Un anno di ribellione: la situazione dei diritti umani in Medio Oriente e Africa del Nord.

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UN ANNO DI RIBELLIONE LA SITUAZIONE DEI DIRITTI UMANI IN MEDIO ORIENTE E AFRICA DEL NORD


Pubblicato per la prima volta nel 2012 da Amnesty International Ltd Peter Benenson House 1 Easton Street London WC1X 0DW Regno Unito © Amnesty International 2012 Indice: MDE 01/001/2012 Lingua originale: Inglese Stampato da Amnesty International, Segretariato internazionale, Regno Unito Traduzione italiana a cura di: Silvia Bagnale, Debora Del Pistoia Veronica Ferri, Milena Gerboni Tutti i diritti riservati. La presente pubblicazione è protetta da copyright, ma può essere riprodotta con qualsiasi metodo senza alcun pagamento di diritti per fini di patrocinio, campagna o insegnamento, ma non per fini di vendita. I titolari del copyright chiedono che ognuno degli usi suddetti sia registrato presso di loro, al fine di valutare l’impatto. Per effettuarne copie in qualsiasi altra circostanza, oppure per riutilizzarla in altre pubblicazioni o per la traduzione o l’adattamento, è obbligatorio ottenere la preventiva autorizzazione scritta degli editori ed è possibile che sia necessario versare i diritti. Per richiedere l’autorizzazione o per qualsiasi altra richiesta, si prega di contattare copyright@amnesty.org Foto di copertina: Gente in fuga per evitare i gas lacrimogeni lanciati dalle forze di sicurezza contro manifestanti pacifici a piazza Tahrir, Cairo, Egitto, 29 giugno 2011. © Ap Photo/Nasser Nasser

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Migliaia di manifestanti antigovernativi marciano ad Alessandria d’Egitto, 11 febbraio 2011.


UN ANNO DI RIBELLIONE LA SITUAZIONE DEI DIRITTI UMANI IN MEDIO ORIENTE E AFRICA DEL NORD INDICE Introduzione Tunisia Egitto Libia Yemen Siria Bahrein Iraq Altri stati della regione La risposta internazionale Incapacità di mettere i diritti umani al primo posto Protezione delle persone sfollate Trasferimenti di armi Amnesty International in azione In prima linea La campagna globale L’agenda dei diritti umani per il cambiamento Note

© AP Photo/Tarek Fawzy

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Š Amnesty International

Sostenitori di Amnesty International nel Regno Unito durante la Giornata mondiale di azione per l’Egitto, Londra, febbraio 2011.


INTRODUZIONE

Il 2011 è stato un anno senza precedenti per i popoli della regione del Medio Oriente e Africa del Nord. È stato un anno in cui milioni di persone di tutte le età ed estrazioni sociali, soprattutto giovani e spesso con le donne in prima fila, si sono riversate nelle piazze per chiedere un cambiamento. In molti casi hanno continuato a farlo di fronte alla violenza estrema inflitta dalle forze militari e di sicurezza, di chi pretendeva di governare e continuava a godere dei frutti del potere e a sperperarli, proprio nel nome di queste persone. La serie di proteste, detta “Primavera araba”, ha di fatto riunito in una stessa causa persone di molte comunità differenti, certo per la maggior parte arabi, ma anche amazigh, curdi e altri. È stato come se una stretta spirale di frustrazioni formata da anni di oppressione, violazioni dei diritti umani, malgoverno e corruzione si fosse aperta improvvisamente, liberando un’energia e una potenza che la gente comune fino a quel momento non aveva né sperimentato né sapeva di possedere. La scintilla della protesta, letteralmente e tragicamente, è stata l’atto disperato di un giovane, Mohamed Bouazizi, nella piccola città tunisina di Sidi Bouzid. Le sue ferite si sono rivelate fatali prima che potesse assistere al vortice di rabbia popolare scatenato dal suo atto. Questo vortice è riuscito, a sua volta, a rovesciare i governanti di vecchia data di Tunisia, Egitto, Libia e Yemen, che fino al 2011 erano sembrati intoccabili. È stato un anno unico, in cui l’intera regione è stata scossa mentre la gente comune trovava il coraggio di dare una dimostrazione del “potere popolare” mai vista prima in quest’area e, incredibilmente, di resistere anche quando gli si sono schierati lo stato repressivo e le sue forze di sicurezza. Queste hanno fallito in Tunisia e in seguito in Egitto, dove hanno trionfato le manifestazioni pacifiche, anche se a costi umani elevati, mentre la Libia è andata verso un conflitto armato, in cui l’intervento internazionale ha fatto pendere l’ago della bilancia contro il regime oppressivo del colonnello Muammar Gheddafi. In Yemen, il rifiuto ostinato del presidente a dimettersi, nonostante le manifestazioni di massa contro il governo e i crescenti livelli di repressione e violenza, ha esasperato i problemi sociali, politici ed economici già molto gravi del paese. I governanti del Bahrein, con il sostegno dell’Arabia Saudita, hanno contrastato le proteste con la forza, anche qui con costi umani elevati e aggravando le divisioni, ma a fine anno si sono impeganti su riforma, riparazione

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e riconciliazione. Nel frattempo, la Siria si è trovata sull’orlo della guerra civile mentre il suo ostinato presidente, a fronte di richieste di cambiamento senza precedenti, ha impiegato una forza brutale implacabile per reprimere le proteste, ma così facendo è riuscito solo a mettere a nudo ulteriormente la natura corrotta del suo governo. Il presente rapporto descrive gli eventi di questo anno storico di rivolte, un anno che ha visto tanta sofferenza e tristezza, ma ha anche diffuso tanta speranza all’interno della regione e oltre, in paesi in cui altre persone affrontano repressione e violazioni quotidiane dei loro diritti umani. Anche Amnesty International si è trovata impegnata come mai prima nel reagire agli eventi, documentando le violazioni commesse e, soprattutto, mobilitando i suoi soci e sostenitori in misura straordinaria per offrire sostegno e solidarietà alla gente nelle piazze del Cairo, Bengasi, Sana’a, Manama, Dar’a ecc., che erano veramente “in prima linea” nella richiesta di riforme, responsabilità e garanzie reali per i diritti umani. Questo rapporto è dedicato a loro, alla loro sofferenza e alle loro importantissime conquiste.

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TUNISIA “C’è molto entusiamso e speranza, ma anche apprensione, qui in Tunisia alla vigilia delle prime elezioni veramente multipartitiche nella storia del paese. Questo voto segna una vera pietra miliare come prime elezioni nella regione da quando un’ondata di rivolte popolari ha spazzato via in meno di un anno tre dei dittatori che hanno governato più a lungo nel mondo.” Donatella Rovera, ricercatrice di Amnesty International, Tunisi, 22 ottobre 2011

Quando sono iniziate le proteste a dicembre del 2010 a Sidi Bouzid, un luogo mai sentito per molti, nessuno poteva prevedere che avrebbero portato alla caduta di uno degli stati di polizia più noti della regione del Medio Oriente e Africa del Nord. Tuttavia il 14 gennaio, dopo meno di un mese di proteste in gran parte pacifiche, il presidente Zine El-Abidine Ben Ali è fuggito in Arabia Saudita, interrompendo bruscamente 23 anni di governo dittatoriale. Nelle settimane successive, la crescente pressione delle piazze ha portato alle dimissioni del primo ministro Mohamed Ghannouchi. Nei mesi successivi, i manifestanti hanno continuato a chiedere più posti di lavoro, maggiori liberà e un processo per l’ex presidente, la sua famiglia e suoi funzionari, visti come invischiati e responsabili per la corruzione. Il successo della rivolta ha dato ai tunisini un’opportunità storica per mostrare al mondo che la “rivoluzione dei gelsomini” non mirava solo a rovesciare il presidente Ben Ali, ma era anche e soprattutto guidata dall’esigenza di una riforma significativa nel campo dei diritti umani. L’iniziale governo provvisorio e il governo che è entrato in carica dopo le elezioni alla nuova Assemblea nazionale costituente (Anc) a ottobre ha fatto diversi passi positivi per rompere con gli abusi avvenuti. Tuttavia, le istituzioni statali che a lungo hanno favorito o commesso violazioni dei diritti umani devono ancora essere riformate, così da assicurare che gli abusi del passato siano oggetto di indagini adeguate e da fornire garanzie reali contro la loro ripetizione. Il governo provvisorio ha annunciato l’intenzione della nuova Tunisia di rispettare i diritti umani, ratificando i principali trattati internazionali, compresi il Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o

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degradanti, la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate e lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (Cpi). Inoltre, ad agosto le autorità hanno adottato una legge per organizzare meglio la professione legale. I giudici, nel frattempo, hanno continuato a fare pressioni per una

A un anno dalla “rivoluzione dei gelsomini” esistono ottimi motivi per sperare.

riforma del sistema giudiziario, al fine di consentirgli una maggiore indipendenza e ridurre l’interferenza da parte dell’esecutivo del governo. Passi significativi sono stati fatti per allentare le rigide restrizioni alla libertà di espressione e associazione. A novembre, la nuova legge sulla stampa e la legge sulla libertà di comunicazione audiovisiva hanno eliminato le limitazioni per i giornali e consentito ai giornalisti maggiore libertà, anche abolendo le pene detentive come sanzione per la diffamazione. La diffamazione, tuttavia, costituisce ancora un reato punibile con multe elevate, come anche la “diffusione di informazioni false”, definita come reato e ampiamente utilizzata dal governo di Ben Ali per reprimere i dissidenti. Nel periodo precedente alle elezioni dell’Anc a ottobre, le autorità hanno creato istituzioni indipendenti per gestire lo scrutinio, permesso ad osservatori internazionali di monitorare il voto, accreditato i giornalisti stranieri che desideravano seguire le elezioni, autorizzato 187 nuovi periodici e concesso licenze a 12 nuove stazioni radio. Una vera trasformazione. A decine di partiti politici prima vietati, tra cui il partito islamista Ennahda (rinascita) e il Partito comunista dei lavoratori tunisini, oltre a Ong a cui prima era stato negato, è stato permesso di registrarsi legalmente. Secondo il ministero dell’Interno, a settembre erano stati autorizzati 1366 associazioni e 111 partiti politici. Il Raggruppamento costituzionale democratico (Rcd), il partito di Ben Ali, è stato sciolto a marzo. In controtendenza rispetto a questa liberalizzazione generale, tuttavia, ad agosto il governo provvisorio ha rinnovato a tempo indeterminato lo stato di emergenza nazionale, mantenendo così restrizioni ad alcuni diritti fondamentali. Inoltre, le forze di sicurezza hanno continuato a reprimere le proteste per la lentezza delle riforme e la necessità di maggiori opportunità economiche e di lavoro, e le richieste di rimozione dalla carica dei funzionari legati all’ex regime e all’Rcd. Hanno utilizzato gas lacrimogeni e anche munizioni vere contro i manifestanti; in un incidente sono morte almeno tre persone e molte altre sono state ferite. Le forze di sicurezza hanno anche impedito un sit-in a luglio, arrestando circa 47 persone, diverse delle quali pare siano state ferite durante l’arresto, e allontanando i giornalisti e gli attivisti per i diritti umani. A settembre, parecchie persone sono state ferite durante uno scontro tra polizia e manifestanti antigovernativi a Kebili, nel sud-ovest della Tunisia. Ci sono state anche nuove segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti da parte della polizia e sono state riferite percosse sui manifestanti, che sono stati dispersi con la forza. Tuttavia, a maggio il governo provvisorio ha permesso per la prima volta al Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura di visitare la Tunisia, rispondendo a

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una richiesta pendente dal 1998. Purtroppo, le nuove autorità non hanno fatto passi significativi nell’affrontare l’impunità per le passate violazioni dei diritti umani. Né la polizia né il potere giudiziario, due delle istituzioni che sono state responsabili dirette o complici di gravi violazioni, sono stati oggetto di riforme significative, a eccezione dello scioglimento a marzo da parte del ministero dell’Interno del famigerato Dipartimento per la sicurezza di stato (Dss), noto in Tunisia come “polizia politica”. Il Dss era tristemente famoso per la tortura dei detenuti, la stretta sorveglianza e l’intimidazione dei difensori dei diritti umani e dei giornalisti indipendenti, oltre all’imposizione di restrizioni agli ex prigionieri politici. Il ministero non ha dichiarato che cosa sarebbe stato fatto in relazione ai funzionari del Dss, facendo temere che possano sfuggire alla giustizia ed essere trasferiti ad altre unità incaricate della sicurezza. A settembre, il ministero dell’Interno ha stabilito una “road map” per la riforma della polizia ma non ha fatto riferimento a indagini o altre azioni contro gli agenti responsabili per gli abusi del passato. La commissione per l’accertamento dei fatti, istituita per investigare le violazioni dei diritti umani commesse durante la rivolta e nel periodo successivo (la commissione Bouderbala), ha reso note alcune sue prime conclusioni a luglio, ma non aveva ancora pubblicato il suo rapporto finale al momento della stesura di questo rapporto (inizio dicembre 2011). La commissione ha affermato che non avrebbe deferito i casi al procuratore generale per le indagini, se non su richiesta specifica da parte di singoli avvocati. Secondo il governo provvisorio, almeno 300 persone sono morte e 700 sono state ferite durante la rivolta. I processi in contumacia dell’ex presidente Ben Ali e dei membri della sua famiglia per corruzione e reati legati alla droga hanno avuto inizio a giugno. Più tardi lo stesso mese, Ben Ali è stato condannato a 35 anni di reclusione per appropriazione indebita e uso improprio di fondi statali e, a luglio, a ulteriori 15 anni per reati legati a droga e armi. L’ex presidente era anche tra i 139 ex funzionari, compresi gli ex ministri dell’Interno Rafik Haj Kacem e Ahmed Friaa, rinviati al tribunale militare per accuse legate all’uccisione e al ferimento di manifestanti, tra il 17 dicembre 2010 e il 14 gennaio 2011. Tuttavia, le famiglie delle vittime e le persone ferite stavano ancora aspettando giustizia. Ci sono stati alcuni miglioramenti per i diritti delle donne. Il governo provvisorio ad agosto ha ritirato una serie di riserve alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, sebbene abbia sottolineato la necessità di rispettare le disposizioni della costituzione tunisina, che si riferiscono alla legge islamica. Il ritiro delle riserve ha rappresentato un passo importante verso la parità di genere e ha stabilito un buon precedente per altri governi della regione. Tuttavia, le autorità tunisine devono ancora armonizzare la legislazione nazionale con il diritto e le norme

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Persone leggono manifesti elettorali nel centro di Tunisi, il giorno prima delle elezioni, 22 ottobre 2011.

Š REUTERS/LouaďŹ Larbi



internazionali ed eliminare la discriminazione contro le donne sia nella legge che nella prassi. Altri passi positivi comprendono la decisione presa dal governo ad aprile di permettere alle donne di utilizzare fotografie in cui indossano il velo sulle carte d’identità personali e di adottare il principio di parità tra uomini e donne sulle liste elettorali. A settembre, è stata fondata una nuova Ong, la Lega per le elettrici tunisine, con l’obiettivo di formare alleanze tra le candidate alle elezioni all’Anc, per collaborare nella lotta contro le violazioni dei diritti della donne. Le prime elezioni democratiche dall’indipendenza della Tunisia si sono tenute a ottobre. Ennahda ha conquistato il maggior numero di seggi ma non una maggioranza assoluta. I rappresentanti di oltre 100 nuovi partiti politici e decine di soggetti indipendenti si sono candidati per l’elezione all’Anc, che ha lo scopo di sviluppare una nuova costituzione, per poi arrivare alle elezioni parlamentari e presidenziali. A novembre, ha nominato un governo di transizione, designando come presidente, primo ministro e presidente dell’assemblea rappresentanti di Ennahda e degli altri due partiti che hanno conquistato il maggior numero di seggi. Molte donne hanno espresso preoccupazione per la mancanza di uguaglianza con gli uomini e per la loro marginalizzazione da parte dei partiti politici, che hanno presentato prevalentemente uomini come candidati principali all’Anc. La “rivoluzione dei gelsomini” ha determinato miglioramenti significativi per i diritti umani in Tunisia ma a un anno di distanza molti ritengono che il cambiamento stia avvenendo troppo lentamente. Inoltre c’è preoccupazione riguardo alle violazioni dei diritti da parte delle forze di sicurezza che continuano, sebbene su scala molto più ridotta rispetto al tempo del regime di Ben Ali. Come conseguenza della rivoluzione, i prigionieri di coscienza e altri prigionieri politici sono stati messi in libertà e le organizzazioni della società civile, i mezzi di comunicazione e i partiti politici sono stati liberati da molti dei vincoli restrittivi del passato e autorizzati a registrarsi e a operare legalmente. La Tunisia ha anche fatto passi notevoli per firmare, ratificare o ritirare le riserve a importanti trattati internazionali sui diritti umani e alcune leggi nazionali, incluso il repressivo codice della stampa, sono state modificate. Tuttavia, rimangono altre leggi repressive, come la legge antiterrorismo. L’impunità è ancora una preoccupazione fondamentale, soprattutto per il fatto che numerosi funzionari responsabili di violazioni dei diritti umani, commesse durante la rivoluzione o negli anni precedenti, rimangono in carica. I tunisini si trovano ancora di fronte ad alti livelli di disoccupazione e povertà, ma a un anno dalla “rivoluzione dei gelsomini” esistono ottimi motivi per sperare che il periodo di transizione porterà un futuro migliore per tutti loro.

