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Amnesty International è un movimento globale di oltre tre milioni di sostenitori, membri e attivisti, sparsi in oltre 150 paesi e territori, che svolgono campagne per porre fine a gravi violazioni dei diritti umani. Secondo la nostra concezione, ogni persona deve godere di tutti i diritti custoditi nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nelle altre norme internazionali in materia di diritti umani. Siamo indipendenti rispetto a qualsiasi governo, ideologia politica, interesse economico o religione e ci finanziamo principalmente tramite le nostre quote associative e le donazioni pubbliche.
Traduzione dall'inglese di Federica Fazio Hanno collaborato all’edizione italiana: Giusy D’Alconzo, Beatrice Gnassi e Laura Petruccioli. Pubblicazione di Amnesty International International Secretariat Peter Benenson House 1 Easton Street London WC1X 0DW United Kingdom www.amnesty.org © Amnesty International Publications, 2012 Index: Eur 01/013/2012 English Lingua originale: inlgese Tutti diritti sono riservati. Questa pubblicazione è coperta da copyright ma può essere possibile la riproduzione con ogni metodo gratuitamente, per scopi di advocacy, per fare campagne e per scopi educativi ma non per la vendita. I proprietari del copyright chiedono inoltre che tutti gli utilizzi vengano registrati per valutarne l’impatto. Per la riproduzione in altre circostanze o per l’utilizzo su altre pubblicazioni, o per la traduzione o per adattamenti, deve essere ottenuta un’autorizzazione scritta e può essere chiesto un compenso. Per la richiesta di autorizzazione, o per altre richieste, scrivere a: copyright@amnesty.org Copertina “La porta d’Europa” o “La porta di Lampedusa”, un monumento che ricorda gli oltre 10.000 rifugiati e migranti che sono morti nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere l’isola, ottobre 2011. © Xander Stockmans – Tussen Vrijheid en Geluk
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INDICE
GLOSSARIO
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1. INTRODUZIONE
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2. DIRITTI UMANI E ACCORDI TRA ITALIA E LIBIA
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3. SOCCORSO IN MARE
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4. EXTRATERRITORIALITÀ DEGLI OBBLIGHI IN MATERIA DI DIRITTI UMANI
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5. CONCLUSIONI
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6. RACCOMANDAZIONI
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NOTE
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GLOSSARIO
Un rifugiato è una persona che ha lasciato il proprio paese perché ha subito una violazione dei diritti umani, vale a dire che è stata privata delle libertà fondamentali o è stata vittima di violenza a causa di quello che è, delle sue convinzioni o delle sue opinioni, e il suo governo non può o non vuole proteggerlo. Le procedure d’asilo servono a stabilire chi risponde o meno alla definizione legale di rifugiato. Quando un paese riconosce qualcuno come rifugiato, gli garantisce protezione internazionale, in sostituzione della protezione negata dal paese d’origine. Un richiedente asilo è una persona che ha lasciato il proprio paese alla ricerca di protezione, ma non è ancora stata riconosciuta come rifugiato. Durante il periodo di esame della richiesta d’asilo, i richiedenti non possono essere costretti al rientro nel paese d'origine. Un migrante è una persona che ha lasciato il proprio paese per trasferirsi altrove per motivi di lavoro, di studio o familiari. Un migrante autorizzato alla permanenza in un paese, ad esempio in possesso di un visto o di un permesso di soggiorno valido, è un migrante regolare. Un migrante irregolare è invece una persona non autorizzata dalle autorità di quel paese a permanere sul territorio nazionale.
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Refoulement, è il rinvio forzato di una persona verso un paese dove sarebbe a rischio di gravi violazioni dei diritti umani. In base al principio di non-refoulement, il diritto internazionale proibisce il rinvio forzato dei rifugiati o dei richiedenti asilo. Tale principio si applica anche ad altre persone che rischiano gravi violazioni dei diritti umani, come la tortura e la pena di morte, ma che non corrispondono alla definizione legale di rifugiati. Espulsione collettiva indica l’espulsione di un gruppo di persone (migranti, richiedenti asilo e/o rifugiati) senza prendere in esame i singoli casi, né le circostanze individuali. Si tratta di una pratica vietata dal diritto internazionale.
