ostinato, l’idea di nazione mise radici più salde nell’immaginario collettivo delle minoranze impegnate a vario titolo nei dibattiti risorgimentali, anche in quelle che non si riconoscevano nelle sue proposte. La consapevolezza dell’importanza dell’apostolato di Mazzini dettò a Cattaneo, nonostante la decisa lontananza di vedute che separò i due patrioti, una rievocazione vivida e appassionata delle lotte di quei giovani mazziniani che avevano preparato il ’48 calandosi nell’«onda popolare» e svelando il mistero dell’unità: «D’ogni cosa essi fecero arme morale a confortare la moltitudine, conscia degli affetti suoi, ma inconscia della sua forza. Essi tradussero in vulgare alle smembrate provincie l’arcano dell’unità. Adoperarono i fogli clandestini e i publici, i canti, li evviva a Pio IX […]. Adoperarono i panni funebri delle chiese e i panni gai delle veglie festive; assortirono in tricolore le rose e le camellie, li ombrelli e le lanterne; trassero fuori il cappello calabrese e il giustacuore di velluto: il vessillo della nazione e quello delle cento sue città [...]. Essi rivelarono il popolo al popolo, l’Italia all’Italia; gettarono sul viso al barbaro armato il guanto della nazione inerme e impavida; trassero la plebe che aveva taciuto trent’anni, a dire d’una voce: l’ora è venuta [...]. Il popolo poteva fare: voleva fare; ma senz’essi non aveva fatto. Per essi ora è certo che l’Italia sa e l’Italia può».

Per quanto attiene all’area dei liberali moderati, se su di loro influì a lungo negativamente la convinzione giobertiana che la nazione italiana era «un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa», dal momento che, pur congiunta «di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre», essa era «divisa di governi, di leggi, d’instituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini», si deve nel contempo sottolineare che in Cavour, per citare uno degli esponenti più rappresentativi del liberalismo, agì sempre fortemente la convinzione che solo l’affermazione di una compiuta coscienza nazionale avrebbe permesso agli abitanti della penisola di emanciparsi e innovarsi: «La storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto livello di intelligenza e di moralità senza che sia fortemente sviluppato il sentimento della sua nazionalità». Una concezione della nazione strettamente connessa con il senso della dignità umana e la percezione di appartenere a una patria comune erano i requisiti indispensabili affinché gli italiani divenissero uomini moderni e cittadini liberi di uno Stato-nazione indipendente e sovrano. Naufragate le speranze del neoguelfismo e sconfitto il progetto repubblicano-unitario mazziniano, irrealizzabile il disegno federalista cattaneano, alla fine risultò vincente il piano politico di Cavour, la cui opzione si impose nell’ottica degli ideali nazionali e liberali dell’Europa

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del tempo e per la necessità di ‘diplomatizzare la rivoluzione’. Nella frase pronunciata a metà degli anni Sessanta dall’ex mazziniano e garibaldino Francesco Crispi: «La monarchia è quella che ci unisce, la repubblica ci dividerebbe», ci sono tutte le ragioni della vittoria monarchicocostituzionale e della scelta di un ordinamento unitario e accentrato, nonostante molti avessero chiesto il rispetto del pluralismo presente nel paese con la sua complessa geografia storica e istituzionale. Il mancato riconoscimento nel nuovo Regno delle varie realtà politiche, sociali, economiche e culturali ebbe, come ampiamente noto, notevoli ricadute in termini di carente identità nazionale. Così fu in particolare per le masse popolari, che soprattutto nelle campagne erano rimaste a lungo sostanzialmente estranee al movimento di unificazione, e parimenti avvenne per la gran maggioranza dei cattolici, che con il progressivo deteriorarsi dei rapporti Stato-Chiesa sino alla decisiva frattura del 1870 conobbero la fine della condivisione di quei valori religiosi che nei secoli avevano costituito un forte fattore di aggregazione tra abitanti di regioni diverse. Compito prioritario delle classi dirigenti fu «nazionalizzare le masse» e diffondere la consapevolezza di un modello unitario anche nei villaggi più sperduti, all’interno di popolazioni che vivevano spesso in ambienti culturalmente chiusi e territorialmente limitati, che parlavano dialetti locali e che avevano rapporti saltuari quando non inesistenti con lo Stato e le istituzioni. I 22 milioni di abitanti del 1861 (cifra che saliva a 26 includendo quelli del Veneto e del Lazio) dovevano divenire in tempi brevi 22 milioni di cittadini italiani, e, mutuando la nota espressione di Weber, dovevano passare «da contadini a italiani». Nel compimento del difficile e contrastato processo di nation building, la questione della debolezza del sentimento di appartenenza e di coesione fu, almeno programmaticamente, al centro dell’attenzione dei governi postunitari, che per l’elaborazione di validi strumenti educativi assegnarono un ruolo privilegiato alla scuola e all’esercito (peraltro con risultati meno soddisfacenti di altri Stati europei). In questa prospettiva obiettivi prioritari delle leggi per la pubblica istruzione che si succedettero nel Regno d’Italia furono l’alfabetizzazione e l’acquisizione di un codice comune, ma, congiuntamente allo studio della lingua italiana e alla sua progressiva sostituzione ai dialetti locali, si mirava all’insegnamento dei doveri del cittadino, del rispetto dell’ordine e delle gerarchie, dell’igiene della persona, dell’etica del lavoro e dell’etica del risparmio. Né è da trascurare la conoscenza delle diverse realtà del paese che si acquisiva tramite la storia, la letteratura e le carte geografiche. Parimenti l’esercito di leva, come prima grande «scuola della nazione», contribuì a italianizzare uomini di differenti regioni con l’addestramento all’ideologia della patria, ma soprattutto con la mescolanza dei soldati sul territorio attraverso la dislocazione dei reggimenti lontano dai luoghi d’origine e con l’acculturazione generale dei coscritti grazie all’imposizione dell’utilizzo della lingua nazionale e all’apprendimento della disciplina militare, della gerarchia sociale e delle buone maniere. Le aule scolastiche e le caserme rappresentarono gli spazi sociali deputati alla formazione patriottica dei giovani e all’insegnamento della cittadinanza, ma anche al senso di disciplinamento, alla mediazione ideologica, alla legittimazione degli ordinamenti sociali. Così Pasquale Villari nel 1866 in seguito alle polemiche per le gravi sconfitte di Custoza e Lissa: «L’esercito ha riunito tutti gli Italiani sotto l’onore della stessa bandiera, e di tutte le forme morali, unificatrici e civilizzatrici del paese, è divenuto la più efficace. Se non avesse fatto altro che tenere, per sei anni, uniti insieme centinaia di migliaia d’Italiani, educando al principio dell’onore e della lealtà militare così il gentiluomo di Napoli e Milano, come il pescatore del Mediterraneo o il capraro dell’Appennino, sarebbe stato già un benefizio incalcolabili».

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Ai gruppi al potere non sfuggì il «bisogno di patria» (W. Barberis), l’urgenza di un discorso nazionale che esaltasse i pregi dell’Unità ed enfatizzasse il ruolo dello Stato con la legittimazione di casa Savoia prima e con il rafforzamento del culto dei padri della patria poi. Se nella fase immediatamente successiva al 1861 la campagna di propaganda politica fu nella mani della Destra storica, in altri termini di una classe dirigente ristretta che, aderendo pienamente alla monarchia, rivolse la propria azione più agli individui da educare che alle masse da coinvolgere e manifestò grande cautela nei confronti del passato risorgimentale che doveva essere circoscritto all’ambito moderato-monarchico oscurando l’apporto ‘rivoluzionario’, è con gli uomini della Sinistra al governo, provenienti da una militanza democratica e portatori di istanze di rinnovamento politico-culturale, che iniziò a emergere la necessità «di rivestire il momento politico di sacralità» (Ilaria Porciani). Nell’opera di avvicinamento alla nuova religione civile fu adottata una pedagogia patriottica capace di coinvolgere la popolazione in una comune imagerie civique con la celebrazione di festività laiche, l’organizzazione di pubbliche cerimonie e l’edificazione di monumenti. Il fenomeno di una nazionalizzazione che passasse attraverso la rielaborazione mitica della propria storia interessò anche altri paesi europei, ma da noi il processo fu particolarmente difficile perché in Italia il nostro passato era il recente passato prossimo, ben vivo e presente nella memoria di tutti. I protagonisti delle vicende risorgimentali erano per la gran parte ancora in vita e spesso divisi dalle stesse accese e ricorrenti polemiche. In nome del primato della nazione e per la ratifica di una tradizione condivisa dovevano essere superati i contrasti ideologici che avevano contrassegnato il periodo epico del Risorgimento. Alla monarchia sabauda spettava l’obbligo di diventare l’emblema di quell’unità al cui compimento avevano concorso in tanti, tutti interpreti di un disegno che aveva portato tramite vie diverse alla conquista dell’indipendenza e della libertà e alla nascita dello Stato in cui si dovevano ora conciliare gli opposti. C’è di più. Unitamente all’acquisizione di una coscienza nazionale italiana si doveva promuovere nella penisola il convincimento della legittimità delle nuove istituzioni rappresentative. Al perseguimento di questa finalità contribuirono sia i progressisti per ostacolare l’influenza dell’intransigentismo cattolico e convalidare gli obiettivi raggiunti con l’allargamento dell’area di consenso, sia i moderati, che con il consolidamento del Regno vedevano irrobustito l’ordinamento politico, sociale, culturale contro la minaccia espressa dal pensiero radicale e socialista, più temibile dopo l’ascesa della Sinistra al potere e la successiva democratizzazione del sistema elettorale. Perciò gran parte del discorso nazionale, rivolto a strati di popolazione non abituati alla lettura o analfabeti, doveva avvenire in modo verbale e non verbale: in questa esigenza sta la scelta di veicolare il messaggio didattico-politico anche nelle piazze e nelle vie con l’innalzamento di statue e la posa di lapidi, con il riassetto toponomastico e gli interventi urbanistici, grazie ai quali le città divennero «una sorta di grande manuale», un «serbatoio culturale da sfruttare» per rendere visibile la nazione (Matteo Morandi). Nella ridefinizione dello spazio urbano segnato da presenze patriottiche, uno dei canali che più significativamente operò per la divulgazione di un’immagine celebrativa del periodo eroico furono i musei del Risorgimento, su cui è opportuno fermare l’attenzione per la valenza esemplare che ebbero nell’elaborazione del mito della nazione. Concepiti come luoghi di culto laici, atti a coinvolgere monarchici e repubblicani, liberali e democratici, militari e volontari, i musei fondati nei decenni centrali dell’età liberale risposero pienamente alle esigenze della Sinistra al governo e a quelle di Crispi in particolare, che, come sottolineò Gramsci, aveva l’«ossessione» della ratifica dello Stato unitario in chiave di esaltazione nazionale e popolare delle lotte per l’indipendenza. Consapevole della crisi

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di legittimità della classe dirigente postunitaria e della fragilità del sentimento identitario, lo statista promosse e avallò tutte le iniziative commemorative del Risorgimento che contribuissero a ridurre lo scollamento tra ‘paese reale’ e ‘paese legale’ e che attraverso la religione civile aggregassero attorno al potere gruppi sociali prima emarginati sotto il profilo del godimento della cittadinanza politica (emblematica l’inaugurazione del monumento a Garibaldi sul Gianicolo, avvenuta il 20 settembre 1895 nel venticinquesimo anniversario della presa di Roma). Con lui, in un processo di memorizzazione pubblica selettiva, si impose il recupero della tradizione democratica anche a livello simbolico, purificata dai tratti che risultavano non compatibili con la sua concezione politica. Nelle nuove sale museali il Risorgimento, proposto soprattutto nella sua dimensione politicomilitare, era illustrato da eroi e martiri, congiure e battaglie, carceri e fucilazioni. La scelta interpretativa ed espositiva era tanto più manifesta nelle città appartenenti all’ex Regno Lombardo Veneto, dove la liberazione dallo straniero era la chiave di lettura dominante del racconto storico, tutto imperniato sul conflitto tra italiani e austriaci. Così la coscienza dell’identità locale e nazionale si radicava nella costruzione di una memoria storica comune. I protagonisti dell’Unità erano affratellati in una visione conciliatoria del passato: padri indiscussi della patria erano Cavour e Vittorio Emanuele II (in particolare quest’ultimo), mentre la figura di Garibaldi campeggiava ovunque (grazie al sacrificio di Teano il suo mito non ammetteva limitazioni o negazioni). Il personaggio più marginalizzato era solitamente Mazzini e nell’assegnazione di questo ruolo ausiliario certo giocavano la coerenza con cui il genovese rimase fino alla morte fermamente repubblicano e la nomea di agitatore che egli portò sempre con sé per le trame cospirative organizzate negli anni della Restaurazione contro quella monarchia che nelle stesse sedi veniva celebrata. Se obiettivo dei musei era avvicinare allo Stato una società civile che non si riconosceva o stentava a riconoscersi nelle istituzioni, le tipologie espositive e i codici espressivi dovevano essere semplici e divulgativi, dovevano ‘parlare al cuore’ della gente e risultare facilmente accessibili anche a un pubblico non o scarsamente alfabetizzato, che di quella storia – lo si è già rilevato – molto spesso era stato attore e protagonista. Larghissimo spazio era perciò dato ai materiali iconografici che coinvolgessero emozionalmente il visitatore: le reliquie degli eroi, la terra dei luoghi di battaglia, i capelli dell’amato morto, la palla di cannone che aveva trafitto la fanciulla mentre ricamava, le pantofole di Garibaldi, il teschio del giovine ucciso, la bandiera insanguinata e, sempre presente, il poncho dell’Eroe dei due mondi. Forte la connotazione patriottica delle sedi, che, alloggiate in ex carceri, caserme austriache, castelli e roccaforti, rimandavano alla durezza della dominazione straniera e alle imprese gloriose dei combattenti per espugnarle. Anche il lessico adottato, spesso saturo di retorica carducciana (prioritaria la necessità di sacralizzare oggetti e soggetti di una storia collettiva che diveniva epopea) e frequentemente mutuato dalla matrice cristiana e dalla liturgia della Chiesa (modello insuperabile di rituali collaudato nei secoli), concorreva a supportare la religione laica della nazione. Del resto è in questi anni, da quando cioè il rapporto StatoSanta Sede assunse le caratteristiche della contrapposizione, che il processo di laicizzazione conobbe nel paese una sensibile accelerazione e la classe dirigente avvertì il bisogno di «occupare davvero gli spazi sia reali che simbolici ancora tanto fortemente controllati dalla Chiesa» (I. Porciani). Con le stesse finalità di ampliare il consenso per lo Stato unitario e stabilire relazioni con gli strati più allargati della popolazione, per diffondere le nuove formule della mitologia nazionale furono chiamate all’appello la stampa e l’editoria (compresa quella d’occasione), la storiografia, la lingua, la letteratura e la poesia, la lirica e le arti figurative, mettendo in campo di volta in volta la forza divulgativa delle riviste e dei giornali, la potenzialità istruttiva delle

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opere storiche e artistiche, la capacità evocativa dei versi e della musica, la valenza educativa dei romanzi di formazione.2 Difficile ovviamente determinare l’effettiva ricezione che il discorso nazionale, veicolato attraverso tanti e così vari canali, incontrò nelle diverse realtà della penisola e nelle differenti componenti della collettività, anche per la disparità esistente sul piano delle fonti «tra la documentazione che attesta l’esigenza di un progetto di pedagogia politica (una manifestazione, un monumento, un museo, ecc.) e la documentazione che dovrebbe invece offrire elementi per valutarne l’impatto e la fruizione nella società» (Massimo Baioni). È questo un aspetto (lo insegna la storiografia straniera) da approfondire con ricerche che aprono prospettive inedite, così come originali indirizzi di studio possono essere inaugurati spostando il fuoco delle indagini a livello periferico per accertare secondo quali modalità, in un contesto storico complesso e variegato quale quello dell’Italia dell’Ottocento, la didattica della ‘grande patria’ si sia relazionata in termini di convergenza o di contrapposizione con le ‘piccole patrie’ e con il senso di appartenenza locale. Infatti, mentre nella contemporanea Francia della Terza Repubblica lo sforzo di uniformazione di un codice iconografico nazionale venne recepito in tutto il paese in modo omogeneo giungendo a prevalere sui sentimenti di identità municipali, in Italia, sia a causa di una società da sempre plurale con tradizioni storiche e precedenti identità fortemente radicate, sia a causa delle difficoltà organizzative con cui lo Stato si dovette confrontare soprattutto nei primi decenni postunitari, i rituali commemorativi furono perlopiù demandati alle periferie e risultarono differenziati in base alle forze politiche e alle eredità culturali presenti sul territorio. In questi casi le pratiche costitutive identitarie, che avrebbero dovuto operare per il conseguimento di obiettivi formativi comuni, vennero invece non di rado ad agire come elementi centrifughi. Un primo bilancio dell’azione educativa nazionalizzatrice si poté comunque già fare nel 1911 in occasione del cinquantenario dell’Unità, nell’«anno santo» della patria, secondo la definizione che diede Giovanni Pascoli. In uno dei periodi politicamente più stabili e economicamente più floridi per il paese dal 1861, lo Stato monarchico-liberale celebrò una vera festa della nazione con riordini urbanistici, restauri e monumenti che cambiarono il volto di Roma e con cerimonie, congressi ed esposizioni che legittimarono in campo internazionale il ruolo di grande potenza acquisito dal giovane Regno che desiderava esibire al mondo intero, alle soglie dell’avventura coloniale, le conquiste della produzione, della tecnica, dell’industria. Così in un commento dell’epoca: «Noi non vogliamo certamente dimenticare alcuna delle glorie passate, anzi ci è caro rinverdirle tutte; ma noi non vogliamo poi esser più quel popolo cencioso che riveste un manto di porpora sdrucito per dare spettacolo ignominioso della nostra decadenza; noi siamo risorti per vivere di nostra vita propria, vigorosa e possente, ed abbiamo perciò diritto che il forestiero riconosca, in noi, non già de’ semplici guardiani dei cimiteri, o vili accattoni, o tenori imbelli, o briganti da romanzo, ma tutto un popolo vivace , risoluto, fiero e cosciente di una virtù che vuole risorgere e dare alla nostra vita nazionale un’impronta di nuova potenza e di nuova grandezza; ed è solamente così che noi vogliamo e che noi sentiamo di dover festeggiare il nostro cinquantenario». (De Gubernatis) Cuore di De Amicis, apparso nel 1886, è un emblema dei meccanismi attraverso cui agiva la didattica civico-identitaria. In una sorta di vangelo laico l’autore si proponeva di insegnare ai futuri cittadini della nuova Italia le virtù civili, l’amore per la patria, il rispetto delle autorità e dei genitori, lo spirito di sacrificio, l’eroismo, la carità, la pietà, l’obbedienza e la sopportazione delle disgrazie, e contemporaneamente la santità del lavoro, la volontà, l’operosità. Il diario di Enrico, il personaggio principale, era un apparato di modelli comportamentali elaborati per convincere i pigri o i deboli e per educare facendo leva sulle emozioni. Inoltre, il romanzo voleva essere la rappresentazione dell’unità anche etnica della patria e, insieme, la raffigurazione dell’uguaglianza sociale di un popolo quando è affratellato dal sapere. Erano fanciulli ogni volta di una diversa regione italiana i protagonisti dei nove racconti mensili di cui il maestro faceva copiare ‘in bella grafia’ gli atti di virtù o di eroismo; in questo modo all’interno dell’aula scolastica, spazio condiviso e luogo destinato alla conciliazione e alla ricomposizione sociale, si smussavano i contrasti e le differenze. Tutti i ragazzi dovevano essere «soldati non codardi» di un’armata che si sarebbe battuta in Italia e nel mondo in nome della civiltà. L’operazione pedagogica risultava così completa: i fanciulli erano veri soldati del sapere, come sarebbero stati nella vita soldati della patria. Il padre di Enrico al figlio: «Coraggio dunque, piccolo soldato dell’immenso esercito. I tuoi libri sono le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera, e la vittoria è la civiltà umana».

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Ma soprattutto il 1911, superate certe accentuazioni marcatamente anticlericali del periodo crispino, volle essere la testimonianza dell’incarnazione del modello nazionale risorgimentale nella monarchia sabauda e nelle istituzioni liberali, e nel contempo la consacrazione della patria unitaria degli italiani di ogni regione e classe sociale, in cui, nell’avvenuta ricomposizione inclusiva delle differenze del passato, nessuno fosse escluso da una memoria comune. In realtà molte erano le voci non allineate al generale trionfalismo che caratterizzò la ricorrenza, come rilevanti erano i problemi che l’unificazione non aveva risolto e che in alcuni casi aveva anzi concorso ad aggravare. All’appropriazione monopolistica del mito della nazione da parte della classe dirigente si opposero come noto i rappresentanti dell’«altra Italia»: i cattolici, in nome di un patriottismo che rispettasse le radici cristiane della popolazione; i socialisti, fermi nella polemica contro le menzogne di uno Stato borghese; i repubblicani, stranieri in un Regno che consideravano privo di effettivo consenso popolare; i nazionalisti imperialisti, forti di una concezione autoritaria e vitalistica della politica. Come loro, esponenti intellettuali e non della nuova generazione (è di quegli anni I vecchi e i giovani, il romanzo pirandelliano dei fallimenti collettivi e individuali come lo definì Carlo Salinari) manifestarono disinteresse e disincanto rispetto al mito fondativo del Risorgimento riconoscendosi nelle parole di Giovanni Amendola apparse sulla “Voce” del 1° dicembre 1910: «L’Italia come oggi è non ci piace». Eppure, nonostante tutto, esisteva una dimensione politica nazionale in cui tutti si identificavano e che non divenne oggetto di contesa. Consci che l’assetto unitario dello Stato era la condizione per la modernizzazione, coloro che da destra e da sinistra si opposero alla retorica delle commemorazioni e criticarono l’immagine ingannevole di un’Italia concorde e prospera non agirono per smantellare l’edificio statuale, ma al fine di trasformarlo in conformità del proprio ideale di nazione. Nei sentimenti di adesione maturati nel cinquantennio sta il risultato di quella campagna pedagogica e propagandistica che, portata avanti con limiti ma determinazione in età liberale, sarebbe stata sottoposta a dura verifica negli anni immediatamente successivi della Grande guerra, «una delle più terribili prove di amalgama nazionale» (W. Barberis). Nel maggio 1915 molti credettero che le operazioni belliche fossero un’opportunità non solo per completare la carta politica d’Italia, ma per rafforzare la consapevolezza di far parte di una stessa comunità. E, in effetti, fu così: per milioni di italiani la guerra fu la prima vera esperienza vissuta coralmente (5 milioni gli uomini mobilitati in Italia, 600.000 i morti e 2 milioni i feriti). I soldati, provenienti da diverse regioni, vennero a contatto spesso per la prima volta con le strutture dello Stato e negli eventi traumatici del fronte impararono a conoscersi anche attraverso la condivisione del dolore e della morte. Durante quei tre anni e mezzo gli abitanti della penisola iniziarono a scriversi e comunicare: è stato calcolato che da casa al fronte e viceversa le Poste abbiano recapitato più di 2 miliardi di lettere e cartoline. Se non tutti accettarono le ragioni ideali e politiche dell’intervento e tanti tornarono dalle trincee con sensi di ribellione nei confronti di chi nelle trincee li aveva inviati, è comunque in quella prova, in particolare nei momenti più critici come dopo Caporetto, che si ebbe un riscontro di quanto il processo di italianizzazione avesse operato. La coscienza di una storia partecipata contribuì a rafforzare le ragioni dell’appartenenza e della coesione. Per motivare le forze nazionali nei confronti di un conflitto presentato come la IV guerra d’indipendenza, furono riproposte tutte le varianti del mito risorgimentale, da quella monarchico-sabauda a quella democratica, garibaldina e mazziniana. Vennero inaugurati altri musei del Risorgimento (a Bergamo il 20 settembre 1917), nei quali l’interpretazione delle vicende ottocentesche fu fortemente piegata in funzione antiaustriaca e il patriottismo iniziò a colorirsi di accenti nazionalistici. Ai musei seguirono i viali della Rimembranza, gli ossari, i cimiteri di guerra, le lapidi, gli elenchi