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EGITTO “Fin dalla mattina ho avuto la sensazione che questo sarebbe stato un giorno storico… Come tanti altri egiziani, fino all’ultimissimo momento, dubitavo che Mubarak si sarebbe effettivamente presentato al suo processo, finché non l’ho visto sdraiato sulla barella vicino ai suoi figli nell’aula d’udienza.” Mohammed Lotfy, ricercatore di Amnesty International, 3 agosto 2011

Mentre il 2011 si avviava a conclusione, l’Egitto affrontava continui cambiamenti economici e politici fondamentali. Le proteste di massa contro il Consiglio supremo delle forze armate (Csfa) al potere, che si è riunito nel periodo precedente alle elezioni parlamentari iniziate il 28 novembre, hanno messo in evidenza le tensioni che hanno caratterizzato il paese durante il trasferimento del potere a un governo civile, in seguito all’importantissima rivolta avvenuta all’inizio dell’anno. All’inizio del 2011, l’Egitto era un paese il cui popolo era stato quasi soffocato da 30 anni di governo d’emergenza oppressivo, repressione spietata del dissenso, alti livelli di corruzione ufficiale e povertà endemica. Le forze di sicurezza, composte da centinaia di migliaia di membri, i loro comandanti e leader politici godevano di un’impunità quasi totale per le violazioni dei diritti umani, che venivano commesse sistematicamente e in maniera estensiva e comprendevano arresti arbitrari, tortura e processi sommari e iniqui. Dal 25 gennaio 2011, tuttavia, la paura è sembrata svanire mentre migliaia, poi centinaia di migliaia, poi milioni di egiziani scendevano in piazza per chiedere un cambiamento. In 18 giorni le manifestazioni di massa in tutto il paese e il coraggio e la determinazione dei manifestanti sono riusciti a costringere alle dimissioni Hosni Mubarak, presidente da 30 anni. Le sue dimissioni forzate, annunciate l’11 febbraio, sono state accolte con gridi di gioia da milioni di egiziani, incluse le migliaia accampate in piazza Tahrir al Cairo, il luogo che in tutto il mondo è diventato il simbolo della “rivoluzione del 25 gennaio”. Tuttavia, in questi 18 giorni che hanno fatto la storia, sono state commesse violazioni di massa dei diritti umani da parte del regime uscente. Almeno 840

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© MOHAMMED ABED/AFP/Getty Images


Manifestanti si scontrano con la polizia nel centro del Cairo durante una protesta per chiedere le dimissioni del presidente Hosni Mubarak, 25 gennaio 2011.


persone sono state uccise e oltre 6000 ferite, per lo più dalle forze di sicurezza e dai “criminali” assoldati dalle autorità. Molti manifestanti sono stati uccisi con munizioni vere sparate nella parte superiore del corpo, anche se non rappresentavano alcuna minaccia per la vita delle forze di sicurezza o di altri. In alcuni casi, astanti e passanti sono stati uccisi a causa di un uso sconsiderato delle armi da parte delle forze di sicurezza. Migliaia di attivisti sono stati detenuti, molti torturati. Alcuni sono stati vittime di sparizione forzata per settimane, altri sono ancora dispersi e non sono stati ritrovati. Tra le persone colpite c’erano difensori dei diritti umani, attivisti online, giornalisti, volontari che portavano soccorsi ai manifestanti e dottori che curavano i feriti. In molti casi, le violazioni sono state commesse dalla polizia militare e questo ha accresciuto i timori che la tortura e altri maltrattamenti possano rimanere una caratteristica endemica dell’apparato incaricato della sicurezza in Egitto, a meno che i responsabili di tali violazioni siano chiamati a risponderne. L’11 febbraio i militari, per mezzo del Csfa guidato dall’ex ministro della Difesa maresciallo superiore Mohamed Hussein Tantawi, hanno assunto il potere tra l’esultanza popolare per la caduta del presidente Mubarak e la decisione dell’esercito di non unirsi alla polizia del presidente Mubarak che faceva fuoco sui manifestanti. Quasi automaticamente l’Egitto è passato sotto il governo militare e questa condizione permane al momento della stesura del presente rapporto. Il 30 marzo, in seguito a un referendum su alcune modifiche costituzionali, il Csfa ha adottato una nuova dichiarazione costituzionale che stabiliva le fasi per il trasferimento del potere a un governo civile, dalle elezioni parlamentari fino alla stesura di una nuova costituzione. Nelle sue dichiarazioni iniziali, il Csfa ha affermato che le forze armate avrebbero continuato a proteggere i “manifestanti indipendentemente dalle loro opinioni”.1 Inoltre ha messo in guardia rispetto al disordine pubblico o ai tentativi di creare dissenso o di interrompere il funzionamento delle istituzioni egiziane, un avvertimento che si è tradotto troppo presto in attacchi agli stessi diritti umani che affermava di voler proteggere. Il Csfa ha introdotto numerose riforme che hanno avuto un impatto sui diritti umani. Alcune in modo positivo, altre in modo negativo. Uno dei suoi primi passi ben accolti è stato sciogliere il Servizio investigazioni della sicurezza di stato (Ssi), la polizia di sicurezza nota per le violazioni dei diritti umani, e liberare centinaia di detenuti amministrativi. Ha anche modificato la legge sui partiti politici, consentendo a molti di registrarsi legalmente e proporre candidati alle elezioni nazionali; ha anche eliminato di fatto il divieto imposto all’organizzazione dei Fratelli musulmani, precedentemente bandita. Tuttavia, una nuova legge sull’organizzazione delle elezioni è stata ampiamente criticata con la motivazione che avantaggiava i membri del Partito nazionale democratico

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(Pnd), l’ex partito al governo sciolto dopo la rivolta. Il nuovo governo inoltre ha riconosciuto i sindacati indipendenti e il loro diritto di formare federazioni e associarsi a federazioni internazionali. Contemporaneamente, però, il Csfa ha vietato gli scioperi ai sensi della nuova legge 34 del 2011. Un altro aspetto negativo è che il Csfa ha mantenuto lo stato d’emergenza, in vigore dal 1981, e a settembre ha confermato che avrebbe attuato in pieno la severissima legge sulle emergenze (legge 162 del 1958) e l’avrebbe estesa, per rendere reato azioni come la chiusura di strade, la trasmissione di notizie non

Il Csfa non ha fatto abbastanza per soddisfare le speranze e le aspirazioni che hanno alimentato la rivolta.

confermate e gli “attacchi alla libertà di lavoro”. Queste modifiche minacciano direttamente la libertà di espressione e associazione e i diritti di riunione e sciopero, tornando addirittura indietro rispetto alle riforme che il governo Mubarak si era sentito obbligato a fare su pressione dell’opinione pubblica negli ultimi anni. Sono state introdotte altre nuove leggi dure, come la legge sugli atti criminali (legge n. 10 del 2011), adottata a marzo per rendere reato l’intimidazione, gli “atti criminali” e il disturbo della quiete, raddoppiando le pene già prescritte nel codice penale e prevedendo la pena di morte. Il Csfa ha ulteriormente inasprito le limitazioni alla libertà dei mezzi di comunicazione, mettendo in guardia direttori di testate e giornalisti dal pubblicare qualsiasi testo critico nei confronti delle forze armate, senza previa consultazione e autorizzazione. Inoltre, le Ong impegnate nel campo dei diritti umani sono state minacciate di azioni giudiziarie qualora avessero accettato fondi dall’estero senza previa autorizzazione. Giornalisti, blogger e giudici sono stati indagati da procuratori militari o imprigionati da tribunali militari per aver criticato le violazioni dei diritti umani commesse dall’esercito durante la rivolta e la mancanza di riforme. Alcune delle modifiche legislative e politiche del Csfa in relazione ai diritti fondamentali hanno rinforzato modelli di vecchia data di gravi violazioni dei diritti umani, mentre altre, come sottoporre le manifestanti donne a “test di verginità” forzati, rappresentano nuove inquietanti forme di abuso. Dalla fine di febbraio in poi, le forze armate hanno utilizzato la violenza per disperdere con la forza i manifestanti in diverse occasioni. Hanno impiegato gas lacrimogeni e proiettili di gomma e sparato in aria munizioni vere, nonché accusato le persone imprigionate di saccheggio o danni alla proprietà pubblica o privata o di altri reati. Molte delle persone arrestate sono state trattenute solo brevemente, ma altre per diversi giorni, a volte in condizioni equivalenti alla sparizione forzata. Alcuni sono stati torturati o maltrattati in altro modo. A settembre, è circolato in Internet un video che mostrava due detenuti derisi, picchiati e sottoposti a scosse elettriche con taser da un gruppo di soldati e

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agenti di polizia, suscitando molto clamore. In risposta, il Csfa ha affermato di aver disposto un’inchiesta, il cui risultato non era ancora stato reso pubblico al momento della stesura di questo rapporto. Il 19 novembre, la polizia antisommossa ha disperso con la forza un sit-in in piazza Tahrir al Cairo, organizzato da persone che erano state ferite durante la “rivoluzione del 25 gennaio” e che chiedevano il trasferimento del potere a un governo civile e di essere risarcite. Migliaia di manifestanti si sono radunati nella piazza in segno di solidarietà. Le forze militari e la polizia antisommossa hanno sgomberato la piazza con un uso eccessivo della forza, provocando morti e ferimenti tra i manifestanti, i quali si sono nuovamente accampati nella piazza, prima dell’inizio delle elezioni del 28 novembre. Da quando sono state schierate le forze armate il 28 gennaio, il trasferimento di civili a tribunali militari ha avuto luogo in molti governatorati e ad agosto la magistratura militare ha dichiarato di aver deliberato su quasi 12.000 cause. Tutti sono stati condannati per accuse come violazione del coprifuoco, uso della violenza e possesso di armi. Le pene andavano da diversi mesi di reclusione alla pena di morte. I tribunali militari sono stati utilizzati anche per processare persone arrestate mentre manifestavano e lavoratori in sciopero, oltre che per persone accusate di “atti criminali”, distruzione di proprietà, furto o aggressione. Alcuni giornalisti sono stati accusati di “oltraggio all’esercito”; poi sono stati liberati. La comparsa dell’ex presidente Hosni Mubarak in tribunale il 3 agosto è stata importante a livello simbolico, sia come segnale della fine di una lunga era oscura in Egitto, che come primo passo cruciale verso la fine dell’impunità per le violazioni dei diritti umani. Il processo, che è stato avviato in seguito alla crescente pressione dalle manifestazioni di massa, rappresenterà un test importante per l’impegno delle nuove autorità nel rendere giustizia alle vittime della “rivoluzione del 25 gennaio” e nell’affrontare la questione dell’impunità. Finora gli ex capi della sicurezza e altri alti funzionari e agenti sono stati perseguiti e processati per reati commessi durante la rivolta, ma non sono state svolte indagini relative ai decenni di gravi violazioni commesse dall’Ssi, ora sciolto. Le donne sono state in prima linea nelle manifestazioni e nelle richieste di cambiamento durante gli entusiasmanti giorni della rivoluzione, ma da allora il loro status e la loro situazione sono migliorati di poco. Continuano a essere discriminate sia nella legge che nella prassi e non è stato fatto niente per assicurare la loro equa partecipazione al processo decisionale; anzi, a luglio il Csfa ha abbandonato il sistema delle quote per le donne nella legge elettorale, in favore di un requisito in base al quale ogni partito politico deve avere almeno una donna nella sua lista di candidati, ma non è obbligato a inserirla in cima alla

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lista. Anche la rappresentanza femminile nei sindacati e in altre organizzazioni rimane molto bassa. A quasi un anno di distanza il Csfa non ha fatto abbastanza per soddisfare le speranze e le aspirazioni che hanno alimentato la rivolta. Le proteste contro il Csfa a novembre hanno causato la morte di almeno 45 manifestanti, incluse alcune persone uccise con munizioni vere, e centinaia di feriti. La polizia antisommossa ha impiegato metodi fin troppo noti perché usati durante gli ultimi giorni al potere di Hosni Mubarak, compreso l’uso massiccio e sconsiderato di gas lacrimogeni e armi da fuoco. In breve, nonostante la promessa di mettere fine allo stato di emergenza, il Csfa ha mantenuto ed esteso la legge sulle emergenze a danno dei diritti umani. Il violento Ssi è stato sciolto ma i suoi metodi, con i quali le persone erano state arrestate e detenute arbitrariamente, torturate e recluse senza processo o processate ingiustamente davanti a tribunali militari, continuano a esistere, perpetuati dalle forze di sicurezza del Csfa. Le libertà di espressione, associazione e riunione sono state promesse, ma la dura realtà è che le critiche nei confronti delle nuove autorità non sono tollerate, gli attivisti vengono colpiti e le Ong minacciate con indagini penali invadenti. I manifestanti pacifici continuano a essere dispersi con la forza, determinando scontri con la polizia antisommossa e morti. È stata promessa una maggiore partecipazione politica da parte di tutti gli egiziani ma le donne sono state nuovamente marginalizzate. Si sono formati molti sindacati indipendenti ma le autorità hanno vietato gli scioperi. È stato prospettato un futuro migliore per tutti gli egiziani ma a quasi un anno di distanza milioni di persone continuano a vivere in insediamenti abitativi precari e in povertà, attendendo che le loro voci vengano ascoltate.

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LIBIA

“Giovani e anziani, donne e bambini, uccisi, feriti, scomparsi; ogni famiglia che abbiamo incontrato qui a Misurata ha sopportato la sua parte di sofferenze e perdite.” Team di ricerca di Amnesty International, Misurata, 25 maggio 2011

Il 1° gennaio 2011, era difficile immaginare che le manifestazioni antigovernative si sarebbero diffuse in tutta la Libia e sviluppate entro la fine di febbraio in un conflitto armato, che avrebbe trasformato lo stato nordafricano ricco di petrolio. Il colonnello Muammar Gheddafi rimaneva saldamente al potere, come aveva fatto per 42 anni, mettendo a tacere, in prigione o in esilio, la maggior parte dei suoi oppositori. La severissima legislazione aveva dichiarato illegali il dissenso e la creazione di organizzazioni indipendenti. Centinaia di prigionieri politici erano detenuti arbitrariamente. Tribunali speciali condannavano gli oppositori in seguito a processi sommari e iniqui. L’impunità per la tortura, le esecuzioni extragiudiziarie e le sparizioni forzate erano profondamente radicate. Le richieste di verità e giustizia da parte delle famiglie dei circa 1200 detenuti uccisi nella famigerata prigione di Abu Salim nel 1996 venivano ignorate. I cittadini stranieri erano esposti a rischio di arresto, detenzione a tempo indeterminato per “reati di immigrazione”, tortura e altri maltrattamenti. Le donne erano discriminate sia nella legge che nella prassi. La pena di morte e altre pene crudeli come la fustigazione erano previste per una lunga serie di “reati”. Nonostante questa situazione opprimente per i diritti umani, la Libia era stata nuovamente accolta nella comunità internazionale, dopo aver rappresentato per decenni uno stato “paria”, e nel 2010 è anche diventata uno stato membro del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. I governi occidentali hanno cercato l’aiuto del colonnello Gheddafi nel controllo della migrazione e nella lotta al terrorismo e mirato ai vantaggi derivanti dall’accesso alle vaste riserve di petrolio della Libia. Durante il 2011, con l’inasprimento del conflitto interno, tuttavia, il colonnello Gheddafi è stato sempre più isolato internamente e a livello

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internazionale. A Bengasi, l’opposizione ha creato un’autorità di coalizione, il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), che è stato dichiarato governo provvisorio. Il 26 febbraio, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha imposto sanzioni al colonnello Gheddafi e alla sua famiglia e ha deferito il caso della Libia al procuratore della Cpi. A marzo, una coalizione internazionale guidata dalla Nato ha iniziato una serie di attacchi aerei con l’obiettivo dichiarato di “proteggere i civili” dalle forze di Gheddafi, che minacciavano di attaccare Bengasi. Dopo circa otto mesi di conflitto con diffusi crimini di guerra e gravi violazioni dei diritti umani, inclusi attacchi indiscriminati, esecuzioni extragiudiziarie, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie e tortura, le forze che si opponevano al colonnello Gheddafi lo hanno catturato e ucciso e hanno preso il controllo territoriale su tutto il paese. Il 23 ottobre, il Cnt ha annunciato la liberazione della Libia e un mese dopo è stato creato un nuovo governo. A novembre, Saif alIslam Gheddafi, il figlio del leader libico estromesso, incriminato dalla Cpi, è stato catturato. Il nuovo governo ha affrontato subito il difficile compito di ristabilire l’ordine, mettere al sicuro le riserve di armi e implementare un processo di disarmo. Inoltre, la sicurezza interna destava ancora preoccupazione. Milizie pesantemente armate agivano in modo indipendente e su loro iniziativa. Alcune avevano partecipato all’esecuzione extragiudiziaria di persone percepite come fedeli a Gheddafi e presunti mercenari. Inoltre eseguivano “arresti” diffusi di soldati di Gheddafi e presunti lealisti, nonché cittadini stranieri sospettati di essere mercenari, senza mandati di arresto delle autorità giudiziarie. Molte delle migliaia di persone arrestate nella Libia occidentale dopo la fine di agosto, quando Tripoli e le aree vicine sono cadute sotto il controllo del Cnt, sono state percosse e maltrattate in altro modo al momento dell’arresto e nei primi giorni di detenzione. Secondo un rapporto del Segretariato generale delle Nazioni Unite di fine novembre, “si stima che 7000 detenuti siano stati tenuti in carcere e in centri di detenzione improvvisati, di cui la maggior parte sotto il controllo delle brigate rivoluzionarie, senza alcun accesso a un giusto processo in assenza di una polizia o di un sistema giudiziario funzionanti”. A ciò si aggiunge il rischio continuo rappresentato dalle munizioni inesplose in aree in cui si sono svolti attacchi e scontri armati. Le forze di Gheddafi hanno installato mine antiveicolo, antipersona e altre tipologie di mine in molte zone, tra cui Misurata, Agedabia e Gebel Nefusa; e hanno utilizzato munizioni a grappolo, mettendo ulteriormente in pericolo i civili. Una nota positiva è il fatto che il Cnt, nella sua “visione di una Libia democratica”, ha promesso di rispettare tutti i diritti umani riconosciuti a livello internazionale e il diritto internazionale umanitario. Ad agosto, ha rilasciato una

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© UNHCR/H.Caux


Misurata dopo il bombardamento delle forze di Gheddafi, 1째 giugno 2011.


dichiarazione costituzionale che racchiudeva questi e altri principi, inclusi il rispetto delle libertà fondamentali, la non discriminazione di tutti i cittadini sulla base di genere, razza e lingua, e i diritti a un giusto processo e a chiedere asilo. I leader del Cnt hanno inoltre promesso di modificare tutta la legislazione

Le nuove autorità si trovano ora davanti a sfide enormi mentre il paese si avvia a un periodo di transizione.