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1. INTRODUZIONE
Ogni anno dall'Africa settentrionale e occidentale migliaia di persone prendono il mare su imbarcazioni insicure, prive di un equipaggio vero e proprio o di qualsiasi attrezzatura di sicurezza, e affrontano un viaggio pieno di pericoli nel tentativo di raggiungere le coste europee. Alcuni fuggono da un conflitto, altri da una povertà senza speranza. Tutti sono alla ricerca di un futuro migliore. Molti di loro non raggiungono l’Europa e muoiono in mare a causa della disidratazione, annegano o vengono intercettati da motovedette e ricondotti nel paese di partenza. Delle donne, degli uomini e dei bambini che affrontano questo pericoloso viaggio alla volta dell’Europa, alcuni s’imbarcano nel loro paese d’origine, mentre la maggioranza in un paese di transito nel tragitto verso l’Europa. Se ricondotti in quel paese, in genere vengono considerati migranti “irregolari” e corrono il rischio concreto di una detenzione arbitraria e prolungata, di maltrattamenti e di altre violazioni dei diritti umani.1 Anche quando non vengono arrestati, migranti irregolari, rifugiati e richiedenti asilo sono vittime di abusi da parte delle forze di polizia e dei datori di lavoro, che approfittano della vulnerabilità derivante dal loro status di “irregolari”.
COSA S’INTENDE PER ESTERNALIZZAZIONE? Negli ultimi 10 anni, i paesi europei hanno moltiplicato i loro sforzi per impedire gli arrivi di persone provenienti via mare dall’Africa, “esternalizzando” alcuni aspetti dei controlli alla frontiera e dell’immigrazione. L’esternalizzazione riguarda una serie di misure di controllo alla frontiera, incluse quelle attuate al di fuori del territorio di uno stato europeo, tanto nel territorio di un altro stato quanto in alto mare. Comprende inoltre misure atte a spostare la responsabilità di prevenire la migrazione verso l’Europa dai paesi europei ai paesi di partenza o di transito. Le misure di esternalizzazione adottate dall’Europa si basano generalmente su accordi bilaterali tra singoli paesi europei e africani. Gran parte degli stati europei ha siglato accordi di questo tipo, ma la maggior parte evita di renderne pubblici i termini. L’Italia, ad esempio, ha firmato accordi di cooperazione in materia di “migrazione e sicurezza” con Egitto, Gambia, Ghana, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal e Tunisia,2 mentre la Spagna ha firmato accordi di cooperazione in materia di migrazione con Capo Verde, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Mali e Mauritania.3
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A un livello diverso, l'Unione europea (Ue) sottoscrive direttamente con paesi dell’Africa settentrionale e occidentale intese sul controllo dell’immigrazione, ricorrendo al dialogo politico e a un’ampia gamma di meccanismi e strumenti finanziari. Ad esempio, nel 2010 la Commissione europea ha sottoscritto con la Libia un programma di cooperazione, poi sospeso con lo scoppio del conflitto nel 2011. Tuttavia, dopo la fine del conflitto, il dialogo tra Ue e Libia sulle questioni concernenti la migrazione è ripreso. L’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli stati membri dell’Ue (Frontex) opera anche al di fuori del territorio europeo. Frontex organizza operazioni di pattugliamento in mare oltre le acque territoriali europee, nel Mediterraneo e al largo delle coste dell’Africa occidentale, incluse le acque territoriali di Senegal e Mauritania, dove i pattugliamenti vengono condotti in collaborazione con le autorità senegalesi e mauritane.
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La politica di esternalizzazione delle attività di controllo alla frontiera è molto controversa. Chi la critica ha accusato l’Ue e alcuni degli stati membri di sottoscrivere accordi o partecipare a iniziative che mettono a rischio i diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Inoltre, la mancanza di trasparenza che circonda tali accordi e attività non ha fatto che alimentare le critiche. Il presente rapporto prende in esame alcune delle conseguenze per i diritti umani di migranti, rifugiati e richiedenti asilo emerse nel contesto degli accordi sulle migrazioni siglati tra Italia e Libia. Inoltre, esprime preoccupazione per le gravi mancanze che si sono verificate nell'ambito delle operazioni di soccorso in mare, che richiedono ulteriori indagini. Il rapporto si inscrive nell’ambito di un lavoro più ampio svolto da Amnesty International per verificare l’impatto delle politiche e delle prassi di esternalizzazione europee sui diritti umani.
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2. DIRITTI UMANI E ACCORDI TRA ITALIA E LIBIA
La Libia ha una lunga storia d’immigrazione da altre zone dell’Africa. Tra le persone che entrano in Libia ci sono: migranti “regolari”, giunti nel paese nordafricano per lavorare in diversi settori, migranti “irregolari”, che giungono in Libia alla ricerca di lavoro e talvolta nel tentativo di raggiungere l’Europa, e rifugiati in fuga da conflitti e persecuzioni. La stragrande maggioranza delle persone che lasciano la Libia per tentare di raggiungere l'Europa via mare non è di nazionalità libica, ma proviene da paesi quali Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan, e persino Iraq e Palestina. In passato la Libia ha tollerato l’immigrazione, ma le persone prive dello status di “regolari” sono sempre state a rischio di violazioni dei diritti umani. La Libia non ha un sistema d’asilo, pertanto le persone che necessitano di protezione internazionale, come i rifugiati e i richiedenti asilo, in genere sono considerati alla stregua di migranti irregolari. Ricerche condotte da Amnesty International e altri gruppi impegnati nella difesa dei diritti umani hanno rivelato quanto fossero diffusi in Libia i maltrattamenti ai danni di rifugiati, richiedenti asilo e migranti irregolari nel periodo in cui era al potere il colonnello Gheddafi, come pure durante e dopo il conflitto che ha portato alla sua deposizione.4 Tra le violazioni e gli abusi documentati ci sono detenzioni a tempo indefinito in condizioni estremamente dure, percosse e altri maltrattamenti, assimilabili in alcuni casi
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DIRITTI DI MIGRANTI E RIFUGIATI IN LIBIA
Rifugiati e migranti all’interno del centro di detenzione di Misurata, Libia, novembre 2008.