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dei caduti, le statue di fanti e di alpini. Il Vittoriano, il più grande e dispendioso monumento nazionale europeo del XIX secolo, dedicato a Vittorio Emanuele II nel 1911, con la solenne traslazione del Milite Ignoto nel novembre 1921 perse la sua destinazione d’uso e da allora divenne nell’accezione comune l’Altare della Patria. Così Bruno Tobia che del complesso si è largamente occupato: «Il fante contende al re l’onore di sintetizzare i valori nazionali». Nel difficile clima del primo dopoguerra si venne consumando il distacco dai principi laici e libertari che dal Risorgimento si erano accompagnati all’idea di nazione. Su ciò avrebbe fatto leva il movimento fascista, la cui trasformazione in regime si associò come noto a un formidabile impegno di nazionalizzazione delle masse con un’opera di proselitismo a tutto campo basata sull’identificazione della nazione con il fascismo e sulla ridefinizione della propria identità. Il nazionalismo fascista, come ha giustamente sottolineato lo storico Gentile, non può in ogni caso essere letto come il risultato ultimo, esternato in forme più aggressive, del nazionalismo dell’epoca risorgimentale e postunitaria, né come imitazione dell’ideologia dell’Associazione nazionalista di Enrico Corradini. Se nella cultura precedente erano presenti alcuni elementi che si sarebbero ritrovati poi nel modello fascista come l’ideale della rigenerazione, del primato e della missione del popolo italiano, fu il Ventennio a sancire l’epilogo del binomio nazionelibertà che aveva caratterizzato la costruzione dello Stato unitario. Il mito della nazione, che nel corso dell’Ottocento aveva animato l’aspirazione all’indipendenza e alla libertà e durante l’età liberale aveva guidato l’elaborazione della religione civile, divenne il fondamento dello Stato totalitario, così come l’istituzione dello Stato-partito consacrò la supremazia definitiva dello Stato nei confronti della nazione. È in quest’ottica che il regime distorse e addomesticò tanto nei contenuti ideologici quanto nelle forme espressive il patrimonio del Risorgimento, dalla lettura fascista di Mazzini, profeta della nuova Italia secondo Giovanni Gentile, alla rivendicazione da parte di Ezio Garibaldi, tra gli altri, di un legame di continuità tra le camicie rosse garibaldine e le camicie nere mussoliniane. Durante la seconda guerra mondiale e nei primi anni dell’Italia repubblicana il rapporto con la memoria risorgimentale occupò un ruolo importante nel dibattito politico. Esula dall’economia del presente contributo l’analisi del complesso nesso tra Risorgimento e Resistenza, ma è opportuno rammentare quanto il richiamo alla tradizione patriottica e all’idea di un ‘Secondo Risorgimento’ abbia agito come elemento identitario forte per la politica unitaria delle forze resistenziali. E se quel ‘Secondo Risorgimento’ non costituì il medesimo riferimento per tutti (ognuno, come scrive Claudio Pavone, si scelse «il proprio pezzo di Risorgimento» cui guardare), esso valse in ogni modo come riconoscimento diffuso di una storia comune nella prospettiva di «uno Stato che fosse una configurazione politica della nazione sostanzialmente, oltre che formalmente, diversa da quella realizzata dal fascismo» (Francesco Traniello). L’8 settembre in altri termini non segnò «la morte della patria», secondo la potente immagine utilizzata nel corso degli eventi da Salvatore Satta in apertura del suo De profundis. Lo spaesamento dell’Italia a quella data, come è stato peraltro da più parti sottolineato, marcò il crollo di un progetto di nazione, non della nazione. Certo nel secondo dopoguerra pesò negativamente sulla percezione identitaria collettiva il monopolio del patriottismo messo in atto dal partito fascista negli anni del regime con le sue esasperazioni retorico-nazionalistiche, che incisero profondamente sulla mentalità pubblica. Inoltre i maggiori partiti del periodo postbellico (DC, PC, PSI) rappresentavano forze politiche estranee alla tradizione del Risorgimento, che «si appellavano a ideali universalistici, ai quali subordinavano, fino a oscurarla del tutto, l’idea della nazione e dello Stato nazionale come realtà politiche ed etiche» (E. Gentile). È con gli anni Novanta, nella crisi del passaggio dalla I alla II Repubblica, che il dibattito

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storiografico sul tema dell’identità tornò di prepotente attualità con un ripensamento anche radicale del nostro passato, accompagnato non di rado da una sorta di delegittimazione del Risorgimento e della Resistenza, i miti fondanti della storia del paese. A Renzo De Felice, che, riprendendo l’espressione di Satta, parlò di «morte della patria» per spiegare come con l’8 settembre si fosse consumata nella coscienza dei cittadini una catastrofe ideale per la perdita del senso di italianità, fece eco Galli della Loggia, che, inquadrando l’insufficienza identitaria in una dimensione quasi antropologica (l’«intima gracilità dell’organismo e della tempra nazionali»), asserì che la «sconfitta [era ] stata causa, e insieme prodotto e manifestazione, di qualcosa di molto grave e profondo: di una paurosa debolezza etico-politica […] degli italiani» e che l’Italia repubblicana, l’Italia della Repubblica dei partiti, aveva ereditato un destino di decadenza insanabile per le molte tare congenite. Così, dopo cinquant’anni di democrazia, alla fine del Novecento lo spirito pubblico del paese pareva soffrire di una sorta di «oblio», di «amnesia della nazione (E. Gentile). Si giunse provocatoriamente a parlare di «snazionalizzazione», di «una nazione che può cessare di esserlo» (Silvio Lanaro) e ciò, come ebbe a commentare Pietro Scoppola, era «un paradosso», in quanto in un regime democratico l’esercizio dei diritti civili, politici, sociali solitamente contribuisce a consolidare l’identità comunitaria. Anche oggi, nella ricorrenza dei 150 anni dell’Unità, non sono mancate manifestazioni e dichiarazioni fortemente antinazionali, che, rivelando la stretta interdipendenza tra politica e uso pubblico della storia, hanno concorso a dare visibilità a diverse appartenenze locali e regionali in nome di una presunta miglior interpretazione del composito mosaico dell’Italia delle «cento città». Ma, contemporaneamente, la cittadinanza sembra avere recuperato un rinnovato rispetto (non culto né mito) della nazione unita. Convegni, pubblicazioni, mostre, trasmissioni televisive, cerimonie e commemorazioni, di rilievo e valore assai diseguali, hanno focalizzato l’attenzione sulla problematica dimensione della nazionalità e sul paradigma identitario nella sua complessità con l’obiettivo di discutere le motivazioni di una storia collettiva di cui la scelta unitaria è parte integrante. Pur riconoscendo infatti le ragioni di chi rimarca i limiti e le insufficienze dell’unificazione italiana che hanno condizionato alcuni caratteri storici dello Stato-nazione, non si può tuttavia affermare che ci sia una «continuità fattuale e – peggio! – genetica» (come opportunamente osserva Giuseppe Galasso) tra l’insoddisfazione per i risultati ottenuti nel passato e l’indebolimento della tenuta etico-politica e della capacità operativa della Repubblica nel nostro tempo. Con tutte le sue carenze, lo Stato liberale postrisorgimentale, partendo da realtà politiche, sociali, economiche e culturali differenziate e disomogenee, ha creato i presupposti per lo sviluppo democratico della penisola che, in virtù di un faticoso percorso di crescita, si è sottratta alla situazione di arretratezza cui sembrava condannata prima dell’Unità. Grazie a quello Stato e a quell’iter formativo si è pervenuti all’attuazione di un’organizzazione istituzionale moderna in una dimensione politica nazionale. E, se «sono state molte le Italie degli italiani […], ciascuna coniugata con una propria ideologia della nazione, della politica e dello Stato, che la contrapponeva alle altre, convivendo in un rissoso antagonismo, che minacciava di degenerare, e talvolta sfociò, in guerra civile», si deve parimenti rilevare che «la storia degli Stati nazionali moderni è quasi ovunque storia di conflitti fra diverse concezioni della nazione, che hanno talvolta spinto i cittadini dello stesso Stato a combattersi violentemente come nemici» (E. Gentile). In occasione di un anniversario comunque costretto a confrontarsi con polemiche politiche spesso strumentali e con istanze di secessione o spinte centrifughe che hanno messo sotto attacco l’identità e l’unità del paese, per rispondere ai molteplici «vuoti di memoria» (Stefano

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Pivato) e alle tante rivisitazioni critiche del periodo risorgimentale che sulla base di nuovi miti di riferimento (siano essi padani, clericali o borbonici) propongono un ‘altro risorgimento’ quando non un ‘antirisorgimento’ o un ‘controrisorgimento’, può essere utile richiamare senza toni retorici le parole di Piero Calamandrei, uno dei nostri padri costituenti: «In questa Costituzione […] c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie […]. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo, nell’art. 2, “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, o quando leggo, nell’art. 11, “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle altre patrie, dico: ma questo è Mazzini! O quando io leggo, nell’art. 8, “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour! Quando io leggo, nell’art. 5, “la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo! O quando, nell’art. 52, io leggo, a proposito delle forze armate, “l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica” esercito di popolo, ma questo è Garibaldi! E quando leggo, all’art. 27, “non è ammessa la pena di morte”, ma questo […] è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani».

Bergamo, 4 marzo 2011. Già edito in “Quaderni di Archivio Bergamasco”, n. 5, 2011, pp. 15-50

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ANNO PRIMO DELLA STAMPA SATIRICA ITALIANA Paolo Moretti

L’occasione dell’incontro viene fornita dall’opportunità di presentare in visione uno splendido album di caricature satiriche del 1848 posseduto da un collezionista bergamasco. In realtà dei disegni caricaturali della Milano del 1948 purtroppo poco si conosce e diventa quindi difficile procedere con sicure attribuzioni, salvo il caso di disegni firmati da Francesco Redenti. Personalmente ritengo che quelli dell’album potrebbero essere attribuiti a Sebastiano De Albertis, pittore e caricaturista molto apprezzato all’epoca. L’omogeneità del segno grafico dei disegni potrebbe far pensare a un unico album di caricature, appunto di Sebastiano De Albertis. A quei tempi vi era la consuetudine di far circolare questi intriganti fogli volanti che qualcuno ha voluto definire “segni di giornali satirici”: vi era la tradizione di ritrovarsi a Milano al Caffè Martini che ospitava il citato Sebastiano De Albertis e il raffinato Camillo Cima, mentre a Torino ai Caffè Florio e Nazionale era possibile incontrare Icilio Petrone e Casimiro Teja, fondatori rispettivamente de “Il Fischietto” e “Pasquino”. Tornando all’album, si può rilevare che uno dei bersagli preferiti della satira del tempo è senza dubbio Radestzky. In una tavola viene dileggiato perché vuole dare l’assalto alla fortezza di Alessandria con mezzi inappropriati (Fig. 1). Sul personaggio è curioso il fatto che venga sovente rappresentato vecchio, stanco ed anche un po’ rimbambito: in realtà, come correttamente lo presenta il giornale torinese “Il Fischietto”, il maresciallo era ancora prestante, ma questo aspetto non era gradito alla satira milanese che, come consuetudine della satira anche di altri paesi, non rinuncia al tema scatologico allo scopo di mettere alla berlina il detestato nemico politico. Ricorrente in molte tavole è l’immagine del contadino milanese alle prese con l’aquila imperiale nella classica contrapposizione tra l’italiano sfruttato e l’austriaco oppressore (Fig. 2). Altre tavole presentano Ferdinando I Imperatore d’Austria descritto con una certa bonomia, incapace di risolvere problemi più grandi di lui e un diabolico messaggero che porta truppe fresche in soccorso a Radestzky. Gli elementi della morte del diavolo ricorrono frequentemente nelle tavole satiriche che per altro, evidenziano anche altri temi. Uno particolarmente interessante e di derivazione francese, è la riduzione delle persone in vegetali o animali. Nelle tavole presentate ad esempio gli arciduchi austriaci vengono trasformati in zucche, mentre i soldati croati, accusati di eccessiva fedeltà all’Imperatore, si ritrovano trasformati in somari o maiali (Fig. 3). Anche se non è il tema dominante di queste tavole si ravvisa una vena anticlericale nel disegno “Eterno riposo” che viene augurato ai despoti e ai “biscottinisti” che rappresentano un gruppo reazionario milanese animatore di salotti nei quali vengono offerti i biscotti (Fig. 4). E’ opportuno ricordare che la satira, in alcune sue manifestazioni grafiche, è molto anteriore rispetto alla stampa satirica. Il nome caricatura, espressione della grafica satirica, trova la sua origine in Italia nel ’600 con

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i Carracci, pittori bolognesi che usano questo termine per indicare l’esasperazione dei tratti fisici utile ad indurre al riso chi guarda. Una comprensibile attenzione viene riservata nel 1848 alla Sicilia oggetto delle mire inglesi e alla politica estera che presenta come protagonisti il gallo francese e l’aquila imperiale austriaca. A dicembre del 1848 sul giornale l’”Arlecchino” di Napoli, il primo giornale satirico apparso in Italia, numerosi disegni hanno per tema la competizione elettorale francese per la nomina del Presidente del Repubblica. Luigi Napoleone Bonaparte viene già allora accusato di nepotismo ed è spesso messo in ironica contrapposizione con il grande Napoleone I di cui il nipote sembra un ridicolo imitatore. Quanto all’”Arlecchino” per concludere con una identificazione politica si può dire che è un giornale ispirato dalla borghesia colta e cosmopolita, di sensibilità moderata ma sicuramente liberale e come tale spietato nei confronti dei codini rivoluzionari e non particolarmente sensibile, a differenza di altri giornali apparsi nello stesso anno, al tema dell’anticlericalismo. In conclusione appare necessaria una riflessione relativa alla forza espressiva della satira che in vari momenti è stata certamente manifestazione di un insopprimibile anelito di libertà (e questo è particolarmente evidente nel 1848), ma in altri momenti soprattutto nei periodi bellici è stato anche strumento efficace di propaganda. Nella storia della satira, la satira politica si esalta nei momenti di forte tensione morale e, come amaramente si può constatare è anche forse per questo che ora la satira giornalistica non conosce i suoi tempi migliori, ma è indubbio che la satira non morirà mai. Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, 26 ottobre 2011. Già edito in Studi dell’Ateneo - “Risorgimento... quanti uomini, quante storie”, pagg. 61-68

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Fig. 1

Fig. 2

Fig. 3

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LE DONNE DI CASA CAMOZZI Rosanna Paccanelli

Dalle numerose corrispondenze epistolari ottocentesche che si conservano negli archivi pubblici e privati emergono ritratti di donne, che pur sottoposte alle più svariate difficoltà della vita, seppero assolvere il loro compito di mogli, madri ed educatrici, ma anche quello di vere patriote. Donne che condivisero con gli uomini aspirazioni politiche, il sacrificio della lontananza, la sofferenza per le sorti e la perdita degli amici comuni, le perquisizioni, le requisizioni dei beni, le ansie e, talvolta, le frustrazioni per l’esito deludente delle azioni politiche e militari. Una di queste donne esemplari è senza dubbio Elisabetta Vertova, la mamma dei fratelli Camozzi, che, come molte altre donne delle quali poco o nulla ancora ci è stato tramandato, aderì alle istanze liberali dei figli, li spronò ad assumersi le proprie responsabilità, ad agire per il bene della collettività e a compiere fino in fondo il proprio dovere civico. La famiglia Camozzi è stata definita “una famiglia patriottica per eccellenza”, perché se i fratelli, Ambrogio, Giovanni Battista e Gabriele - questi ultimi in particolare - furono accesi sostenitori e promotori dei moti risorgimentali, anche le sorelle - Chiara, Anna Maria e Luigia - ebbero in quelle vicende un ruolo non marginale, assicurando ai fratelli un importante sostegno famigliare e organizzativo. Le cognate poi, Giovanna Giulini della Porta, moglie di Giovan Battista e Alba Coralli, moglie di Gabriele, possono essere definire delle vere patriote. Elisabetta era nata nel 1790 nel Palazzo avito di via S. Giacomo in Bergamo Alta, poi sede delle Suore della Sagesse. Il padre, il conte palatino Giovan Battista Vertova, discendeva da una delle più antiche famiglie di Bergamo e per questo era chiamato ad amministrare la città, con incarichi che gli verranno sempre rinnovati nonostante l’avvicendarsi di governi diversi. Dedita sin da giovane alla cura della famiglia, alle opere di pietà e di assistenza, Elisabetta continuerà anche dopo il matrimonio a coltivare la sua passione per la lettura, tanto che ancor oggi viene ricordata tra le più importanti donne bibliofile italiane per la quantità e la qualità dei testi immessi con il suo personale ex libris nella biblioteca della famiglia Camozzi. All’accrescimento dei suoi interessi culturali e al suo orientamento politico contribuì certamente la vicinanza del fratello Andrea Vertova, conosciuto per i suoi studi letterari e particolarmente amato da Elisabetta - forse perché bisognoso di cure costanti, essendo affetto sin da giovane da una leggera forma di paralisi.

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La casa Vertova, frequentata abitualmente da artisti, intellettuali e colti aristocratici, dopo il ritorno degli Austriaci era diventata anche un punto di riferimento per la Massoneria, essendo il conte Andrea uno dei più noti franchi Muratori residenti a Bergamo, come risulta da una segnalazione alla polizia del 1820. A testimonianza del legame di Elisabetta con il fratello Andrea, e dell’abituale frequentazione del suo salotto anche dopo il matrimonio, si è conservato un piccolo disegno acquerellato realizzato da Faustino Boatti nel 1826. Fotografando un momento di “Conversazione in casa del Conte Andrea Vertova” ed elencando sul retro del foglio i nominativi dei presenti, il pittore attesta l’identità dell’unica presenza femminile che compare a pieno titolo a fianco del padrone di casa in veste di salonnière: si tratta della contessa Elisabetta Camozzi Vertova accompagnata non dal marito ma solo dal primogenito Ambrogio (il più giovane alle sue spalle). È noto infatti che Andrea Camozzi alle conversazioni nei salotti preferisse la caccia e che, avverso alle novità, si fosse schierato a favore del governo austriaco guadagnandosi stima e fiducia da parte di quella amministrazione. La sua indole e la sua posizione politica lo ponevano quindi in netto contrasto con la famiglia, tanto che la nuora Giovanna, moglie di Giovan Battista, in una lettera al marito del 27 ottobre 1848, non riesce a trattenere la sua disapprovazione: “tuo Padre è un tedesco marcio che fa schifo -scrive- egli strapazza i migliori amici e fa loro una colpa dell’interesse che portano al paese [...] Odia e strapazza quanti parlano di politica e principalmente quelli che a me “riscaldano la testa”. Toccò verosimilmente a Elisabetta mitigare gli atteggiamenti ostici del marito nei confronti delle scelte politiche dei figli e convincerlo a sostenerli nei momenti di particolare difficoltà economica, soprattutto quando il governo austriaco impose tasse onerose e decretò la confisca dei beni a quanti si erano resi responsabili di azioni antigovernative e si rendevano perciò latitanti. A lei che, come sottolinea l’amico Giuseppe Clementi nell’elogio funebre recitato nel 1852, era capace di governare la numerosa famiglia “con l’autorità dell’affetto”, sempre pronta ad approvare e incoraggiare il volere dei suoi figli in quanto essa stessa “libera nel pensiero e nella coscienza”. E, a conferma delle qualità di Elisabetta, il patriota Clementi ricorda quando, abbracciando i figli in partenza per l’esilio, la madre si era limitata a dire loro: “Fate il vostro dovere”. Un messaggio inequivocabile per i figli che avevano frequentato l’Università di Pavia dove il pensiero mazziniano era stato accolto con particolare entusiasmo: era arrivato il momento di lottare per la libertà e ognuno era chiamato a compiere il proprio dovere. Ma alle figlie? Cosa diceva Elisabetta alle figlie? Cosa voleva dire in quei tempi per le donne “fare il proprio dovere”? In sostanza, cosa ci sia aspettava dalle donne? Cristina di Belgioioso, nel saggio intitolato Della presente condizione delle donne e del loro avvenire apparso nel 1866 sul primo numero dell’importante rivista fiorentina “Nuova Antologia”, traccia a tale proposito un panorama disarmante: la donna -scrive la Belgioiosostoricamente considerata come un essere fisicamente e moralmente inferiore e relegata “alla più assoluta obbedienza ai comandi dell’uomo” non desidera altro che la sua ammirazione e perciò si adegua al modello che gli uomini preferiscono, quello di donna debole, bisognosa di cure, intellettualmente sottomessa, esclusivamente dedita alla cura della casa e dei figli. Così che, alla donna in età avanzata, e perciò non più in grado di attirare le attenzioni dell’uomo e nemmeno impegnata nella cura dei figli, non rimane che rifugiarsi nelle opere di devozione e di carità. Una condizione certo comune alla maggior parte delle donne, destinate a maritarsi in età molto giovane a uomini per lo più scelti dalla famiglia, donne alle quali non era concesso

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legalmente alcun diritto nei confronti dei figli e nemmeno della propria dote, perciò private di uno status sociale al di fuori della famiglia. Alcune di loro però, nel corso dell’Ottocento, ebbero l’opportunità di ampliare la loro cultura, di acquisire una diversa consapevolezza di sè e di rivendicare il diritto a una propria identità. Credo che le giovani donne di casa Camozzi Vertova possano essere considerate tra queste fortunate eccezioni, anche grazie agli insegnamenti e all’esempio della madre Elisabetta. “Ringrazierò sempre la fortuna di avermi fatto appartenere a due famiglie che si distinsero in questo glorioso benché sfortunato periodo della Storia d’Italia” -scriveva Giovanna al marito Giovan Battista, esule in Svizzera dopo i combattimenti al Tonale nell’agosto 1848. La contessa Giovanna apparteneva a una delle più illustri e liberali famiglie milanesi in quanto figlia del conte Giorgio Giulini della Porta e della principessa Beatrice Barbiano di Belgioioso. Nel 1839, all’età di diciotto anni, aveva sposato Giovan Battista Camozzi de Gherardi, che aveva con lei un rapporto sia pur indiretto di parentela. A pochi anni dalla data del suo ingresso in casa Camozzi può essere fatto risalire un grazioso ritratto eseguito da Luigi Trecourt secondo i canoni del ritratto romantico ed esposto, nel 1841, all’annuale rassegna dell’Accademia Carrara. La giovane, seduta in un angolo del suo salottino riservato, sembra essere stata distratta dal pittore mentre è intenta nella lettura di un libro di piccolo formato. L’avvenuto legame matrimoniale si deduce dall’anello nuziale che mostra al dito della mano sinistra, collocata in evidenza in primo piano su di un fazzoletto bianco contrastante con il colore rosso dell’abito. Giovanna era sorella di quel Cesare Giulini che avrà un ruolo fondamentale nell’indirizzo delle vicende lombarde pre-unitarie e di Anna, moglie di Camillo Casati e perciò cognata di Teresa Casati Confalonieri. Dunque, sin da giovane e all’interno dell’ambiente familiare, Giovanna aveva respirato quel sentimento liberale che nel tempo era diventato anche per lei una vera passione politica, una passione che traspare in tutta la fitta corrispondenza epistolare con il marito Giovan Battista e con il cognato Gabriele nel periodo della loro forzata lontananza da Bergamo. Particolarmente interessanti sono le lettere di Giovanna al marito esule in Svizzera inviate prima da San Pellegrino (agosto 1848), dove si erano trasferite le famiglie bergamasche maggiormente compromesse politicamente, e poi dalla Ranica, dove si trovavano anche i suoceri e la cognata Camilla Agliardi, moglie di Ambrogio, primogenito di casa Camozzi. Proprio le due cognate (Giovanna e Camilla) sembrano essere state il soggetto di un dipinto di Luigi Trècourt significativamente intitolato La sorpresa. Il pittore, ospite in quegli anni della famiglia Camozzi e dunque partecipe di ogni evento famigliare, ritrae una giovane donna mentre mostra con una certa emozione una lettera a un’altra figura femminile. Si tratta forse della lettera che annuncia l’imminente rientro di Ambrogio? Ritroviamo in questo dipinto il clima di attesa efficacemente descritto da Giovanna al marito: “siamo qui tutti perplessi e come istupiditi, aspettando ansiosamente notizie che non vengono mai: siamo come gli assetati nel deserto”. Attraverso quella copiosa corrispondenza è possibile seguire le vicende politiche e militari di quei giorni, gli spostamenti, le difficoltà, ma anche la rete di assistenza dei profughi. Non potendo essere a fianco del marito a combattere per la libertà come avrebbe voluto, in quanto impegnata nella cura del neonato Cesare, della casa e della famiglia, Giovanna cerca comunque rassicurarlo e d’incoraggiarlo. Sembra che ogni sentimento personale, in un momento così tragico e precario, debba passare in secondo piano e, riferendosi alla recente morte del suo primogenito Giorgio, di cui si conserva un ritratto dipinto in quella circostanza da Luigi Trècourt, Giovanna lo incita a reagire, scrivendo: “ora è tempo di non mostrarsi interessati che delle disgrazie comuni, onde poter fare ogni possibile sforzo a mitigarle, e non togliere agli altri il tempo e la fermezza, perché è sicuro che l’avvilimento d’un amico toglie il coraggio agli altri”. 70