repressiva e di abolire il sistema legale parallelo dei tribunali speciali, caratteristiche del regime di Gheddafi. Il nuovo governo si trova ora ad affrontare il compito di tradurre questi impegni in realtà, per trasformare il sistema giudiziario in un organo che difenda realmente i diritti umani e lo stato di diritto. I libici godono già di una maggiore libertà di espressione. Per la prima volta in 42 anni, hanno potuto esprimere la loro opinione e manifestare apertamente le critiche a lungo represse nei confronti del regime precedente, senza paura di essere imprigionati, molestati o di subire altre forme di persecuzione. Dopo decenni senza organizzazioni indipendenti e partiti politici, la Libia ha assistito a una proliferazione di organizzazioni della società civile, gruppi politici e mezzi di informazione. La critica pubblica di alcuni membri e delle decisioni del Cnt è stata tollerata. D’altra parte, gravi violazioni da parte delle milizie che si opponevano alle forze di Gheddafi, come esecuzioni extragiudiziarie, tortura e detenzioni arbitrarie, sono state raramente condannate dal Cnt. Per le donne, il rapido sviluppo delle manifestazioni antigovernative nel contesto di un vero e proprio conflitto armato a tutti gli effetti, ha diminiuito la loro possibilità di partecipare in prima linea e la loro visibilità, sebbene molte abbiano contribuito agli sforzi dell’opposizione e ne abbiano sofferto le conseguenze. Molte donne durante il conflitto sono state arrestate dalle forze di Gheddafi e molte sono state tenute in isolamento in luoghi di detenzione non riconosciuti. Alcune sono state malmenate e maltrattate in altro modo e sono stati denunciati casi di stupro. Le donne hanno inoltre contribuito agli sforzi per inviare aiuti umanitari in aree colpite dal conflitto, preparato soccorsi per i combattenti, partecipato alle manifestazioni, distribuito volantini e si sono assunte grandi rischi nel condividere informazioni sulle violazioni dei diritti umani con il mondo esterno. Alcune, detenute dalle forze a favore del Cnt ad alZawiya, Tripoli e Misurata, hanno dichiarato di aver subito abusi sessuali prima o durante l’arresto. La rappresentanza delle donne in istituzioni influenti rimane bassa. A dicembre, il Cnt contava solo due donne tra i 61 membri nominati pubblicamente e il nuovo governo comprendeva solo due donne tra i suoi 27 membri. Uno sviluppo preoccupante a ottobre è stato il sostegno pubblico espresso dal leader del Cnt alla poligamia, nonostante la connotazione negativa data da chi si occupa dei diritti delle donne. Durante il conflitto, gli africani subsahariani sono stati particolarmente esposti ad arresto arbitrario e attacchi violenti per ragioni legate al colore della

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loro pelle, in seguito a notizie esagerate relative all’uso di “mercenari africani” da parte delle forze di Gheddafi. Molti hanno subito razzie nelle loro case, sono stati arrestati, malmenati e maltrattati in altro modo dai combattenti sostenitori del Cnt. Anche i libici neri, soprattutto della regione di Tawargha, vista come leale al colonnello Gheddafi e utilizzata come base dalle sue truppe quando Misurata era assediata, sono stati esposti a un rischio elevato di attacchi vendicativi e arresti arbitrari. I 30.000 residenti di Tawargha sono scappati dalla città quando è passata sotto il controllo dei combattenti armati provenienti da Misurata e, temendo rappresaglie nel caso in cui fossero tornati, a dicembre erano ancora sfollati. È importante il fatto che il Cnt abbia chiesto ai suoi sostenitori di evitare attacchi vendicativi e di trattare i detenuti con dignità. Tuttavia è necessario fare di più per affrontare il problema del razzismo e della xenofobia e contrastare l’idea secondo cui tutti gli africani subsahariani, gli abitanti di Tawargha e altri gruppi siano ex “mercenari” o fedeli al colonnello Gheddafi. Uno dei compiti più difficili che il nuovo governo si trova di fronte è occuparsi dell’eredità dell’impunità, radicata nel corso di quattro decenni, e fornire rimedio e riparazioni alle numerose vittime delle violazioni dei diritti umani e alle loro famiglie. Il Cnt ha promesso di indagare sulle violazioni commesse da tutte le parti del conflitto, inclusa la presunta esecuzione extragiudiziaria del colonnello Gheddafi e dei membri della sua famiglia, e di consegnare i responsabili alla giustizia. Tuttavia, è necessario stabilire meccanismi efficaci per investigare adeguatamente tutti i reati ai sensi del diritto internazionale e altre gravi violazioni dei diritti umani. È necessario ottenere e preservare le prove, come archivi e fosse comuni, in particolare alla luce del furto e dell’incendio di documenti e delle esumazioni ad hoc, effettuate dopo che Tripoli è passata sotto il controllo del Cnt. In breve, il conflitto in Libia è costato molte vite umane, con numerose vittime tra civili e combattenti di entrambi le parti e migliaia di persone sottoposte a detenzione arbitraria, tortura, uccisioni indiscriminate e altre gravi violazioni. Ha provocato enormi danni alla proprietà pubblica e privata e alle infrastrutture e difficoltà diffuse. Tuttavia, ha anche messo fine al lungo periodo di governo repressivo del colonnello Gheddafi. Le nuove autorità si trovano ora davanti a sfide enormi mentre il paese si avvia a un periodo di transizione, ma hanno un’opportunità unica per affrontare e rimediare alle numerose ingiustizie del passato e costruire salvaguardie efficaci per evitare che si ripetano.

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YEMEN “Hanno aperto il fuoco da diversi edifici quasi nello stesso momento e continuato per più di 30 minuti.” Un testimone oculare descrive ad Amnesty International un attacco su un accampamento di protesta a Sana'a il 18 marzo 2011 che, secondo quanto riferito, ha provocato la morte di 52 persone

All’inizio del 2011, il governo dello Yemen ha proposto modifiche costituzionali che avrebbero permesso al presidente del paese in carica da lungo tempo, Ali Abdullah Saleh, di tenere il potere per un tempo indefinito e in seguito di poterlo tramandare ai suoi figli. Le proposte hanno innescato un’ondata di furiose proteste quasi immediata. Il 22 gennaio studenti, attivisti della società civile e altri si sono riuniti per partecipare a un’enorme ma pacifica manifestazione a Sana’a, la capitale. Il giorno successivo si sono tenute ulteriori manifestazioni, dopo che la polizia aveva arrestato Tawakkul Karman, presidente della Ong Giornaliste senza catene, alle quali le forze di sicurezza hanno risposto con la violenza. In seguito sono iniziate proteste di massa nella capitale e in altre città. Le dimensioni e la portata delle manifestazioni, che chiedevano che il presidente Saleh si dimettesse velocemente, sembravano sorprendere il governo. Come apparente concessione, il presidente ha annunciato all’inizio di febbraio che non si sarebbe candidato per essere rieletto, ma che intendeva rimanere in carica fino al 2013. Inoltre, ha proposto di iniziare le trattative con i Comitato congiunto dei partiti, una coalizione di sei partiti di opposizione. Questa proposta non era sufficiente rispetto alle richieste dei manifestanti e ha di fatto aumentato le tensioni. Si sono creati accampamenti di protesta a Sana’a e Ta’izz, successivamente battezzati “piazze del cambiamento”, e decine di migliaia di persone hanno continuato a manifestare nelle città di tutto il paese, da Al-Hudayda a ovest ad AlMukalla a est, da Sa’dah a nord ad Aden a sud, nonostante le risposte sempre più violente da parte delle forze di sicurezza e un numero sempre maggiore di vittime. Il presidente Saleh ha invitato l’opposizione a formare un nuovo governo, ma ha insistito a rimanere al potere, mandando a monte ogni possibilità realistica di raggiungere un accordo. Il presidente era sempre più isolato dopo che cecchini del governo avevano ucciso almeno 52 manifestanti pacifici nella “piazza del cambiamento” di Sana’a, il 18 marzo. Alcuni importanti ministri del governo e altri funzionari si sono dimessi e il generale Ali Mohsen, comandante della Prima brigata dell’esercito, ha annunciato che lui e le sue truppe avrebbero sostenuto i manifestanti. In risposta, il presidente

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Saleh ha sciolto il governo e imposto uno stato di emergenza di 30 giorni, che sospendeva la costituzione, aumentava la censura dei mezzi di informazione e ampliava i poteri delle forze di sicurezza di arresto e detenzione e di proibire le manifestazioni di piazza. Con il peggioramento della situazione, il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), guidato dall’Arabia Saudita, ha cercato di mediare tra il presidente Saleh e i partiti di opposizione. Il presidente ha rifiutato almeno tre volte di firmare un accordo proposto dal Ccg dopo aver affermato che l’avrebbe fatto, innescando ulteriori proteste e uccisioni di manifestanti. La crisi si è inasprita. Uomini armati appartenenti a tribù sollevatesi in opposizione

Il 2011 è stato un anno di proteste, agitazioni e violenze praticamente incessanti.

al presidente hanno occupato alcuni edifici governativi e ci sono stati scontri armati tra le forze del governo e il potente gruppo tribale guidato da Sadeq al-Ahmar. Questa situazione si è protratta finché la mediazione tra le tribù non ha assicurato un temporaneo cessate il fuoco alla fine di maggio. Allo stesso tempo, tuttavia, le forze di sicurezza governative hanno bruciato e spianato con bulldozer un accampamento di protesta a Ta’izz, uccidendo decine di persone. Intanto, secondo quanto riferito, militanti islamisti hanno assunto il controllo di parti di Zinjibar, a sud, e organizzato attacchi, costringendo molti abitanti del luogo alla fuga. All’inizio di giugno, un attacco al palazzo presidenziale ha fatto diverse vittime e ferito gravemente il presidente e altre persone, che sono state evacuate in Arabia Saudita per ottenere cure mediche. Il vicepresidente Abd-Rabbu Mansour Hadi ha assunto temporaneamente il potere e ad agosto si è formata un’alleanza di opposizione, il Consiglio nazionale delle forze rivoluzionarie, sciolta poco tempo dopo. Si è sviluppata una complicata situazione di stallo, con scontri armati sporadici e uccisioni, che hanno indotto molti a temere che il paese stesse scivolando verso la guerra civile. Su mandato del Consiglio per i diritti umani, tra giugno e luglio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha inviato nello Yemen un team di accertamento dei fatti; il relativo rapporto, pubblicato a settembre, segnalava violazioni gravi e diffuse dei diritti umani, compreso un uso eccessivo e indiscriminato della forza, e richiedeva, tra l’altro, un’indagine internazionale indipendente e che i responsabili fossero chiamati a risponderne. Con sorpresa di alcuni, il presidente Saleh è ritornato a Sana’a il 23 settembre e ha nuovamente assunto il potere. Il suo rientro ha scatenato manifestazioni di massa di sostenitori e di oppositori, incluse grandi manifestazioni antigovernative. Il 7 ottobre, un’attivista leader nel sostegno del cambiamento, Tawakkul Karman, è stata una delle tre donne che hanno ricevuto il premio Nobel per la pace. Il 21 ottobre, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato le violenze continue e ha chiesto al presidente Saleh di lasciare il potere, secondo l’accordo precedentemente proposto dal Ccg. Il 23 novembre, il presidente Saleh ha finalmente firmato l’accordo, acconsentendo a trasferire il potere al vicepresidente, per iniziare l’attuazione dell’accordo. Questo prevede l’immediata costituzione di un “governo di

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Manifestanti antigovernativi urlano slogan durante una protesta davanti all’università di Sana’a, 13 febbraio 2011.

© REUTERS/Khaled Abdullah Ali Al Mahdi


riconciliazione nazionale”, in cui la parte al governo e i partiti di opposizione siano ugualmente rappresentati e condividano il potere, e lo svolgimento entro 90 giorni di nuove elezioni presidenziali. In cambio si ritiene che il presidente Saleh e alcuni dei suoi collaboratori abbiano ricevuto l’immunità contro il perseguimento per i reati commessi sotto la sua amministrazione, sia durante le manifestazioni del 2011, che durante tutto il lungo periodo del suo governo. Molti yemeniti, soprattutto giovani e altri gruppi esclusi dal processo, hanno denunciato la clausola relativa all’immunità e giurato di non accettarla. Rifiutandosi di lasciare la carica per così tanto tempo, dopo anni in cui il suo governo aveva minato lo stato di diritto, commesso violazioni dei diritti umani impunemente ed era stato invischiato in accuse di corruzione, il presidente Saleh è riuscito a unire gran parte dello Yemen, anche se non tutto, in un ampio fronte contro di lui. Questo comprendeva gli houthi nel nord, contro i quali le forze governative avevano ripetutamente combattuto negli ultimi anni, il Movimento del sud, con base nei pressi di Aden, fautore di una maggiore autonomia o della secessione del sud, e la corrente principale di attivisti sostenitori del cambiamento, determinati a togliere al presidente il controllo dello Yemen. I conflitti tribali continuano, tuttavia, con il governo che sembra perdere il controllo su diverse aree del paese. Allo stesso tempo fonti riferiscono che militanti islamisti armati, ritenuti collegati ad al-Qaeda nella penisola araba, siano sempre più attivi nell’area di Abyan e Zinjibar, dove erano stati attaccati dalle forze statunitensi con droni e jet delle forze aeree yemenite. Secondo quanto riferito, circa 100.000 persone sono state sfollate da queste aree. Il 30 settembre, l’imam Anwar al-Awlaki, nato negli Usa e ritenuto responsabile di un tentativo di far saltare in aria un aereo di linea su Detroit a dicembre 2009, e altre tre persone sono stati uccisi dall’attacco di un drone americano. Per la popolazione dello Yemen, già il paese più povero della regione con una disoccupazione elevata, una crescente crisi dell’acqua e riserve di petrolio in rapida diminuzione, il 2011 è stato un anno di proteste, agitazioni e violenze praticamente incessanti. Secondo quanto riferito, nel complesso oltre 200 persone sono state uccise nel contesto delle manifestazioni, molti vittime dei cecchini del governo mentre esercitavano pacificamente il loro diritto a manifestare. Altre centinaia di persone di tutte le fazioni sono state uccise in scontri armati. Molte migliaia di famiglie sono state sfollate con la forza a causa delle violenze, provocando una crisi umanitaria sempre più grave, che ha inciso maggiormente sui poveri e sui più vulnerabili, soprattutto i bambini. Gli sforzi determinati del presidente Saleh per rimanere aggrappato al potere hanno comportato un costo elevato per gli yemeniti. Questo è dipeso, in gran parte, dal fallimento dei suoi principali alleati e benefattori, i governi dell’Arabia Saudita e degli Usa, nel fare pressione afinché Saleh si dimettesse e facesse spazio a un nuovo Yemen più democratico, basato sul rispetto dei diritti umani e sullo stato di diritto, obiettivo per il quale tanti yemeniti hanno dato la vita nel 2011, ma che, mentre l’anno si avvia alla sua conclusione, è ancora lontano dal diventare realtà.

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SIRIA “Schiaccerò la gola di tuo figlio col piede. Te lo rimanderò come Ghayath Mattar.” Sono le parole che avrebbe pronunciato un agente delle forze di sicurezza alla madre del ventiduenne Muhammad Muhammad Al Hamwi, quando suo figlio e suo marito sono stati arrestati. Ghayath Mattar era un giovane attivista non violento di Daraya, deceduto in custodia, probabilmente sotto tortura, quattro giorni dopo il suo arresto il 6 settembre

All’inizio del 2011, con il dilagare dei disordini in Medio Oriente e Africa del Nord, sembrava che i siriani fossero troppo spaventati per sfidare il loro governo. La famiglia al-Assad ha governato con il pugno di ferro per 40 anni sotto uno stato di emergenza, reprimendo e punendo duramente ogni dissenso. Ciò nonostante, il 18 marzo, dopo la reppressione da parte delle autorità di una manifestazione per lo più pacifica, per il rilascio dei minori arrestati a Dera’a, le proteste hanno iniziato a diffondersi. Mentre queste prendevano slancio, allo stesso tempo cresceva la brutalità del governo del presidente Bashar al-Assad, delle forze di sicurezza e dell’esercito. Come conseguenza, la già disperata situazione dei diritti umani in Siria si è aggravata ulteriormente. Nei mesi successivi, centinaia di migliaia di siriani si sono liberati da decenni di timore per rivendicare i loro diritti e un cambiamento politico. In un clima di proteste ampiamente pacifiche, persone provenienti dai settori più disparati della società hanno agito insieme e gridato slogan all’unisono. Le donne hanno partecipato alle manifestazioni e hanno ricoperto un ruolo guida nei dibattiti e nell’attivismo, in alcuni casi testimoniato sui social network. Sembrava che la resistenza stesse sorgendo spontaneamente da anni di frustrazione e collera. Una settimana dopo l’altra, i manifestanti hanno sfidato la violenza estrema delle forze di sicurezza; ogni protesta settimanale ha avuto nuovi slogan, molti dei quali rivolti alla comunità internazionale, come “Your silence is killing us” (Il vostro silenzio ci sta uccidendo) e “Disappointment with Russia” (Delusi dalla Russia). In molte città e villaggi sono stati creati movimenti della società civile per organizzare le proteste, registrarle o documentare comunque le violazioni dei diritti umani commesse dall’esercito e dalle forze di sicurezza, per far conoscere al mondo la verità su quello che stava accadendo. Dopo le dichiarazioni del governo sui filmati delle manifestazioni in Siria, giudicati falsi o registrati in altri paesi, gli attivisti hanno iniziato a filmare un cartello con il

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luogo e la data prima di puntare i cellulari e le macchine fotografiche verso le marce. È emersa una nuova generazione di attivisti e difensori dei diritti umani e la consapevolezza delle persone dei loro diritti sta crescendo radicalmente. Inizialmente, di fronte alle crescenti proteste e alla condanna internazionale, il presidente al-Assad ha annunciato una serie di riforme, mentre nel frattempo manteneva la repressione. In particolare, ha rimosso lo stato di emergenza nazionale, in vigore da 48 anni, e abolito la Corte suprema per la sicurezza di stato (Supreme State Security Court, Sssc), famosa per la sua iniquità e utilizzata per incarcerare innumerevoli persone critiche verso il governo e dissidenti. Inoltre ha emesso una serie di amnistie per diverse categorie di detenuti, grazie alle quali sono stati liberati alcuni prigionieri di coscienza, e approvato decreti per autorizzare manifestazioni pacifiche che rispettassero certe condizioni e l’iscrizione legale di altri partiti politici oltre al partito Ba’ath al governo. Tuttavia, queste riforme non hanno avuto nessun impatto sulle violente azioni repressive e c’erano elementi che dimostravano quanto fossero puramente di facciata. In ogni caso, sono rimasti un insieme di leggi e decreti a limitare il godimento dei diritti umani in Siria. Di conseguenza, i cambiamenti legislativi realizzati da un governo ormai sfiduciato e disprezzato da buona parte del popolo siriano non hanno minimamente risposto alle aspettative dei manifestanti e le proteste sono continuate. L’esercito e le forze di sicurezza hanno fatto continuamente ricorso a un uso eccessivo della forza contro i manifestanti, anche con “licenza di uccidere”, e addirittura contro persone che partecipavano ai funerali di manifestanti uccisi nei giorni precedenti. Hanno utilizzato cecchini per sparare sulle folle pacifiche e dispiegato ripetutamente carri armati e altri veicoli blindati da combattimento durante le operazioni militari in aree residenziali. Dalla metà di dicembre, ci sono notizie di più di 3800 persone – secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (UN High Commissioner for Human Rights - Ohchr) la cifra è di oltre 5000 – decedute nel contesto delle proteste, compresi 200 minori. La maggior parte erano civili, la cui morte sarebbe stata causata dall’uso di armi da fuoco da parte delle forze governative durante proteste pacifiche o funerali, sebbene anche membri delle forze di sicurezza siano stati tra le vittime, compresi alcuni colpiti da altri soldati, a quanto pare quando rifiutavano di rivolgere le loro armi verso i manifestanti. © AP/PA Photo/Emilio Morenatti

Migliaia di persone sono state arrestate, molte tenute in isolamento in luoghi non rivelati, in cui è noto che la tortura e i maltrattamenti sono diffusi. Effettivamente la tortura, che negli anni precedenti era un rischio concreto per i prigionieri politici, è diventata il “benvenuto” per tutti gli arrestati in relazione ai disordini. Numerose forme di tortura e maltrattamenti sono stati descritti direttamente ad Amnesty International da detenuti rilasciati o indirettamente da

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Una manifestazione pacifica a favore delle riforme a Baniyas, Siria, 6 maggio 2011 (CC BY 2.0).