“Il problema è la mia pelle nera: i ‘thuwwar’ (rivoluzionari) pensavano che fossi un sostenitore di Gheddafi, quando, in realtà, è stato il regime a reprimere la mia gente. Adesso chi si è opposto alla sua brutalità sta facendo lo stesso.” Detenuto nel centro culturale Zarouq di Misurata, utilizzato come carcere, Libia, maggio 2011
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alla tortura. Rifugiati e richiedenti asilo corrono inoltre un rischio concreto di refoulement (vale a dire di essere ricondotti in un paese in cui rischiano la persecuzione o altre gravi violazioni dei diritti umani). La Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo Status dei rifugiati, né il protocollo del 1967. In passato, le operazioni dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) sono sempre state limitate dalle autorità libiche. La situazione è, se possibile, ulteriormente peggiorata a giugno 2010, quando le autorità libiche hanno sospeso gli interventi dell’Unhcr nel paese. A marzo 2012 l’Unhcr, benché presente in Libia, non aveva ancora avuto modo di siglare con le nuove autorità libiche un accordo ufficiale sulla possibilità di operare nel paese. Dalla caduta di Gheddafi la situazione relativa ai diritti umani di richiedenti asilo, rifugiati e migranti irregolari in Libia è precipitata. Legalità e ordine pubblico sono sempre più a rischio, in tutto il paese proliferano le armi e razzismo e xenofobia sono in aumento. La convinzione diffusa che le forze solidali con il colonnello ricorressero a “mercenari africani” per annientare l’opposizione ha fatto sì che le persone provenienti dall’Africa subsahariana fossero oggetto di attacchi violenti, detenzione e torture, a prescindere dal loro status di migranti. Durante e subito dopo il conflitto, milizie armate hanno arrestato e detenuto migliaia di presunti combattenti e sostenitori di Gheddafi, incluse centinaia di presunti mercenari stranieri che, in realtà, erano per lo più lavoratori migranti. I ricercatori di Amnesty International hanno rilevato che il trattamento peggiore era riservato alle persone provenienti dall’Africa subshariana e ai libici di pelle nera, molti dei quali sono stati picchiati o maltrattati in altro modo durante la detenzione. Ci sono state numerose denunce di tortura. Molte persone provenienti dall’Africa subsahariana sono state arrestate durante o immediatamente dopo il conflitto perché ritenute mercenari al soldo di Gheddafi ma centinaia vengono arrestate tutt'oggi dalle milizie armate, sulla base dei cosiddetti “reati connessi all’immigrazione”. I mezzi di comunicazione libici riportano quasi quotidianamente notizie di nuovi arresti di migranti irregolari giunti nel paese attraverso le maglie larghe delle frontiere libiche. Nell’aprile 2012, un funzionario ha dichiarato che “ogni giorno giungono qui oltre 1000 persone”.5 Gli arrestati non sono
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accusati di alcun reato e non possono confutare la legalità della loro detenzione. Il sistema giudiziario in Libia rimane bloccato e i maltrattamenti di stranieri da parte delle milizie armate sono ampiamente tollerati.
TRIPOLI, QUARTIERE AL-MADINA AL-KADIMA Il 26 agosto 2011, gruppi di combattenti armati oppositori di Gheddafi hanno fatto irruzione nel quartiere al-Madina al-Kadima di Tripoli, perquisendo le case alla ricerca di soldi e di armi. Hanno poi fatto prigionieri decine di libici di pelle nera e cittadini di paesi dell'Africa subsahariana, come Ciad, Mali, Niger e Sudan. Ventisei tra le persone portate via dalle loro case hanno dichiarato ad Amnesty di essere state tenute bendate e con le mani legate con il filo di ferro. Hanno detto di essere stati picchiati sia durante l'irruzione che dopo, nel circolo di calcio nei pressi di al-Madina al-Kadima in cui erano stati portati. In seguito sono stati costretti a sdraiarsi con la faccia a terra e picchiati con il calcio dei fucili, con bastoni e cavi elettrici. Quando Amnesty International li ha sentiti, circa nove giorni dopo le percosse, mostravano ancora segni coerenti con le loro testimonianze. Un detenuto ha raccontato di suo cugino, cui hanno sparato tre volte mentre era legato. Un altro ha detto ad Amnesty International: “Ero a casa con mia moglie e i miei figli quando ho sentito dei colpi alla porta, poi delle persone l’hanno forzata e sono entrate, urlando ‘murtazaqa [mercenari]’. Mi avevano già condannato a causa del colore della mia pelle. Hanno cominciato a picchiarmi davanti a casa mia e poi hanno continuato a picchiarci al circolo di calcio …”.