Giovanna legge molto, si procura giornali lombardi e piemontesi, fogli e riviste francesi, opuscoli mazziniani, e si dichiara risolutamente convinta della necessità di continuare a combattere ad ogni costo: “Io sacrificherei subito sostanze ed anche volontieri la vita perché la infelice mia patria ritornasse a libertà” – scrive il 24 agosto del ’48. Non parla e non scrive d’altro che di politica, ammette: “Abbiamo la fortuna di essere circondati da fidi amici e patrioti ardenti ai quali si può parlare”. Poi, prendendosela con il suocero che non vuol sentire parlare le donne di politica, si chiede: “di cosa si può mai parlare adesso?” Le informazioni vanno e vengono tra i due coniugi: Giovan Battista, trasferitosi dalla Svizzera in Piemonte, le invia giornali e, di rimando, lei puntualmente commenta gli articoli, formula ipotesi, si dimostra intelligente, risoluta nei giudizi e informata anche sulla politica estera. Giovanna vorrebbe raggiungere il marito a Torino ma il suo compito è quello di stare vicino alla famiglia e, tra l’altro, occuparsi dell’irriconoscente suocero, scrive: “quello che voglio fare a suo riguardo è di preciso dovere: dunque non si transige” e, testimoniando un clima di solidarietà femminile nella casa, aggiunge: “tanto più che i sentimenti della mamma mi compensano di tutto”. La corrispondenza epistolare tra i coniugi s’interrompe quando, nel 1950, Giovanna riesce a raggiungere il marito e il cognato Gabriele ad Albaro, nei pressi di Genova, dove i fratelli si erano rifugiati. Nella villa denominata “Lo Zerbino” Giovanna conosce Alba Coralli, che aveva raggiunto le sorelle, ferventi mazziniane, rifugiate con le loro famiglie nella casa dove stavano anche i Camozzi. Quando Alba conosce Gabriele Camozzi ha circa 32 anni, è sposata con il conte Belcredi e madre di due figli, Gabriele è celibe ed è più giovane di lei di cinque anni ma questo non impedisce che tra loro si stabilisca una particolare intesa, inizialmente basata sulla condivisione degli ideali politici ma poi destinata a trasformarsi in un’intensa relazione affettiva. Al 1851 risale quel fitto scambio epistolare attraverso il quale è possibile per noi seguire le loro vicende personali e familiari ma, soprattutto, riscontrare quanto l’impegno politico sia fondamentale nell’evolversi del loro legame affettivo. Scrive Gabriele: “ciò che fu sempre il mio primo pensiero, quello che io direi la mia missione, [è] l’idea della patria. Questa patria era ed è per me, dopo la famiglia, il primo ideale”; e Alba prontamente risponde “primo nostro scopo sia l’indipendenza del Paese, nostro supremo desiderio la guerra. Voi proverete l’amore per la Patria col braccio, noi col sagrifizio, in silenzio. Ad ognuno ciò che gli spetta, ma tutti facciano”. E Alba in effetti “fa”: mantiene i contatti tra i patrioti, distribuisce missive, diffonde scritti e opuscoli mazziniani, compiendo poi vere e proprie missioni. Come scrive Adriana Bortolotti (Le lettere tra Gabriele Camozzi e Alba Coralli, in www. bergamoestoria.it), Alba e Gabriele scoprono di avere molto in comune: entrambi sono animati da un forte senso di solidarietà e generosità, entrambi credono fermamente nei valori dell’amicizia e della famiglia, entrambi sono anticlericali convinti, ostili all’organizzazione ecclesiastica e al potere temporale del papa, ormai ritenuto un ostacolo per la realizzazione dell’indipendenza e della libertà italiana. Dopo la morte del marito, nel 1853, seguita a breve distanza da quella delle due sorelle e dei cognati, Alba si trova improvvisamente gravata dalle responsabilità della gestione familiare, dalla cura dei quattro nipoti e dei suoi due figli. Gabriele non l’abbandona, disposto a condividere con lei le gioie e il peso di questa nuova famiglia. In quegli anni “Lo Zerbino” diventa il punto di riferimento di molti profughi lombardi e piemontesi, e centro di cospirazione mazziniana. Tra l’altro, com’è noto, in quella casa verrà eseguito per la prima volta, il 31 dicembre 1858, al fortepiano che ancora si conserva al Museo Storico di Bergamo l’Inno a Garibaldi, composto da Luigi Mercandini.

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Nell’aprile del ‘59 Gabriele, alla vigilia della sua partenza come volontario nei Cacciatori delle Alpi, convince la riluttante Alba a sposarlo. Gli eventi politici-militari di quella primavera-estate sono vissuti dai due coniugi con particolare intensità e partecipazione emotiva, in quanto si prospetta l’occasione tanto attesa di contribuire alla liberazione della Lombardia. Alba si dichiara più volte orgogliosa del marito che, giorno per giorno, si guadagna sul campo onori e responsabilità ma, ben presto, il loro rapporto comincia ad affievolirsi e a fare i conti con difficoltà pratiche e finanziarie e, soprattutto, con le rispettive posizioni politiche, posizioni che nel tempo diventeranno sempre più divergenti. Infatti, mentre Gabriele, eletto Deputato rappresentante del Collegio di Clusone, e quindi coinvolto nella pratica di Governo, diventa un sostenitore della corrente moderata che fa capo a Cavour, mentre Alba rimane fedele agli ideali democratici mazziniani. Già nel 1860 Gabriele aveva scritto che Cavour era “l’uomo necessario, per la sua bravura, sincerità e dignità, a sostenere il movimento italiano”, mentre Alba di rimando aveva replicato che, al contrario, Cavour era “un politicante, pronto a giocare le sue carte e a fare gli interessi dello straniero”. Per entrambi inizia un periodo difficile: Alba si sente insoddisfatta, delusa e amareggiata in quanto a Torino, e nelle proprietà della campagna pavese e bergamasca delle quali è costretta a occuparsi, si sente isolata e, soprattutto, sente di aver perso quello status appagante di donna impegnata nell’ambito sociale-educativo e politico del periodo genovese. Inoltre la loro situazione economica comincia a creare non pochi problemi: le esigenze della famiglia, con l’arrivo di Lisa nel 1860 e di Attilio due anni dopo, erano aumentate, le ingenti somme di denaro impiegate da Gabriele per la causa non venivano restituite, le risorse delle rendite agrarie si erano notevolmente ridotte e lo stipendio di parlamentare di Gabriele era veramente esiguo. A tutto ciò si aggiungevano per Alba le preoccupazioni per i figli nati dal primo matrimonio che, nonostante i suoi ripetuti richiami, dimostravano una scarsa attitudine allo studio e un’innata indolenza che li porterà a condurre una vita dissipata. Le numerosissime lettere indirizzate ai figli Pietro e Rodolfo evidenziano il travaglio vissuto da Alba in questo periodo. Alba è una donna combattiva, e non rinuncia a sollecitare i figli, convinta com’è che l’educazione sia l’unica strada per formare una coscienza civica nei giovani. Allo stesso modo Alba scrive alla figlia Lisa: “Studia molto ed impara bene [...] applicati seriamente ad ogni ramo d’istruzione, a suo tempo farai scelta di quello che più si conviene all’indole tua. Tienti sempre innanzi agli occhi che devi sceglierti una Carriera, studia, medita, osserva senza posa quale più ti recherà diletto. Non dare orecchio mai a coloro che ti diranno: non ha bisogno di lavoro, è ricca, a che pro logorarsi per procurarsi una carriera? Sono stolidi che non sanno che ognuno di noi deve sapersi procacciare almeno quello che costa alla Società [...]. Il lavoro è fonte d’inenarrabili dolcezze; il lavoro intelligente poi è fecondo di gioie pure ed infinite [...] Io ho vissuto in tempi infelici […] Ma ora che un vasto orizzonte si apre all’intelligenza, ora che la donna può studiare quanto le aggrada, qual gioia maggiore di quella di abbandonarsi con passione a quel ramo di studi, a quell’arte nella quale si sente di riuscire con qualche distinzione. Volere è davvero potere e non lo devi dimenticare”.

italiane, del Laboratorio e delle case operaie di Santa Caterina e della Cassa di assistenza per la maternità. All’inizio del Novecento comincerà a dedicarsi ai problemi delle donne connessi all’emigrazione, fondando, nel 1907, un Segretariato permanente femminile per le donne e i fanciulli emigrati e assumendo in seguito ruoli di rappresentanza nel mondo dell’associazionismo femminile. Nel corso della I Guerra Mondiale continuerà poi ad occuparsi attivamente dei problemi delle profughe, organizzerà piccole industrie casalinghe e rurali, e lotterà per la difesa dei diritti delle lavoratrici. La storia di Lisa appartiene in gran parte a un periodo e a un contesto molto diverso da quello della madre Alba, ma è importante sottolineare che fu proprio la generazione successiva a quella delle donne che avevano lottato per il Risorgimento a creare le condizioni per la nascita di movimenti di rivendicazione dei diritti delle donne. Il caso di Alba e Lisa non è, infatti, un caso isolato: numerose sono le catene genealogiche che legano una madre a una figlia e che, passando da un secolo all’altro, costruiscono un continuum di piccole conquiste verso il pieno riconoscimento dei diritti delle donne, sia nel pubblico che nel privato. Un cammino davvero lungo, se si pensa che le donne dovettero lottare ben 86 anni per conquistare il diritto politico per eccellenza, cioè il “suffragio femminile”, un diritto che si cominciò a richiedere subito dopo l’Unità ma che si ottenne solo nel 1947, con le prime elezioni democratiche dopo l’esito del referendum dell’anno precedente garantito dal voto delle donne. Una storia, quindi, relativamente recente e un cammino che non può dirsi certo concluso, nonostante nel 1966 sia stato appositamente istituito un Ministero delle Pari Opportunità – ma anche questo la dice lunga. Osio Sotto - Biblioteca Comunale, 24 marzo 2011

Alba muore nel 1886, quando la ventiseienne figlia Lisa, dopo aver condotto a termine un brillante corso di studi, aveva cominciato a impegnarsi con grande determinazione in attività di carattere pedagogico destinate a lasciare un segno importante nella storia dell’emancipazione femminile, gratificandola quindi di quei risultati che i figli maschi non erano riusciti a raggiungere. Lisa, infatti, dopo il suo trasferimento a Roma, nel 1882, al seguito del marito Gualtiero Danieli eletto deputato al Parlamento, sarà tra le fondatrici delle Industrie femminili

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IL SALOTTO DI CLARA MAFFEI Rosanna Paccanelli

La principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso, che è passata alla storia come la più celebre protagonista femminile del Risorgimento italiano, in un saggio intitolato Della presente condizione delle donne e del loro avvenire, pubblicato nel 1866 sul primo numero dell’importante rivista fiorentina “Nuova Antologia”, scrive: «La società si è formata sulla base della supposta inferiorità delle donne. Allontanate, per volontà dell’uomo, da ogni studio che non si riferisca esclusivamente e direttamente alla immaginazione, come le arti dette belle, cioé la musica, la pittura, il ricamo, gli adornamenti della persona ecc. ecc., e [allontanate] da ogni partecipazione agli affari della società, le donne rimasero confinate fra le mura delle loro case, ove il maggior numero di esse seppe trovare un pascolo alla propria operosità, rendendo gradito al padrone della casa l’abitarla, e sgravandolo intieramente di quelle cure ch’egli giudicò meschine».

La Belgioioso qui fa riferimento a donne appartenenti al suo ambiente sociale, cioè a donne comunque privilegiate, perché è evidente che il problema delle donne appartenenti alle classi più disagiate, pensiamo per esempio a quelle costrette al massacrante lavoro nelle filande fin da bambine, non può essere ristretto solo alla parità dei diritti nei confronti dell’uomo ma investe la sfera più ampia di una problematica sociale, che nel saggio non viene considerata. In ogni caso, l’acuta analisi della scrittrice sottolinea come la generale condizione d’inferiorità della donna sia dovuta soprattutto alla mancanza di un’adeguata formazione culturale che le impedisce di avere un ruolo pubblico e che, nel migliore dei casi, la obbliga a ricercare una qualche soddisfazione solo nella sfera privata, nella quale comunque mantiene un ruolo subalterno sia nei confronti del marito che dei figli.

È noto che il modello del salotto di conversazione è tradizionalmente riferito all’iniziativa della Marchesa di Rambouillet (Roma 1588 - Parigi 1665) di mettere a disposizione di un ristretto gruppo di amici la sua residenza parigina per coltivare l’arte della conversazione in uno spazio alternativo a quello della corte e governato solo da regole di eleganza e cortesia. A partire da quella data (circa il 1620), si diffonde anche in Italia, sia pure con modalità e tempi diversi, la moda dei salotti alla francese che per tutto il Settecento continueranno a chiamarsi, significativamente, bureaux d’esprit. Pare, infatti, che il termine Salon sia stato usato per la prima volta solo nel 1807 dalla famosa scrittrice e salonnière Madame de Staël che, nel suo romanzo Corinne ou l’Italie, descrive il Settecento come un secolo in cui “il corso delle idee fu guidato dalla conversazione”, condotta appunto all’interno di questi Salons. La rapida diffusione dei salotti determinò, almeno in parte, l’evolversi dei rapporti sociali perchè rese possibile l’incontro non solo tra culture diverse ma anche tra ceti sociali, generazioni e sessi differenti. È in questo contesto che le donne cominciano ad avere occasioni per affermare una propria identità: sono infatti le donne a governare i salotti, donne autorevoli, in grado di tessere una fitta rete di rapporti pubblici e privati, di dare un’impronta ai loro ricevimenti, di attrarre letterati, filosofi, artisti e musicisti, ma anche giovani in cerca di promozione sociale. In quanto spazi di libero confronto, i salotti ebbero un ruolo importante anche nell’indirizzo generale della cultura: se nel Settecento favorirono la rapida diffusione delle idee illuministe, nel secolo successivo contribuiranno a formare la sensibilità letteraria e patriottica delle nuove generazioni, poiché la conversazione, inizialmente riservata a tematiche filosofiche e letterarie o musicali, si estenderà ben presto all’attualità politica e sociale. Esemplare è il salotto milanese della Contessa Clara Maffei che dagli anni ’30 dell’Ottocento fu, per circa cinquant’anni, uno dei luoghi più ricercati della società liberale, non solo locale. La notorietà del luogo deriva da un libro, intitolato appunto Il salotto della Contessa Maffei, pubblicato da Raffaello Barbiera nel 1895, a soli nove anni dalla scomparsa della protagonista. Un libro utile, perché scritto quando la Contessa era ancora in vita e perciò in grado di riferire i numerosi aneddoti raccolti dalla viva voce dei protagonisti, e di dare preziose informazioni tratte da documenti e carteggi oggi dispersi. Chi era Clara Maffei? Come nasce e come si caratterizza il suo salotto? In realtà quella che per tutti era Clara, o Chiarina, si chiamava Elena-Chiara-Maria-Antonia Carrara Spinelli ed era nata a Bergamo, il 13 marzo 1814, dal conte Giovan Battista Carrara Spinelli, originario di Clusone, e dalla contessa bresciana Ottavia Gàmbara, figlia della verseggiatrice Chiara Trinali e discendente della famosa poetessa rinascimentale Veronica Gàmbara.

La Belgioioso, pur dichiarando attuale “questo stato di cose”, ammette d’intravvedere da qualche tempo alcuni segnali di cambiamento in quanto alcuni uomini cominciano a mostrare un certo rispetto nei confronti delle donne “di coltivato ingegno” che hanno saputo farsi apprezzare per le loro qualità morali e intellettuali. Ma se alle donne era preclusa la possibilità di frequentare corsi di studi ordinari o cimentarsi nelle professioni riservate agli uomini, dove ebbero la possibilità di mostrare le loro doti, e farsi apprezzare?

A pochi anni dalla sua nascita, in concomitanza con la separazione dei suoi genitori, Clara fu mandata all’Istituto degli Angeli di Verona e nel 1826, dopo la morte della madre, trasferita a Milano nella “Casa di civile educazione per le fanciulle” di Madame Désirée Garnier, per corrispondere al suo desiderio di essere più vicina al padre, che in quel periodo risiedeva a Milano presso la famiglia dei Conti Litta, in qualità di precettore dei due figli. A Milano Clara viene educata secondo un regolamento che recita:

Ripercorrendo a ritroso il lungo e lento cammino dell’emancipazione femminile, si dovrà considerare il ruolo svolto dai famosi salons aristocratici che, in quanto luoghi di relazioni e di confronto, offrirono anche alle donne spazi e occasioni di promozione culturale e sociale.

«Le educande sono esercitate gradatamente nella bella scrittura, nell’ortografia, nell’aritmetica, nella lingua italiana e francese, nella storia, geografia e mitologia. S’insegnano pure le regole generali del ben parlare, un corso epistolare e i vari lavori femminili, tanto piacevoli che utili e indispensabili al buon governo di una famiglia».

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Si osservi che nel programma manca qualsiasi riferimento alla religione che, al contrario, era alla base dell’educazione impartita dagli istituti religiosi ai quali per tradizione veniva affidata la formazione delle giovani. Nel 1832, approssimandosi la data del suo diciottesimo compleanno e del completamento dei suoi studi, a Clara non resta che accettare la proposta del padre di sposarsi con Andrea Maffei, un brillante e affascinante poeta alla moda, molto apprezzato dalla società milanese per i suoi componimenti poetici e per le sue traduzioni di classici della letteratura inglese e tedesca. Inoltre il Maffei, grazie alla conoscenza del tedesco derivategli dalla sua origine trentina e dagli studi compiuti a Vienna, aveva ottenuto un impiego di un certo prestigio presso il Tribunale di Milano. Due anni dopo Clara dà alla luce una bambina, alla quale viene dato il nome di Ottavia in ricordo della nonna materna, ma la figlia vivrà solo nove mesi, lasciando la giovane in uno stato di grande prostrazione. Un quadernetto inedito, che ho trovato in un archivio privato dove si conservano molti documenti della famiglia Carrara Spinelli, testimonia lo stato d’animo di Clara che troverà sollievo solo nella lettura. Il 17 gennaio 1835 Clara, inaugurando il suo diario, scrive in francese alcune frasi che sembrano quasi un programma di vita [traduco]: “Del riposo, un dolce studio, un po’ di libri affatto noiosi, un’arma nella mia solitudine, ecco il mio porto è sereno”. Con la sua elegante e ordinata calligrafia Clara, utilizzando per lo più la lingua francese per le sue annotazioni più intime, trascrive tutto ciò che nelle quotidiane letture sembra più corrispondere al suo stato d’animo: considerazioni sull’amicizia, sulla pietà che uccide, sull’impossibilità di piangere costantemente un essere che si è perduto, sulla solitudine e sulla morte. Tuttavia, poiché le buone letture non bastano da sole a risollevare l’animo di Chiara, le amiche e il padre convincono il marito a occuparsi maggiormente di lei, trasferendo in casa le sue riunioni con gli amici che abitualmente si svolgevano presso gli eleganti caffè della città. Così, secondo Raffaello Barbiera, nasce il salotto della contessa Clara Maffei a Milano, dove i coniugi avevano preso alloggio, in via dei Tre Monasteri, l’attuale via Monte di Pietà nei pressi di Brera. Tommaso Grossi, Massimo d’Azeglio e Giulio Carcano, insieme al pittore veneziano Francesco Hayez, tutti in qualche modo legati alla cerchia di Alessandro Manzoni, sono tra i primi e più assidui ospiti. Clara si dimostra subito un’ottima padrona di casa grazie al suo carattere, alla sua educazione e forse anche ai consigli del padre che, nei suoi dialoghi Della educazione privata, pubblicati nel 1828, raccomandava alle signore di tenere un comportamento naturale in società e di “por giù quel sostenuto e quel contegnoso, che a favellare non invita, e mette quasi in soggezione colui che avrebbe voglia di conversare”. Raffello Barbiera racconta, infatti, che la contessa Maffei “sembrava nata per ricevere, per guidare una conversazione, per annientare abilmente, nel calore delle discussioni, gli attriti”. Tra gli ospiti famosi di quei primi anni non possiamo evitare di citare Honoré de Balzac giunto a Milano, il 19 febbraio 1837. Il suo arrivo era stato annunciato a Clara dall’amica Fanny Sanseverino Porcia che, da Parigi, l’avvertiva: “è un uomo piccolo, grasso, paffuto, rotondo, rubicondo, con due occhi però negri e scintillanti; foco nel dialogo, il foco della sua penna”, una penna che Clara conosceva bene in quanto appassionata lettrice dei romanzi della letteratura francese. 76

Immaginate perciò con quale emozione la giovane, che allora aveva 23 anni, possa aver accolto l’autore dei libri dai quali aveva tratto tanti spunti di riflessione, come dimostrano le note contenute nei suoi diari. Con lui stabilisce subito un’intesa fatta di ammirazione e di condivisione intellettuale, con lui passa buona parte del giorno e della sera, tanto da essere redarguita dal marito in una lunga lettera, pubblicata dal Barbiera, nella quale ben si coglie quanto fosse ritenuto importante il rispetto delle convenienze sociali. Scrive Andrea: «Cara Clarina, io temo che mi sarà difficile l’allontanarmi dal Tribunale; tuttavia mi ingegnerò. Se alle due ore non mi vedi, va pure con il signor Balzac allo studio del nostro Hayez. La contrada è poco frequentata e passerai non veduta. Ora, mia cara Clarina, desidero che un poco mi ascolti e rifletta con animo tranquillo alle mie parole, come se uscissero dalla bocca di tua madre. Tutti gli occhi sono conversi a questo celebre straniero; tutti sanno che egli passa in casa nostra molte ore del mattino e della sera, trascurando le famiglie dove ha pur trovato inviti e cortesie senza fine [...] Se le visite del signor Balzac si limitassero alle sole ore notturne, io non uscirei dalla mia inerzia per inviarti questa lunga lettera, ed anzi mi sarebbe gratissimo che mia moglie sapesse trattenere un uomo di tanto grido. Ma alla condotta di questo signore parmi di riconoscere ben altro fine [...]. Pensa, mia Chiarina, che tu sei l’amore di Milano [...] Non perdere, per carità, quella bella ed invidiata riputazione che ti sei acquistata colle amabili tue bontà. Non fare che questo straniero abbandoni Milano lasciandoti in braccio al dolore e al rimorso».