Š Syria-Frames-Of-Freedom



fonti affidabili. Sembra che tali trattamenti siano stati utilizzati per ottenere “confessioni” forzate, punire i manifestanti e intimidire gli altri e dissuaderli dall’unirsi alle manifestazioni. Molto spesso i detenuti sono stati picchiati duramente e alcuni sottoposti a tortura con scariche elettriche, anche ai genitali,

Centinaia di migliaia di siriani si sono liberati da decenni di timore per rivendicare i loro diritti e un cambiamento politico.

e bruciati con sigarette. Talvolta le forze di sicurezza hanno fatto rastrellamenti in alcune aree, perquisendo tutte le case e arrestando tutti gli uomini di età superiore ai 15 anni o semplicemente caricando persone in modo casuale per le strade. Le carceri non bastavano per far fronte a tutti gli arrivi, quindi le forze di sicurezza hanno iniziato a riempire scuole, hotel, stadi sportivi e addirittura stalle. Centinaia di persone sono state detenute in situazioni equivalenti a sparizioni forzate, poiché le autorità rifiutavano di riconoscere la loro detenzione o nascondevano dove fossero alle loro famiglie. Almeno 190 persone, minori compresi, sono decedute in custodia. In molti casi, vi sono prove che maltrattamenti e torture abbiano causato o contribuito alle morti. Molti dei deceduti sono stati mutilati prima e dopo la morte, apparentemente per terrorizzare le famiglie alle quali erano restituiti i corpi. L'impunità per tali terribili crimini è rimasta la norma. Il governo ha esteso la sua crudeltà verso le persone ferite nelle proteste e verso il personale medico che cercava di curarle. I pazienti negli ospedali gestiti dal governo sono stati picchiati o altrimenti maltrattati, anche dando loro assistenza medica inadeguata. Il personale sanitario è stato vittima di abusi e minacciato con rappresaglie, se non comunicava alle autorità i nomi dei pazienti feriti. Le forze di sicurezza hanno compiuto irruzioni negli ospedali, comprese le sale operatorie. Di conseguenza, i feriti sempre di più si sono rivolti a ospedali privati o improvvisati vicino alle zone di conflitto. Nel tentativo di soffocare le notizie sui massacri e ostacolare l'organizzazione delle proteste, il governo ha vietato l'ingresso nel paese a giornalisti stranieri e gruppi indipendenti per i diritti umani, individuato le persone che stavano filmando le proteste e talvolta bloccato i siti dei social network. Il lungo braccio della polizia segreta siriana si è esteso all'estero. Decine di siriani residenti in Europa o nelle Americhe sono stati vittime di persecuzioni o minacce, a quanto pare a opera dei funzionari delle ambasciate e altri, dopo essersi organizzati in segno di solidarietà con il movimento per le riforme; altre volte i loro parenti in Siria sono stati arrestati e torturati o maltrattati a causa delle loro attività di solidarietà. Con il proseguire dei disordini, è apparso chiaro che l'economia era in caduta libera. Il turismo, un settore da quattro miliardi di dollari all'anno, era al collasso e le importazioni hanno subito un taglio dovuto al basso livello di riserve di valuta straniera. Il governo ha introdotto una nuova tassa sui lavoratori pubblici. Gli stati membri dell'Ue acquistavano in precedenza circa il

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95 per cento delle esportazioni di petrolio siriano e il divieto europeo d’importazione del greggio del paese, in pieno vigore da novembre, ha iniziato a colpire l'economia. Altre sanzioni dell'Ue erano state imposte al regime in modo progressivo da maggio, mentre quelle statunitensi avevano preso avvio il 29 aprile. A ottobre, gruppi di opposizione hanno costituito il Consiglio nazionale siriano (Syrian National Council - Snc), un'organizzazione che riunisce chi dall'interno o dall'esterno del paese cerca di rovesciare il governo del presidente al-Assad. La Lega araba ha ricoperto un ruolo cruciale nel corso dell’anno. Il 2 novembre è stato annunciato un accordo o “roadmap” con le autorità siriane per fermare la crisi. Tuttavia, il governo siriano non ha rispettato in modo palese gli impegni, compreso quello di mettere fine a “tutti gli atti di violenza” contro i siriani e di rilasciare “tutte le persone detenute per gli eventi in corso”. Per questa ragione, il 12 novembre la Lega araba ha sospeso la Siria e il 27 ha annunciato sue sanzioni economiche contro il paese. La diffusione e la gravità delle violazioni dei diritti umani commesse in Siria nel 2011 non solo indicano un peggioramento della situazione dei diritti umani, ma equivalgono anche a crimini contro l'umanità. I maltrattamenti hanno fatto parte di un attacco diffuso e sistematico contro i civili, portato avanti deliberatamente da una politica statale e in maniera organizzata. Amnesty International ha lanciato un appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, affinché questo non si limiti a condannare le violazioni di massa, ma adotti anche ulteriori misure per garantire che i responsabili siano chiamati a rispondere, anche deferendo la situazione della Siria alla Cpi, imponga un embargo totale sulle armi e congeli i beni patrimoniali del presidente siriano e dei suoi principali collaboratori, per aver commesso crimini contro i diritti umani (vedi sotto, La risposta internazionale). Ciononostante, l'azione concreta del Consiglio di sicurezza è stata bloccata dalla Federazione russa, dalla Cina e da altri paesi. Il 2011 è finito, ma la situazione è ancora difficile. Mesi di manifestazioni pacifiche non sono riuscite a ottenere un cambio di governo, eppure molte vite sono andate perse o compromesse da ferite o maltrattamenti, spingendo alcuni all'interno dell'opposizione ad adottare metodi violenti, comprese le armi da fuoco, per cercare di forzare il cambiamento. Si stima che fino a 10.000 soldati abbiano disertato e si siano uniti all'Esercito siriano libero (Free Syria Army), che ha annunciato il suo obiettivo di cercare di proteggere i civili siriani. È aumentata la frequenza degli scontri armati tra le forze statali e individui armati sospettati di essere disertori. Da parte sua, il governo non ha mostrato segni di allentamento della repressione.

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BAHREIN

“Ad aprile i miei timori sono divenuti realtà, sono stata presa da casa mia da più di 30 uomini armati e a volto coperto, di fronte a mio figlio, che ho dovuto lasciare solo. Sono stata maltrattata fisicamente ed emotivamente, bendata e ammanettata. Mi hanno picchiata, con le mani e le gambe, con un tubo di gomma e mi hanno sottoposto a scariche elettriche. Hanno minacciato di violentarmi. Hanno minacciato di uccidermi per farmi ammettere accuse false. Sono stata molestata sessualmente e umiliata...Poi è iniziato l'orrore delle corti militari.” Operatrice sanitaria del Bahrein, prima di essere condannata a un periodo di detenzione con altri 19 operatori sanitari, il 29 settembre 2011

Agli inizi del 2011, la famiglia Al Khalifa, appartenente alla minoranza sunnita del Bahrein, regnava sul piccolo stato insulare da circa 200 anni. Nonostante le restrizioni alla libertà di espressione e la presa di mira su attivisti chiave dell’opposizione, con arresti e processi iniqui, il Bahrein era considerato uno dei più liberali tra i paesi del Golfo. La situazione è cambiata rapidamente dopo che le proteste si sono sviluppate dal 14 febbraio in poi, con la richiesta di maggiore libertà, giustizia sociale e politica e riforme costituzionali. Alcuni dei manifestanti erano musulmani sunniti, ma la grande maggioranza erano sciiti, che costituiscono circa il 70 per cento della popolazione, indignati per la percezione di essere marginalizzati a livello economico e politico. Il governo, sorpreso dalla mobilitaazione di massa, sia di sunniti che di sciiti, ha risposto con livelli inaspettati di violenza. Nel giro di una settimana, sette manifestanti sono morti, centinaia di altri sono rimasti feriti e il Bahrein è arrivato a un punto critico. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza e hanno occupato la sede del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), nel centro di Manama, chiedendo una nuova costituzione, un governo eletto, una maggiore distribuzione della ricchezza dello stato e il rilascio di tutti i prigionieri politici. I siti dei social network incoraggiavano il dibattito e facevano appello all’azione. I gruppi di opposizione e le organizzazioni dei diritti umani hanno potuto trovare rapidamente basi per crescere e le discussioni sui diritti umani e le riforme politiche erano nell’aria. Le donne hanno organizzato marce

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al femminile e si sono unite agli uomini in altre proteste. Come risposta, il principe ereditario ha promesso un dialogo nazionale con i gruppi di opposizione riconosciuti e il dibattito si è acceso. Prigionieri politici sono stati rilasciati e le forze di sicurezza hanno fermato la violenza. Ciò nonostante, le manifestazioni hanno continuato ad aumentare e, per la fine di marzo, il lungo dominio della famiglia Al Khalifa si trovava sotto crescente minaccia. Tra le rivendicazioni, forte era la richiesta di elezioni parlamentari, con il partito vincitore al governo. Molti membri della minoranza sunnita del Bahrein si sono sentiti minacciati e hanno iniziato a organizzare un’ampia manifestazione di supporto per la famiglia regnante. Cosa fondamentale, i timori si sono diffusi anche nello stato vicino a prevalenza sunnita, l’Arabia Saudita, all’ipotesi che la popolazione del Bahrein potesse eleggere un partito sciita. Mentre le proteste antigovernative prendevano slancio alcuni manifestanti, quelli non affiliati alle sette associazioni politiche legali, hanno marciato verso gli edifici chiave del potere, bloccato l’accesso alle strade principali, occupato il Financial Harbour (un nuovo progetto commerciale) e hanno camminato verso la Corte reale di al-Riffa’, per chiedere un sistema repubblicano che sostituisse la monarchia. La violenza è scoppiata tra alcuni sostenitori governativi e manifestanti pro riforme, soprattutto il 13 marzo all’università del Bahrein. Sono stati registrati scontri anche a Manama, dove lavoratori migranti, la maggior parte pakistani, sono stati attaccati da folle armate di coltelli e spade, presumibilmente a causa del ruolo esercitato dai pakistani nelle manifestazioni, reclutati nelle forze di sicurezza del Bahrein in cambio della cittadinanza. Il 15 marzo, l’Arabia Saudita ha inviato 1200 carri armati e altri corazzati attraverso la sopraelevata che collega il paese con il Bahrein, secondo quanto riferito sotto richiesta del governo. Il re del Bahrein ha imposto lo stato di emergenza, ha annunciato lo stato di sicurezza nazionale e autorizzato le forze armate a utilizzare misure estreme per mettere fine alle sommosse. I carri armati hanno fatto irruzione nell’area delle proteste pacifiche a piazza della Perla, distruggendo ciò che era divenuto il simbolo della resistenza e della speranza. Il centro sanitario di alSalmaniya, il principale ospedale di Manama, coinvolto nei disordini, è stato preso d’assalto dalle forze di sicurezza e decine di dottori e infermieri sono stati arrestati nell’ospedale o nelle loro case. Le forze governative hanno preso il controllo dell’ospedale. Molti manifestanti feriti si sono in seguito rifiutati di andare in ospedale e quindi non hanno potuto ricevere cure mediche. Qualcuno che ha cercato cure nell’ospedale è stato arrestato. Nei mesi successivi, la situazione dei diritti umani si è aggravata e il movimento di protesta sembrava essere stato soffocato. In totale almeno 47 persone sono morte nel contesto delle manifestazioni, inclusi tre o quattro agenti di sicurezza e, secondo vari rapporti, tra due e otto lavoratori migranti, uccisi dai manifestanti. Più di 2500 persone sono state arrestate, di cui almeno cinque sono decedute in custodia a causa di torture e maltrattamenti. Almeno 4000 persone che si

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sono assentate dal lavoro durante l’arresto o che si è creduto partecipassero alle manifestazioni, sono state licenziate o sospese, incluse quasi 300 della compagnia petrolifera di stato. Decine di studenti sono stati espulsi dalle università e altri all’estero si sono visti sospendere le borse di studio. Il 1° giugno, il re ha revocato lo stato di emergenza e il governo ha ritirato le proprie truppe dalle strade di Manama, una mossa evidentemente decisa per riassicurare le istituzioni finanziarie internazionali e gli organizzatori degli eventi sportivi principali. In ogni caso, sono stati dispiegati grandi contingenti di polizia e le forze di sicurezza hanno attaccato per ore i manifestanti pacifici in più di 20 villaggi, con pallottole di gomma, granate assordanti, fucili da caccia, bombe sonore e gas lacrimogeni. Molti degli arrestati hanno subito processi particolarmente iniqui prima che la corte militare speciale, la Corte di sicurezza nazionale, dichiarasse lo stato di emergenza. Ad aprile, quattro manifestanti sono stati condannati a morte davanti a un plotone di esecuzione, con l’accusa di aver ucciso due poliziotti durante i disordini; le sentenze contro due di loro sono state in seguito commutate in un periodo di carcere. A giugno, otto attivisti politici di primo piano dell’ opposizione sono stati condannati all’ergastolo con l’accusa di aver cospirato per rovesciare il governo, accusa che pesa su molti manifestanti pacifici. Altri 13 sono stati condannati a pene fino a 15 anni di carcere. A settembre, un’altra persona è stata condannata a morte per l’omicidio di un poliziotto. Durante lo stesso mese, 20 operatori sanitari sono stati condannati a pene fino a 15 anni, con accuse che includevano il tentativo di occupare il centro sanitario di al-Salmaniya. Tuttavia sembra che siano stati perseguiti per dichiarazioni rilasciate ai media internazionali sulla violenza delle forze di sicurezza e per aver permesso ai giornalisti di filmare il loro lavoro coi pazienti. Altre accuse rivolte al personale medico comprendevano il rifiuto di curare musulmani sunniti e lavoratori migranti, il furto di medicine e il possesso di armi. Nonostante ciò, in tribunale non sono state fornite prove evidenti. All’inizio di ottobre, 60 persone sono state condannate a pene fino a 25 anni di carcere in relazione alle manifestazioni. Tra queste c’erano membri di al-Wifaq, il maggior partito di opposizione sciita e la Società d’azione islamica (Islamic Action Society, Amal), altro partito politico sciita. Il governo ha tentato di fermare le manifestazioni ma con poco successo poiché moltissime sono andate avanti nei paesi e nelle città sciite, compresa Manama. A ottobre, il governo ha vietato una manifestazione oragnizzata da al-Wifaq. Le azioni repressive del governo hanno suscitato grande preoccupazione a livello internazionale, soprattutto per le denunce di tortura e decessi in custodia. Il re ha risposto il 29 giugno, compiendo un passo senza precedenti, istituendo un ente internazionale indipendente, la Commissione indipendente d’inchiesta del Bahrein (Bahrain Independent Commission of Inquiry, Bici), composta da cinque esperti internazionali in materia legale e di diritti umani. Il duro rapporto di 500 pagine pubblicato il 23 novembre ha concluso che le autorità del

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Š REUTERS/Hamad I Mohammed

Le tre immagini mostrano la distruzione della statua di Pearl Roundabout a Manama da parte di forze governative, 18 marzo 2011. La rotonda era stato il punto focale e il simbolo di settimane di proteste a favore della democrazia in Bahrein.