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ACCORDI TRA ITALIA E LIBIA Nonostante la diffusione pubblica di prove che dimostrano gli abusi subiti in Libia da migranti, rifugiati e richiedenti asilo tra il 2006 e il 2010, l’Italia ha concluso una serie di accordi con le autorità libiche. Questi comprendevano riferimenti diretti al controllo dell’immigrazione e fornivano assistenza tecnica e finanziaria per le attività di controllo. L’Italia ha inoltre siglato un accordo in base al quale chiunque tenti di raggiungere l'Europa via mare può essere ricondotto in Libia, senza peraltro mettere in atto alcun processo per impedire le violazioni dei diritti umani che si verificano in questo contesto.6
Pattuglia della città di Sabha nel deserto, Libia, 2008.
Nel 2008, Libia e Italia hanno firmato il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione, che comprendeva un’elargizione di cinque miliardi di dollari americani per progetti edilizi e infrastrutturali, borse di studio e pensioni di guerra per i soldati libici che durante la seconda guerra mondiale avevano prestato servizio militare con le forze armate italiane e includeva inoltre clausole inerenti il “controllo dell’immigrazione”. Ad aprile 2012, il presidente del Consiglio nazionale di transizione (National Transitional Council, Ntc) libico ha confermato l’impegno del suo paese rispetto al Trattato.
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Diversi accordi tecnici, conclusi prima del conflitto del 2011, stabilivano i dettagli della cooperazione italiana nel contrasto alla “migrazione illegale”. Nessuno di questi accordi è stato mai reso noto attraverso canali ufficiali ed eventuali dettagli sono trapelati da fonti ufficiose o sono emersi nell'ambito di azioni legali.7 Un protocollo firmato nel dicembre 2007 e un protocollo aggiuntivo tecnico operativo firmato nel febbraio 2009 prevedevano il pattugliamento congiunto delle acque internazionali e territoriali, libiche e italiane, da parte di equipaggi misti italo-libici, nonché operazioni congiunte di “controllo, ricerca e soccorso”. Con il protocollo aggiuntivo tecnico operativo, i due paesi concordavano altresì che ciascuno avrebbe “provveduto al rimpatrio dei migranti illegali dal proprio territorio”; l’accordo non prevedeva alcuna tutela specifica a protezione dei diritti umani, né conteneva clausole per identificare e selezionare le persone potenzialmente bisognose di protezione internazionale. Un terzo protocollo d’intesa tecnico operativo per il contrasto all’immigrazione clandestina via mare fu siglato il 7 dicembre 2010 a Roma.
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Centro di detenzione di Zliten, Libia, novembre 2008.
L’implementazione degli accordi tra Libia e Italia è stata sospesa nella pratica durante i primi mesi del conflitto in Libia, sebbene non siano stati sospesi gli accordi. Nel pieno del conflitto in Libia, l’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con l'Ntc, in virtù del quale le due parti confermavano il loro impegno alla cooperazione nell’ambito della migrazione irregolare attraverso “il rimpatrio degli immigranti in situazione irregolare”.8 Nonostante le dichiarazioni di Amnesty International e di altri soggetti sull’attuale livello delle violazioni dei diritti umani, il 3 aprile 2012 l’Italia ha firmato un altro accordo con la Libia allo scopo di “contrastare i flussi migratori”.9 Tale accordo non è stato reso pubblico. Un comunicato stampa ha annunciato l’accordo, senza però dare informazioni di alcun tipo sulle misure concordate, né altri dettagli che suggeriscano l’adozione di una qualche azione per risolvere l’attuale, pressante problema dei diritti umani vissuto da migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Libia.10
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VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI Dal punto di vista dei diritti umani, la collaborazione tra Italia e Libia suscita diverse preoccupazioni, riconducibili in linea di massima a due categorie: violazioni commesse dalle autorità libiche che l’Italia ha ignorato o tacitamente tollerato e violazioni commesse dall’Italia al di fuori del territorio nazionale. Quando ha sottoscritto gli accordi con la Libia, il governo italiano sapeva, o avrebbe dovuto sapere, che in quel paese migranti irregolari, rifugiati e richiedenti asilo, vale a dire le stesse persone che tentano di raggiungere l’Europa via mare imbarcandosi in Libia, sono soggette a detenzione arbitraria e prolungata, percosse e altre violazioni dei diritti umani. Il terzo protocollo d’intesa tecnico operativo per il contrasto all’immigrazione clandestina via mare