Il problema poi si risolse fortunatamente con la partenza del romanziere perché Balzac ha lasciato una descrizione della amica Clara tanto lusinghiera da avvalorare, in qualche misura, i sospetti di Andrea, scrive Balzac: «La Contessa Clara era piccola; ma si sarebbe cercata invano una figura più elegante, più snella e più morbida. Ella camminava, si sedeva, parlava con una grazia perfetta. La sua testa era congiunta alle belle spalle con una linea tanto graziosa che i migliori pittori avrebbero forse dubitato di poterla imitare. Capelli neri come l’ebano, ricadevano in grossi boccoli lungo le guance colorite. [...] Il contorno del viso formava un ovale perfetto. [...]. La Contessa Maffei non era meno riccamente dotata sotto l’aspetto dell’intelligenza e dello spirito. Parlava il francese con la grazia e l’eleganza di una parigina, col fuoco e la vivacità di un’italiana. Aveva familiarità con la nostra letteratura; non c’erano libri nuovi che non conoscesse, sui quali non potesse formulare un giudizio pieno di finezza e di esattezza. Aveva la battuta pronta, e sapeva raccontare con una grazia e un fascino infiniti.»

Col tempo il salotto di casa Maffei si anima sempre più, lo frequentano letterati, celebrità nel campo teatrale, musicisti, aristocratici, dame in età da marito e, soprattutto, giovani desiderosi di intrecciare relazioni e assicurarsi protezione. Racconta il Barbiera: «Tutte quasi le signore e i signori [ ...] andavano in casa Maffei, dove si tenevano spesso ammiratissimi concerti, specialmente in onore dei forestieri illustri che vi erano presentati».

Nel 1842 anche Giuseppe Verdi, accompagnato dalla soprano Giuseppina Strepponi che sarebbe poi diventata sua moglie, non potrà sottrarsi ai festeggiamenti organizzati in suo onore nel salotto Maffei, che da poco si era trasferito in un ampio appartamento in piazza Belgioioso, in fianco alla casa Manzoni. Verdi era l’eroe del momento, osannato da tutta Milano dopo l’incredibile successo del Nabucco alla Scala quando, il 9 marzo, la sera della prima, il pubblico aveva richiesto più volte a gran voce la replica del Va pensiero e si era poi unito al coro, del popolo ebreo deportato suscitando, per questo, reazioni anche violente da parte degli austriaci. Se il melodramma è stato considerato come uno dei più efficaci veicoli per la diffusione del sentimento liberale, non dobbiamo dimenticare che anche la letteratura e le arti visive, non si sottraggono al medesimo compito. In questo periodo, infatti, vengono proposte

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tematiche e immagini che, sia pur in modo non esplicito, riescono ad entrare in sintonia con le aspettative di un pubblico ormai abituato a cogliere significati al di là dell’apparenza. È singolare che le personalità più eminenti e più culturalmente impegnate in questo contesto convergano al salotto di casa Maffei: Manzoni, Grossi, Carcano, Hayez e Verdi sono da subito, come si è detto, i primi frequentatori ma nel tempo diventeranno anche gli amici più sinceri e affezionati, quelli che le resteranno fedeli per tutta la vita. L’amicizia di Giuseppe Verdi e Clara Maffei, per esempio, forse originata dalla comune esperienza di un lutto famigliare (Verdi prima di conoscerla nel giro di due anni aveva perso tutta la sua famiglia) e testimoniata dal tono confidenziale delle molte lettere conservate, durerà fino alla morte di Clara (1886), quando Verdi accorrerà al suo capezzale per salutarla per l’ultima volta. Il 1842 segna anche una svolta nella vita di Clara perché, dopo la morte del padre, la contessa comincia a disporre liberamente della casa di Clusone della famiglia Carrara Spinelli. In quell’ambiente sereno, a contatto della natura, Clara si circonderà di un gruppo di amici selezionati e, potendo ormai contare su di una discreta autonomia finanziaria, maturerà la decisione di separarsi dal marito. In base all’accordo, steso nel giugno del 1846 dal notaio Tommaso Grossi e sottoscritto da Giulio Carcano e Giuseppe Verdi, Clara acquista la sospirata libertà pur senza rompere del tutto il vincolo matrimoniale, tanto che continuerà, anche dopo l’istanza di separazione legale del 1850, a portare il nome del marito. Ma, anni dopo, ricordando quel difficile periodo, Clara scriverà: «Io volli almeno acquistare la completa indipendenza delle mie azioni e del mio vivere, e potermi dire ‘io appartengo a me medesima e, solo io, voglio essere giudice del mio operare’. E vinsi almeno la schiavitù delle cose convenzionali».

In realtà Clara non ebbe mai il coraggio di vivere liberamente e, pur avendo conosciuto quello che Verdi definiva ”l’uomo giusto”, cioè Carlo Tenca, deciderà di limitare il loro rapporto a quella che lei stessa definiva “un’amicizia ideale”. La loro convivenza era limitata ai brevi periodi estivi nella casa di Clusone, dove l’amico poteva confondersi con i molti ospiti in un’atmosfera più informale e libera, mentre in città la signora Maffei, costretta al rispetto delle regole di convenienza, viveva da sola al primo piano di una casa in via del Giardino (al n. 46 dell’attuale via Manzoni). Un piccolo ritratto di Clara dipinto dall’amico Eliseo Sala nel 1844 mostra una giovane trentenne molto diversa dalla giovane ritratta da Hayez e descritta da Balzac. Clara, compostamente seduta su una seggiola, tiene il dito indice tra le pagine di un libricino molto simile al formato dei suoi diari. Il suo abbigliamento, la sua acconciatura, lo sguardo stesso, restituiscono un’immagine di lei più domestica e più consona al modo di essere del nuovo compagno che, anche fisicamente, offriva il maggior contrasto possibile con la bellezza e la raffinatezza del marito. Tenca, al contrario del mondano Maffei, era di carattere schivo e riservato; minore della contessa di poco più di due anni, proveniva da un’umile famiglia, appena diplomato si era dedicato all’insegnamento in istituti privati e, contemporaneamente, aveva cominciato a collaborare a diversi periodici come critico letterario. Era inevitabile che Carlo Tenca diventasse l’elemento catalizzatore del salotto di Clara e che questo, in sintonia con l’evolversi degli avvenimenti politici di quegli anni, assumesse un orientamento sempre più politico e patriottico, pur rimanendo uno spazio di libero confronto

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dove mazziniani, federalisti e filopiemontesi erano allo stesso modo ben accolti, nonostante le amiche più intime di Clara, la scrittrice Giulietta Pezzi o Saulina Barbavara Viola, fossero mazziniane appassionate come lo stesso Tenca. A proposito della rivolta milanese del 18 marzo, e dei combattimenti che seguirono e che passarono alla storia come le Cinque Giornate di Milano, Giovanni Visconti Venosta scrive che “fra i combattenti più eroici, c’erano molti frequentatori del salotto di Clara, guidati da Cesare Correnti”, e aggiunge che il Governo Provvisorio presieduto da Gabrio Casati, costituitosi nella notte tra il 21 e 22 marzo, annoverava molte personalità vicine a Carlo Tenca, mazziniani o filipiemontesi che fossero. In quei giorni tutti diedero il loro contributo alla lotta con grande spirito di solidarietà: operai, commercianti, borghesi, nobili, sacerdoti, giovani studenti, seminaristi e perfino le donne salirono sulle barricate. Tra le donne che, come Clara Maffei, soccorrevano i feriti, visitavano gli ospedali, raccoglievano fondi, distribuivano vivande, fabbricavano bende con la biancheria di casa e infondevano coraggio ai combattenti, ebbe un ruolo importante Laura Solera Mantegazza. A lei il Governo Provvisorio della Lombardia affidò l’incarico di organizzare un servizio di ambulanze per il soccorso dei feriti dell’uno e dell’altro schieramento, precorrendo in tal modo quello che, dopo la battaglia di Solferino del 24 giugno1859, sarebbe diventato l’istituto della Croce Rossa, per iniziativa di Henry Dunant. Mentre la Mantegazza distribuiva un foglio intitolato “Madre lombarda” con il quale incitava le concittadine all’impegno civile, le popolane partecipavano attivamente alla guerriglia. La milanese Luigia Battistossi Sassi, per esempio, passò alla storia come “eroina delle barricate”, per aver, travestita da uomo, disarmato da sola un soldato austriaco e fatti prigionieri altri cinque, meritandosi una pensione annua dal Governo provvisorio. E lo stesso accadeva altrove: è noto infatti che a Venezia le donne che avevano partecipato alla Guardia Civica (compresa l’amica d’infanzia di Clara, Teresa Mosconi) in nome del diritto alla cittadinanza politica per le donne, avanzarono perfino la richiesta della costituzione di un battaglione femminile armato. Principio sostenuto del resto anche da Giuseppe Mazzini che, pronunciandosi ripetutamente a favore dell’emancipazione femminile, si era aggiudicato il sostegno appassionato di molte donne - anzi di molte “sorelle”, come lui stesso amava definirle - pronte a contribuire alla causa soprattutto con la raccolta di finanziamenti. Le cronache milanesi raccontano poi di un’altra donna coraggiosa, accorsa a sostegno della lotta del popolo milanese. Si narra infatti che, il 6 Aprile 1848, la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso, con indosso abiti maschili e con un cappello piumato all’Ernani, abbia fatto irruzione dal bastione di Porta Romana in sella al suo cavallo bianco a capo di un battaglione, denominato poi “Battaglione Belgioioso”. (Il Museo Storico di Bergamo conserva il suo fucile da caccia). La quarantenne principessa, nota per la sua condotta liberale e scandalosamente anticonformista, avuta notizia delle vicende rivoluzionarie milanesi mentre si trovava a Napoli, aveva reclutato circa 180 volontari, li aveva equipaggiati, armati, trasportati in piroscafo a Genova e poi guidati fino alla città insorta, anche se poi era arrivata in ritardo di 15 giorni. Quando, il 6 agosto del ’48, gli Austriaci ripresero il possesso di Milano molte famiglie vennero indagate, perseguitate e obbligate al risarcimento delle spese di guerra, mentre gli individui più compromessi furono costretti a prendere la via dell’esilio. Anche Carlo Tenca con la madre e Clara raggiunse Locarno, unendosi a quella moltitudine di emigrati che ormai 79


affollavano il Canton Ticino e che, da Lugano, Mazzini tentava di riorganizzare, spronandoli a continuare la lotta - tra questi c’erano anche i fratelli Camozzi. Nel 1849, a conclusione della Prima Guerra d’Indipendenza, la Contessa Maffei ebbe la possibilità di rientrare a Milano, prendere alloggio in un appartamento in via Bigli 21 e riprendere i ricevimenti, con l’intento dichiarato di voler tenere viva la speranza e il sentimento nazionale. In quel periodo il salotto Maffei è un punto di ritrovo importante essendo aperto tutti i giorni dalle tre alle sei e dopo cena fino a mezzanotte. Agli ospiti sono riservate due sale mentre gli amici più intimi vengono accolti in una piccola saletta dove, come racconta il Barbiera, la Contessa ascolta, spesso in silenzio, lavorando all’uncinetto o cucendo vestiti per bambini poveri. Nel nuovo salotto si ricompone il gruppo degli amici che, nell’impegno patriottico e nell’esperienza comune dell’esilio, avevano ancor più rinsaldato il loro legame, qui riprendono le discussioni tra mazziniani e monarchici e si danno convegno i collaboratori del “Crepuscolo”, un settimanale destinato all’informazione e al confronto politico, fondato da Carlo Tenca nei primi giorni del 1850. Nel 1853, dopo il fallimento dei maldestri tentativi insurrezionali mazziniani a Mantova e a Milano, anche i frequentatori del salotto Maffei cominciano a vedere con crescente simpatia il giovane Vittorio Emanuele II e, soprattutto, a contare sulle doti del ministro Cavour, che stava cercando di coinvolgere Napoleone III nella causa italiana. Nel salotto Maffei, com’era noto anche alla polizia austriaca che pure non intervenì mai, cominciarono ad arrivare “gli ordini da Torino” attraverso il conte Cesare Giulini della Porta, che era diventato il referente milanese di Cavour. Nel 1859, dopo i famosi accordi di Plombières, quando il 10 gennaio Vittorio Emanuele II, aprendo la Camera disse: “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”, migliaia di volontari milanesi, grazie anche ai proventi della raccolta di fondi organizzata da Clara, poterono raggiungere Torino. La mattina del 5 giugno 1859, Vittorio Emanuele II e Napoleone III, reduci dalla vittoriosa se pur sanguinosa battaglia di Magenta, furono accolti a Milano da un tripudio di bandiere tricolori, cucite di nascosto dalle donne e ora finalmente da loro stesse sventolate ed esposte alle finestre. In occasione delle celebrazioni dell’Unità d’Italia, dedico questo ricordo del contributo delle donne lombarde al Risorgimento citando le parole di Cristina di Belgioioso, scritte a conclusione del citato saggio (Della presente condizione delle donne e del loro avvenire): ”Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi a venire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori e alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata felicità”. Clusone – Circolo Baradello, 11 aprile 2011

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MOSTRE

MOSTRE

al Convento di San Francesco


LE CARTE DELL’IDENTITÀ Bergamo negli Anni del Risorgimento Dal 18 giugno al 27 novembre 2011

L’esposizione ha messo in luce i tratti dell’identità delineatasi nell’area bergamasca durante le vicende risorgimentali e nei primi decenni unitari, evidenziando i fattori che l’hanno influenzata, le espressioni che ha assunto ed i legami con l’identità nazionale in costruzione. Il percorso ha privilegiato il punto di vista di individui che vissero da protagonisti gli eventi e le situazioni, ricostruendo le esperienze, rivelando i volti, mostrando documenti e oggetti personali, riproponendo le parole scritte in lettere e diari. Le tematiche emerse all’interno del percorso sono state: Il territorio, il lavoro e l’associazionismo, laicità e religione, sanità e assistenza, l’istruzione, i lignaggi espressivi (musica, satira, lingua e dialetti, burattini), la partecipazione e il volontarismo militare bergamasco. Aperta al pubblico il 18 giugno 2011, la mostra ha riscosso un grande apprezzamento da parte di coloro che l’hanno visitata. Curata da Adriana Bortolotti, Mimmo Boninelli, Margherita Cancarini e Rosanna Paccanelli, con la supervisione di Carlo Salvioni, la mostra ha saputo raccogliere e raccontare il Risorgimento a Bergamo attraverso materiali di grande valore e pregio quasi tutti provenienti da collezioni pubbliche e private, generalmente poco visibili al pubblico. La capacità di coinvolgere oltre 20 istituzioni culturali mostra ancora una volta la capacità della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus di essere istituzione in grado lavorare in sinergia con gli altri operatori del territorio, di saper costruire una rete culturale per lo studio, la ricerca e la valorizzazione della storia.

Al fine di non disperdere il lavoro svolto in occasione della mostra, che integra e completa la sezione permanente presso la Rocca, e di renderlo visibile in modo permanente, sono stati digitalizzati i documenti e gli oggetti più rappresentativi. Grazie a un contributo di Regione Lombardia, tutto il materiale digitalizzato andrà a comporre un percorso virtuale da fruire in modo permanente attraverso un’apposita postazione all’interno del percorso in Rocca e preso anche sul sito web della Fondazione. L’esposizione è stata inoltre l’occasione per presentare alcune ricerche inedite realizzate proprio in occasione della mostra tra cui la presentazione della digitalizzazione dell’Atlante Anatomiae Universae Icones di Paolo Mascagni (1823) in collaborazione con gli Ospedali Riuniti di Bergamo, le ricerche condotte in collaborazione con il prof. Pruneri sull’istruzione a Bergamo in particolare presso gli archivi storici di Treviglio e dei licei Sarpi e Sant’Alessandro, nonché l’approfondimento proposto dal prof. Angelini sulle inedite vedute ottocentesche esposte in mostra e provenienti da collezioni private.

[Cfr. - L’Eco di Bergamo- 17/06/2011- pag. 27- Apre la mostra con l’anima bergamasca del Risorgimento.]

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150 ANNI DI SCIENZA NELLA STORIA Dal 1 al 16 ottobre 2011 Sempre nell’ambito dei servizi educativi, nel corso della IX edizione di Bergamoscienza, il Museo storico ha proposto la mostra-laboratorio “150 anni di scienza nella storia”. Un viaggio alla scoperta dei progressi della scienza in 150 anni, dall’Unità a oggi, ha illustrato le ricerche di 12 premi Nobel italiani che hanno cambiato la nostra vita ed il modo di vedere la realtà. Senza di loro sarebbe un mondo senza la radio, senza il display, senza le immagini dell’universo e probabilmente saremmo ancora convinti che il nostro cervello oltre una certa età non sia più in grado di imparare. Meucci, Marconi, Montalcini, Bovet, Natta e altri ci accopagnano in un percorso a metà tra scienza storia. Il laboratorio curato da Silvana Agazzi e Marcella Jacono ha registrato il tutto esaurito nel corso dell’intera manifestazione.

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PADRI E ZII DELLA PATRIA Il volto della caricatura Dal 19 dicembre 2011 al 29 gennaio 2012 Questa raccolta di disegni nasce con alcune semplici intenzioni. La prima è quella di presentare volti di personaggi che hanno fatto e disfatto l’Italia. Lasciamo ovviamente al lettore ogni libera interpretazione scevra da ideologie preconcette, tenendo saldamente in mano il timone per cercare di orientare nel mare magnum della storia del nostro Paese. Ripercorrendo i personaggi e i fatti che li vedono protagonisti, si assiste a una sorta di teatrino permanente e soprattutto si hanno sotto gli occhi i vari poteri che si sono susseguiti nel corso di moltissimi anni: da una nazione che non c’è, con effigiati comunque alcuni dei padri ideologici, alla costruzione dello Stato, per poi passare alla dittatura e alla liberazione. E ancora per arrivare ai giorni nostri navigando attraverso la ricostruzione e la crescita economica, giungendo alla delicata situazione finanziaria dell’oggi. E’ una galleria ideale, immagini mentali che abbiamo dei personaggi, molti dei quali, particolarmente i più recenti, non ancora storicizzati e inseriti nei libri scolastici della didattica, ampiamente dimenticati. Capita spesso pronunciando nomi di politici che abbiamo visto operare e vissuto durante la nostra giovinezza, di accorgerci che sono completamente ignorati dalle nuove generazioni. Siamo convinti che per affrontare il futuro si debba conoscere il passato. La vignetta e la satira ci forniscono lo spunto che ci piace utilizzare per raccontare di avvenimenti temporalmente lontani; riteniamo possa essere un buon modo, un sistema semplice che contiene però al suo interno una grande forza espressiva e comunicativa. Una seconda chiave di lettura viene fornita dalla bravura degli artisti del disegno a cui vogliamo rendere onore per la loro maestria. Per questo motivo tutte le tavole scelte sono vignette ma hanno la caratteristica di avere la caricatura ben evidente del personaggio preso di mira. Per rafforzare questo concetto abbiamo voluto inserire anche le fotografie, sia pure in piccolo, dei personaggi raffigurati, per permettere al lettore di confrontare in modo immediato il suo volto e la sua caricatura, per far ammirare meglio la qualità di questi autori. Ciascun vignettista, facendo uso del proprio stile personale, da quello più essenziale a quello esasperatamente pupazzettato, da quello grottesco a quello più intimamente figurativo, ha saputo cogliere e raccontare al meglio l’immagine del personaggio preso di mira. Nei cento e otto disegni, che rappresentano altrettanti personaggi abbiamo voluto cercare di inserire il maggior numero di autori e di stili possibili, per far comprendere che esiste anche una storia della caricatura e del disegno satirico che non ha ancora raggiunto l’ufficialità delle accademie ma che speriamo operazioni come questa possano contribuire a farlo accadere. Alcuni disegni in particolare quelli maggiormente segnati dal tempo rappresentano bene la lotta politica avvenuta al momento in cui sono stati realizzati. Talvolta si vede materializzato al meglio la figura del nemico, quella che per fortuna oggi non conosciamo più essendo in periodo di pace da molti anni. La guerra era una sorta di orribile consuetudine e il potere incarnato dai politici non era un potere prevalentemente economico come oggi potrebbe apparire, ma era il potere di ordinare guerre con i conseguenti inevitabili spargimenti di sangue. Ecco allora che la cattiveria che pare filtrare dalle matite, diventa più verosimile e forse meglio comprensibile. Va riconosciuta doppiamente la bravura di questi artisti che sapevano comunque far ridere o almeno sorridere, nonostante la situazione. Il meccanismo della battuta è diverso da quello oggi praticato, ma vi

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sono casi di eccezione anche nell’Ottocento, casi in cui il modernismo del tratto e del linguaggio appare sconvolgente tanto da far pensare ancora attualmente ad una assoluta freschezza. I nomi dei disegnatori, sconosciuti ai più, sono importanti anche per il fatto che rappresentano le arti del tempo e soprattutto sono tra i migliori professionisti del genere nella loro epoca. Molti hanno dedicato l’intera vita a questo mestiere raccontando, da veri giornalisti ma con l’ausilio del disegno, il loro tempo, quel tempo che oggi, rivisto attraverso le tavole riusciamo a cogliere meglio negli aspetti che all’apparenza potrebbero essere più lontani. La lista dei personaggi che abbiamo scelto è lunga ma di certo non completa. Abbiamo cercato di scegliere i più rappresentativi ma nel contempo anche i più rappresentati, forse i più famosi, così famosi da finire addirittura nelle vignette che indicano uno dei punti massimi di popolarità in quanto diventano luogo comune. Come ben si può immaginare non è possibile realizzare una vignetta con effigiato un personaggio sconosciuto ai più: mancherebbero gli elementi di pubblico dominio che permettono l’immediato abbinamento ai significati che il vignettista vuole comunicare. Per questo crediamo che finire dentro il disegno satirico rappresenti anche per l’uomo politico raffigurato una sorta di traguardo, un successo mediatico da non sottovalutare. Il rapporto del politico con la satira è di natura assolutamente soggettiva. Giulio Andreotti, Sandro Pertini o Giovanni Spadolini hanno sempre gradito anche gli attacchi più feroci in virtù della libertà di stampa, di pensiero e opinione, arrivando anche a collezionare gli originali che li vedevano oggetto degli strali dei caricaturisti. Altri politici, al contrario, non hanno mai gradito e alcuni hanno persino presentato denunce in sede penale. Non esiste una regola di comportamento per nessuno ed è bene che ciascuno agisca motu porprio. La scelta delle vignette è stata anche fatta cercando di cogliere aspetti facilmente comprensibili, senza andare a sollevare argomenti o fatti troppo lontani nel tempo che meriterebbero spiegazioni lunghe e complesse per essere comprese al meglio. Nelle piccole note di accompagnamento ai disegni, abbiamo cercato di interpretare l’idea che l’artista ha voluto esprimere attraverso l’uso del proprio disegno. Non abbiamo voluto dare interpretazioni soggettive e tantomeno guidare il lettore secondo un’idea prefigurata da sviluppare: questo per evitare la trappola della propaganda che ben si presterebbe utilizzando le tavole satiriche. Sono quindi opinioni, talvolta lontane nel tempo, talvolta di assoluta modernità, altre ancora smentite dai fatti successivi che valgono in particolare per il momento in cui sono state realizzate. A rinforzo di questo, per inquadrare il momento storico o il personaggio, abbiamo voluto inserire una breve cronologia storica con i fatti salienti. Con tutto il materiale pubblicato in Italia dal 1848 ad oggi sarebbe possibile realizzare decine e decine di volumi come questo. La scelta critica si è quindi basata su tutti gli aspetti prima elencati, sperando di aver trovato un giusto equilibrio che li riunisca nelle immagini proposte. La soddisfazione è quella di aver cercato di raccontare il nostro Paese, sia pure in estrema sintesi, senza dimenticare i contenuti, per stimolare curiosità e guardare al passato nonché per gettare un ideale ponte sul futuro. La memoria storica è un bene prezioso che va conservato e spesso spolverato per mantenerlo vivo ed effervescente, ridendoci sopra con il disegno satirico, senza per questo trascurare la realtà dei fatti accaduti.