Bahrein hanno commesso violazioni evidenti dei diritti umani, compreso l’uso diffuso della tortura e di altri maltrattamenti, processi iniqui e uccisioni indiscriminate di decine di manifestanti. Ha inoltre sottolineato che suddette violazioni sono state in parte il prodotto di una cultura dell’impunità. La Commissione d’inchiesta ha emesso

Le crescenti tensioni settarie tra la comunità sciita e quella sunnita rappresentano una minaccia a lungo termine per i diritti umani.

una serie di importanti raccomandazioni, tra cui quella di instituire un organismo indipendente per i diritti umani che verifichi tutte le denunce di tortura e che porti tutti i responsabili a rispondere del loro operato, compresi quelli che hanno dato gli ordini. In risposta, il governo ha annunciato di aver iniziato l’iter per perseguire 20 membri delle forze di sicurezza per aver fatto uso eccessivo della forza durante le manifestazioni e aver maltrattato i detenuti. A dispetto di queste iniziative positive, le crescenti tensioni settarie tra la comunità sciita e quella sunnita rappresentano una minaccia a lungo termine per i diritti umani in Bahrein. La polarizzazione è stata fomentata da atteggiamenti del governo e delle potenze straniere, come l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, secondo i quali il governo iraniano, a preponderanza sciita, rappresenterebbe una mano nascosta dietro ai disordini. La Commissione d’inchiesta non ha trovato prove che colleghino le proteste all’Iran. Le tensioni settarie sono state esacerbate anche dalle azioni delle forze di sicurezza, che pare abbiano distrutto almeno 40 moschee sciite e luoghi di incontro religiosi, affermando che fossero stati costruiti senza permessi e utilizzati per sferrare attacchi contro la polizia. Le forze di sicurezza hanno anche profanato le tombe di rispettati capi spirituali sciiti a Nuwaidrat e sottoposto vari studiosi e attivisti sciiti a maltrattamenti durante e dopo l’arresto. Anche il mantenimento della politica governativa di concessione della cittadinanza a sunniti stranieri reclutati nelle file delle forze di sicurezza è considerata provocatoria. Anche i sunniti si sentono lesi e minacciati dalla maggioranza sciita e dalle accuse di intromissione iraniana negli affari interni del Bahrein. Il pericolo è che in Bahrein l’ostilità tra le differenti comunità e la violenza si siano istituzionalizzati e l’instabilità sia ormai radicata. In breve, la situazione dei diritti umani in Bahrein si è deteriorata significativamente nel 2011, con la il duro tentativo di reprimere il movimento di protesta a febbraio e marzo. In una certa misura il movimento sembrava la vittima di forti interessi politici a livello internazionale, compresi quelli statunitensi, che mantengono un’importante base navale in Bahrein. Le potenti forze a supporto della famiglia Al Khalifa al potere hanno fatto poco per impedire al governo del Bahrein di ricorrere a metodi violenti per mantenere lo status quo, fatto che ha portato a nuove violazioni e all’ampia diffusione di altre forme di abusi che non si verificavano da molti anni, aggravando così la pericolosa radicalizzazione all’interno della società. Una prova fondamentale dell’impegno del governo di porre fine agli abusi del 2011 sarà la velocità e il grado di attuazione delle raccomandazioni pervenute dalla Commissione d’inchiesta al re a novembre.

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IRAQ “Se non la smetti con le tue attività di opposizione politica, ti rapiremo, ti violenteremo e registreremo la violazione.” Un’attivista politica descrive ad Amnesty International le minacce ricevute da un uomo armato nella sua casa, il 25 febbraio 2011, il “giorno della rabbia” iracheno

Anche gli iracheni sono stati spinti all’azione dai disordini della regione, anche se le dimensioni e la natura delle loro manifestazioni erano tipiche di questo paese. Le proteste si sono svolte con regolarità durante quasi tutto l’anno, ma nella maggioranza dei casi non si trattava degli eventi di massa conosciuti in altre zone della regione e i dimostranti non chiedevano il rovesciamento del governo. Protestavano contro la corruzione, il nepotismo, il settarismo e la presenza di truppe straniere e rivendicavano un miglioramento dei servizi e dell’economia. La maggior parte dei paesi sconvolti dai disordini aveva attraversato decenni di “stabilità”, nonostante fosse una stabilità mantenuta da una violenza inaudita e da servizi di intelligence e di sicurezza onnipresenti. Nello stesso periodo, gli iracheni sono stati testimoni di guerre, sanzioni devastanti, invasioni e occupazioni di truppe straniere, anni di violenza endemica e di collasso economico. Saddam Hussein, il sovrano spietato e autocratico che ha regnato per decenni, è stato destituito nel 2003, non da un movimento di massa che chiedeva la democrazia, ma da una potenza armata internazionale guidata dagli Stati Uniti. Le proteste del 2011 in Iraq hanno preso avvio all’inizio di febbraio, quando decine di migliaia di persone sono scese in piazza per manifestare contro la mancanza d’acqua, di elettricità e di altri servizi di base, l’aumento dei prezzi, la disoccupazione e la corruzione endemica e per richiedere maggiori diritti civili e politici. Le diverse forze sotto il controllo delle autorità, compresa la polizia, le forze militari e le altre forze di sicurezza hanno risposto facendo uso eccessivo della forza, uccidendo e ferendo i manifestanti. Hanno anche eseguito arresti frequenti, in molti casi seguiti da tortura. La maggior parte degli arrestati è stata poi rilasciata senza accusa. Tra quelli presi di mira da attacchi per motivi politici, alcuni di essi in modo letale, c’erano avvocati e giornalisti. A settembre, per esempio, Hadi al-Mahdi, noto giornalista radiofonico di Baghdad, è stato assassinato nella sua abitazione, poco prima di una protesta programmata a

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© REUTERS/Atef Hassan


La polizia antisommossa disperde i manifestanti durante una protesta davanti al palazzo del consiglio provinciale di Bassora, 4 marzo 2011.


piazza Tahrir, a cui avrebbe dovuto prender parte. Nei giorni precedenti alla sua morte, aveva utilizzato i siti dei social media per raccogliere adesioni a favore della manifestazione. Nelle settimane precedenti, il governo aveva approvato una legge sulla protezione legale dei giornalisti che subiscono minacce per motivi politici, ma questa non prevedeva la loro protezione. Anche nella regione del Kurdistan iracheno, dove le manifestazioni si sono concentrate generalmente sulla corruzione all’interno dei due partiti del governo di coalizione, i manifestanti sono morti a seguito dell’uso eccessivo della forza da parte degli agenti di sicurezza e molti sono stati i feriti. I giornalisti, soprattutto quelli che lavoravano per mezzi d’informazione indipendenti, sono stati minacciati a causa dei loro servizi sulle manifestazioni e delle critiche ai due partiti politici curdi dominanti. Gli iracheni continuano a soffrire per la disoccupazione dilagante, la povertà, l’eredità della guerra e la carenza di servizi di base in un ambiente politico instabile e spesso violento. Malgrado ciò, le manifestazioni che da febbraio hanno riunito quasi settimanalmente iracheni di tutte le comunità, rappresentano uno sviluppo positivo e in gran parte pacifico, in contrasto con gli attentati suicidi e di altro genere e gli attacchi violenti, molti dei quali settari e indiscriminati, che sono stati tratti distintivi dell’Iraq negli ultimi anni. Purtroppo le manifestazioni pacifiche del 2011 si sono spesso scontrate con la violenza delle forze di sicurezza e gli arresti arbitrari, mentre gli organi di informazione internazionali dedicavano scarsa attenzione alle vicende. Gli iracheni continuano ancora a reclamare il loro diritto a esprimere il dissenso e a esigere il cambiamento in maniera aperta e pacifica.

ALTRI STATI DELLA REGIONE In Algeria, i diffusi tumulti di gennaio per il costo degli alimenti, a partire dal 12 febbraio sono stati seguiti da proteste in cui si chiedevano riforme. Di fronte alle continue tensioni, il governo ha revocato lo stato di emergenza in vigore da 19 anni, ha promesso ulteriori riforme e ha ridotto il prezzo degli alimenti. Le organizzazioni per i diritti umani, i partiti politici di opposizione e i sindacati hanno cominciato a

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manifestare ogni settimana, mentre disoccupati e giovani protestavano in tutto il paese. Il 15 aprile, il presidente Abdelaziz Bouteflika ha annunciato alcune riforme per “rafforzare la democrazia”, tra cui la modifica della legge elettorale e l’istituzione di una commissione per la riforma costituzionale. È stata anche annunciata una nuova legge sull’informazione, per sostituire le disposizioni presenti nel codice penale, in base alle quali i giornalisti e altri soggetti ritenuti colpevoli di “diffamazione” del presidente o di altre istituzioni nazionali dovevano scontare il carcere fino a un anno e il pagamento di multe. Il presidente ha inoltre annunciato cambiamenti alle leggi riguardanti le organizzazioni della società civile, ma si sono sollevati timori sul rischio che la legislazione potrebbe rivelarsi ancora più restrittiva per le loro operazioni e i loro finanziamenti. In Iran, il 14 febbraio molte persone sono scese per le strade di Teheran e altre città in risposta all’appello dei leader dell’opposizione Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, per dimostrare solidarietà alle insurrezioni in Egitto e Tunisia. Lo hanno fatto nonostante le minacce del governo, gli arresti preventivi e l’aumento delle esecuzioni, azioni viste da molti come un tentativo del governo di impedire le proteste. Le forze di sicurezza hanno risposto con ulteriori azioni repressive, uccidendo almeno due persone il 14 febbraio e un’altra persona nei giorni seguenti. Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi sono stati messi agli arresti domiciliari, dove sono rimasti tutto l’anno, senza capi d’accusa né un processo. Le autorità hanno usato la forza anche in risposta alle proteste dei membri delle minoranze etniche dell’Iran, tra cui gli arabi ahwazi nel sud-ovest dell’Iran, prima, durante e dopo la “giornata della rabbia” del 15 aprile, in cui almeno tre presone sono morte durante gli scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti. Nel nord-ovest dell’Iran, ben più di 100 membri della minoranza azerbaigiana sono stati arrestati ad aprile e ad agosto, in relazione alle proteste in cui si chiedeva al governo di agire per prevenire un disastro ambientale causato dal prosciugamento del lago di Urmia; la maggior parte di loro è stata liberata ma molti altri sono stati condannati al carcere, alla flagellazione o a entrambi. Le autorità hanno ulteriormente rafforzato le limitazioni alla libertà di espressione e di associazione, lanciando un avvertimento agli utenti del servizio di sms prima delle proteste del 14 febbraio, che sarebbero andati incontro a un procedimento giudiziario se avessero inviato informazioni agli organi di stampa stranieri. Hanno inoltre interrotto il servizio di sms, filtrato i siti web e bloccato le pagine di social network, come Facebook. Un non ben identificato “cyberesercito” ha attaccato i siti web che criticavano il governo, inoltre sono state aumentate le forze di polizia contro i crimini informatici. I giornalisti, i blogger e coloro che lavoravano nell’industria cinematografica sono divenuti il bersaglio della repressione, insieme agli studenti, agli attivisti politici, ai sindacati indipendenti, ai difensori dei diritti umani, agli attivisti per i diritti delle donne e altri ancora, come parte degli incessanti sforzi da parte del governo per reprimere il dissenso.

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In Israele, a luglio hanno avuto luogo proteste di massa, principalmente organizzate dai membri della popolazione ebrea, contro i prezzi esorbitanti delle abitazioni e degli affitti e l’aumento del costo della vita. Le forme di protesta rispecchiavano quelle osservate in altri paesi della regione, con attivisti che si organizzano attraverso i social network e che allestiscono presidi. In Giordania si sono tenute manifestazioni durante tutto l’anno per chiedere riforme politiche, economiche e sociali. Sebbene le proteste fossero in gran parte pacifiche, pare che le forze di sicurezza abbiano fatto uso eccessivo della forza contro i manifestanti non violenti e i giornalisti. A febbraio, il re ha sciolto il governo e ha promesso dei cambiamenti, sebbene continuino la critiche pubbliche sulla lentezza delle riforme. In Kuwait, che possiede un governo eletto, a inizio anno vi sono state manifestazioni da parte degli apolidi bidun, che chiedevano di essere riconosciuti come cittadini, e dei giovani che invocavano la fine della corruzione. A settembre, un’ondata di scioperi dei lavoratori, per ottenere migliori stipendi e sussidi, ha avuto ripercussioni sui servizi pubblici. Il 16 novembre, i manifestanti, inclusi parlamentari, che chiedevano le dimissioni del primo ministro, hanno occupato la sede del parlamento per un breve periodo. Nei giorni successivi, 24 degli attivisti coinvolti sono stati arrestati e poi rilasciati su cauzione il 1° dicembre. Il 28 novembre, il governo ha dato le dimissioni. Il 6 dicembre, il sovrano del Kuwait ha sciolto il parlamento; si prevede che le elezioni si terranno entro 60 giorni. In Marocco, molte persone hanno preso parte alle proteste, tra cui manifestazioni organizzate attraverso i social network e autoimmolazioni. Il 20 febbraio, centinaia di persone in varie città del paese hanno chiesto una riforma costituzionale, una “vera democrazia” e la fine della corruzione. In risposta, il re ha promesso di avviare delle riforme fondamentali e difendere i diritti umani. Il 3 marzo, ha stabilito un nuovo difensore civico nazionale per i diritti umani. Il 9 marzo, ha annunciato la nomina di una Commissione consultiva per la revisione della costituzione al fine di proporre una riforma democratica. Tuttavia, il 13 marzo, in risposta alla protesta pacifica di Casablanca, le forze di sicurezza hanno usato la forza in modo ingiustificato, ferendo decine di persone. Le proteste sono continuate in forma sporadica. A luglio, ad esempio, migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere ulteriori cambiamenti politici, in seguito all'annuncio del governo che le sue proposte per la riforma costituzionale erano state sostenute dall’98,5 per cento dei votanti in un referendum nazionale. Molti manifestanti ritenevano che le riforme non fossero abbastanza, poiché lasciavano il re a capo dello stato e dell’esercito. A settembre, migliaia di persone sono sfilate ancora in corteo a Casablanca, per protestare contro la corruzione del governo e chiedere riforme. A novembre, sono state organizzate proteste contro le elezioni parlamentari, proposte come parte del pacchetto di riforme del re. Sebbene diversi prigionieri di coscienza

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siano stati liberati durante l’anno, altri sono stati imprigionati e molti degli attivisti saharawi liberati devono ancora far fronte alle accuse di minaccia alla “sicurezza interna” del Marocco. Nei Territori palestinesi occupati, a marzo, migliaia di palestinesi hanno manifestato a Ramallah, Gaza, Betlemme e altre città, chiedendo una riconciliazione politica tra i loro governi rivali, l’Autorità palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania e l’amministrazione de facto di Hamas nella Striscia di Gaza. È stato raggiunto un accordo quadro per l’unità ma non messo in atto, poiché l’Autorità palestinese a ottobre si è recata da sola presso il Consiglio di sicurezza dell’Onu per ottenere il riconoscimento della Palestina come stato indipendente. Precedentemente, anche i rifugiati palestinesi della Cisgiordania e di Gaza avevano preso l’ispirazione dalle proteste di massa negli altri stati della regione, per dar voce alle loro richieste di lunga data per cambiare la Nakba, il 15 maggio, e la Naksa, il 5 giugno, ma ogni volta l’esercito israeliano è intervenuto con un uso eccessivo della forza che ha causato morti e feriti. In Oman, i manifestanti hanno chiesto riforme politiche e protestato contro la disoccupazione e la corruzione. Alcune persone sono state uccise dalla polizia. Il 27 febbraio, il leader dell’Oman, il sultano Qaboos bin Said, ha annunciato la creazione di circa 50.000 nuovi posti di lavoro e importanti sussidi per i disoccupati, inoltre ha ordinato il rilascio di 26 manifestanti arrestati alcuni giorni prima. Successivamente, ha sfiduciato vari ministri del governo e ha annunciato che alcuni poteri legislativi saranno conferiti al Consiglio consultivo della Shura, parzialmente eletto. Tuttavia, le proteste sono proseguite tra le richieste di destituzione di altri funzionari e quelle di avvio di processi per coloro che erano stati dimessi. Il 29 marzo, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione e distrutto il presidio dei manifestanti presso la rotatoria Globe, inoltre hanno effettuato decine di arresti, che sono proseguiti nei giorni successivi. Il 20 aprile, il sultano Qaboos ha concesso l’indulto a 234 persone accusate di “riunione in strada” e ha affermato che chi era accusato di incendio doloso e altri reati sarebbe stato processato. Decine di persone sono state condannate a pene detentive per reati quali “oltraggio a pubblico ufficiale”. Ad ottobre, due attivisti, e una donna si sono candidati con successo alle elezioni per il Consiglio consultivo della Shura composto da 84 membri ma, nello stesso mese, la legge sulla stampa e le pubblicazioni è stata emendata per vietare la pubblicazione di qualsiasi notizia ritenuta dal governo un rischio per la sicurezza dello stato, nonché per la sua difesa interna o esterna. In Arabia Saudita, il governo ha risposto alle proteste organizzate all’inizio del 2011 annunciando dei sussidi ai cittadini che, secondo quanto riferito, ammontano a circa 127 miliardi di dollari americani. Nonostante ciò, sono proseguite sporadiche proteste da parte della comunità sciita, che costituisce circa il 10 per

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Š AP Photo/Abdeljalil Bounhar


Manifestanti antigovernativi si radunano a Casablanca, Marocco, 3 aprile 2011. Espongono striscioni che denunciano la corruzione e chiedono maggiori diritti civili e una nuova costituzione.


cento della popolazione, presente anche nella provincia orientale ricca di petrolio, proprio dall’altra parte del mare rispetto ai tumulti del Bahrein. Chiedevano il rilascio dei prigionieri politici e protestavano contro il principio discriminatorio che li esclude dagli alti incarichi di governo e dai sussidi di cui beneficiano gli altri cittadini. Più di 300 persone sono state arrestate sia durante le manifestazioni che poco dopo. La maggior parte è stata liberata, spesso dopo aver giurato di non protestare ancora, e a molti è stato vietato di viaggiare. Il 5 marzo, il ministro dell’Interno ha reiterato il divieto di qualsiasi manifestazione e ha affermato che le forze di sicurezza avrebbero preso “tutte le misure necessarie” contro coloro che tentavano di “turbare l’ordine” per chiedere riforme, mentre l’impeto stava crescendo di intensità per una “gionata della rabbia”, organizzata nella capitale Riyad l’11 marzo. Un’ampia mobilitazione delle forze di sicurezza, unita alle minacce, ha impedito la “giornata della rabbia”, che era già stata organizzata; l’unico uomo che ha osato presentarsi è stato arrestato ed è ancora detenuto. Da allora, sono proseguite le abituali forme di repressione per far fronte al dissenso. A fine giugno, Amnesty International è venuta a conoscenza di una proposta di legge antiterrorismo. Qualora fosse approvata, conferirebbe al ministero degli Interni poteri ancora più ampi e mandati di arresto per chiunque critichi il re o esprima dissenso politico, atti che costituirebbero “reati di terrorismo”. Permetterebbe di detenere i prigionieri senza accesso al mondo esterno e senza capi d’accusa né processo per un tempo indefinito. Inoltre garantirebbe al ministero dell’Interno il potere di effettuare intercettazioni telefoniche e perquisire le abitazioni senza l’autorizzazione della magistratura. A settembre, in chiara risposta alla voglia di cambiamento, il re ha annunciato che dal 2015 alle donne sarà concesso di votare e di candidarsi alle elezioni municipali, le uniche votazioni pubbliche del paese, un piccolo ma gradito passo per affrontare le gravi discriminazioni subite dalle donne in Arabia Saudita. A novembre, 16 uomini, tra cui nove importanti riformisti, sono stati condannati dai cinque ai 30 anni di carcere dal tribunale penale speciale, in seguito a un processo gravemente iniquo. Sono stati condannati con accuse che includevano la costituzione di un’organizzazione segreta, tentativo di prendere il potere, incitamento contro il re, finanziamento del terrorismo e riciclaggio di denaro. Negli Emirati Arabi Uniti, non si sono verificate proteste di piazza, tuttavia il governo ha preso seri provvedimenti contro il dissenso, arrestando cinque attivisti della società civile e prendendo il controllo di quattro Ong. A giugno, i cinque attivisti sono stati sottoposti a processo per accuse legate a motivi di sicurezza; il procedimento è stato gravemente iniquo e si ritiene che siano prigionieri di coscienza. Il 27 novembre, sono stati condannati dai due ai tre anni di carcere, ma sono stati rilasciati il giorno seguente grazie a un indulto presidenziale.