è stato firmato a dicembre 2010, sebbene sei mesi prima la Libia avesse sospeso le già limitate operazioni dell’Unhcr, lasciando rifugiati e richiedenti asilo in una posizione ancora più vulnerabile di prima. Anche l’accordo di aprile 2012 tra l’Italia e le nuove autorità libiche è stato stipulato nonostante fossero pubblicamente disponibili informazioni sulle numerose violazioni dei diritti umani subite da migranti, richiedenti asilo e rifugiati, e nonostante in Libia ancora non esistano disposizioni per determinare lo status di rifugiato. Nell’adottare misure di controllo alle frontiere e dell’immigrazione, gli stati devono rispettare i loro obblighi in materia di diritti umani. Eppure, alcune delle misure attuate nell’ambito degli accordi di esternalizzazione tra Italia e Libia sono in palese violazione del diritto internazionale. Inoltre, le autorità italiane hanno raggiunto accordi con la Libia chiudendo un occhio sul fatto che in quel paese migranti, richiedenti asilo e rifugiati rischiano di subire gravi violazioni dei diritti umani. Gli accordi tra Italia e Libia non includono alcuna protezione efficace dei diritti umani. La clausola inclusa nel Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione firmato nel 2008 da Italia e Libia appare totalmente simbolica, in quanto non sono mai state messe in atto misure volte alla sua implementazione. Nel migliore dei casi, l’Italia ha ignorato la difficile e urgente situazione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, mentre nel peggiore dei casi si è dimostrata disposta ad ammettere violazioni dei diritti umani per un mero calcolo di egoismo politico.
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Un migrante mostra ad Amnesty International una cicatrice causata dagli abusi subiti, Libia, gennaio 2012.
TUTELA DEI DIRITTI UMANI NELL'AMBITO DEGLI ACCORDI SUL CONTROLLO DELL’IMMIGRAZIONE L’esistenza di accordi bilaterali o multilaterali tra stati, non solleva gli stessi dagli obblighi in materia di diritti umani. Tutti gli accordi devono essere conformi ai diritti umani. Gli accordi sul controllo dell’immigrazione dovrebbero prevedere misure specifiche che assicurino la salvaguardia dei diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. L’esatta natura di tali garanzie può variare a seconda del contesto e della natura dell’accordo. Tuttavia, tutti gli accordi dovrebbero prevedere: garanzie di accesso a procedure individuali per le persone che fanno richiesta d’asilo, il divieto di ogni forma di espulsione sommaria o collettiva e un impegno esplicito al rispetto del principio di non-refoulement. Gli accordi dovrebbero inoltre garantire l’accesso a informazioni adeguate e a meccanismi per ottenere rimedi effettivi. Dovrebbero includere anche impegni specifici per limitare più possibile il ricorso alla detenzione e per evitare la separazione dei nuclei familiari. I servizi di assistenza tecnica e finanziaria dovrebbero essere compatibili con i diritti umani. Gli stati non dovrebbero stipulare accordi senza che ci siano effettivi meccanismi per assicurare che le tutele dei diritti umani siano implementate.
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RIFUGIATI INTRAPPOLATI IN LIBIA Prima del giugno 2010, in mancanza di procedure d’asilo in Libia, l’Unhcr aveva il compito di registrare i richiedenti asilo e seguire le loro domande di protezione internazionale. A gennaio 2011, in Libia c’erano circa 8000 rifugiati riconosciuti in attesa di reinsediamento e 3200 richiedenti asilo la cui domanda doveva ancora essere esaminata dall’Unhcr. Quando, a giugno 2010, le operazioni dell’Unhcr furono interrotte, queste persone rimasero nel paese senza alcuna assistenza, mentre i nuovi arrivati non potevano nemmeno fare richiesta di protezione. Sebbene l’Unhcr sia tuttora presente in Libia, non ha potuto stipulare con le nuove autorità libiche un accordo che ne garantisse le attività, in contrasto con la rapidità con cui è stato concluso l’accordo tra Libia e Italia sul “controllo dell’immigrazione”. I rifugiati e i richiedenti asilo che giungono in Libia da paesi dove vivono conflitti e persecuzioni, come Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan, hanno ben poca scelta. Nessuno degli stati confinanti con la Libia ha sistemi efficaci di protezione dei rifugiati.11 L’Italia ha sottoscritto accordi in base ai quali si accetta che le persone bisognose di protezione internazionale siano di fatto intrappolate in un paese dove non sono riconosciute come rifugiate e dove rischiano di rimanere vittime di violazioni dei diritti umani, tra cui il rinvio forzato in paesi che rappresentano un’ulteriore minaccia per le loro vite.