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ATTIVITÀ EDUCATIVE

ATTIVITÀ EDUCATIVE


ATTIVITÀ EDUCATIVE PER LE SCUOLE

LA COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ NAZIONALE dall’Unità d’Italia alla Prima Guerra Mondiale Corso di aggiornamento per insegnanti

Significativa l’adesione da parte delle scuole della città e della provincia di Bergamo ai progetti e laboratori del museo dedicati al Risorgimento e alle ripercussioni sul secolo successivo. Oltre 11.000 gli studenti che hanno partecipato nel corso dell’anno ai laboratori ideati dai servizi educativi del Museo Storico di Bergamo. L’adesione ai progetti relativi al Risorgimento è proseguita nel periodo estivo anche da parte dei Centri Ricreativi Estivi. Tra i percorsi educativi proposti ricordiamo: Italia in musica: l’inno nazionale Ascolto dell’inno di Goffredo Mameli; compilazione di una scheda con le parole chiave (Vittoria, Scipio, coorte, aquila d’Austria, …) e spiegazione del significato; confronto con altri canti patriottici conservati negli archivi del museo. La memoria del Risorgimento in città Laboratorio con documenti originali inerenti il Risorgimento nazionale e locale (foto, quadri, lettere, proclami, …) presso il Museo Storico di Bergamo e percorso strutturato in città bassa nei luoghi che furono teatro di scontri e di episodi centrali per l’unità d’Italia. Iniziativa in parte finanziata dal Progetto Sesamo del Comune di Bergamo. Il Risorgimento narrato Una voce narrante accompagna alla scoperta delle sale del Museo Storico di Bergamo: le lettere, i proclami e le fotografie prendono vita nelle parole di alcuni protagonisti dei fatti risorgimentali che mettono in luce il ruolo della città di Bergamo nel compimento dell’unità d’Italia, i contrasti politici, gli affetti lacerati, le scelte personali. La costruzione dell’identità italiana: dall’Unità alla Costituzione Cinque interventi in classe condotti con documenti (lettere, fotografie, canzoni, cartoline, alcuni articoli della Carta costituzionale) per capire come nel corso del lungo periodo si è costruito il senso di appartenenza nazionale e per indagare la consapevolezza e l’interesse dei giovani circa i temi della cittadinanza. Le radici della Costituzione Lavorare su documenti per capire il percorso che ha portato alla scrittura della carta costituzionale: la Resistenza armata e la guerra civile, il referendum monarchia/repubblica, l’elezione dell’Assemblea Costituente, il voto alle donne. Intervista sulla Costituzione L’incontro con i familiari di due costituenti bergamaschi permette di vedere la storia di un grande evento “dal di dentro”; l’analisi di documenti iconici e scritti sostanzia le testimonianze orali; il laboratorio dà forma visiva alle informazioni.

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Oltre 200 il numero degli iscritti, tra insegnanti studenti e privati cittadini, che hanno partecipato al corso organizzato da Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, Museo Storico di Bergamo, l’Associazione Amici del Museo Storico di Bergamo, la Fondazione Serughetti La Porta, l’Aned, l’Ufficio X Ambito Territoriale di Bergamo dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia (ex Ufficio Scolastico Provinciale di Bergamo), con il sostegno di Fondazione Asm e che ha visto la partecipazione di docenti di livello nazionale come Alberto Mario Banti, Remo Ceserani, Mario Isnenghi, e Simonetta Soldani. Il corso si è svolto con il seguente calendario Venerdì 28 gennaio 2011 ore 15.00 - 17.00 Fare gli italiani. Gli attori e i processi Alberto Mario Banti, Università di Pisa Venerdì 4 febbraio 2011 ore 15.00 - 17.00 Fare gli italiani. Le “lingue” e la lingua Giuliano Bernini, Università di Bergamo Venerdì 11 febbraio 2011 ore 15.00 - 17.00 Fare gli italiani. I giornali, le riviste, la letteratura Remo Ceserani, Università di Bologna Venerdì 18 febbraio 2011 ore 15.00 – 17.00 L’Italia unita. Una nazione da costruire Mario Isnenghi, Università di Venezia Venerdì 25 febbraio 2011 ore 15.00 – 17.00 Le molte Italie. Nord e sud, regioni, centro e periferia Gianluigi Della Valentina, Università di Bergamo Venerdì 4 marzo 2011 ore 15.00 – 17.00 Fare gli italiani. L’esercito nazionale Antonio Gibelli, Università di Genova Venerdì 11 marzo 2011 ore 15.00 – 17.00 Laboratorio a cura del Museo Storico di Bergamo lettere, fotografie, armi, custodite negli archivi per approfondire il ruolo avuto dai bergamaschi nel processo di unificazione (Francesco Nullo, Daniele Piccinini, Gabriele Camozzi, …) Venerdì 25 marzo 2011 ore 15.00 - 17.00 Fare gli italiani. Studenti, maestre, professori e professoresse Simonetta Soldani, Università di Firenze [Cfr. - Giornale di Bergamo- 20/01/2011- pag. 10- Tutto esaurito per l’Unità d’Italia.] [Cfr. - L’Eco di Bergamo- 22/01/2011- pag. 22- L’Unità d’Italia. Il corso fa il pieno di iscrizioni.]

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INDAGINE CONOSCITIVA rivolta alle scuole secondarie di secondo grado di Bergamo e Provincia L’Ufficio Scolastico Regionale della Lombarda Ufficio X Bergamo, il Museo Storico di Bergamo e l’Università degli studi di Bergamo hanno promosso un’indagine conoscitiva per indagare l’opinione e l’atteggiamento delle nuove generazioni verso un periodo – il Risorgimento – e gli uomini che realizzarono quella “impresa”. Qual è oggi il rapporto fra giovani e passato risorgimentale? Quale rappresentazione le giovani generazioni forniscono dei fatti e dei personaggi di quell’epoca? Che valore attribuiscono agli ideali dell’unità nazionale? Che ruolo hanno avuto Bergamo e i bergamaschi in quel lungo periodo? Qual è l’eredità risorgimentale nell’Italia di oggi (Costituzione, lavoro, autonomismo locale)? Sono stati somministrati 462 questionari, i cui risultati sono stati presentati nel corso di un incontro tenutosi al museo in autunno.

“…SÌ BELLA E PERDUTA…” L’Età del Risorgimento 1861-2011 150 anni fa l’Unità d’Italia spalancava le ragioni dello stare insieme: il Risorgimento. Romanzo epico-culturale, militare e sociale, di donne e di uomini, di giovani “belli e perduti” nello sforzo comune di “fare l’Italia”. Il Museo Storico di Bergamo propone un percorso con musiche, canti, letture, visite guidate, laboratori, conversazioni. Una riflessione a più voci per mostrare che nella vicenda risorgimentale vi sono ancora oggi molte cose che meritano di essere narrate, come un tempo, accanto al fuoco. 1. Le età del Risorgimento: introduzione (23 settembre 2010) Relatori: Mimmo Boninelli, Silvana Agazzi 2. “Or che innalzato è l’albero”: canti e documenti (1797-1831) (30 settembre 2010) Relatore: Mimmo Boninelli (c/o Sala dei giuristi di Palazzo della Ragione) 3. Visita al Museo Storico di Bergamo in Rocca (7 ottobre 2010) Relatore: Silvana Agazzi 4. Pagine risorgimentali: letture di brani scelti (14 ottobre 2010) Relatore: Ferruccio Filipazzi (c/o Sala Galmozzi, Via Tasso) 5. Garibaldi e la spedizione dei mille (21 ottobre 2010) Relatore: Adriana Bortolotti 6. Vivere e combattere nell’Ottocento. Laboratorio con armi d’epoca, proclami e documenti fotografici (28 ottobre 201O) Relatore: Silvana Agazzi 7. Dietro le quinte di un museo (4 novembre 2010) Relatore: Adriana Bortolotti 8. Gabriele Camozzi e la causa dell’unità nazionale (11 novembre 2010) Relatore: Valerio Basso Ricci 9. “Bel uselìn del bósch”: i canti del Risorgimento (1848-1870) (18 novembre 2010) Relatore: Mimmo Boninelli 10. “Figli voi di libertà”: eredità del Risorgimento (25 novembre 2010) Relatore: Margherita Cancarini Sede: sala capitolare del Convento di San Francesco - Piazza Mercato del fieno, 6/a

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11 NOVEMBRE A BERGAMO La chiusura per i 150 anni dell’Unità d’Italia e premiazione del concorso per le scuole Il “Ritorno a casa dei Mille” fissato per l’11 novembre 2011 rappresenta l’ultimo grande appuntamento delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia a Bergamo ad opera del comitato “Bergamo per i 150 anni”: “Questo evento – spiega l’Assessore alla Cultura del Comune di Bergamo Claudia Sartirani in conferenza stampa – segna la conclusione di un anno di lavoro molto intenso da parte di tutti i partner coinvolti, dalla Regione alla Provincia, il Comune, la Prefettura, l’Università, l’Ufficio Decimo (ex provveditorato), la Fondazione Bergamo nella Storia Onlus. Un anno di celebrazioni simbolicamente aperto dalla visita del Presidente Napolitano il 2 febbraio scorso; celebrazioni che hanno visto tanti momenti diversi per atmosfere, linguaggi, personaggi storici, relatori, protagonisti”. Il “Ritorno a Casa dei Mille” simbolicamente evoca la fine di un viaggio nella nostra storia: “La mattina dell’11 novembre al Teatro Donizetti avviene la premiazione del concorso che li invitava a “leggere” le tracce del Risorgimento sul territorio bergamasco nell’ambito dell’attività didattica”. L’obiettivo del concorso è stato quello di favorire la conoscenza e il confronto fra giovani generazioni sugli avvenimenti che ebbero luogo nel territorio bergamasco nel periodo storico dal 1848 al 1870, per un percorso di cittadinanza attiva, responsabile e condivisa all’interno della comunità civile: “L’intento – spiegano Teresa Capezzuto e Guglielmo Benetti, docenti di riferimento per l’Ufficio Scolastico Provinciale nel Comitato - è stato quello di suscitare interesse e curiosità verso le discipline storiche, letterarie e artistiche a partire da un percorso condotto dagli studenti con i loro insegnanti. È stata promossa un’attività di ricerca storica e analisi delle varie fonti documentarie presenti nel nostro territorio. Il concorso è stato rivolto agli studenti delle scuole di Bergamo e provincia, frequentanti nell’anno scolastico 2010/2011 scuole primarie (classi quarte e quinte), scuole secondarie di primo grado (classi terze), scuole secondarie di secondo grado (classi quarte e quinte). Classi intere e/o gruppi di studenti della stessa scuola sono stati invitati a produrre un elaborato scritto (in forma, a scelta, di inchiesta giornalistica, saggio breve, lettera, diario) accompagnato da massimo tre disegni o fotografie inerenti il tema del concorso attraverso argomenti specifici. Il concorso ha suscitato notevole interesse e gli elaborati consegnati sono stati tutti di altissimo livello”. L’evento si collega inoltre all’attività del Comitato Nazionale attraverso il restauro e la reinaugurazione di due storici monumenti a Garibaldi e Vittorio Emanuele II alle quali parteciperanno anche i giovani studenti dopo le premiazioni.

150° Unità d’Italia Bergamo Il ritorno a casa dei Mille 11 novembre 2011 Ultimo appuntamento delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia organizzate dal comitato «Bergamo per i 150 anni». Dalle 9.00 alle 15.00 Presso il quadriportico del Sentierone vi sarà lo stand delle Poste Italiane che emetterà l’annullo filatelico “Bergamo per i 150 anni” Ore 9.30 Teatro Donizetti Cerimonia di premiazione del concorso per le scuole “Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia in Bergamo e provincia (1848-1870)” A cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni”, dell’Ufficio scolastico territoriale - Ufficio X (Ex Provveditorato) della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus. In collaborazione con Fondazione Banca Popolare di Bergamo Ore 11.30 Piazza Matteotti Cerimonia di inaugurazione alla presenza delle autorità dei monumenti a Giuseppe Garibaldi e a Vittorio Emanuele II restaurati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Unità Tecnica di Missione, in occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia Ore 15.00 Casa Natale Gaetano Donizetti Proiezione del film “Il gattopardo” di Luchino Visconti Ore 20.30 Teatro Donizetti Il Ritorno dei Mille. Concerto per le Celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Musiche su temi e atmosfere risorgimentali interpretate da “I Virtuosi Italiani”. Alberto Martini Primo Violino Direttore; Cinzia Forte Soprano; Nino Rota; Ballabili dal Gattopardo, Giuseppe Verdi; Quartetto in mi minore (versione per orchestra d’archi), Gioachino Rossini.

“La giornata dell’11 novembre – spiega Giuliano Ceccarelli che ha coordinato le attività del Comitato – conclude un anno nel quale le istituzioni hanno collaborato per un tempo prolungato insieme alle associazioni e alle realtà del territorio; non dobbiamo scordarci di quanto imparato nel corso di questa straordinaria esperienza”. Ruolo fondamentale ha avuto anche la Fondazione Bergamo nella Storia Onlus: “Il nostro Museo Storico – spiega Silvana Agazzi responsabile dei servizi educativi – ha visto un incremento delle visite e speriamo che i 13.200 studenti registrati in Museo quest’anno non siano qualcosa di episodico”. 96

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INIZIATIVE COLLATERALI

INIZIATIVE COLLATERALI


A TU PER TU CON I 150 ANNI DELL’UNITÀ D’ITALIA

DALL’ARCHIVIO AL MUSEO 150 anni di Unità d’Italia

Conferenze e incontri di approfondimento nei comuni della Provincia di Bergamo

Percorsi guidati

L’iniziativa ha portato la Fondazione Bergamo nella Storia Onlus e il Museo Storico ad aprire un legame più forte con il territorio della provincia: ben 43 i comuni che hanno aderito alla proposta del museo di ospitare nella propria sala civica una conferenza dedicata al Risorgimento e che poi hanno fatto visita al Museo Storico in città. Le proposte per i Comuni hanno avuto carattere essenzialmente divulgativo e si sono rivolte principalmente a un pubblico adulto. L’obiettivo è stato quello di avvicinare alla storia persone che non se ne sono mai occupate, con l’uso di strumenti e modalità d’intervento accattivanti e coinvolgenti.

10 incontri (1 domenica al mese) hanno offerto al pubblico l’opportunità di conoscere e approfondire, partendo proprio dai beni storici conservati negli archivi del Museo Storico di Bergamo e normalmente non visibili al pubblico, i luoghi, i personaggi, gli eventi, le ragioni da cui mossero le spinte risorgimentali e il processo di unificazione nazionale. Non visite guidate tradizionali ma percorsi tematici sul Risorgimento nel corso dei quali i visitatori hanno avuto l’opportunità di scoprire l’importante patrimonio storico che il museo di Bergamo conserva, di vedere per la prima volta documenti, oggetti, armi, divise, stampe e fotografie toccando con mano i segni della storia degli ultimi 150 anni.

La proposte rivolte ai Comuni si sono articolate in due incontri con possibilità di modulazione a seconda degli interessi:

I percorsi guidati, tutti a ingresso gratuito, hanno registrato una buona presenza di pubblico

1° incontro - Bergamo e l’unità d’Italia: fatti e uomini, a cura della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus (incontro presso il Comune richiedente a cura di Mimmo Boninelli e Silvana Agazzi). 2° incontro - Visita guidata al Museo Storico di Bergamo - Sezione Ottocento, presso la Rocca della città. Gli incontri sono stati in taluni casi abbinati a un’ulteriore iniziativa di carattere spettacolare dal titolo Eran 1000… realizzata dall’Ensemble corale “Cantarchevai” (20 voci, 5 strumentisti, maestro Oliviero Biella) e dall’attore Ferruccio Filipazzi, sempre in collaborazione con la Fondazione Bergamo nella Storia Onlus. In questo caso si è trattato di una rielaborazione in chiave artistica della spedizione dei volontari garibaldini con musiche, canti e letture di testi risorgimentali.

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Calendario: 24 ottobre, h. 16.00 28 novembre, h. 16.00 23 gennaio, h. 16.00 27 febbraio, h. 16.00 27 marzo, h. 16.00 17 aprile, h. 16.00 22 maggio, h. 16.00 25 settembre, h. 16.00 23 ottobre, h. 16.00 27 novembre, h. 16.00

Le età del Risorgimento Donizetti e il suo tempo (1797-1848) Suoni e musiche che hanno fatto l’Italia La memoria del Risorgimento in città Uomini e donne nel Risorgimento Vivere e Combattere nell’Ottocento Suoni e musiche che hanno fatto l’Italia La memoria del Risorgimento in città Donizetti e il suo tempo (1797-1848) Le età del Risorgimento

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SIGILLI E ARMI NEL RISORGIMENTO 25 novembre 2011 Presentazione libro

Sigilli e armi

Adriana Bortolotti - Lia Corna

Sigilli e armi Notai e Risorgimento tra Bergamo e Brescia

Consiglio notarile di Bergamo Consiglio notarile di Brescia Fondazione Bergamo nella storia

Sono lieti di invitarLa alla presentazione del volume

Sigilli e armi Notai e Risorgimento tra Bergamo e Brescia

Saluti istituzionali Emilio Moreschi – Fondazione Bergamo nella storia Pier Luigi Fausti – Consiglio notarile di Bergamo Mario Mistretta – Consiglio notarile di Brescia Marco Albertario – Accademia Tadini di Lovere

Adriana Bortolotti - Lia Corna

Sabato 26 novembre 2011 ore 10 convento di San Francesco Museo storico di Bergamo piazza Mercato del Fieno

Coordina Pier Luigi Fausti Intervengono Isabella De Renzi - dottore di ricerca I notai nel Risorgimento: un’élite sovversiva? Adriana Bortolotti - Museo storico di Bergamo Lia Corna - ricercatrice Sigilli e armi. Notai e Risorgimento tra Bergamo e Brescia

TRASMISSIONI TELEVISIVE - L’Infedele, La 7, 26/04/2010 Gad Lerner presenta “Garibaldi e la disunità d’Italia” con Dacia Maraini e Carlo Salvioni

In occasione dell’incontro saranno esposti al pubblico documenti e materiali storici inerenti i notai bergamaschi Enrico Banzolini, Giuseppe Bresciani, Emanuele Maironi e Carlo Scotti

In occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, il Consiglio Notarile di Bergamo, in collaborazione con il Consiglio Notarile di Brescia, presenta il volume “Sigilli e armi: notai e Risorgimento tra Bergamo e Brescia”, a cura della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus. Sabato 26 novembre alle 10 presso la sede del Museo Storico di Bergamo in Piazza Mercato del fieno, con i saluti introduttivi di Emilio Moreschi, Amministratore Delegato della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, Mario Mistretta, Presidente del Consiglio Notarile di Brescia, e Marco Albertario, Accademia Tadini di Lovere, il Presidente del Consiglio Notarile di Bergamo, Pier Luigi Fausti, introduce le autrici Adriana Bortolotti e Lia Corna. “Il ruolo del notariato nel Risorgimento: un’elitè sovversiva” di Isabella De Renzi, Dottore di ricerca dell’Università di Cassino, fa da sfondo e contesto all’inedita ricerca storica. “La ricerca - commenta Adriana Bortolotti - ha considerato fonti archivistiche, collezioni e opere a stampa conservate presso istituzioni nel territorio bergamasco, bresciano, milanese e torinese. Sono stati individuati materiali storici inediti, che hanno consentito di comporre i profili biografici dei notai bergamaschi Enrico Banzolini, Pietro Giuseppe Bresciani, Emanuele Maironi e Carlo Scotti, da cui emerge, con chiarezza, l’importante contributo che diedero alla formazione dello Stato unitario. Molto significativa risulta la loro esperienza militare volontaristica durante il Risorgimento. La loro adesione alla causa nazionale risponde, in parte, certamente alle concrete motivazioni che animano la borghesia italiana: l’affermazione del liberalismo, dell’indipendenza e dell’unità offrono concrete opportunità di ascesa sociale, di ruoli attivi e rappresentativi sul piano politico-amministrativo, di crescita economica locale e nazionale. Ma l’intensità dell’impegno, e per alcuni la continuità nel tempo, nascono da profonde e personali convinzioni ideali oltre che dall’influenza del contesto famigliare e relazionale, ove le aspirazioni patriottiche sono patrimonio comune e guidano le scelte di vita di molti”. “Come emerge dall’approfondita ricerca che ha dato origine al volume - dichiara Pier Luigi Fausti - alla spedizione dei Mille parteciparono numerosi patrioti lombardi e specialmente bergamaschi. Non deve quindi stupire più di tanto l’avere rintracciato nella bergamasca, e nel contiguo territorio bresciano, due notai che parteciparono alla spedizione dei Mille, un altro notaio che partecipò a quasi tutte le battaglie risorgimentali, un altro notaio ancora che fu seguace di Manin nella difesa della Repubblica di Venezia”. In occasione della presentazione del volume, saranno esposti al pubblico documenti e materiali storici inediti inerenti i notai bergamaschi Enrico Banzolini, Giuseppe Bresciani, Emanuele Maironi e Carlo Scotti.

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- Porta a porta, Rai 1, 05/05/2010 “L’Italia riparte da Garibaldi” Bruno Vespa presenta il Museo Storico di Bergamo, partecipa Carlo Salvioni www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-e99c84cb-9af7-429a-8da4-0edd30d927aa.html

- Un’ora sola ti vorrei...., Treviglio TV, 09/06/2011 Stefania Cattaneo presenta la mostra “Le carte dell’identità” e intervista i responsabili del progetto www.youtube.com/watch?v=UDrlqzQhnOo 103


NEWSLETTERS

NEWSLETTERS wwww.Bergamoestoria.it


Museo, incontri e laboratori per i 150 anni dell’unità d’Italia

Alla scoperta dell’Unità d’Italia i laboratori del Museo Storico

25 settembre 2010

22 ottobre 2010

Anche quest’anno il Museo Storico di Bergamo propone l’iniziativa “I fili della storia”, una serie di percorsi e sezioni dove gli interessati e i ragazzi possono svolgere diverse attività, approfondire tematiche, affrontare laboratori. Quest’anno tema importante sarà quello dei 150 anni dell’unità d’Italia, una sezione ampia, divisa in laboratori e percorsi di visita. Alla presentazione della nuova edizione dei “I fili della storia” Silvana Agazzi, responsabile dei servizi educativi del museo, ha sottolineato che la guida alle attività di quest’anno è dedicata a Mauro Gelfi, il direttore del museo scomparso nel giugno scorso, prematuramente, dopo una lunga lotta contro la malattia. «Mauro Gelfi - ha detto - ha sempre creduto nell’azione didattica e si è sempre speso per far crescere questo servizio all’interno del museo perché convinto dell’importanza di rendere il museo non un semplice deposito di oggetti, ma un luogo vivo».

“I fili della storia”, come da tradizione, sarà rivolto in particolare ai giovani. «L’anno scorso sono stati novemila e cinquecentosedici gli studenti che hanno partecipato a visite, progetti, laboratori - ha detto l’amministratore delegato della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, Emilio Moreschi -. Tra i percorsi che più affascinano i ragazzi c’è l’attività di scrittura dei monasteri dove gli studenti conoscono e sperimentano le forme di scrittura antica. Ma non solo: hanno anche la possibilità di visitare il monastero di San Benedetto in via Sant’Alessandro e di confrontarsi con una suora che ancora oggi esercita l’arte degli amanuensi».

Il museo propone quindi alle scuole percorsi tra musiche, canti, letture, visite guidate, laboratori, interviste su tematiche che spaziano dagli eventi risorgimentali a riflessioni di più ampio respiro che riguardano la memoria del Risorgimento, la nascita della repubblica e della costituzione, la costruzione dell’identità italiana. Diverse le iniziative che vengono offerte alle scuole (ma anche a gruppi e associazioni) su questo tema. Per esempio sul discorso “Costruzione dell’identità italiana: dall’Unità alla Costituzione” viene offerto un percorso con cinque interventi nelle classi condotti con documenti (lettere, fotografie, canzoni, cartoline, alcuni articoli della Carta costituzionale) per capire come nel corso del lungo periodo si è costruito il senso di appartenenza nazionale e per indagare la consapevolezza e l’interesse dei giovani sui temi della cittadinanza.