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LA RISPOSTA INTERNAZIONALE “Adesso tutti si sono resi conto in modo molto chiaro dei doppi standard. Vedono Gheddafi che colpisce il popolo e gli Usa restituiscono il colpo. Ma qui portano eserciti stranieri che non credono nella democrazia…” Nabeel Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein2

L’INCAPACITÀ DI METTERE I DIRITTI UMANI AL PRIMO POSTO Quando milioni di persone in Medio Oriente e in Africa del Nord hanno mostrato il loro desiderio di ottenere libertà e quei diritti garantiti in altre parti del mondo, le potenze hanno fatto acrobazie a livello politico o semplicemente hanno continuato a ignorare le violazioni dei diritti umani nella regione, cercando di proteggere i loro interessi politici ed economici. Di fronte alle inarrestabili rivolte, alcuni di loro hanno abbandonato dittatori che prima erano loro alleati. Altri hanno aiutato in silenzio i loro amici a mantenere il potere. Alcuni hanno offerto aiuti militari alle forze di opposizione. Altri ancora hanno ignorato la condizione dei movimenti di opposizione mentre i manifestanti venivano massacrati per strada. Nessuno ha agito in modo tempestivo, efficace e coerente per proteggere i diritti umani e gli interessi delle popolazioni senza diritti della regione. Il governo francese, nonostante il suo legame storico con la Tunisia, inizialmente non si è espresso quando i tunisini hanno ripetutamente sfidato la violenza della polizia per ottenere dei cambiamenti. Le autorità statunitensi sono rimaste in silenzio quando gli egiziani hanno subito la violenza delle onnipresenti forze di sicurezza del presidente Hosni Mubarak, finché il rifiuto di dimissioni del loro alleato non ha rischiato di provocare una rivoluzione sociale ancora più profonda e di rappresentare una minaccia ancora più grande allo status quo della regione. L’amministrazione Obama ha quindi preso le distanze dal regime che aveva sostenuto annualmente con forniture militari e altri aiuti dal valore di circa 1,5 miliardi di dollari, ha elogiato la lotta per le riforme e appoggiato la presa di potere da parte dell’esercito, in attesa di nuove elezioni. Quando la rabbia per l’iniziale riluttanza dei governi occidentali nel sostenere i movimenti di protesta è aumentata, le autorità statunitensi hanno elogiato i progressi del Bahrein verso la democrazia. Tuttavia, questo e altri governi occidentali, molti dei quali sono i principali fornitori di armi degli stati del Golfo, sono rimasti in silenzio quando la più grande potenza di quest’area, l’Arabia Saudita,

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ha represso il dissenso interno e ha contribuito a porre fine al movimento prodemocratico del Bahrein. Il Bahrein è la sede della quinta flotta della marina statunitense, la sua base nel Golfo attraverso cui passa un quinto delle forniture di petrolio del mondo. Molte persone nella regione si sono infuriate anche quando il governo Usa, avendo sostenuto l’azione di protezione dei diritti del popolo libico, ha posto il veto sulla richiesta dei palestinesi di entrare a far parte dell’Onu in qualità di stato membro. I membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu non hanno mostrato una coerenza maggiore nei confronti dei diritti umani e dei movimenti di protesta. Per mesi, il Consiglio di sicurezza ha fatto ben poco contro gli incessanti massacri dei manifestanti, in gran parte pacifici, della Siria, e non ha fatto nulla dopo i severi provvedimenti presi in Bahrein. Infine, ad agosto ha semplicemente adottato una dichiarazione non vincolante, in cui condannava le violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità siriane. Il 4 ottobre, la Cina e la Federazione Russa hanno posto il veto sulla bozza della mozione contro la Siria in cui si condannavano le violenze contro i civili e si prevedevano sanzioni qualora la situazione fosse rimasta invariata. Al fine di bloccare l’azione determinata del Consiglio di sicurezza in Siria, a questi paesi si sono uniti Brasile, India e Sudafrica che ad agosto, in un’azione congiunta, hanno inviato una delegazione di alto livello in Siria per verificare e arginare la violenta repressione del governo. Al contrario, il Consiglio di sicurezza ha impiegato appena alcune settimane per riferire sulla situazione in Libia alla Corte penale internazionale e quindi autorizzare gli attacchi aerei nel paese. L’intervento è stato giustificato in nome della “protezione dei civili” ma ben presto si è rivelata un’azione militare per aiutare l’opposizione a rovesciare il colonnello Gheddafi, infliggendo così un grave danno al concetto di “protezione della popolazione civile”, come base per la tutela dei diritti umani. A fine ottobre, il Consiglio di sicurezza ha tardivamente condannato le gravi violazioni dei diritti umani nello Yemen e ha lanciato un appello per l’attuazione dell’iniziativa del Ccg (si veda sopra) che sembrava offrire l’immunità al presidente Saleh e alla sua cerchia ristretta, per qualsiasi possibilità di indagini o di processo per gravi violazioni dei diritti umani. Un delegato dell’Onu ha facilitato l’accordo finale, agendo chiaramente in contrasto con la direttiva del Segretario generale dell’Onu che vieta di mediare accordi di pace che contengono tali clausole di immunità. Il 2011 ha inoltre messo in risalto la natura politicizzata delle risposte da parte degli stati membri delle organizzazioni intergovernative e regionali di fronte alle insurrezioni popolari e alle crisi dei diritti umani. Gli organismi competenti dell’Onu e dell’Ue non hanno nemmeno discusso apertamente l’imposizione di sanzioni su Bahrein, Arabia Saudita o Yemen, mentre le hanno prontamente imposte sulla Libia e l’Ue alla fine parzialmente sulla Siria. La Lega degli stati arabi si è rapidamente schierata con il Consiglio di sicurezza dell’Onu in merito alla Libia e ha dato il suo

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contributo per ottenere consensi sulla no-fly zone. Tuttavia, quando le operazioni militari hanno avuto inizio, sembrava essersene pentita, con alcuni membri che protestavano per il fatto che la Nato era andata oltre il mandato affidatogli dal Consiglio di sicurezza. Al contrario, quando i siriani venivano falcidiati per le strade, la Lega non è intervenuta per mesi e, solo ad agosto, dopo che almeno 1800 manifestanti erano stati uccisi, ha rivolto un appello alle autorità siriane affinché “cessassero gli atti di violenza contro i civili”. Ha aumentato la pressione quando il governo di al-Assad è venuto meno alla promessa fatta alla Lega di ritirare le truppe dalle città siriane e, il 12 novembre, ha sospeso la Siria (si veda sopra). L’Unione africana (Ua), guidata dalla dichiarazione di Lomé, in un primo momento non ha riconosciuto le nuove autorità di Tunisia ed Egitto, sostenendo che i governi costretti alle dimissioni erano ancora quelli legittimi. In seguito si è ricreduta, visto il susseguirsi degli eventi in Tunisia, Egitto e più tardi in Libia ed è stata molto criticata per la sua posizione. L’Ua ha cercato di negoziare il passaggio dei poteri in

Si può solo sperare che l’anno di rivolte segni la fine di politiche che determinano una “stabilità” illusoria e l’incessante precedenza data alle forniture di petrolio rispetto ai diritti umani di mezzo miliardo di persone.

Libia ma dopo il suo fallimento e la caduta di Tripoli nelle mani dell’opposizione ad agosto, ha riconosciuto il Cnt come legittima autorità del paese. L’Ue, uno dei vicini più prossimi alla regione e interlocutore internazionale chiave, ha inizialmente risposto alle ribellioni e alla repressione con lentezza e in modo inadeguato, vista la portata degli eventi. La reazione iniziale è stata quella di limitarsi rendere accettabili le dichiarazioni che facevano appello alla moderazione da parte di tutti e ai negoziati. L’Ue ha mantenuto le sue relazioni di vecchia data con gli stati repressivi della regione e ha optato per un approccio diplomatico piuttosto che condannare apertamente le violazioni dei diritti umani. Questa è stata la conseguenza delle precedenti prese di posizione che giustificavano il suo ampio sostegno politico e finanziario ai governi repressivi del Medio Oriente e del Africa del Nord, in base al vago concetto di “stabilità per la sicurezza” e con lo scopo di “controllare” il fenomeno migratorio verso l’Europa, subordinando i diritti umani a questi interessi nonché a interessi commerciali ed energetici. L’atteggiamento dell’Ue è cominciato a cambiare in seguito alla diffusione delle proteste in Libia e in Siria. Un documento programmatico pubblicato a maggio ha definito i rapporti dell’Ue con i vicini stati della regione con maggiore attenzione alle riforme per i diritti umani, promettendo un approccio “più riforme, più denaro”, cioè offrendo un maggior sostegno finanziario a quei paesi che introducono riforme per la democrazia e per i diritti umani e penalizzando coloro che non raggiungono questi obiettivi. Sebbene ciò abbia rappresentato un gradito passo in avanti, in pratica a fine 2011, sembrava che l’Ue esitasse a tradurre questi propositi in realtà. Per quanto riguarda la Siria, a ottobre le sanzioni esistenti sono state rafforzate e l’Ue ha preso posizione a livello internazionale ma senza riuscire a estendere la sua influenza. Al contrario, non vi è stato un ripensamento simile sulle relazioni dell’Ue con i paesi del Golfo, come è emerso dalla sua risposta alle proteste del Bahrein, dell’Arabia Saudita e dello Yemen. In particolare, in Bahrein ha inizialmente deciso di

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condonare le gravi violazioni dei diritti umani e in seguito non si è avuto altro che un timido miglioramento dei suoi interventi orali e di alcuni monitoraggi sui processi locali. Il Bahrein e l’Arabia Saudita sono stati chiari esempi della politica dei doppi standard attuata dall’Ue e hanno dimostrato che continua una politica che subordina le considerazioni sui diritti umani al conseguimento degli altri interessi. L’intervento più significativo del Ccg è stato un accordo mediato dall’Arabia Saudita tra l’opposizione e il governo dello Yemen, conclusosi a novembre con la sua firma (si veda sopra). Il governo saudita ha anche sostenuto le monarchie della Giordania e del Marocco, che hanno dovuto affrontare proteste popolari, in particolare offrendo loro di far parte del Ccg e quindi sostegno militare. Ha inoltre garantito un rifugio e l’immunità dal procedimento giudiziario al presidente tunisino rimosso Ben Ali. Lo stesso governo saudita, che ha messo a tacere i suoi dissidenti ed è intervenuto per porre fine al movimento di protesta del Bahrein, ha ritenuto opportuno esortare le autorità siriane a cessare lo spargimento di sangue e ha richiamato i suoi ambasciatori da Damasco. Allo stesso modo, il governo iraniano, che ha continuato a usare una forza inaudita per reprimere l’ opposizione interna, ha lanciato un appello al presidente alleato al-Assad, affinché ponesse fine al suo accanimento sui manifestanti. Il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha varato una serie di misure per far fronte alle varie situazioni presenti nella regione, sebbene queste abbiano avuto un effetto diverso. Il 25 febbraio, ha tenuto una sessione speciale sulla Libia nella quale ha istituito una Commissione d’inchiesta per indagare su tutte le presunte violazioni della legislazione internazionale sui diritti umani in Libia. Ha proposto che l’Assemblea generale sospendesse i diritti di appartenenza al Consiglio per i diritti umani della Libia, cosa che in poco tempo è diventata effettiva. Il Consiglio per i diritti umani ha anche tenuto tre sessioni speciali sulla Siria, il 29 aprile, il 22 agosto e il 2 dicembre. Nella sessione del 29 aprile, ha stabilito una missione di accertamento dei fatti per indagare su tutte le presunte violazioni della legislazione internazionale sui diritti umani in Siria. Nella sessione del 22 agosto, ha stabilito una Commissione d’inchiesta per indagare su tutte le presunte violazioni della legislazione internazionale sui diritti umani a partire da marzo 2011, per stabilire i fatti e le circostanze che possono corrispondere a tali violazioni e i reati commessi e, laddove possibile, identificare i responsabili in modo da assicurarsi che coloro che hanno commesso delle violazioni, incluse quelle che costituiscono crimini contro l’umanità, rendano conto delle loro azioni. Durante la sessione di settembre, il Consiglio ha tenuto un dibattito sulla situazione nello Yemen. Con grande rammarico, tuttavia, non ha fatto niente per far fronte alla situazione dei diritti umani in Bahrein nel 2011. L’Assemblea generale dell’Onu, con un’azione che ha messo ancora più nettamente in risalto l’incapacità del Consiglio di sicurezza di intervenire in Siria, ha condannato con forza le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dalle autorità siriane attraverso la sua Commissione per i diritti umani. La mozione,

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adottata il 22 novembre dalla terza Commissione dell’Assemblea, ha anche richiamato le autorità siriane a mettere pienamente in atto e senza ritardi il piano d’azione della Lega araba e a rispettare le decisioni della Commissione d’inchiesta del Consiglio per i diritti umani. Tale mozione non ha la stessa autorità di quelle emesse dal Consiglio di sicurezza, tuttavia ha ulteriormente isolato coloro che erano ritenuti i principali responsabili della repressione in Siria, mentre le potenze all’interno del Consiglio di sicurezza li proteggevano. L’Alto commissariato per i diritti umani ha inviato missioni in Tunisia, Egitto e Yemen e ha sostenuto la missione di accertamento dei fatti e la Commissione d’inchiesta istituita dal Consiglio per i diritti umani per Libia e Siria. Ha anche aperto un ufficio in Tunisia, il primo in Africa del Nord. Poiché la richiesta di diritti umani è riecheggiata in tutta la regione, la distanza tra le parole e le azioni delle potenze nazionali e delle istituzioni è stata evidente e criticata. Si può solo sperare che l’anno di rivolte segni la fine di politiche che determinano una “stabilità” illusoria e l’incessante precedenza data alle forniture di petrolio rispetto ai diritti umani di mezzo miliardo di persone.

PROTEZIONE DELLE PERSONE SFOLLATE “La vita al campo di Choucha è dura. Situato nel deserto tunisino, non lontano dal confine con la Libia, il torrido sole di mezzogiorno batte a picco sulle interminate file di piccole tende, dove migliaia di rifugiati si riparano dal caldo, dai turbini di sabbia e dagli scorpioni.” Charlotte Phillips, ricercatore di Amnesty International, testimonianza scritta nel campo di Choucha il 20 giugno 2011

I tumulti in Medio Oriente e in Africa del Nord hanno provocato spostamenti di massa, con migliaia di persone in fuga dalle loro abitazioni per salvarsi da violenza, povertà, persecuzioni e repressioni. Migliaia di rifugiati, richiedenti asilo e migranti si sono imbarcati o hanno tentato di partire su imbarcazioni dirette verso l’Europa in cerca di salvezza e di un futuro sicuro; molti hanno perso la vita in mare. In seguito alle rivolte in Tunisia, migliaia di persone si sono imbarcate verso Lampedusa. Spinta dalle diffuse testimonianze dello sviluppo di una crisi umanitaria, una delegazione di Amnesty International si è recata presso l’isola e il “villaggio della solidarietà” vicino a Mineo, in provincia di Catania, tra il 29

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Il nuovo campo profughi di Choucha, vicino alla cittĂ tunisina di Ras Adjir, al confine con la Libia, 6 marzo 2011.