OPERAZIONI IN MARE: INTERCETTAZIONI E “RESPINGIMENTI” Uno degli elementi più inquietanti del sistema europeo di controllo dell’immigrazione è la pratica di intercettazione delle imbarcazioni in mare e il loro “respingimento”. In base agli accordi siglati tra Italia e Libia, nel Mediterraneo sono state condotte operazioni di sorveglianza allo scopo di intercettare le imbarcazioni che tentavano di raggiungere le coste europee e respingerle o dirottarle nuovamente verso la Libia. Prima degli accordi con la Libia in materia di controllo dell’immigrazione, l’Italia portava sul suo territorio le persone intercettate in mare per valutare il loro bisogno di protezione. Questa pratica si svolgeva nel rispetto degli obblighi previsti dalle leggi in materia
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di rifugiati e diritti umani, incluso l’obbligo di consentire ai richiedenti asilo di presentare domande di protezione internazionale. Tuttavia, dalla metà del 2009 la guardia costiera italiana e la polizia di frontiera hanno iniziato a intercettare le imbarcazioni in alto mare, respingendo gli occupanti in Libia. Talvolta questi venivano fatti salire a bordo delle imbarcazioni italiane e riportati direttamente in Libia dagli ufficiali italiani, altre volte, dopo essere stati intercettati da imbarcazioni italiane, venivano riportati indietro da motovedette libiche.
“RESPINGIMENTI” IN LIBIA Amnesty International ha ascoltato R., una donna di 25 anni originaria dell’Eritrea, presso il campo rifugiati di Choucha, Tunisia, a giugno 2011. Aveva tentato di lasciare la Libia alla volta dell’Europa a giugno 2009. Tramite contrabbandieri di Tripoli, era salita su un’imbarcazione con altre 82 persone, per lo più di nazionalità eritrea, dirette in Italia. Dopo quattro giorni in alto mare, l’imbarcazione era stata avvicinata da una nave italiana che li aveva presi a bordo. R. pensava che sarebbe stata portata in Italia, invece la nave venne affiancata da un’imbarcazione libica e salirono a bordo alcuni soldati libici. Le 82 persone vennero costrette a salire sull’imbarcazione libica. R. racconta di aver visto gli uomini ammanettati e picchiati. All’arrivo in Libia, R. rimase in detenzione per circa 12 mesi. Quando, nel 2011, in Libia è scoppiato il conflitto, R. è stata costretta nuovamente a fuggire e si è ritrovata nel campo rifugiati di Choucha, in Tunisia.
Non si conosce con esattezza il numero di persone intercettate in alto mare dalle autorità italiane e rinviate in Libia, dato che nessuno dei due paesi ha mai reso nota questa informazione. Gli unici dati ufficiali disponibili riguardano il periodo compreso tra il 5 maggio e il 7 settembre 2009: secondo l’ambasciatore italiano in Libia, durante quei quattro mesi sono state rimandate in Libia oltre 1000 persone.12 Si ha notizia di ulteriori “respingimenti” avvenuti dopo settembre 2009, ma non si conosce il numero delle persone coinvolte.13 Il fatto che coloro che salpano dalla Libia siano richiedenti asilo e rifugiati, oltre che migranti,
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era ben noto alle autorità italiane prima dell’avvio dei “respingimenti”. L’Unhcr calcola che nel 2008, prima che iniziassero i “respingimenti”, il 75 per cento degli stranieri che arrivavano in Italia via mare, la stragrande maggioranza dei quali proveniva dalla Libia, era composto da richiedenti asilo e che il 50 per cento di tali richiedenti asilo ottenevano una qualche forma di protezione internazionale.14 Alcune delle persone respinte in Libia dalle autorità italiane hanno parlato con l’Unhcr, che ha confermato che tra gli intervistati c’erano persone bisognose di una protezione internazionale immediata. Ha confermato inoltre che alcuni degli intervistati avevano dichiarato di essere stati vittime di violenza, sia durante il trasferimento sul territorio libico, sia all’arrivo nei centri di detenzione.15
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI: HIRSI JAMAA E ALTRI CONTRO ITALIA Con la sentenza esemplare di febbraio 2012, la Grande camera della Corte europea dei diritti umani ha condannato un’operazione di “respingimento” condotta dall’Italia a maggio 2009, perché in aperta violazione della Convenzione europea sui diritti umani. In quell’occasione, navi militari italiane rinviarono con la forza in Libia 11 somali e 13 eritrei appartenenti a un gruppo di circa 200 persone che avevano lasciato le coste libiche a bordo di tre imbarcazioni, nel tentativo di raggiungere l’Italia. I rinvii forzati ebbero luogo nonostante le autorità italiane sapessero (o avrebbero dovuto sapere) che in Libia tali persone correvano il rischio concreto di maltrattamenti. Nel rimandarle nel paese africano, l’Italia le esponeva altresì al rischio di ulteriori refoulement in Eritrea e Somalia, paesi in cui erano esposti al rischio di persecuzioni o altre gravi forme di maltrattamento. La Grande camera ha argomentato che, sebbene intercettati in alto mare, una volta saliti a bordo delle navi italiane, i ricorrenti si trovavano sotto la giurisdizione italiana e pertanto l’Italia aveva l’obbligo di proteggere i loro diritti umani. Le autorità italiane, invece, non solo non li hanno informati del rinvio in Libia, ma non li hanno neanche messi in condizione
Il diritto internazionale ed europeo in materia di rifugiati e diritti umani vieta all’Italia il trasferimento coatto di persone verso un paese o un territorio in cui sono a rischio concreto di violazioni dei diritti umani o di refoulement. La legislazione in materia di diritti umani proibisce inoltre le espulsioni collettive, senza che siano state prese in esame le situazioni dei singoli individui. Nel 2012, la Grande camera della Corte europea dei diritti umani ha stabilito che i “respingimenti”, che prevedevano il rinvio forzato in Libia senza alcuna valutazione delle situazioni individuali, erano assimilabili a espulsioni collettive e in quanto tali violavano i diritti umani delle persone sottoposte a tale misura.