Il Museo Storico di Bergamo (foto Yuri Colleoni)

Prende avvio domenica 31 ottobre l’iniziativa gratuita e aperta a tutti “Dall’archivio al museo: alla scoperta dei 150 anni dell’Unità d’Italia”, promossa e organizzata dalla Fondazione Bergamo nella Storia Onlus nell’ambito del più ampio programma promosso dal Comune di Bergamo e dalla Provincia in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. L’iniziativa offre l’opportunità di conoscere e approfondire, partendo proprio dai beni storici conservati negli archivi del Museo Storico di Bergamo e normalmente non visibili al pubblico, i luoghi, i personaggi, gli eventi, le ragioni da cui mossero le spinte risorgimentali e il processo di unificazione nazionale. In programma non ci sono però visite guidate tradizionali, ma percorsi tematici sul Risorgimento nel corso dei quali il visitatore avrà l’opportunità di scoprire l’importante patrimonio storico che il Museo di Bergamo conserva, di vedere per la prima volta documenti, oggetti, armi, divise, stampe e fotografie custoditi nei depositi del museo e di toccare con mano i segni della storia d’Italia degli ultimi 150 anni. All’interno del ricco calendario proposto, troveranno quindi spazio momenti di approfondimento riguardanti la vita, le opere e il clima culturale e artistico dell’opera di Donizetti, ma saranno sviluppati anche altri temi con gli «uomini e le donne protagonisti del Risorgimento a Bergamo» oltre ad attività laboratoriali riguardanti la vita sociale e la presenza dei conflitti nella vita quotidiana dell’Ottocento. Il museo propone anche due percorsi inediti: il primo è un ascolto guidato delle musiche che hanno fatto l’Italia, dal «Canto degli italiani» alla «Bella Gigogin»; il secondo è un itinerario in città alla scoperta dei luoghi teatro delle vicende risorgimentali e delle tracce di memoria che la città ha costruito nel corso di questi 150 anni. Il ciclo di incontri si apre domenica 31 ottobre con una visita alla sezione Ottocentesca del Museo Storico di Bergamo, punto di partenza ideale e luogo emblema del Risorgimento, per proseguire con cadenza mensile per un anno, fino a novembre 2011. Le visite sono gratuite e aperte a tutti. Info utili: l’iscrizione è obbligatoria telefonando allo 035/247116 – 035/226332 oppure scrivendo a info@bergamoestoria.it Il calendario degli incontri 31 ottobre, h. 16.00 - L’età del Risorgimento 28 novembre, h. 16.00 - Donizetti e il suo tempo (1797-1848) 23 gennaio, h. 16.00 - Suoni e musiche che hanno fatto l’Italia 27 febbraio, h. 16.00 - La memoria del Risorgimento in città 27 marzo, h. 16.00 - Uomini e donne nel Risorgimento 17 aprile, h. 16.00 - Vivere e Combattere nell’Ottocento 22 maggio, h. 16.00 - Suoni e musiche che hanno fatto l’Italia 25 settembre, h. 16.00- La memoria del Risorgimento in città 23 ottobre, h. 16.00 - Donizetti e il suo tempo (1797-1848) 27 novembre, h. 16.00 - Le età del Risorgimento

Emilio Moreschi

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Annita Garibaldi a Bergamo Convegno sull’Unità d’Italia

Notte Tricolore e temi nelle scuole Bergamo celebra l’Unità d’Italia

3 novembre 2010

6 dicembre 2010

Ci sarà anche Annita Garibaldi, pronipote di Giuseppe Garibaldi, docente universitaria al convegno indetto sabato 6 novembre alle 16 all’Hotel Excelsior San Marco di Bergamo sui 150 anni dell’Unità d’Italia organizzato dalla Fondazione Bergamo nella Storia Onlus. “Da Bergamo a Marsala con Garibaldi. Il compimento dell’Unità d’Italia” è il titolo del convengo, promosso e organizzato da GOI Lombardia, con il patrocinio di Regione Lombardia, Comune di Bergamo, Provincia di Bergamo e Grande Oriente d’Italia, che propone una riflessione sui problemi storiografici legati al Risorgimento, sulla figura e il ruolo di Giuseppe Garibaldi nel processo di unificazione e sulle motivazione che spinsero i bergamaschi a seguire l’Eroe dei due Mondi nell’eroica impresa. Programma Bergamo per l’Unità d’Italia Carlo Salvioni - Presidente dell’Associazione Amici del Museo Storico di Bergamo Il mito di Garibaldi Annita Garibaldi - Diritto costituzionale, Università di Siena Il Risorgimento: un problema storiografico irrisolto Paolo Gastaldi - Storia delle dottrine politiche, Università degli studi di Pavia Garibaldi e la stampa italiana Antonio Maria Orecchia - Storia contemporanea, Università dell’Insubria di Varese Il senso delle celebrazioni Claudio Bonvecchio - Filosofia delle scienze sociali e scienze della comunicazione, Università dell’Insubria di Varese Conclusioni Gustavo Raffi - Gran Maestro GOI Informazioni: info@goilombardia.it

Annita Garibaldi (foto K9 Bedolis)

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In occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, l’Amministrazione Comunale di Bergamo intende organizzare una serie di iniziative a partire dalla consapevolezza che «Bergamo è l’unica città italiana che si fregia del titolo di “Città dei Mille”». In particolare Palafrizzoni vuole creare degli eventi che focalizzino l’attenzione sulla conoscenza e sulla divulgazione dei “fatti storici” del periodo noto come Risorgimento, ma anche degli umori e delle idee che portarono Bergamo ad essere protagonista in primo piano di quell’epoca. «Per far questo - recita una nota del Comune - appare opportuno condurre questa narrazione a partire dalla cosiddetta “storia locale” cogliendo le vicende, nel periodo dal 1848 al 1870, di cui la Bergamasca fu protagonista». L’Amministrazione Comunale insieme ad una serie di Enti, Istituzioni e soggetti fra i quali figurano in primis la Prefettura di Bergamo, la Regione Lombardia, la Provincia di Bergamo, e l’Università della nostra città, si sono riuniti in un apposito «Comitato istituzionale per le celebrazioni del 1500 Anniversario dell’Unità d’Italia» con il ruolo di programmazione e coordinamento delle iniziative. Il Comitato ha a sua volta costituito un «Comitato scientifico-operativo» a cui prendono parte oltre ai rappresentanti delle Istituzioni succitate, i delegati dell’ufficio X Ambito Territoriale di Bergamo dell’ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia e della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus. Il Comitato scientifico-operativo è impegnato nell’organizzazione di iniziative a partire da un bando scolastico che coinvolge scuole primarie e secondarie di Bergamo e provincia. Fra le altre iniziative che il Comitato sta organizzando, una serie di manifestazioni risorgimentali ideate in occasione del passaggio del Giro d’Italia a Bergamo, una notte bianca Tricolore, la proiezione di un film sull’epoca risorgimentale e altri appuntamenti che vedono attivamente coinvolti Prefettura, scuole, Università, Archivio di Stato, Museo Storico. I COMITATI Comitato Istituzionale per le celebrazioni del 1500 anniversario dell’unità d’Italia Prefettura: Camillo Andreana Prefetto di Bergamo Regione: Marcello Raimondi Assessore Regionale all’Ambiente, Energia e Reti, Carlo Saffioti Consigliere Regionale Provincia: Ettore Pirovano Presidente della Provincia di Bergamo, Mario Gandolfi Assessore al Bilancio e Personale Comune: Claudia Sartirani Assessore alla Cultura e Spettacolo, Roberto Bruni Consigliere Comunale, Luigi Ceccarelli Collaboratore Assessore Sartirani Università: Stefano Paleari Rettore Università degli Studi di Bergamo Comitato Scientifico-Operativo Prefettura: Vice Prefetto Aggiunto dott. Adriano Coretti Regione: dott. Paolo Merla, dott. Claudio Merati, dott. Carlo Giupponi Provincia: dott. Claudio Cecchinelli Comune: prof. Giami Carullo coadiuvato da dott. Giovanni Cappelluzzo e dott. Luigi Pigolotti Provveditorato agli Studi: dott. Guglielmo Benetti, dott.ssa Teresa Capezzuto Università: prof. Remo Morzenti Pellegrini Fondazione Bergamo nella Storia Onlus: Avv. Carlo Salvioni Supervisione e Coordinamento Lavori: dott. Luigi Ceccarelli

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La giornata di Giorgio Napolitano Dal municipio sino in Città Alta 2 febbraio 2011 Grande giornata per Bergamo. Il presidente Giorgio Napolitano è arrivato in città per una visita ufficiale in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. A Palazzo Frizzoni è stato ricevuto alle 10,15 davanti alla sede municipale dal sindaco Franco Tentorio, dal presidente della Provincia Ettore Pirovano e dal Presidente della Regione Roberto Formigoni. Il primo incontro a Palazzo Frizzoni Dopo l’incontro privato con le autorità, il Presidente si è recato nella sala consiliare alla presenza del consiglio comunale al completo. Il sindaco Tentorio ha presentato la Giunta e i consiglieri. A seguire il Presidente Napolitano ha preso la parola sottolineando in particolare il suo ruolo di rappresentante dell’unità nazionale. Le parole di Napolitano «Durante queste visite - ha detto il Capo dello Stato - amo sostare nei luoghi delle istituzioni locali, perché il mio ruolo è quello di rappresentare l’unità nazionale. Mentre non è mio compito interferire nella dialettica fra forze politiche e sociali. Le istituzioni locali sono alla base dell’edificio costituzionale e democratico del Paese». Passando all’ente Comune, Napolitano ha sottolineato l’importanza della vicinanza dei sindaci ai cittadini e ha ricordato anche la legge del 1993 sull’elezione diretta dei sindaci. La provincia entità reale Non sono mancate anche parole per la Provincia. «Non sono avviate ipotesi di riforma del Paese al di sotto del livello regionale - ha spiegato -. Credo che le province siano, soprattutto in alcune parti del Paese entità reali, che raccolgono tradizioni e sentimento dei cittadini».

L’omaggio alla torre dei caduti A seguire Napolitano ha reso omaggio alla Torre dei Caduti, quindi a piedi ha raggiunto il Teatro Donizetti per l’appuntamento con la città. Al Teatro Donizetti Il presidente Napolitano è entrato all’interno del teatro Donizetti insieme alla moglie Clio. Qui ha salutato le principali istituzioni locali raccolte nel teatro. Tutti i sindaci della Bergamasca gli hanno dato il benvenuto con un fragoroso applauso e sventolando il tricolore. Il primo a parlare e a dargli il benvenuto il sindaco di Bergamo Franco Tentorio. L’intervento del Sindaco Tentorio «Caro Presidente», così ha esordito il sindaco Franco Tentorio rivolgendosi al Capo dello Stato. Il primo cittadino ha sottolineato la propria stima e l’affetto dei bergamaschi verso la più alta carica istituzionale dello Stato. «Stima perchè Lei - ha detto Tentorio - si è sempre mostrato garante dell’Unità nazionale. Affetto per la sua attenzione verso la gente, le donne, i giovani, i più deboli». Il primo cittadino ha poi sfogliato alcune pagine della storia bergamasca in particolare del periodo dal 1848 al 1860 quando Bergamo si è dimostrata con uno dei luoghi più attivi del processo risorgimentale. Dalla insurrezione patriotica alla medaglia d’oro assegnata da Umberto I al gonfalone di Bergamo, dai personaggi come Camozzi e Nullo alla gioventù bergamasca che rispose al proclama di Garibaldi, Tentorio ha segnato alcune tappe di storia orobica particolarmente significativa. Il sindaco ha inoltre ricordato le iniziative per i 150 anni dell’Unità d’Italia che inizieranno il 16 marzo con la notte tricolore. Un ricordo anche a Mauro Gelfi compianto direttore del Museo Storico. E non da ultimo Tentorio ha voluto dare un quadro della realtà e della terra bergamasca che ha dato i natali a grandi personaggi - da Donizetti a Papa Giovanni a Quarenghi -, una terra di gente laboriosa ancorata agli ideali dell’unità d’Italia. L’intervento del presidente della Provincia Pirovano «Dalla montagna alla pianura, benvenuto presidente». Inizia così il discorso del presidente della Provincia Ettore Pirovano che descrive con efficacia il popolo bergamasco: «Siamo gente tenace - dice -, a volte con punte di durezza, con valori radicati e difensori della famiglia e delle tradizioni». Gente «sempre pronta ad aiutare il prossimo: noi ci siamo nelle difficoltà, in Italia come in tutto il mondo» continua Pirovano. «La solidarietà è nella nostra anima, anche quando chiediamo con forza un intervento delle Istituzioni - spiega Pirovano -, anche quando vogliamo che le complicate strutture dello Stato scendano al livello dei cittadini». E qui Pirovano dà un chiaro messaggio politico: «Attendiamo con ansia ma anche con fiducia l’avverarsi del federalismo, espressione concatenata all’Unità, perchè garantisce pari diritti e pari doveri, permettendo all’uomo di essere libero, di vivere con dignità, di lavorare per vivere e non vivere per lavorare». L’intervento del presidente della Regione Formigoni Anche il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni parla di federalismo, ringraziando prima il presidente Napolitano di come la sua presenza a Bergamo sia «occasione preziosa per tenere alta l’attenzione, soprattutto delle giovani generazioni, nei confronti dei valori e dei principi dell’Unità d’Italia, promossi dai cittadini del passato» e di grande valore per il presente e il futuro. A seguire Formigoni evidenzia l’importanza di «un’Italia federalista, per ricomporre nuove e antiche fratture», e soprattutto al fine di «riconoscere e valorizzare il protagonismo e l’individualismo, a favore delle singole eccellenze e peculiarità, ma sempre in un’ottica globale».

Il presidente Napolitano a L’Eco di Bergamo (foto RedazioneWEB)

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Solo così, spiega Formigoni, si può «vincere la sfida che la situazione economica e sociale mondiale ci pone». I rappresentanti della scuola. E Napolitano elogia il presidente della consulta Niccolò Fabrizi a nome della Consulta provinciale studentesca ha portato i saluti dei giovani studenti. «Abbiamo particolarmente apprezzato il suo discorso di fine anno – ha detto rivolgendosi al Presidente – per la sua attenzione verso il mondo dei giovani: sembrava fatto da un giovane» ha aggiunto il ragazzo, una frase molto apprezzata dal presidente Napolitano che l’ha ripresa nel suo discorso, poco dopo: «E mi rivolgo a Fabrizi per ringraziarlo del complimento e per dirgli che le sue parole erano quelle di un uomo maturo». Tra di loro un caloroso saluto, con il capo dello Stato che ha abbracciato e baciato il giovane. A proposito dell’anniversario dei 150 anni, Fabrizi ha voluto sottolineare che l’Unità d’Italia si è potuta realizzare grazie anche all’apporto dei giovani. Nelle parole dello studente anche l’auspicio che il Paese ritrovi slancio e ripartenza. Non vogliamo assistenzialismo – ha detto – ma attenzione delle istituzioni. Per l’Università è intervenuta la docente dell’Ateneo Matilde Dillon che ha proposto una vera e propria lectio magistralis sul periodo risorgimentale e sui personaggi chiave che hanno portato all’unità d’Italia. Il messaggio del presidente «Dobbiamo tutti riconoscerci nel Tricolore». E poi: «Dobbiamo uscire da una spirale insostenibile di contrapposizioni, arroccamenti, prove di forza da cui può soltanto uscire ostacolato ogni processo di riforma». Sono questi alcuni dei passaggi salienti del discorso del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al teatro Donizetti dove il Capo dello Stato ha incontrato le istituzioni e i cittadini. Subito, appena ha preso la parola sul palco del Donizetti, il presidente della Repubblica ha detto di essere rimasto «commosso per lo straordinario calore dell’accoglienza che gli ha riservato Bergamo - ha detto -, commosso dallo sventolio delle bandiere che mi ha fatto capire ancora una volta che tutti possiamo riconoscerci nel Tricolore, senza rinunce nei confronti delle proprie idee e convinzioni». Poi un forte appello: «Dobbiamo uscire da una spirale insostenibile di contrapposizioni, arroccamenti, prove di forza da cui può soltanto uscire ostacolato ogni processo di riforma». Napolitano ha anche ricordato il ruolo di Bergamo nella lotta per l’Unità d’Italia, l’importanza dei bergamaschi «nella riconquista della libertà» e l’operosità dei territorio orobico. Poi l’omaggio a Bergamo alpina: «So cosa rappresentano per voi gli alpini e cosa Bergamo significa per gli alpini» ha detto Napolitano che ha ricordato la recente scomparsa di Luca Sanna. Poi inevitabile un commento sul federalismo: le riforme per attuarlo sono «ormai giunte a buon punto», ricorda. «È stato decisivo - aggiunge - e resta oggi decisivo un clima di corretto e costruttivo confronto in sede istituzionale». Poi un excursus sul messaggio politico del pensatore Carlo Cattaneo e sulla sua «visione d’unità che riconosce il pluralismo, una maggiore partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, un federalismo come forma di unità in cui si realizzi la libertà». Con un monito: dobbiamo celebrare l’Unità d’Italia, «non esaltando solo il punto d’arrivo, ma valorizzando i decisivi passi in avanti» compiuti per realizzarla e «riflettendo sui vizi d’origine che ci sono stati», lavorando «per riformare ciò che è necessario sulla base della nostra Costituzione e al fine di superare i divari economici e sociali, in una prospettiva di progresso e benessere». Ecco allora che per portare avanti le riforme «è decisivo un clima di corretto e costruttivo confronto in sede istituzionale, uscendo da una spirale insostenibile di contrapposizioni, arroccamenti, prove di forza da cui può soltanto uscire ostacolato ogni processo di riforma». Fondamentali quindi il «senso di solidarietà e il rinnovato spirito di coesione per un’Unità d’Italia» che si sviluppi «nella ricchezza del suo pluralismo e della sua autonomia».

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A piedi tra la gente, poi in prefettura Dopo essere uscito dal teatro Donizetti, il presidente Napolitano si è diretto a piedi nella sede della Prefettura in via Tasso. Ha cambiato quindi il suo programma iniziale che prevedeva il tragitto in auto. Il Capo dello Stato ha quindi preferito salutare ancora i tanti cittadini che lo attendevano, soffermandosi anche con i più giovani. Poi l’arrivo in Prefettura dove è in programma un pranzo ufficiale con le autorità della città e del territorio. La visita a l’Eco di Bergamo Alle 16 il presidente della Repubblica ha raggiunto la redazione de L’Eco di Bergamo. Qui si è soffermato per un colloquio nell’ufficio del direttore Ettore Ongis per poi parlare a tutta la redazione. In Città Alta dal vescovo Beschi Intorno alle 16.30 Giorgio Napolitano ha raggiunto Città Alta. Tantissima la gente che lo ha atteso per salutarlo e applaudirlo. La parte privata della visita a Bergamo del presidente della Repubblica è stata al fianco del vescovo, mons. Francesco Beschi. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha lasciato la città alle 18.05 a bordo dell’’aereo presidenziale - un «Falcon» - decollato dall’aeroporto di Orio. Bergamo, 2 febbraio 2011 Signor Presidente In nome dei Cittadini della Provincia di Bergamo, dalle montagne alla pianura, Le porgo, un cordiale Benvenuto I Bergamaschi sono gente tenace, a volte con punte di durezza, orgogliosamente radicati nella propria terra, difensori della famiglia, delle tradizioni, della dignità. Sempre pronti a prestare soccorso ad altre genti in difficoltà o pericolo, i Bergamaschi hanno portato ovunque fossero, in Italia o nel mondo, gli stessi sentimenti che custodiscono nel cuore per i propri cari e la propria terra. La solidarietà è nella nostra anima anche quando chiediamo, con forza, correttezza nell’utilizzo delle risorse che derivano dal nostro lavoro. Vorremmo che tutti gli Italiani potessero beneficiare degli stessi servizi, efficienti ed economici, a tutela della salute e della famiglia. Vorremmo che le complicate strutture dello Stato scendessero concretamente al livello dei cittadini attraverso i Comuni e le Province. Vorremmo poter garantire al nostro territorio, strutture e servizi commisurati agli sforzi produttivi della nostra comunità per il rispetto dovuto alla dignità dei nostri Cittadini. Nell’Ottocento la Patria era la cascina, la baita; poi il villaggio, il piccolo paese. Si andava in guerra per difendere quella Patria, per non perderla: una Patria vicina, palpabile, delimitata nei confini dall’assenza d’ informazione e da nozioni diffuse con racconti trasfigurati dal passaggio di bocca in bocca. La Patria è dove ci si sente al caldo, in sintonia con tutti i cittadini di una Nazione. La Nazione è il risultato di un lungo passato di sforzi, di sacrifici e di dedizione nel rispetto degli antenati e dei figli. Ecco quello che ci deve unire. Attendiamo con ansia, Signor Presidente della Repubblica, ma con fiducia l’avverarsi delle nuove regole del federalismo, concatenato all’unità altrimenti imperfetta, per distribuire a tutti i Cittadini pari diritti che corrispondano a pari doveri: realizzando così il sogno garantito dalla Costituzione di ogni donna e ogni uomo: essere liberi, vivere con dignità del proprio lavoro, provvedere al futuro dei figli, lavorare per vivere e non vivere per lavorare. In Lei, Signor Presidente della Repubblica, s’identifica “Il Galantuomo custode del diritto“. I Bergamaschi non tradiranno mai i propri valori e i propri ideali rimanendo vigili difensori della libertà, di tutti. Ettore Pirovano

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Notte Tricolore - Programma 7 marzo 2011 a cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni” Mercoledì 16 marzo 2011 Una “notte bianca”tutta dedicata al Compleanno d’Italia tra passeggiate risorgimentali, musica, apertura straordinaria del musei, prodotti tipici, apertivi tricolore. Per tutta la giornata, Sentierone Manifestazione Fiori, colori e sapori: banchi di vendita di prodotti regionali provenienti da tutta Italia e allestimento di un tappeto erboso con panchine, fruibile per i cittadini, in Piazza Vittorio Veneto. A cura dell’Associazione Noter De Berghem. ore 18.30 e 19.30 Passeggiate Risorgimentali: due percorsi storici nei luoghi di Città Alta e Città Bassa che ospitarono i protagonisti o eventi significativi del Risorgimento. L’itinerario sarà punteggiato dalle sagome dei garibaldini e potrà essere percorso liberamente o al seguito del Gruppo Guide Città di Bergamo. Percorso Bergamo Bassa: Percorso Bergamo Alta: ritrovo Teatro Donizetti ritrovo Piazza Cittadella Busto di Nullo e Cucchi Palazzo Roncalli Monumento a Vittorio Emanuele II Teatro Sociale Monumento a Cavour Piazza Vecchia Chiostro di Santa Marta – ex caserma Ex convento di San Francesco Casa di Nullo in via XX Settembre Parco della Rocca Piazza Pontida Società di Mutuo Soccorso Rotonda dei Mille Dalle ore 18.30: Apertura serale dei musei della città fino alle ore 23.00: Gamec, Accademia Carrara/Palazzo della Ragione, Museo di Scienze Naturali, Museo Archeologico, Casa Natale di Gaetano Donizetti, Museo Storico – ex convento di S. Francesco, Museo Storico – Sezione Ottocento in Rocca, Museo Donizettiano, Campanone ore 18.30 e 19.30: Visite guidate a Palazzo Terzi in collaborazione con il Gruppo Guide Città di Bergamo. Nel Chiostro di S. Francesco aperitivo tricolore e concerto del gruppo “Funkenstein”. Alla Gamec aperitivo tricolore, dj set e video installazione dedicata ai temi del Risorgimento. Aperitivi tricolori in vari bar della città. ore 20.30 Bande musicali, alcune delle quali già esistenti durante il Risorgimento, convergeranno dai Borghi della Città Bassa verso Piazza Vittorio Veneto, dove sarà montato un palco con videoproiezioni di testi risorgimentali sui palazzi circostanti. ore 21.30, Piazza Vittorio Veneto Compleanno della Nazione: le Bande convenute eseguiranno coralmente alcuni brani. Il trombettista Paolo Fresu improvviserà su temi musicali risorgimentali, accompagnando la lettura di testi da parte dell’attrice Patrizia Punzo. Seguirà un saluto e il brindisi delle Autorità, condiviso con tutti i convenuti, servito da punti di mescita.