Š UNHCR/A. Branthwaite



marzo e il 2 aprile. Ha documentato le condizioni di vita estremamente difficili dei migranti e ha trovato circa 4000 persone che dormivano ovunque, senza docce, servizi igienici o un riparo, la maggior parte dei quali erano giovani uomini tunisini. A seguito dell’intensificarsi della violenza in Libia, centinaia di migliaia di rifugiati, richiedenti asilo e migranti sono fuggiti dal conflitto. All’inizio del 2011 in Libia vivevano tra 1,5 e 2,5 milioni di cittadini stranieri, di cui circa 11.000 erano rifugiati e richiedenti asilo. Durante il conflitto, molti cittadini stranieri, in particolare provenienti da paesi dell’Africa Subsahariana, sono stati attaccati, derubati e falsamente accusati di essere mercenari fedeli al colonnello Gheddafi. Molti di coloro che sono fuggiti dalla Libia hanno trovato salvezza nei paesi vicini, principalmente in Egitto e Tunisia. Tuttavia, circa 5000 rifugiati e richiedenti asilo provenienti da paesi dell’Africa Subsahariana rimangono abbandonati nei campi profughi nel deserto della Tunisia e in tende di fortuna costruite presso Saloum, un remoto posto di frontiera dell’Egitto. Quando a giugno e a luglio Amnesty International ha visitato i campi profughi, prevalevano l’indigenza e la mancanza di sicurezza, che rendevano estremamente difficile la vita degli abitanti della zona. A differenza di migliaia di migranti che sono stati rimpatriati durante le fasi iniziali del conflitto, queste persone non possono tornare in patria poiché in tal caso rischierebbero la persecuzione. Tuttavia non possono nemmeno rimanere in Egitto e in Tunisia, che non vogliono offrire soluzioni a lungo termine per i rifugiati. Né può essere un’opzione il ritorno in Libia, nonostante la caduta del regime di Gheddafi, poiché attualmente il paese non può offrire protezione ai rifugiati. L’unica soluzione è che altri paesi, in cui i rifugiati sarebbero al sicuro, offrano loro il reinsediamento. Il numero di persone che saranno reinsediate e il tempo che verrà impiegato per questo dipendono da quando e come la comunità internazionale rispetterà le proprie responsabilità nei loro confronti. Fino a ora, la risposta della comunità internazionale è stata molto deludente, con i paesi europei che hanno offerto in tutto meno di 800 posti per il reinsediamento in risposta alla crisi dei rifugiati che stanno bussando alle porte dell’Europa. Molti di coloro che sono fuggiti dalla Libia hanno tentato la pericolosa traversata in mare verso l’Europa, spesso su imbarcazioni sovraffollate e scarsamente sicure. Tra questi c’erano persone che inizialmente erano fuggite dalla Libia verso la Tunisia, ma poi sono tornate indietro scoraggiate per la mancanza di soluzioni durature per i rifugiati dei campi profughi. Si stima che almeno 1500 tra uomini, donne e bambini siano annegati tentando la traversata. Probabilmente però la cifra reale è molto più elevata. I governi e le istituzioni non

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sono stati capaci di mettere in atto meccanismi efficaci per prevenire tali morti in mare, inclusa l’intensificazione delle operazioni di ricerca e salvataggio e l’assicurazione che queste ultime fossero svolte nel pieno rispetto dei diritti umani e del diritto dei rifugiati. In Siria, con l’intensificarsi della repressione del governo, migliaia di persone sono fuggite dal paese, principalmente per cercare rifugio in Libano, Turchia e Giordania. A maggio e a giugno i ricercatori di Amnesty International hanno intervistato alcuni di loro e hanno scoperto omicidi e altre gravi violazioni dei diritti umani commessi dalle forze di sicurezza siriane all’interno e nelle vicinanze di Tell Kalakh, città vicina al confine con il Libano, inclusi ordini ai soldati di sparare sui civili. Le circa 3000 persone fuggite in Libano si trovavano ancora in pericolo a causa delle attività condotte nel paese dal Mukhabarat siriano (l’intelligence militare) e dai suoi alleati libanesi. Secondo il capo delle forze di sicurezza interne del Libano, alcuni oppositori del governo siriano sono stati rapiti. Ben 20.000 siriani sono fuggiti in Turchia, principalmente dal governatorato di Idleb, e circa la metà si è ritrovata nei campi allestiti dalla Mezzaluna rossa turca, dove le autorità turche hanno vietato l’ingresso ad Amnesty International e alla maggior parte delle altre organizzazioni per i diritti umani e ai mezzi di informazione indipendenti. Sebbene la autorità turche fossero sempre più critiche nei confronti dell’implacabile repressione del governo siriano, avrebbero rimpatriato con la forza alcuni siriani. È stato anche riferito che almeno 1000 siriani sono fuggiti in Giordania.

TRASFERIMENTI DI ARMI “È profondamente ipocrita da parte della nostra leadership nel Regno Unito… parlare di sostegno alla pace in Medio Oriente e altrove, mentre allo stesso tempo si addestrano le truppe speciali dei regimi totalitari.” Jonathan Edwards, membro del parlamento inglese, interviene in seguito alla notizia di maggio secondo cui la Gran Bretagna sta ancora addestrando la Guardia nazionale saudita3

La repressione in risposta alle proteste ha chiaramente mostrato l’ampia gamma di armi, munizioni, armamenti e relativo equipaggiamento, utilizzate per facilitare o commettere gravi violazioni dei diritti umani in Medio Oriente e in Africa del Nord. Ha inoltre messo in evidenza come gli stati esterni alla regione abbiano riconosciuto solo in ritardo la necessità di impedire forniture di armi che

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Gente in fuga per evitare i gas lacrimogeni lanciati dalle forze di sicurezza contro manifestanti pacifici a piazza Tahrir, Cairo, Egitto, 29 giugno 2011.

Š AP Photo/Nasser Nasser



avrebbero potuto essere usate per tale repressione. Tutti i governi che hanno dovuto affrontare i tumulti più forti hanno risposto con un uso eccessivo della forza, dispiegando una serie di armi, munizioni e altri equipaggiamenti contro i manifestanti in gran parte pacifici. In Bahrein, Egitto e Yemen, i reparti antisommossa e le forze di sicurezza

Amnesty International ha lanciato un appello per la sospensione dei trasferimenti internazionali di armi per i reparti antisommossa e le forze di sicurezza internazionali in Bahrein, Egitto e Yemen e per l’immediata imposizione di un embargo generale sulle armi a Libia e Siria.

interne hanno fatto uso di armi da fuoco, tra cui fucili; hanno sparato munizioni vere e proiettili di gomma e hanno impiegato gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e mezzi blindati per reprimere e disperdere i manifestanti. In Libia, quando il paese è entrato nel conflitto armato, le forze del colonnello Gheddafi hanno lanciato razzi grad e mortai e hanno fatto fuoco con l’artiglieria su aree residenziali densamente popolate dai civili. In Siria, le forze governative hanno utilizzato armi pesanti, artiglieria e carri armati per sparare su aree civili, nel tentativo di reprimere proteste pacifiche. Il ricorso all’uso eccessivo della forza contro i manifestanti non è una novità: da decenni Amnesty International denuncia tali abusi nella regione. Tuttavia, la portata delle proteste e la violenta risposta a esse nel 2011 hanno irrefutabilmente dimostrato come le armi fornite siano state impiegate per reprimere il legittimo esercizio dei diritti umani da parte della popolazione. Gran parte delle armi è stata venduta e fornita da paesi europei (inclusa la Federazione Russa) e dagli Usa e molti di questi materiali non avrebbero mai dovuto ricevere l’autorizzazione, vista la prova evidente del rischio effettivo che i governi del Medio Oriente e del Africa del Nord avrebbero usato armi convenzionali per facilitare o commettere gravi violazioni dei diritti umani contro la popolazione, specialmente se osava criticare le autorità o chiedere riforme politiche. È difficile accertare la misura in cui gli stati fornitori di armi effettuano rigorose valutazioni di rischio prima di autorizzare i trasferimenti verso la regione, poiché le informazioni pubblicate dai governi su tali operazioni sono insufficienti. È evidente che gli interessi politici ed economici hanno avuto spesso la priorità rispetto alle considerazioni sui diritti umani, nel momento in cui si sono dovute prendere delle decisioni. Alcuni stati fornitori sono legalmente obbligati a effettuare valutazioni di rischio. Dal 2008, ad esempio, tutti gli stati membri dell’Ue “rifiutano licenze di esportazione qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna”.4 Il diritto statunitense stabilisce che le licenze di esportazione per il trasferimento di armi “saranno generalmente considerate in modo favorevole analizzando ogni singolo caso a meno che…non ci siano prove che il governo del paese importatore possa aver violato i diritti umani internazionalmente riconosciuti”.5 Tuttavia, nel diritto statunitense non vi sono regole per cui le licenze di esportazione dovrebbero essere negate qualora vi sia il rischio che le armi possano essere

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usate per commettere violazioni dei diritti umani. Nel corso del 2011, Amnesty International ha lanciato un appello per la sospensione dei trasferimenti internazionali di armi per i reparti antisommossa e le forze di sicurezza internazionali in Bahrein, Egitto e Yemen e per l’immediata imposizione di un embargo generale sulle armi a Libia e Siria. L’organizzazione ha inoltre sollecitato tutti gli stati che forniscono armi a questi paesi di effettuare una revisione immediata e completa di ogni singolo caso sui loro trasferimenti e scambi, con lo scopo di assicurare che non verranno fornite altre armi, munizioni o altre attrezzature o supporto tecnico, nei casi in cui vi sia il rischio concreto che siano usati per commettere gravi violazioni dei diritti umani. Alcuni paesi hanno adottato delle misure per sospendere i trasferimenti di armi in Bahrein, Egitto e altri stati. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, seguito dall’Ue, ha imposto un embargo sulle armi alla Libia, mentre l’Ue l’ha imposto anche alla Siria. Tale azione, sebbene tardiva, è stata ben accolta da Amnesty International. Tuttavia, la presunta fonte principale di armi della Siria, la Federazione Russa, ha dichiarato non prima di novembre che non avrebbe imposto alcun embargo sulle armi. Ben poco è stato fatto per fermare le forniture di armi allo Yemen, nonostante mesi di ripetute violazioni dei diritti umani. I controlli esistenti sulle esportazioni di armi non sono riusciti a impedirne il trasferimento negli anni scorsi, nonostante le prove del rischio concreto che si sarebbero potute usare per commettere o facilitare gravi violazioni. Alla fine del 2011, alcuni stati fornitori di armi hanno voluto riprendere gli “affari di sempre” nella regione, nonostante la mancanza di prove di un evidente processo di cambiamento, di riforme reali all’apparato della sicurezza e di una fine dell’impunità. Visto il susseguirsi dei tumulti e delle repressioni in buona parte della regione, i governi che hanno provveduto o dato l’autorizzazione alla vendita o al trasferimento di armi usate per sparare e disperdere in modo violento i manifestanti devono riflettere sui criteri e i metodi impiegati nelle loro decisioni sui trasferimenti. Qualora queste decisioni aiutino o supportino in modo consapevole un altro stato a commettere un reato in base al diritto internazionale, allora anche lo stato che effettua il trasferimento è responsabile, e colpevole, in base a esso.6

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AMNESTY INTERNATIONAL IN AZIONE Non appena la portata delle agitazioni che stavano attraversando il Medio Oriente e l’Afica del Nord è divenuta evidente, Amnesty International ha attivato la sua “modalità di risposta alla crisi”. Ha per cui messo in campo ulteriori risorse per potenziare il monitoraggio degli sviluppi sul fronte dei diritti umani nella regione e le campagne sull’area.

IN PRIMA LINEA Delegazioni di ricercatori e altri esperti di Amnesty International hanno visitato durante l’anno il Medio Oriente e l’Africa del Nord, mettendo a volte a rischio le loro stesse vite. Tali visite hanno avuto come destinazione la Tunisia a gennaio, febbraio-marzo, aprile, maggio, giugno, giugno-luglio, agostosettembre e novembre-dicembre, il Bahrain a febbraio, aprile, settembre e novembre-dicembre, la Libia a febbraio-maggio e agosto-settembre e l’Iraq a marzo. Dal momento che era stato vietato l’ingresso in Siria a organizzazioni per i diritti umani e di altro genere, i delegati di Amnesty International si sono recati in Libano ad aprile e maggio e in Turchia a giugno, per parlare con persone che erano da poco fuggite dal paese. Un team si è anche recato sull’isola di Lampedusa per incontrare le persone che vi erano sbarcate dopo un pericolosissimo viaggio in mare dalla Libia. Le autorità yemenite hanno negato accesso al paese ad Amnesty International, ma l’organizzazione è riuscita a monitorare gli sviluppi attraverso i legami di lunga data con individui e organizzazioni interne, con la stessa modalità con cui ha continuato a monitorare e a redigere relazioni sugli sviluppi dei diritti umani tanto in Iran che in Arabia Saudita, nonostante le sia negato l’accesso a entrambi i paesi da molti anni. I delegati di Amnesty International si sono anche recati in Algeria a febbraio-marzo, in Israele e nei Territori palestinesi occupati a maggio e a novembre e negli Emirati Arabi a giugno e a settembre. Questi team hanno assistito ad alcuni dei recenti accadimenti, così storici e tumultuosi. Hanno visitato ospedali e obitori, ispezionato registri di prigioni e di

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ospedali e intervistato un gran numero di vittime di violazioni e testimoni oculari, funzionari di governo, rappresentanti di Ong locali, operatori sanitari, avvocati, attivisti politici e per i diritti umani e molti altri. Questo tipo di ricerca, insieme ad altre indagini, ha aiutato Amnesty International a stabilire la veradicità di molte delle rivendicazioni e contro-rivendicazioni sulle violazioni dei diritti umani e a rendere pubblici con una cadenza praticamente giornaliera alcuni degli sviluppi chiave nella regione in materia di diritti umani. La ricerca ha anche sostenuto la nostra campagna globale, il nostro impegno e il nostro lavoro mediatico, volti non solo a documentare le violazioni ma anche a supportare le richieste avanzate dai popoli della regione per un cambiamento sul fronte dei diritti umani. La presenza di Amnesty International in prima linea ha contribuito a tenere alta l’attenzione sulle tematiche dei diritti umani in un contesto in rapido cambiamento. Ad esempio, i ricercatori che hanno operato nella città assediata di Misratah in Libia hanno contribuito a raccontare al mondo cosa stava accadendo lì e che impatto stesse avendo sulla popolazione locale. A giugno, inoltre, una delegazione di Amnesty International, guidata dal Segretario generale dell’organizzazione Salil Shetty, ha trascorso una settimana in Egitto, incontrando le autorità militari al potere e facendo pressione su di loro affinché abolissero le leggi repressive e ponessero fine ai loro continui abusi.

CAMPAGNA GLOBALE Sono stati pubblicati rapporti su molti dei paesi più colpiti dalle rivolte. A maggio è stato pubblicato un testo che documenta gli sviluppi in Medio Oriente e Africa del Nord, da gennaio a metà aprile, inserito nel Rapporto annuale di Amnesty International sullo stato dei diritti umani nel mondo. Ad agosto, invece, è stato pubblicato un supplemento speciale del Wire, la newsletter internazionale dell’organizzazione, con una panoramica sui nostri 50 anni di lavoro in Medio Oriente e Africa del Nord. Nel corso dell’anno, sono state lanciate Azioni Urgenti ogni settimana a tutela di persone esposte a un grave rischio, sia perché affrontavano un processo palesemente iniquo sia perché rischiavano un’esecuzione o torture o perché erano scomparse. In totale, più di 100 azioni sono state mandate alla rete di 165.000 soci in tutto il mondo, determinando l’invio di migliaia di lettere individuali e una serie di risultati positivi, come il rilascio di almeno 16 persone che erano state arrestate. Sul sito di Amnesty International, www.amnesty.org, sono state resi

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disponibili quasi quotidianamente comunicati stampa e notizie con eventi chiave, contributi speciali, blog e video, tutte tradotte, adattate e promosse attraverso i mezzi di comunicazione nazionali di Amnesty International e le reti online di tutto il mondo. Da gennaio 2011 in poi, i soci e i sostenitori di Amnesty International hanno

Già agli inizi dell’anno Amnesty International ha cominciato a preparare una “Giornata di azione globale”.

partecipato ad azioni locali, coordinate a livello globale, in solidarietà con le popolazioni del Medio Oriente e dell’Africa del Nord. Sono stati inviati più di 120 aggiornamenti individuali giornalieri e settimanali sugli accadimenti della regione a più di 150 team e volontari in tutto il mondo, per garantire che questo movimento di più di tre milioni di persone si potesse mobilitare e collaborare in maniera efficace in risposta agli eventi in rapido cambiamento e potesse sostenere la richiesta di riforme in materia di diritti umani. In alcune delle sedi nazionali più grandi di Amnesty International, team di persone hanno collaborato in questa direzione. Persino le sedi più piccole, tuttavia, si sono adoperate in base ai loro mezzi. Attivisti di tutto il mondo hanno partecipato a proteste pubbliche, firmato petizioni, scritto lettere, inviato email, portato striscioni, partecipato a flash mob, innalzato cartelli, fatto pressione su governi, partecipato a eventi, pubblicato informazioni su Facebook e sensibilizzato persone su Twitter. Già agli inizi dell’anno Amnesty International ha cominciato a preparare una “Giornata di azione globale”, durante la quale migliaia di persone si sarebbero radunate mostrando solidarietà alle popolazioni della Tunisia e dell’Egitto e sfidando i governi che continuavano a reprimere le proteste. Tale giornata si è tenuta il 12 febbraio con lo slogan “In solidarity. In defiance”. Era il giorno dopo la caduta del presidente Mubarak in Egitto, quando migliaia di persone in tutto il mondo festeggiavano pubblicamente la vittoria dei coraggiosi popoli dell'Egitto e della Tunisia. Sono state organizzate manifestazioni in luoghi rappresentativi di 17 città del mondo. Attivisti, sindacalisti, studenti e sostenitori di Amnesty International hanno creato un mare rosso, nero e bianco, i colori della bandiera egiziana. Questi eventi hanno attratto l’attenzione degli organi d’informazione nazionali e internazionali e hanno chiaramente mostrato il potere e l’efficacia di Amnesty International quale movimento globale per sostenere i diritti umani nell’area. Poco dopo i festeggiamenti, era chiaro che la condizione dei diritti umani in Egitto fosse ancora molto precaria. In risposta a questo, Amnesty International ha lanciato Azioni Urgenti e varie attività in difesa dei diritti umani per un cambiamento in Egitto e Tunisia, che i nostri sostenitori hanno promosso in questi paesi e su scala internazionale. Prima dell’elezione dell’Assemblea costituente nazionale in Tunisia del 23 ottobre, Amnesty International ha pubblicato un manifesto per i diritti umani in

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10 punti. Chiedeva ai candidati di impegnarsi a portare avanti riforme chiave sui diritti umani, incluso uno stretto controllo delle forze di sicurezza, la riforma del sistema di giustizia, la lotta alla discriminazione e l’abolizione della pena di morte. Amnesty International, guidata in primis dalle sue sedi in Tunisia, ha portato avanti una campagna per chiedere ai candidati di firmare il manifesto. Il giorno della prima seduta dell’Assemblea costituente nazionale a novembre, Amnesty International Tunisia ha guidato una grande manifestazione per chiedere all’Assemblea di garantire che i diritti umani fossero le fondamenta della nuova costituzione. A marzo, persone da tutto il mondo hanno aggiunto i loro nomi a una petizione dal titolo “Chiamare a rispondere chi ha fatto uso eccessivo della forza e proteggere i manifestanti” per il Bahrein. L’azione è stata pubblicata sul sito di Amnesty International e promossa da varie sedi nazionali sui loro siti web e attraverso i social network. Sono state raccolte quasi 50.000 firme, molte proprio

http://www.eyesonsyria.org/ index.html?theme=activism &photo=6069678756

dal Bahrein. Sono stati usati social network, soprattutto Twitter, per evidenziare la costante risposta pubblica di Amnesty International alla situazione nel paese. Di fronte agli arresti e ai processi iniqui dinanzi tribunali militari di operatori sanitari in Bahrein, Amnesty International ha lanciato Azioni Urgenti, ha monitorato i processi e contribuito a far ascoltare le voci degli operatori attraverso importanti reti internazionali del settore sanitario, associazioni e rinomate riviste mediche. Amnesty International ha anche pubblicato blog di persone dal Bahrein, conosciute e fidate, colpite da questo tipo di repressione. La petizione “Aiutaci a fermare il bagno di sangue in Siria”, lanciata ad aprile, ha chiesto al Consiglio di sicurezza dell’Onu di condannare la violenta repressione e di riferire sulla situazione siriana presso la Cpi. In poche settimane, 165.953 persone da tutto il mondo - comprese alcune, le più coraggiose, dall’interno della Siria - hanno sostenuto questa richiesta di deferire la crisi siriana alla Cpi e fatto pressione sul presidente Bashar al-Assad affinché si ponesse fine allo spargimento di sangue. Successivamente, per tenere alta la pressione sul Consiglio di sicurezza dell’Onu, è stata lanciata un’altra azione rivolta a specifici membri del Consiglio, ovvero Brasile, India e Repubblica del Sudafrica, incitandoli a votare una risoluzione per deferire la Siria alla Cpi. Ad agosto, oltre alla pubblicazione del rapporto, “Detenzione mortale: morti in custodia nell’ambito della protesta popolare in Siria”, è stato creato un sito web interattivo, www.eyesonsyria.org, per attirare l’attenzione sulla notizia di 88 presunte morti sotto custodia e per rafforzare la richiesta avanzata al Consiglio di sicurezza dell’Onu di deferire il caso della Siria alla Cpi. Il sito include una mappa che documenta casi di persone morte a seguito di trattamenti brutali e mostra dove ciò è accaduto. Il sito interattivo permette anche alla gente di

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Manifestazioni di Amnesty International nel mondo, 2011 da sopra a sinistra: Tunisia, Bangladesh, Switzerland, Usa, Corea del Sud, Regno Unito, Tunisia, Australia.