di contestare tale decisione. A sua difesa, l’Italia ha obiettato che gli accordi presi con la Libia legittimavano il rinvio nel paese africano e sollevavano a tutti gli effetti l’Italia dai suoi obblighi in materia di diritti umani secondo la Convenzione europea sui diritti umani. L’Italia, inoltre, ha tentato di sottrarsi alla giurisdizione della Corte descrivendo gli eventi come operazioni di soccorso in alto mare. La Grande camera ha respinto ogni obiezione e ha deliberato che l’Italia, con la sua condotta, ha violato il diritto dei ricorrenti a evitare un rischio concreto di maltrattamenti, nonché il loro diritto a non subire espulsioni collettive. A seguito della sentenza, le autorità italiane hanno dichiarato che la decisione della Corte sarebbe stata accolta senza ulteriori contestazioni. Inoltre, l'Italia ha dichiarato che eventuali, nuove iniziative di collaborazione con le autorità libiche sarebbero state improntate al “rispetto assoluto dei diritti umani e alla necessità di proteggere la vita delle persone in mare”. Ciononostante, poco tempo dopo Italia e Libia firmavano un nuovo trattato in materia di controllo dell’immigrazione (vedi pag. 9) il cui contenuto, alla data odierna, rimane segreto, sottraendosi al giudizio dell’opinione pubblica (vedi nota 10).
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3. SOCCORSO IN MARE
I migranti che intraprendono viaggi in mare alla volta dell’Europa, spesso lo fanno con l’aiuto di contrabbandieri o trafficanti. Le imbarcazioni utilizzate sono generalmente sovraffollate e inadatte alla navigazione, prive di un equipaggio vero e proprio e di attrezzature di sicurezza. Spesso, perciò, le imbarcazioni di migranti si trovano in difficoltà alla deriva. Secondo l’Unhcr, nel 2011 almeno 1500 persone hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo.16 Il diritto internazionale marittimo stabilisce i principi del soccorso in mare alle imbarcazioni e alle persone in difficoltà. Uno dei principi chiave sancisce che le nazioni sono tenute a soccorrere le persone in difficoltà indipendentemente dalla loro nazionalità, dal loro status o dalle circostanze in cui si trovano; anche le barche private hanno l’obbligo di soccorrere eventuali imbarcazioni in pericolo. Eppure, prassi e politiche seguite da molti paesi europei hanno causato ritardi nelle operazioni di soccorso; in alcuni casi, tali ritardi si configurano come un tentativo di eludere la responsabilità dei paesi stessi nei confronti di migranti e rifugiati. In più occasioni Malta e Italia hanno entrambe impedito alle persone soccorse in acque internazionali da parte di barche private di sbarcare sul loro territorio, lasciando i naufraghi, esausti e traumatizzati, a bordo di navi private (generalmente pescherecci), in attesa di un accordo politico sulla loro destinazione.17
RICHIESTE DI AIUTO IGNORATE Grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, si è venuti a conoscenza di diversi casi. Ad esempio, il 6 aprile 2011, oltre 300 persone sono annegate a seguito del ribaltamento di un'imbarcazione proveniente dalla
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Libia che trasportava per lo più somali ed eritrei. L’incidente si è verificato nelle acque territoriali maltesi. Nonostante avesse ricevuto la richiesta di aiuto, Malta non ha attivato alcuna operazione di ricerca e soccorso, adducendo il fatto che i mezzi di ricerca e soccorso italiani erano geograficamente più vicini. Quando gli italiani hanno infine raggiunto l'imbarcazione in difficoltà, la maggior parte degli occupanti era deceduta e i sopravvissuti erano solo 47. Le autorità italiane hanno accusato Malta di non aver rispettato gli obblighi internazionali, un’accusa respinta dalle autorità maltesi.18 Solo pochi giorni prima si era verificato uno dei casi di mancato soccorso più scioccanti, nel quale 63 persone avevano perso la vita nel Mediterraneo. Verso la fine di marzo 2011, mentre le forze della Nato pattugliavano l’area, una piccola imbarcazione con a bordo 72 persone provenienti da Sudan, Nigeria, Ghana, Eritrea ed Etiopia, tra cui due neonati, era rimasta alla deriva nel Mediterraneo per oltre due settimane. La barca era salpata dalle coste libiche e i passeggeri stavano