Notte Tricolore per l’Unità d’Italia Pirovano: Garibaldi? Un Buffalo Bill 7 marzo 2011 Una Notte Tricolore, mostre, concerti, spettacoli e incontri culturali. Bergamo - la Città dei Mille - celebra i 150 anni dell’Unità d’Italia con una lunga serie di iniziative fino a dicembre. Il cartellone degli eventi è stato presentato a Palazzo Frizzoni da uno stuolo di autorità. In particolare il sindaco Franco Tentorio ha sottolineato la grande partecipazione del Comitato organizzatore all’allestimento delle iniziative, evidenziando che l’anniversario non ha solo connotazioni tricolori, ma riguarda anche Francia e Svizzera, dove pure sono state predisposte varie manifestazioni. Il presidente della Provincia Ettore Pirovano ha parlato dello sbarco dei Mille e di quei «ragazzi partiti sull’onda dell’ansia di libertà, ignorando forse la reale situazioni politica, e al seguito di Garibaldi» che lo stesso ha paragonato «a una sorta di Buffalo Bill». «L’Unità d’Italia - ha chiuso Pirovano con una battuta fra ironia e vis polemica - non può in ogni caso dirti perfetta senza federalismo». E ha ribadito infine la sua «coscienza di appartenenza ad un unico popolo che è quello di Bergamo». Tra le autorità presenti, assessori e consiglieri di Comune e Provincia, il presidente della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus Emilio Moreschi. Quando alle iniziative, il clou si avrà con la Notte Tricolore mercoledì 16 marzo, una sorta di notte bianca tra passeggiate risorgimentali, musicali, apertura straordinaria dei musei, prodotti tipici, aperitivi tricolori. Sul Sentierone ci saranno alcuni stand con prodotti regionali da tutta Italia. Dalle 18,30 alle 19,30 le passeggiate risorgimentali lungo un itinerario punteggiato da sagome dei garibaldini. Alle 21,30 un gruppo di bande musicali coralmente eseguirà brani. Il trombettista Paolo Fresu improvviserà su temi musicali risorgimentali, accompagnando la lettura di testi da parte dell’attrice Patrizia Punzo. A seguire in Porta San Giacomo i fuochi d’artificio tricolori.

A seguire, Porta S. Giacomo: Fuochi di artificio tricolori.

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La cerimonia istituzionale si terrà giovedì 17 marzo alle 11 al parco della Rocca. Nel pomeriggio le visite guidate a Palazzo Frizzoni. Alle dichiarazioni di Pirovano non sono mancate reazioni: «Leggo sul sito del giornale - ci ha scritto un lettore - le dichiarazioni del presidente della provincia Pirovano su Garibaldi, definendolo “una sorta di Buffalo Bill”: sono senza parole per tanta sciocchezza. Mi vergogno di essere rappresentato da un personaggio simile. Mi vergogno come cittadino e come bergamasco, la cui famiglia ha dato fra l’altro un volontario alla spedizione dei Mille. Ma quando potremo sperare di suscitare di nuovo i grandi ideali del nostro passato, non sempre remoto ? e tornare a vivere in quella cultura che i nostri genitori e nonni hanno tenacemente costruito e che si è così amaramente persa nel presente?».

«Notte tricolore» a Bergamo Manifestazioni al via da mercoledì 15 marzo 2011 Sarà una «Notte Tricolore» quella che prepara al compleanno dell’Italia. Per i 150 anni del nostro Paese, la città di Bergamo ha preparato una serie di eventi a partire dal pomeriggio del 16 marzo. Due «passeggiate risorgimentali» nei luoghi storici di Città Alta e città bassa, aperitivi tricolore al chiostro di San Francesco e alla Galleria d’arte moderna e contemporanea, musei aperti fino alle 23. E ancora: nove bande musicali in concerto per le vie del centro (chiuso al traffico) e il gran finale in piazza Vittorio Veneto con un Inno di Mameli in assolo di tromba di Paolo Fresu e i fuochi d’artificio da Porta San Giacomo. Una notte bianca... rossa e verde messa in campo all’interno del calendario di eventi «Bergamo per i 150 anni. 1861-2011» curato dal Comitato per le celebrazioni, che si aprirà in realtà di buon mattino. Il 16 marzo, infatti, fin dalle 9 ci saranno i fiori in piazza Vittorio Veneto nei banchi di «Fiori, colori e sapori» con un manto erboso e le panchine ma anche i prodotti regionali di tutta Italia promossi dall’associazione «Noter de Berghem». Alle 15, invece, spazio ai laboratori e alla musica sul Sentierone a cura della Consulta provinciale studentesca. Percorsi Risorgimentali Alle 17,45 si terrà un Consiglio comunale straordinario sul 150° dell’Unità d’Italia a Palazzo Frizzoni mentre alle 18,30 prenderanno il via le «Passeggiate risorgimentali». Due percorsi storici nei luoghi di Città Alta e città bassa che ospitarono i protagonisti e gli eventi più significativi del Risorgimento Italiano accompagnati dalle Guide della città di Bergamo. Il primo percorso partirà dal Teatro Donizetti sulle orme del busto di Nullo e Cucchi, il monumento a Vittorio Emanuele II, il monumento a Cavour, il chiostro di Santa Marta, la casa di Nullo in via XX Settembre, Piazza Pontida, la Società di Mutuo Soccorso, la Rotonda dei Mille. Da Piazza Cittadella, invece, si esplorerà il percorso risorgimentale che comprende Palazzo Roncalli, il Teatro Sociale, Piazza Vecchia, l’ex Convento di San Francesco, il Parco della Rocca.

Porta San Giacomo illuminata con i colori della bandiera italiana (Foto Yuri Colleoni)

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Bande in concerto Dalle 19,30 si entra nel vivo della Notte Tricolore con l’isola pedonale allargata compresa tra via Verdi, Piazzetta Santo Spirito, Via Camozzi, Piazza Pontida. Stop alle auto e via alla musica di nove bande musicali che si esibiranno a partire da altrettanti punti della città esibendosi in repertori rigorosamente ispirati all’Unità d’Italia. Dalle 20 le note si alzeranno da piazza Pontida, S. Alessandro bassa (chiesa), Borfuro – S.Orsola, piazza Matteotti antistante Palazzo Frizzoni, piazza Cavour (giardini), piazza Dante, piazza della Repubblica, piazzetta Santo Spirito, piazzale Alpini. Intorno alle 21,30 le nove bande si schiereranno una dopo l’altra in piazza Vittorio Veneto. A turno suoneranno un breve brano e, alla fine, un brano finale congiunto, tutte insieme. Inno e fuochi per il finale Sarà in piazza Vittorio Veneto il gran finale per festeggiare il compleanno della nazione. Dopo una breve introduzione, intorno alle 22, sul programma di «Bergamo per i 150 anni dell’Unità d’Italia», si esibiranno in una performance l’attrice Patrizia Punzo e il trombettista Paolo Fresu. La lettura di testi si alternerà a improvvisazioni di brani musicali con un finale d’eccezione: l’Inno di Mameli in assolo inedito di tromba di Paolo Fresu. Al termine, un rappresentante della Regione Lombardia, il sindaco di Bergamo, il presidente della Provincia, il Prefetto e il Rettore dell’Università di Bergamo faranno un breve augurio di compleanno alla Nazione. Nei pressi del palco, una squadra di alpini offrirà il brindisi dell’anniversario a tutta la popolazione presente, mentre le bande tutte insieme suoneranno l’Inno di Mameli. In caso di pioggia l’evento sarà spostato al Teatro Donizetti. Si chiuderà con i fuochi d’artificio da Porta San Giacomo.

Mercoledì per la Notte tricolore Fresu suona l’inno di Mameli 15 marzo 2011 L’attrice Patrizia Punzo legge pagine di storia, il trombettista Paolo Fresu intona l’Inno di Mameli e, dirigendo le bande, improvvisa su qualche aria risorgimentale. La «Notte tricolore» va in scena domani sera alle 21.30 in piazza Vittorio Veneto (in caso di pioggia al Teatro Donizetti). In questi giorni di celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, Bergamo Città dei Mille riscopre un ruolo centrale nelle vicende storiche del Paese. Il tema Città dei Mille giustamente tiene banco. E lo dimostra anche il clamoroso successo del cd «I Garibaldini Bergamaschi», realizzato dall’ensemble «Cantarchevai» diretto da Oliviero Biella, con il contributo dell’attore Ferruccio Filipazzi e il ricercatore Valter Biella. Prodotto artistico di qualità, uscito in allegato al nostro giornale e in vendita presso tutte le edicole. Storie e canzoni della spedizione dei Mille con sole cinquecento camice rosse, e la voglia cocente di cambiare il corso della storia. Nell’album si alternano canzoni e parti recitate. Alla base dell’operazione gli studi condotti da Mario Gelfi quando era direttore del Museo Storico di Bergamo. «Dell’album siamo molto contenti e ci fa piacere che trovi un positivo riscontro», dice Oliviero Biella. «In questi giorni iniziamo a promuovere il nostro spettacolo, siamo domani a San Giuliano Milanese. Al centro dell’attenzione una riflessione sull’Italia di oggi. Il cd invece focalizza una pagina ben precisa, un momento di storia locale.

Paolo Fresu (Foto RedazioneWEB)

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Fondazione Bergamo nella Storia: ecco le iniziative per i 150 anni 15 marzo 2011

Bergamo per i 150 anni dell’Unità d’Italia 16 marzo 2011

La Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, membro del comitato Bergamo per i 150 anni, aderisce al programma delle iniziative promosse e organizzate per la festa nazionale. Il giorno 16 alle 18 Silvana Agazzi e Carlo Salvioni interverranno nella seduta straordinaria del Consiglio Comunale per ripercorrere i principali eventi, luoghi e protagonisti del Risorgimento a Bergamo. In serata, in occasione della notte del Tricolore, i musei della Fondazione resteranno aperti fino alle 23. Il giorno 17 marzo, alle 11 presso la Rocca si terrà la cerimonia istituzionale di celebrazione dell’Unità d’Italia con concerto della Fanfara Città dei Mille, intervento delle autorità, visita guidata al Museo Storico di Bergamo con introduzione a cura di Carlo Salvioni. Sarà presente una rappresentanza degli Alpini della Sezione di Bergamo e dell’Associazione Bergamaschi nel Mondo. Per tutto il giorno il Museo Storico – sezione Ottocento in Rocca e tutti i musei della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus resteranno aperti al pubblico con ingresso gratuito. Domenica 27 marzo nell’ambito dell’iniziativa dall’archivio al museo si terrà l’incontro «Uomini e donne nel Risorgimento», un’occasione per approfondire la storia degli uomini e delle donne protagonisti del Risorgimento a Bergamo e toccare con mano documenti e oggetti delle collezioni del Museo

Dalla ‘Notte tricolore’ del 16 marzo alle celebrazioni del 17 - tra passeggiate risorgimentali, videoinstallazioni e spettacoli pirotecnici; dalla mostra Le carte dell’identita’ al Museo Storico di Bergamo al concerto del violinista Uto Ughi; dal ‘Garibaldi Day’ alle mostre dedicate alla Gioventu’ ribelle e a Bergamo e i Mille. Questo e molto altro nel programma per i festeggiamento dell’Unita’ d’Italia che da marzo si protrarrà fino a dicembre prossimo. Comunicato stampa a cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni” Bergamo, la “Città dei Mille”, celebra il compleanno d’Italia con un percorso preciso e autonomo, per il quale gli eventi ripercorsi nei libri di storia sono solo il punto di arrivo di un “racconto” che, da marzo a dicembre 2011, farà rivivere in città e in provincia le piccole grandi storie, gli umori e le idee che portarono Bergamo ad essere protagonista di primo piano del Risorgimento, incrociando letteratura, musica, pittura, cinema, sport, spettacolo, scienza, economia, e tanto altro. Bergamo è l’unica città italiana nota come “Città dei Mille”, com’è scritto anche sul Gonfalone cittadino. Non si tratta solo di un riconoscimento onorifico, ma del ricordo della commovente mobilitazione di tanti giovani della Bergamasca, circa 180, che risposero con entusiasmo alla chiamata di Giuseppe Garibaldi per liberare se stessi, e tanti altri fratelli sconosciuti, da oppressori che parlavano austriaco, spagnolo, francese. Quindi Bergamo e la Bergamasca come teatro di importanti avvenimenti risorgimentali, a partire dall’insurrezione del 1848, in sintonia con i più celebrati moti di Milano, per arrivare alle poco note vicende del periodo successivo alla formazione del Regno d’Italia, fino al 1870. Mettendo da parte interpretazioni e dietrologie sull’Unità d’Italia, Bergamo sceglie con le sue celebrazioni per i 150 anni un percorso preciso e autonomo: utilizzare ogni strumento, occasione, ricorrenza, per informare, divulgare, far conoscere, soprattutto ai giovani, i fatti di allora, ma anche gli umori e le idee, partendo dagli avvenimenti che ebbero origine sul suo territorio. Un racconto che non inizia, quindi, dagli eventi celebrati nei libri di storia, ma che vi arriva a partire dalle piccole grandi storie e dall’orgogliosa identità di un popolo generoso, determinato, ricco di ideali. Bergamo sceglie dunque di incrociare ogni possibile linguaggio - letteratura, musica, pittura, cinema, sport, spettacolo, scienza, economia, e tanto altro – per proporre la “sua” narrazione del cammino verso una “coscienza nazionale”. Un percorso che si svilupperà da marzo a dicembre 2011, con un ricco calendario di notti tricolore, mostre, convegni di approfondimento, concerti, spettacoli, proiezioni, eventi sportivi, visite guidate, concorsi per le scuole, itinerari tra i luoghi del Risorgimento. Il progetto “Bergamo per i 150 anni” è realizzato grazie ad un Comitato Istituzionale, che vede la presenza della Regione Lombardia, della Provincia e del Comune di Bergamo, nonché

Una sala del Museo Storico alla Rocca di Bergamo (Foto K13 BEDOLIS)

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dell’Università e della Prefettura di Bergamo, ed è stato messo a punto da un Comitato Scientifico Operativo che vede al suo interno esponenti delle Istituzioni sopra citate, della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus e dell’Ufficio X Ambito Territoriale di Bergamo dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia. A collaborare alle iniziative sono, inoltre, circa 40 realtà della città e del territorio, tra musei, associazioni, Comuni e fondazioni. L’Assessorato alla Cultura e Spettacolo del Comune di Bergamo è divenuto la sede naturale del lavoro dei Comitati e ha fornito un valido supporto e un coordinamento, e la realizzazione delle iniziative così come il progetto di comunicazione sono stati affidati a Cobe Direzionale S.p.A. Dalla “Notte tricolore” del 16 marzo alle celebrazioni del 17, tra passeggiate risorgimentali, videoinstallazioni e spettacoli pirotecnici, alla mostra “Le carte dell’identità” al Museo Storico di Bergamo; dalla “Mini Tappa Tricolore” al passaggio del Giro d’Italia, al concerto del violinista Uto Ughi; dal “Garibaldi Day”, in gemellaggio con Nizza e Caprera, e il Galà del Risorgimento, con visite guidate e convegni dedicati all’Eroe dei due Mondi”, fino alla mostra dedicata alla “Gioventù ribelle” che spese la propria esistenza per realizzare un ideale. E ancora: “Il Cinema, la Rai e il Risorgimento”, la sfilata de “Il ritorno a casa dei Mille”, la mostra “Bergamo e i Mille” sui monumenti risorgimentali. A partire da marzo 2011, chi arriverà a Bergamo potrà condividere l’atmosfera unica di queste celebrazioni, caratterizzate da momenti di alta spettacolarità, da iniziative di rigoroso valore storico e di approfondimento artistico e culturale. Una celebrazione, sì, ma anche una festa di compleanno, e un tributo tricolore a un passato nobile e a un popolo speciale.

Dalle ore 18.30: Apertura serale dei musei della città fino alle ore 23.00: Gamec, Accademia Carrara/Palazzo della Ragione, Museo di Scienze Naturali, Museo Archeologico, Casa Natale di Gaetano Donizetti, Museo Storico – ex convento di S. Francesco, Museo Storico – Sezione Ottocento in Rocca, Museo Donizettiano, Campanone ore 18.30 e 19.30: visite guidate a Palazzo Terzi in collaborazione con il Gruppo Guide Città di Bergamo. Nel Chiostro di S. Francesco aperitivo tricolore e concerto del gruppo “Funkenstein”. Alla Gamec aperitivo tricolore, dj set e video installazione dedicata ai temi del Risorgimento. Aperitivi tricolori in vari bar della città. ore 20.30 Bande musicali, alcune delle quali già esistenti durante il Risorgimento, convergeranno dai Borghi della Città Bassa verso Piazza Vittorio Veneto, dove sarà montato un palco con videoproiezioni di testi risorgimentali sui palazzi circostanti. ore 21.30, Piazza Vittorio Veneto Compleanno della Nazione: le Bande convenute eseguiranno coralmente alcuni brani. Il trombettista Paolo Fresu improvviserà su temi musicali risorgimentali, accompagnando la lettura di testi da parte dell’attrice Patrizia Punzo. Seguirà un saluto e il brindisi delle Autorità, condiviso con tutti i convenuti, servito da punti di mescita. A seguire, Porta S. Giacomo - Fuochi di artificio tricolori.

Focus su alcune iniziative a Bergamo e provincia per i 150 anni dell’unità d’Italia. Marzo-Dicembre 2011 a cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni” MARZO: LA NOTTE TRICOLORE Mercoledì 16 marzo 2011 Una “notte bianca”tutta dedicata al Compleanno d’Italia tra passeggiate risorgimentali, musica, apertura straordinaria del musei, prodotti tipici, apertivi tricolore. Programma: Per tutta la giornata, Sentierone Manifestazione Fiori, colori e sapori: banchi di vendita di prodotti regionali provenienti da tutta Italia e allestimento di un tappeto erboso con panchine, fruibile per i cittadini, in Piazza Vittorio Veneto. A cura dell’Associazione Noter De Berghem. ore 18.30 e 19.30 Passeggiate Risorgimentali: due percorsi storici nei luoghi di Città Alta e Città Bassa che ospitarono i protagonisti o eventi significativi del Risorgimento. L’itinerario sarà punteggiato dalle sagome dei garibaldini e potrà essere percorso liberamente o al seguito del Gruppo Guide Città di Bergamo. Percorso Bergamo Bassa: ritrovo Teatro Donizetti Busto di Nullo e Cucchi Monumento a Vittorio Emanuele II Monumento a Cavour Chiostro di Santa Marta – ex caserma Casa di Nullo in via XX Settembre Piazza Pontida Società di Mutuo Soccorso Rotonda dei Mille

Percorso Bergamo Alta: ritrovo Piazza Cittadella Palazzo Roncalli Teatro Sociale Piazza Vecchia Ex convento di San Francesco Parco della Rocca

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Giovedì 17 marzo 2011 Cerimonia Istituzionale a cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni” ore 11.00, Bergamo, Parco della Rocca. Cerimonia Istituzionale di celebrazione dell’Unità d’Italia con concerto della Fanfara Città dei Mille, intervento delle Autorità presenti, visita guidata al Museo Storico di Bergamo con introduzione a cura di Carlo Salvioni. Sarà presente una rappresentanza degli Alpini della Sezione di Bergamo e dell’Associazione Bergamaschi nel Mondo. Per tutta la giornata ingresso gratuito al Museo Storico-Sezione Ottocento in Rocca. Ore 15.00 e 17.00, Palazzo Frizzoni Visite guidate a cura di G.Carullo. APRILE LE CARTE DELL’IDENTITÀ E L’ITALIA DELLO SPORT Da aprile a novembre - Museo Storico di Bergamo Mostra Le carte dell’identità A cura di Fondazione Bergamo nella Storia Onlus e Comitato “Bergamo per i 150 anni” Attraverso le carte dei fondi archivistici del Museo Storico di Bergamo e dell’Archivio di Stato, approfondimento e ricostruzione della storia d’Italia durante il Risorgimento.

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Giovedì 26 maggio L’Italia dello sport a cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni” Programma: ore 13.30 In corrispondenza del passaggio del Giro d’Italia, quest’anno dedicato ai 150 anni dell’Unità d’Italia, Mini Tappa Tricolore: tappa amatoriale da Bergamo a San Pellegrino Terme (arrivo ore 15.00), cui partecipano rappresentanti delle Istituzioni, campioni del ciclismo, A.Ri.Bi. Partenza da Palazzo Frizzoni e arrivo a S. Pellegrino, sullo stesso traguardo al quale arriverà la tappa ufficiale del Giro. L’arrivo verrà filmato e proposto alle trasmissioni Rai dedicate al Giro d’Italia. ore 19.00 Concerto con una fanfara rappresentativa dell’Associazione Bande Bergamasche Musicali. Piazza Matteotti. A seguire: Lo sport continua a fare l’Italia, passerella di campioni di ogni sport che evocheranno, con testimonianze dirette, il sentimento nazionale raccontato attraverso imprese sportive e con proiezione e rievocazione delle più rappresentative vittorie sportive, dai Mondiali di Calcio alle Olimpiadi, ecc. - Piazza Matteotti. ore 21.00 Nell’ambito del Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo, Concerto sinfonico con il violinista Uto Ughi. Un programma che, mettendo a confronto l’Ottocento musicale tedesco e quello italiano, propone un ideale collegamento tra due Risorgimenti coevi, quello della Germania e quello italiano. - Teatro Donizetti. MAGGIO CONVEGNI, CONCERTI E GARIBALDI DAY Sabato 28 maggio ore 16.00 Convegno 150 anni di solidarietà e impresa sul territorio A cura dell’Associazione Generale di Mutuo Soccorso in collaborazione con Fondazione Banca Popolare di Bergamo Onlus Luogo: Società Mutuo Soccorso. Dalle Società di Mutuo Soccorso, presidente Giuseppe Garibaldi, alle vivaci attività solidaristiche presenti oggi nel territorio. Un focus particolare sulla nascita nel 1869 del Banco Popolare di Mutuo Soccorso che diverrà la Banca Popolare di Bergamo, ancora oggi attiva e fiorente, caratterizzata da un forte e storico radicamento sul territorio. Info: www.mutuosoccorsobergamo.com Giovedì 2 giugno GARIBALDI DAY a cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni” ore 10.30 Guide Turistiche Città di Bergamo Visita guidata ai luoghi della Città Bassa dedicati, o riguardanti, l’Eroe dei Due Mondi. ore 16.00 Apertura della Torre dei Caduti con visita guidata al Chiostro di Santa Marta in occasione delle

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Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia a cura del Gruppo Guide Turistiche. ore 18.00 Convegno Da Nizza a Caprera: Giuseppe Garibaldi e i suoi rapporti con Bergamo e i bergamaschi. Un incontro che propone un gemellaggio culturale con la Francia, e le Municipalità di Nizza e Caprera. Teatro Donizetti. ore 21.00 Concerto dell’Ensemble Baroque de Nice e dell’Ensemble Strumentale Ab Harmoniae, nell’ambito di un programma organizzato dall’Associazione Ab Harmoniae alla presenza di una delegazione dell’Amministrazione della Città di Nizza, città natale di Giuseppe Garibaldi. Teatro Donizetti. SETTEMBRE LA MOSTRA GIOVENTÙ RIBELLE E IL CINEMA , LA RAI E IL RISORGIMENTO Da venerdì 2 settembre a domenica 16 ottobre Mostra gioventù ribelle Ministero della Gioventù in collaborazione con Comitato “Bergamo per i 150 anni” Palazzo dell’Ex Ateneo, Piazza Reginaldo Giuliani. Inaugurazione della mostra Gioventù ribelle: un’esposizione che ripercorre la vita di un gruppo di giovani che spese la propria esistenza per realizzare un ideale. Da Goffredo Mameli a Luciano Manara, dalla Contessa di Castiglione a Maria Sofia di Borbone, da Carlo Pisacane ai Fratelli Cairoli. All’inaugurazione sono invitati i rappresentanti delle Istituzioni e della Consulta degli Studenti. Martedì 20 settembre Il cinema, La Rai e il Risorgimento a cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni” Cortile Biblioteca Caversazzi. Proiezione in anteprima italiana del film documentario di D. Ferrario “Piazza Garibaldi” prodotto da Rai Cinema o, alternativamente, proiezione del film “Senso” di L. Visconti. A seguire proiezione di documentari Rai sui 150 anni e dibattito sulla narrazione del Risorgimento attraverso i media. NOVEMBRE IL RITORNO A CASA DEI MILLE Venerdì 11 novembre Il ritorno a casa dei Mille a cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni” ore 10.30 Cerimonia di premiazione del concorso per le scuole Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia in Bergamo e provincia (1848-1870). In collaborazione con Fondazione Banca Popolare di Bergamo e L’Eco di Bergamo. Sono invitati il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, il Ministro della Gioventù e i rappresentanti di tutte le Istituzioni interessate. Teatro Donizetti.