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© Amnesty International © Reto Andreoli

© Amnesty International

© Ernest Lee

© Katrin Koenning / Amnesty International

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pubblicare e condividere informazioni sulla campagna, fotografie e video. La mappa è uno strumento di campagna e di comunicazione, attraverso il quale Amnesty International continua a monitorare la situazione in Siria, pubblica prove di gravi violazioni dei diritti umani da parte di autorità e dimostra la risposta globale alla situazione in prima linea. È possibile vedere immagini e video della campagna mondiale di solidarietà con il popolo siriano sul sito www.eyesonsyria.org. Vi sono testimonianze delle azioni pubbliche condotte in Croazia, Francia, Marocco e Regno Unito, in cui attivisti di Amnesty International si sono riversati nelle strade e hanno creato eventi fuori dalle ambasciate siriane per chiedere all’agenzia di intelligence siriana di porre fine agli attachi agli attivisti che vivono all’estero. Hanno chiesto di fermare allo spargimento di sangue in Siria e hanno manifestato indossando delle t-shirt bianche “macchiate di sangue” e sventolando bandiere siriane. In risposta al peggiorare del conflitto in Libia, i membri di Amnesty International hanno fatto pressione su entrambi i fronti affinché venissero rispettati i diritti umani. A seguito del lancio dell’“Agenda per il cambiamento in materia di diritti umani” di Amnesty International per la Libia e il rapporto “La battaglia per la Libia: uccisioni, sparizioni e torture”, gli attivisti di tutto il mondo hanno scritto al Cnt libico, per esercitare pressione affinché i diritti umani fossero il nucleo della riforma istituzionale e per garantire che non fossero commesse violazioni da parte delle milizie pro-Cnt. Dopo il lancio del rapporto sulla situazione di rifugiati, richiedenti asilo e migranti ai confini della Tunisia e dell’Egitto con la Libia, a settembre Amnesty International ha portato avanti una campagna chiedendo agli stati europei di trovare un accordo per offrire un reinsediamento a un sostanziale numero di profughi del conflitto libico. Gli attivisti di Amnesty International in Europa hanno scritto ai loro governi e parlamentari e hanno richiesto incontri con funzionari. Amnesty International ha anche intrapreso un dibattito costruttivo con l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, in riferimento alle condizioni di vita dei rifugiati che conducono un’esistenza ai margini nei campi a loro destinati e in vari altri accampamenti di fortuna. Allo stesso modo, Amnesty International ha scritto al governo italiano per esprimere le proprie preoccupazioni sulle condizioni dei migranti sull’isola di Lampedusa, dove molti tunisini e altri nordafricani erano sbarcati, e sull’espulsione sommaria di gruppi di tunisini dall’isola a Tunisi, dal 7 aprile in poi, a seguito della firma di un accordo tra le autorità italiane e tunisine. In risposta al trattamento brutale dei dimostranti in Yemen, Amnesty International ha lanciato due azioni principali. La prima, dal titolo “Il momento della verità per lo Yemen”, basata su un rapporto dallo stesso nome, ha usato tre metodologie di campagna: una petizione online che denunciava l’aumento delle

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violazioni in Yemen, pubblicata su www.amnesty.org e sui siti web ufficiali delle sedi nazionali di Amnesty International; facendo pressione sui ministri degli Esteri per sottolineare la portata della crisi dei diritti umani in Yemen; mobilitando gli attivisti per chiedere ai loro governi di fare pressione sulle autorità yemenite affinché rispettassero i diritti umani. La seconda azione condotta in Yemen, che è cominciata a marzo, si è soffermata sulla fornitura di armi utilizzate per perpetare gravi violazioni dei diritti umani contro i manifestanti pacifici. Amnesty International ha identificato per lo meno 10 paesi fornitori (Usa e Regno Unito in primis, ma anche Bulgaria, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Italia, Federazione Russa, Turchia e

Prima di dicembre, le sedi di Amnesty International in circa 50 paesi avevano partecipato ad attività.

Ucraina) e ha fatto pressione su di loro affinché sospendessero immediatamente l’autorizzazione, il rifornimento e il trasferimento di armi, munizioni, armamenti e materiale correlato in Yemen. Rispetto all’Arabia Saudita, Amnesty International ha lanciato varie Azioni Urgenti e fatto dichiarazioni in risposta alla repressione del governo contro manifestanti e dissidenti. Quando Amnesty International ha scoperto che il governo stava preparando una normativa draconiana antiterrorismo, ha avviato un’azione online che ha permesso a persone da tutto il mondo di scrivere al re Abdullah bin ‘Abdul ‘Aziz Al-Saud, per spingerlo ad abbandonare quel progetto di legge e a far cessare l’erosione dei diritti umani del popolo dell’Arabia Saudita, in nome del controterrorismo. Quest’azione è stata seguita da un rapporto, “Arabia Saudita: repressione in nome della sicurezza”, pubblicato a dicembre che, tra le altre cose, si soffermava sulle preoccupazioni di Amnesty International circa il progetto di legge e la repressione contro i manifestanti. L’organizzazione ha anche testato una crowdmap7 in Arabia Saudita, per permettere alle persone di segnalare le violazioni direttamente all’organizzazione. Azioni Urgenti e dichiarazioni sono state usate anche per fare pressione sulle autorità iraniane affinché indagassero sull’evidente uso eccessivo della forza durante le manifestazioni e per richiedere il rilascio dei prigionieri di coscienza e di altri detenuti arbitrariamente. È stata intrapresa anche un’altra azione contro una legge del Majles (parlamento) che avrebbe ulteriormente limitato il lavoro delle Ong indipendenti e quest’azione ha concorso a far sì che la legge venisse riesaminata. Un rapporto di Amnesty International di giugno ha sottolineato la continua repressione di sindacati indipendenti, mentre un altro, di dicembre, ha riguardato il vertiginoso aumento delle esecuzioni per presunti crimini legati alla droga. Quando cinque uomini sono stati detenuti negli Emirati Arabi Uniti e accusati di aver “insultato dei funzionari”, dopo aver rivendicato democrazia e criticato il governo, Amnesty International ad agosto ha promosso un’azione di

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Manifestazione organizzata da Amnesty International Tunisia davanti al palazzo dell’Assemblea costituente (il vecchio parlamento), Tunisi, 22 novembre 2011.

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sms al Festival di Edimburgo (Regno Unito) del 2011. L’organizzazione ha chiesto agli spettatori del festival di inviare via sms la parola “freedom” seguita dal loro nome per una petizione che chiedeva il rilascio immediato e senza condizione dei cinque. Questa è stata poi presentata all’ambasciata degli Emirati Arabi a Londra, prima del processo. I sostenitori di Amnesty International si sono mobilitati per le strade, online e nelle loro comunità durante quest’anno di ribellioni, con impegno, partecipazione e solidarietà, raggiungendo ogni angolo della terra. Talvolta le azioni online sono state terreno di scontro. Ad esempio, gli aggiornamenti sulla Siria sulla pagina Facebook di Amnesty International sono stati bersaglio delle autorità siriane e alcune persone dal Bahrein hanno contattato Amnesty International su Twitter in risposta alla petizione, dicendo che l’organizzazione stava raccontando solo una parte della storia. Prima di dicembre, le sedi di Amnesty International in circa 50 paesi avevano partecipato ad attività che andavano da eventi di gruppi locali fino a iniziative di pressione e lavoro con gli organi d’informazione, da azioni online a giornate internazionali di solidarietà. Centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo avevano mostrato la loro solidarietà ai popoli del Medio Oriente e dell’Africa del Nord, pretendendo che fossero riconosciuti i loro diritti dinanzi alla grande escalation di violenza nella regione.

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I DIRITTI UMANI E L’AGENDA PER IL CAMBIAMENTO

Nel corso dell’anno Amnesty International ha promosso varie agende per il cambiamento nel Medio Oriente e in Africa del Nord, basate sui seguenti principi ma adattate alle specifiche situazioni dei paesi. Riformare le forze di sicurezza

Devono essere attuate importanti riforme delle forze di polizia e di altri organi di sicurezza in conformità con le leggi e gli standard internazionali. La loro struttura e la loro catena di comando deve diventare pubblica e deve essere istituito un organo di monitoraggio per indagare in modo indipendente e imparziale sulle denunce di violazioni.

Garantire che le leggi siano conformi agli standard internazionali

Revocare o modificare le leggi che limitano i diritti umani, incluse, laddove pertinente, le leggi di emergenza.

Riformare il sistema di giustizia

Deve essere sostenuta, a livello normativo ma anche pratico, l’indipendenza del potere giudiziario. Chiunque sia accusato di un crimine deve essere sottoposto a giusto processo da un tribunale competente, indipendente e imparziale istituito per legge, in cui i diritti della difesa siano pienamente rispettati. Bisogna porre fine ai processi militari di civili e ai processi dinanzi a tribunali di emergenza; coloro che sono stati dichiarati colpevoli in questi contesti devono essere processati nuovamente dinanzi a tribunali civili o rilasciati.

Porre fine alla tortura e altri maltrattamenti

La tortura e altri maltrattamenti non devono essere tollerati e devono essere riconosciuti come reato in conformità con le leggi internazionali. Tutti gli agenti coinvolti negli arresti, nelle detenzioni e negli interrogatori devono sapere che la

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tortura e gli altri maltrattamenti non saranno tollerati. Le denunce devono essere indagate e i responsabili devono essere penalmente perseguibili. Porre fine alle detenzioni in incommunicado

I detenuti devono avere accesso, nella legge e nella prassi, al mondo esterno in maniera regolare e senza ritardi, potendo incontrare familiari, avvocati di loro scelta e avendo cure mediche indipendenti. I luoghi di detenzione devono essere iscritti in un registro pubblico e soggetti a ispezioni indipendenti regolari, senza preavviso né restrizioni.

Sostenere il diritto alla libertà di assemblea, associazione ed espressione

Tutte le leggi che considerano reato il pacifico esercizio di questi diritti devono essere revocate o rese conformi alla normativa e agli standard internazionali. Le forze di sicurezza, incluso l’esercito, non devono fare uso eccessivo della forza durante il mantenimento dell’ordine nelle manifestazioni. I manifestanti non violenti e chiunque esprima pacificamente il proprio punto di vista non devono essere arbitrariamente fermati o arrestati, torturati o maltrattati in altro modo. La libertà di ricercare, ricevere e condividere informazioni e idee di qualunque genere, a prescindere dai mezzi con cui ciò avviene, deve essere protetta e non deve essere imposta alcuna restrizione indebita su Internet o nei servizi di telecomunicazione mobile. Deve essere consentito alle Ong di operare senza impedimenti. Rilasciare i prigionieri di coscienza

Tutti i prigionieri di coscienza, ovvero coloro che sono stati privati della libertà solo per aver esercitato pacificamente il diritto alla libertà di coscienza, pensiero, opinione, espressione, associazione o assemblea o solo per la loro identità, devono essere rilasciati immediatamente e senza condizioni. Porre fine alle sparizioni forzate

Si deve porre fine immediata alle sparizioni forzate rivelando subito dove si trovano i detenuti e garantendo che tutti siano ufficialmente registrati e che i familiari e gli avvocati siano informati al riguardo. Porre fine all’impunità

Deve essere intrapresa qualunque misura appropriata contro agenti e altri ufficiali che condonano, ordinano, acconsentono o compiono violazioni dei diritti umani. Devono essere istituite indagini indipendenti, complete e imparziali su violazioni di diritti umani nel passato. Da queste devono nascere raccomandazioni per prevenire future

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violazioni e portare verità, giustizia e una forma di riparazione alle vittime. Tali raccomandazioni devono essere implementate rapidamente. Rendere i diritti economici, sociali e culturali accessibili a tutti

Gli individui devono avere accesso a servizi pubblici essenziali, inclusi servizi igienicosanitari, acqua, assistenza sanitaria e un alloggio adeguato, senza discriminazioni. Devono essere sostenuti i diritti dei lavoratori, incluso il diritto a creare e iscriversi a sindacati indipendenti, a scioperare e a un minimo salariale giusto. Porre fine alle discriminazioni

Le normative che contengono discriminazioni contro individui sulla base di razza, colore, religione, etnia, nascita, sesso, orientamento sessuale, identità di genere, opinione politica o di qualunque tipo, origine nazionale o sociale, proprietà o altro status devono essere conformate alle normative e agli standard internazionali o abolite. Decriminalizzare i rapporti sessuali consensuali

Qualsiasi legge che consideri reato i rapporti sessuali consensuali e i rapporti omosessuali consensuali reali o presunti deve essere abrogata. Nessuno dovrebbe essere arrestato o processato per la propria reale o presunta omosessualità e chiunque sia stato incarcerato solo sulla base del proprio reale o presunto orientamento sessuale deve essere rilasciato senza condizioni. Proteggere e promuovere i diritti delle donne

Le donne devono essere parte integrante del processo di riforme politiche e dei diritti umani. Si devono riconoscere agli uomini e alle donne diritti eguali per legge, anche in relazione al matrimonio, al divorzio, all’affidamento dei figli e alle eredità. Combattere la violenza contro le donne

Le donne devono godere di tutela giuridica da violenza domestica, che include lo stupro da parte del coniuge e le molestie sessuali. Sostenere i diritti di chi vive in insediamenti abitativi precari

Gli individui che vivono in insediamenti informali devono essere consultati e resi parte attiva delle decisioni che riguradano il loro futuro. Devono avere sicurezza abitativa a livello giuridico. Si deve porre fine agli sgomberi forzati. Vi deve essere un piano globale per affrontare la problematica delle condizioni abitative inadeguate che minacciano la vita e la salute di molti.

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Abolire la pena di morte

Deve essere introdotta o sostenuta una moratoria sulle esecuzioni capitali in attesa dell’abolizione della pena di morte. Proteggere i diritti dei migranti, dei rifugiati e dei richiedenti asilo

Le forze di sicurezza non devono usare la forza contro persone che cercano di varcare le frontiere in uscita o in entrata, tranne nei casi strettamente necessari regolati dagli standard internazionali sui diritti umani. I richiedenti asilo devono avere accesso alle procedure di asilo e all’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, e tutti coloro che stanno fuggendo da persecuzioni devono godere di protezione internazionale. Controllo adeguato dei trasferimenti di forniture militari, di sicurezza e di polizia

Tutti gli stati che forniscono armi al Medio Oriente e all’Africa del Nord devono condurre una verifica completa e urgente di tutte le forniture di armi a forze militari, di sicurezza e di polizia per assicurare che non vi siano trasferimenti di armi laddove ci sia il rischio sostanziale che vengano usate per perpetrare o facilitare gravi violazioni delle leggi internazionali sui diritti umani o della legislazione umanitaria internazionale. Dovrebbero inoltre garantire che l’addestramento di militari, forze di sicurezza e di polizia enfatizzi la responsabilità e i principi dei diritti umani ed esaminare con cura i fattori che potrebbero permettere il trasferimento di armi in questi paesi. Gli stati dovrebbero garantire che i negoziati per un Trattato sul commercio di armi nel 2012 prevedano controlli su tutte le armi, le munizioni, gli armamenti e i materiali connessi, programmati o modificati per sicurezza militare o interna e operazioni di polizia, inclusa la forza letale, e che prevedano altresì forti parametri in tema di diritti umani, per proibire trasferimenti di armi laddove vi sia il rischio sostanziale che vengano usate per perpetrare o facilitare gravi violazioni dei diritti umani.

NOTE 1 Csfa, messaggio n. 1, 17 febbraio 2011. 2 “The West’s ‘double standards’ in Middle East” (“I ’doppi standard’ dell’Occidente in Medio Oriente”), AlJazeera.net, 28 marzo 2011. 3 “UK training Saudi forces used to crush Arab spring”(“L’addestramento britannico delle forze saudite contro la Primavera araba”), The Guardian, 28 maggio 2011. 4 Consiglio dell’Unione europea, posizione comune 2008/944/PESC del Consiglio dell’8 dicembre 2008 che definisce norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari, articolo 2. 5 Sulla base del Foreign Assistance Act (Legge per l’assistenza estera), la cui applicazione è in relazione ai trasferimenti di armi da stato a stato. Export Administration Regulations (Normativa sulla gestione delle esportazioni) §742.79(b) e (d).

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6 Si vedano gli articoli 16 e 41(ii) della Codificazione della responsabilità internazionale degli stati alla prova dei fatti, mozione 56/83 dell’Assemblea generale dell’Onu (12 dicembre 2001), Allegato: Corte internazionale di giustizia (Cig), applicazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (Bosnia-Erzegovina c. Serbia-Montenegro), sentenza, rapporti della Cig 2007, p. 43, par. 420. 7 Una crowdmap è uno strumento online open-source e gratuito che permette agli utenti di riferire informazioni alle Ong e ad altri enti utilizzando telefoni cellulari, telefoni fissi e internet.

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