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ore 12.00 Inaugurazione della mostra, aperta al pubblico fino al 15 gennaio 2012, sui monumenti Risorgimentali Bergamo e i Mille, curata da C. Beltrami e dal G.F.Villa, alla presenza delle Istituzioni, e dei rappresentanti dell’Unità Tecnica di Missione della Presidenza del Consiglio dei Ministri per le Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia organizzatore della Mostra. Sala Ex Ateneo, Piazza Reginaldo Giuliani. Nel corso della giornata: Il ritorno a casa dei Garibaldini: una sfilata che riporta simbolicamente i garibaldini reduci dalle campagne a Bergamo. Impersonato da giovani bergamaschi il piccolo corteo si muoverà nella città su un percorso da definire. ore 20.30 Galà del Risorgimento, con importanti testimonial della musica, della cultura, dello spettacolo. Si prevede l’esecuzione dell’Inno alle Nazioni di Giuseppe Verdi. In collaborazione con Fondazione Donizetti. Teatro Donizetti.

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Si canta l’inno sotto la pioggia Tanta partecipazione alla Rocca

Rivolte e cannonate in piazza Vecchia A Bergamo si combattè nel 1848-‘49

17 marzo 2011

17 marzo 2011

Molta gente e grande partecipazione, nonostante la continua pioggia, alla cerimonia istituzionale per i 150 anni dell’unità d’Italia alla Rocca, in città Alta. Con il sindaco Franco Tentorio, il presidente della Provincia Ettore Pirovano le più alte autorità civili, militari e religiose, tra cui il vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi. Ad allietare la cerimonia la fanfara Ramera di Ponteranica che, dopo i discorsi, ha suonato l’Inno di Mameli, cantato dalla gente. Davanti al Museo Storico ha parlato il sindaco Tentorio. Ecco in sintesi il suo discorso: «Festeggiamo un compleanno importante e la grande partecipazione della gente dimostra quanto sia sentito. È importante essere qui per ricordare l’inizio della nostra storia nazionale. Spero che lo spirito sia di amicizia e di reciproco rispetto e comprensione». Quando ha preso la parola il presidente della Provincia Ettore Pirovano, che era stato contestato mercoledì sera, sono piovuti un paio di fischi, ma la folla ha subito zittito i pochi contestatori. «È un piacere essere qui. Ricordo che venivo qui alla Rocca da ragazzo per vedere le foto del mio trisavolo, uno dei 180 garibaldini». «Sono orgoglioso - ha continuato Pirovano - per coloro che hanno dato la vita per un ideale che forse oggi non è più così sentito. In questi tempi rischiano di prevalere le ideologie e si indeboliscono gli ideali. L’Italia è una Repubblica giovane che deve lavorare ancora molto, soprattutto per dare le giuste attenzioni ai cittadini». Il prefetto Camillo Andreana: «Guardiamo al passato per costruire il nostro futuro. È fondamentale recuperare l’orgoglio nazionale. L’augurio è che l’Italia acquisisca equilibrio, bando alle isterie, cerchiamo più serenità e capacità di giudizio. Buon compleanno Italia». Infine è intervenuto Carlo Salvioni, presidente degli Amici del Museo Storico, che ha sottolineato l’importante ruolo di Bergamo nel Risorgimento e ha dato il là alle visite guidate.

Chi si siede ai tavolini dei bar in piazza Vecchia, certo non immagina che un giorno piovvero palle di cannone. Una colpì il castello delle campane della torre civica, un’altra il quadrante dell’orologio, una terza passò per la finestrella di una stanzetta buttando all’aria i poveri mobili, un tavolo e le sedie. Una quarta, molto più potente, sfondò tetto, soffitti e pavimenti di una casa per piombare infine all’interno del Caffè del Tasso, dove causò non pochi danni. Avvenne nel marzo del 1849, uno degli eventi cruciali del Risorgimento bergamasco, che non si limitò, come invece si è portati a credere tanto se ne parla e se ne discute, alla spedizione dei Mille. Nel difficile cammino che portò all’Unità d’Italia Bergamo fu teatro di due rivolte popolari: in città si combatté nel ‘48 e nel ‘49. Il 21 marzo 1848, mentre in città l’insurrezione era generale e la gente era chiamata a raccolta dal suono di tutte le campane, fu dato l’assalto alla polveriera. Si trovava sull’area dell’attuale cimitero: venne presa dopo un furioso combattimento. Altri scontri avvennero in via Pignolo (allora borgo Sant’Antonio) per bloccare una colonna proveniente dalle caserme di San Giovanni (Montelungo) e di Sant’Agostino e diretta a Milano per portare aiuto a Radetski. Si spara dalle finestre, mentre dai tetti piovono tegole, mattoni e pietre. I soldati si sbandano e scappano. L’ex convento di Sant’Agostino era stato trasformato dagli austriaci in un forte presidio, che tuttavia fu abbandonato nella notte del 23 marzo 1848 di fronte alla sollevazione dell’intera città. Lo stesso arciduca Sigismondo si diede a precipitosa fuga. Gli insorti non riuscirono invece a conquistare la caserma durante l’insurrezione del ‘49. Spostiamoci in Rocca, dall’alto della quale possiamo immaginare l’assedio, nelle giornate del marzo 1849, dei cittadini, dei 300 patrioti della colonna guidata da Gabriele Camozzi e dei volontari scesi dalla valle Brembana. Si sparava sulla Rocca dai tetti, dalle altane, dalle torri di Gombito e del Campanone, dalle barricate che bloccarono tutte le vie attorno. Gli austriaci risposero con cannoni e mortai bombardando piazza Vecchia, San Pancrazio, la Corsarola. Vi furono morti e feriti. Un sacrificio vano. L’esercito piemontese fu sconfitto a Novara e gli austriaci si ripresero la città. Ma non dimentichiamo la non lontana porta San Lorenzo, nella valletta di Valverde. Nel ‘48 vide la fuga notturna della guarnigione austriaca, l’8 giugno 1859 Garibaldi vi passò per entrare in Bergamo. La città era libera, e si riempì di bandiere tricolori. Per conoscere tutta la storia leggi L’Eco di Bergamo del 17 marzo

La cerimonia istituzionale alla Rocca (Foto Bedolis K9)

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Anche a Bergamo si combattè per l’unità del Paese (Foto Archivio2)

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Unità d’Italia: il concorso per le scuole è stato prorogato fino al 31 maggio

«Mille camicie e una storia» Musica e racconti su Garibaldi

6 aprile 2011

15 maggio 2011

È stata prorogata dal 30 aprile al 31 maggio 2011 la scadenza per iscriversi e inviare gli elaborati relativi al concorso «Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia in Bergamo e provincia (1848-1870)» organizzato dall’Assessorato alla cultura e allo spettacolo del Comune di Bergamo, dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia (ex Provveditorato agli Studi) e dalla Fondazione Bergamo nella Storia Onlus - Museo Storico di Bergamo, su mandato del Comitato locale per le Celebrazioni per i 150 Anni dell’Unità d’Italia. Si raccomanda alle scuole interessate di inviare al più presto una conferma di pre-adesione al concorso ai seguenti indirizzi e-mail specificando in particolare la/le classi intere e/o i gruppi di studenti dello stesso Istituto scolastico partecipanti: capezzuto@istruzione.bergamo.it (prof. ssa Teresa Capezzuto) e benetti@istruzione.bergamo.it (prof. Guglielmo Benetti). Si ricorda che il concorso è finalizzato ad una premiazione che avrà luogo l’11 novembre 2011 in orario scolastico al Teatro Donizetti di Bergamo alla probabile presenza dei responsabili dei Ministeri interessati: Miur, Ministero della Gioventù ed eventuale rappresentante della Presidenza della Repubblica nonché rappresentanti delle Istituzioni regionali, provinciali e comunali. Si ricorda inoltre che in questa circostanza la Banca Popolare di Bergamo conferirà dei premi in aggiunta ai riconoscimenti meritori già stabiliti dall’articolo 7 del bando di concorso e che il quotidiano «L’Eco di Bergamo» si riserva di pubblicare eventuali estratti degli elaborati premiati. A questo fine si ribadisce che la richiesta di ammissione al concorso, attraverso l’apposita scheda di iscrizione, unitamente all’elaborato scritto (in forma, a scelta, di inchiesta giornalistica, saggio breve, lettera, diario – lunghezza massima 7.000 caratteri spazi inclusi) e al/ai disegno/i e/o alla/e fotografia/e prodotti, dovrà essere presentata dall’Istituto Scolastico in un unico plico sia in formato cartaceo che digitale e dovrà pervenire al Comune di Bergamo, Direzione Servizi Culturali e Ricreativi, Ufficio Protocollo, piazza Matteotti n. 27, 24100 Bergamo, entro le ore 12 del 31 maggio 2011. La presente circolare, unitamente a quella complessiva «Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia in Bergamo e provincia (1848-1870) - Concorso storico letterario per gli studenti - Aggiornamenti» (Prot. n. 4113/C27a del 28 febbraio 2011) sempre di codesto Ufficio X, con i relativi allegati (bando di concorso, scheda dei percorsi, scheda di iscrizione, lettera della Banca Popolare di Bergamo) sono reperibili dalla pagina iniziale del nostro sito internet, all’indirizzo: www.istruzione.bergamo.it

Studenti all’ingresso di una scuola superiore (Foto Archivio2)

Sabato 21 maggio alle 21 a Lurano presso l’Auditorium di Borgo San Lino e domenica 22 maggio alle 20.45 a Villa di Serio nel cortile della Biblioteca comunale l’Ensemble Cantarchevai presenta lo spettacolo «Alla garibaldina... mille camicie e una storia», l’epopea dei Mille raccontata, suonata e ripensata oggi, con l’Ensemble Cantarchevai, i musici e la voce narrante di Ferruccio Filipazzi. Il progetto nasce più di un anno fa da una proposta del compianto direttore del Museo Storico di Bergamo Mauro Gelfi. Il filo conduttore del Ensemble Cantarchevai è quello di ricordare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia con i mezzi artistici che gli sono propri, mettendo in luce il carattere popolare dell’epopea garibaldina, rilanciando gli ideali di solidarietà sottesi all’impresa. Nel lungo e travagliato percorso che ha portato all’Unità d’Italia, l’avventura dei garibaldini ha avuto un posto di eccezionale rilievo ed ha visto la provincia bergamasca protagonista in prima linea, perché all’impresa stessa ha dato il maggior contributo di volontari. L’intento del coro diretto dal maestro Oliviero Biella, accompagnato dalla voce narrante di Ferruccio Filipazzi, è quindi quello di ricreare le gesta di quegli uomini, sotto forma di suoni, voci, emozioni. La narrazione si dipana attraverso «storie minori» che lambiscono la «grande storia», con slanci capaci di ricondurre ai nostri giorni: rendendo l’entusiasmo delle camicie rosse da un lato assolutamente attuale e dall’altro punto di critica nei confronti dell’odierna situazione politica.

Lo sbarco dei Mille e Giuseppe Garibaldi. Opera conservata al Museo Storico di Bergamo (Foto null)

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Mostra: «Le carte dell’identità»

Ora anche due visite guidate

26 giugno 2011

18 agosto 2011

Ha aperto al pubblico sabato 18 giugno 2011, presso la sede del convento di San Francesco, la mostra “Le carte dell’identità” Bergamo gli anni del Risorgimento. Promossa e organizzata dalla Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, grazie al contributo di Comitato Bergamo per i 150 anni, Fondazione Asm e Fondazione comunità bergamasca, la mostra giunge al termine di una serie numerosa di iniziative organizzate dal Museo Storico di Bergamo in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. La mostra “Le carte dell’identità” intende approfondire la storia del territorio bergamasco tra Risorgimento e Unità in relazione al contesto nazionale, ampliando i contenuti e i tagli interpretativi proposti nel percorso espositivo allestito presso il complesso della Rocca. All’interno del percorso vengono presentati i molteplici tratti dell’identità delineatasi nell’area bergamasca durante le vicende risorgimentali e nei primi decenni unitari, ed evidenzianti i fattori che l’hanno influenzata, le espressioni che ha assunto ed i legami con l’identità nazionale in costruzione. Punto di vista privilegiato è quello di individui che hanno vissuto da protagonisti gli eventi e le situazioni, ricostruendo le esperienze, rivelando i volti, mostrando documenti e oggetti personali, riproponendo le parole scritte in lettere e diari, selezionando le opere artistiche rilevanti. Nel delineare il profilo individuale, la “carta d’identità” di ciascuno di loro, si comporranno i tratti, molteplici e mutevoli, dell’identità collettiva formatasi nei decenni dell’Ottocento caratterizzati da decisive trasformazioni istituzionali, territoriali, amministrative, culturali ed economiche. Il titolo della mostra, “carte dell’identità”, rimanda sia alla pluralità delle figure individuali che hanno sostanziato le vicende storiche del territorio, sia alle numerose sfaccettature delle loro esperienze di vita, sia infine al variegato e processuale quadro identitario comune risultante. La mostra realizzata dal Museo Storico di Bergamo (progetto scientifico di Adriana Bortolotti) è il frutto di una forte sinergia con le istituzioni della città e della provincia di Bergamo: enti che non solo hanno contribuito attraverso il prestito di beni storici, ma soprattutto partecipando attivamente alla ricerca che ha affiancato tutto il percorso del progetto. Il comitato scientifico, composto da docenti universitari, ricercatori e archivisti (Mimmo Boninelli,Adriana Bortolotti, Margherita Cancarini Petroboni, Rosanna Paccanelli Gavazzeni, Marco Albertario, Giuliano Bernini, Cornelia Carlessi, Natale Carra, Valentina Colombi, Lia Corna, Gianluigi Della Valentina, Marcello Eynard, Cesare Fenili, Remo Melloni, Maria Mencaroni Zoppetti, Maria Pacella, Paola Palermo, Fabio Pruneri, Matteo Rabaglio, Luisa Onesta Tamassia, Giampiero Valoti), ha dato un apporto significativo al progetto e consentito di realizzare un percorso di materiali e documenti talora inediti, per la prima volta esposti al pubblico e di grande rilevanza per la storia del Risorgimento in ambito bergamasco. È il caso della trascrizione dei registri di arruolamento dei Cacciatori delle Alpi conservati presso l’Archivio di Stato di Torino, dell’indagine sulle decorazioni e sugli affreschi a tema risorgimentale presenti in dimore private della città e della provincia, della digitalizzazione dell’Atlante di Mascagni, e del lavoro di trascrizione critica, a cura di Mimmo Boninelli, della Raccolta di nomi locali predisposta in 15 volumi manoscritti da Antonio Tiraboschi tra il 1869 e il 1883, un’opera che contiene circa 4.000 voci di toponomastica. Un rilevante contributo è giunto infine da prestatori e collezionisti privati che con grande generosità hanno voluto mettere a disposizione della collettività opere che hanno arricchito il percorso espositivo. Il percorso è completato da 4 postazioni multimediali: la prima introduttiva di presentazione della mostra; la seconda con due libri interattivi che consentono di sfogliare materiali relativi ai temi dell’istruzione e della sanità; la terza con tre torrette audio di ascolto guidato e ragionato di musiche che hanno fatto l’Italia, e infine i busti parlanti, le voci di tre protagonisti del Risorgimento: Gabriele Rosa, Gabriele Camozzi e Francesco Nullo.

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Prosegue la mostra «Le carte dell’identità» a Bergamo, gli anni del Risorgimento, promossa e organizzata dalla Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, grazie al contributo di Comitato Bergamo per i 150 anni, Fondazione Asm e Fondazione comunità bergamasca. La mostra si propone come approfondimento della storia del territorio bergamasco, ampliando i contenuti e la lettura interpretativa già presente nel percorso espositivo allestito presso il complesso della Rocca. Il nuovo allestimento mette al centro i molteplici tratti dell’identità delineatasi nel bergamasco durante le vicende risorgimentali e nei primi decenni unitari, i fattori che l’hanno influenzata, le espressioni che ha assunto e i legami con l’identità nazionale in costruzione. Prima della chiusura della mostra la Fondazione Bergamo nella Storia Onlus intende offrire alla cittadinanza due occasioni di visitare l’esposizione con l’accompagnamento del personale scientifico che l’ha curata: verranno evidenziati i temi principali che compongono il percorso, con la segnalazione dei materiali storici inediti e dei più recenti esiti di ricerca confluti nella mostra. I partecipanti potranno poi liberamente approfondire i contenuti delle diverse sezioni e usufruire delle postazioni multimediali. Gli appuntamenti sono per domenica 28 agosto e domenica 11 settembre, alle ore 15.30, presso la sede della mostra. La visita accompagnata durerà un’ora e quindici minuti. La visita guidata è gratuita. Costo del biglietto di ingresso 3 euro. La prenotazione è obbligatoria (TEL. 035 247116 – 035 226332)

La mostra “Le carte d’identità” al Museo Storico di Bergamo (foto Frau)

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Concorso: Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia in Bergamo e provincia (1848-1870) La scuola secondaria di I grado di Sovere vince il premio speciale della Fondazione Banca Popolare di Bergamo per il concorso: Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia in Bergamo e provincia (1848-1870). Il progetto “150 anni di storia d’Italia a Palazzo Silvestri” è stato premiato con un buono di 500 euro per l’acquisto di attrezzature didattiche e 25 euro a testa per tutti gli alunni delle classi terze che si sono attivamente impegnati nella realizzazione del progetto. La Cerimonia di premiazione si è tenuta l’11/11/2011 al Teatro Donizetti di Bergamo del concorso per le scuole “Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia in Bergamo e provincia (1848-1870)”, a cura del Comitato “Bergamo per i 150 anni”, dell’Ufficio scolastico territoriale, della Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, in collaborazione con Fondazione Banca Popolare di Bergamo. Presenti alla cerimonia: Claudia Sartirani, assessore alla Cultura e Spettacolo, Antonio Parimbelli, Fondazione Banca Popolare di Bergamo, Teresa Capezzuto e Guglielmo Benetti, Ufficio Scolastico X Territoriale di Bergamo (Ex-Provveditorato), Silvana Agazzi, Fondazione Bergamo nella Storia Onlus, Francesco Bellotto, Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti, e Luigi Giuliano Ceccarelli, coordinatore Comitato «Bergamo per i 150 anni».

Satira al Museo Storico i 150 anni dell’Unità d’Italia 22 dicembre 2011 Resta allestita sino al 29 gennaio prossimo al Museo Storico, in Città Alta, la mostra «Padri e zii della patria»: 108 caricature, o vignette satiriche, di cento italiani che hanno «fatto» la storia dei nostri primi 150 anni. «Padri – spiega Paolo Moretti, curatore dell’esposizione con Dino Aloi – sono i personaggi più noti come Cavour, Garibaldi, Mazzini, quelli che non possono non esserci. Zii coloro che involontariamente hanno contribuito alla costruzione dell’unità e alla storia del Paese». Aloi e Moretti non sono nuovi all’impresa. Nel 2006 una prima mostra sulla satira a Torino, nel 2007, a Bergamo, «Ludere et ledere», che ha certo lasciato un segno. Nel 2010, ancora a Torino. «Ma questa – specifica Moretti – ha una sua originalità: non è tanto storia d’Italia, quanto degli Italiani, questi cento italiani che hanno contribuito alle sorti del nostro Paese. La satira è fenomeno molto più articolato e complesso di quanto superficialmente si possa pensare. Non sono soltanto le vignette; in certi momenti la satira è stata anche uno strumento di propaganda politica. È, inoltre, uno strumento formidabile per avvicinare bambini e ragazzi alla storia, far loro capire che la materia può essere insegnata anche in maniera divertente». «È una mostra sulla vignetta – aggiunge Aloi – ma in particolare sulla caricatura: ogni personaggio una vignetta, tutte accompagnate da una fotografia, in modo che si possa valutare la somiglianza. Tutte le vignette sono realizzate al tempo dei personaggi: la caricatura di Cavour, per esempio, è del 1853. Sono tutte interpretazioni a caldo di un autore che porta un’idea politica. Le vignette sono 108 ma potevano essere, ovviamente, molte di più. Le scelte sono assolutamente nostre. Abbiamo voluto fare un omaggio, in particolare, a Giovannino Guareschi, unico autore finito in carcere; e a Trilussa, uno dei nostri padri nobili». L’inaugurazione, lunedì sera, è stata seguita da un concerto in Sala Piatti di Luisa Cottifogli e del suo Trio, dedicato ad Anita Garibaldi. Mostra e concerto rappresentano l’ultimo appuntamento del ciclo «Tempi e luoghi del Risorgimento», organizzato dalla sezione di Italianistica della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bergamo per il 150° dell’Unità. All’inaugurazione sono intervenuti per l’Università di Bergamo, il direttore del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture comparate, Marina Dossena, Matilde Dillon, docente di Letteratura Italiana, e il rettore Stefano Paleari. Per la Regione Carlo Saffioti, presidente del Comitato regionale per le Celebrazioni del 150° dell’Unità.

«Padri e zii della Patria» in mostra al Museo Storico di Città Alta fino al 29 gennaio (Foto Frau)

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Con i F.lli Calvi addio al 150° Si spengono le luci tricolori 14 gennaio 2012 Con l’inaugurazione in piazza Matteotti del monumento restaurato dedicato ai fratelli Calvi e l’apertura della mostra a Palazzo Frizzoni si sono conclusi ufficialmente i festeggiamenti per il 150° dell’unità d’Italia. Domenica saranno spente le luci tricolori in porta San Giacomo. All’inaugurazione del monumento restaurato sono intervenute autorità civili e militari e varie associazioni. C’erano il sindaco Franco Tentorio, il vicesindaco Gianfranco Ceci, il presidente sezionale Ana Antonio Sarti e Guido Roscia, direttore dei lavori. Il sindaco ha ricordato che i festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia si erano aperti con la visita a Bergamo di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, e che nella nostra città sono state circa 200 le manifestazioni dedicate al prestigioso compleanno. Tentorio ha ricordato i fratelli Calvi come esempio moderno di eroismo, del non arrendersi mai davanti alle difficoltà. Un tema in un certo senso d’attualità anche nei nostri giorni, in considerazione della crisi davanti alla quale non si può mollare. A Palazzo Frizzoni, nella sala Simoncini, è stato invece tagliato il nastro per l’inaugurazione della mostra dedicata sempre ai fratelli Calvi e curata dal Museo Alpino di Bergamo e dalla Fondazione Bergamo nella Storia Onlus con la collaborazione dell’associazione «Cime e trincee». È stato lo storico Marco Cimmino a rievocate la storia dei fratelli Calvi.

Il monumento ai fratelli Calvi restaurato (Foto Colleoni K13)

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Si ringraziano gli autori delle foto e degli articoli riprodotti, scusandoci per eventuali dimenticanze. Stampato a settembre 2016



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