tentando di fuggire dal conflitto in corso e di raggiungere l'Europa. Il carburante, però, si era presto esaurito, come pure le esigue scorte di acqua e viveri. Gli occupanti dell'imbarcazione avevano lanciato disperate richieste di soccorso, usando un telefono satellitare per allertare sulla loro situazione un prete eritreo che si trovava a Roma. Questi aveva a sua volta avvisato la guardia costiera italiana e il quartier generale della Nato a Napoli. Secondo i sopravvissuti, un elicottero militare si era avvicinato all’imbarcazione, calando acqua e biscotti con una corda, ma non era più ritornato. Secondo quanto riportato, anche alcuni pescherecci e navi militari avevano avvicinato o comunque visto
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Un’imbarcazione della guardia costiera italiana si prepara ad attraccare al porto di Lampedusa, Italia, maggio 2011. Stava trasportando 142 persone arrivate in mare da Tripoli, Libia, tra le quali c’erano 30 donne e tre bambini. Erano stati soccorsi prima che la loro imbarcazione affondasse.
la barca alla deriva, ma nessuno aveva prestato soccorso. Dopo una settimana erano incominciati i primi decessi; i cadaveri venivano buttati in mare. A quel punto, i sopravvissuti a bordo avevano cominciato a cadere in preda al panico. Alcuni, presi dalla disperazione, si erano gettati fuori bordo. Alla fine, in balìa delle correnti, la barca era approdata nuovamente sulle coste libiche. Solo nove dei 72 occupanti erano sopravvissuti al terribile viaggio.19
Questi decessi si verificavano proprio mentre viniva addotta a pretesto dell’intervento militare in Libia l’intenzione di evitare vittime civili e l'area del Mediterraneo meridionale, in cui i naufraghi avevano perso la vita, era particolarmente trafficata, proprio a causa del dispiegamento di forze militari. Quando la notizia della tragedia divenne pubblica, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa diede l’incarico a uno dei suoi membri di investigare sul caso. L’indagine, resa pubblica il 29 marzo 2012, ha confermato che i centri nazionali di coordinamento del soccorso marittimo italiano e maltese, come pure Frontex e Nato, erano stati avvisati della difficile situazione in cui versava l’imbarcazione. Secondo il rapporto conclusivo dell’indagine:
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“È evidente un fallimento collettivo: le autorità libiche nel mantenere la responsabilità della propria zona di ricerca e soccorso, i centri nazionali di coordinamento del soccorso marittimo italiano e maltese nell’avviare le operazioni di ricerca e soccorso, la Nato nel raccogliere la richiesta di soccorso, sebbene nei pressi dell’imbarcazione fossero presenti navi militari sotto il suo controllo al momento della richiesta di aiuto… Forse l’aspetto più preoccupante in questo caso è il mancato soccorso dell’imbarcazione in difficoltà da parte dell’elicottero e della nave, indipendentemente dal fatto che si trovassero sotto controllo della Nato o nazionale.”20 L’indagine ha sollevato perplessità anche sulle misure adottate dai paesi costieri europei che scoraggiano pescherecci e imbarcazioni commerciali dal rispettare gli obblighi di soccorso in mare. Tra queste si possono citare il ritardo degli stati nel concordare il luogo di sbarco delle persone soccorse, che può causare all’imbarcazione interessata importanti perdite finanziarie, oltre al rischio di sanzioni per reati quali complicità in “immigrazione clandestina”. In una risoluzione seguita all’indagine e adottata il 24 aprile 2012, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha raccomandato interventi specifici anche per la soluzione di questo problema.
NON SEMPRE SOCCORSO SIGNIFICA SICUREZZA In alcuni casi le persone bisognose di soccorso sono state vittime di operazioni di respingimento che violavano i loro diritti umani. Il 17 luglio 2010 un gruppo di 55 cittadini somali, imbarcatisi su un gommone in Libia alla volta dell’Europa, si era trovato in difficoltà ed era stato quindi intercettato e soccorso, 73 km circa a sudest di Malta. Tra i passeggeri, 28 furono portati a Malta dalla motovedetta P-52 delle forze armate maltesi, mentre altri 27 riportati in Libia da una motovedetta libica. Le autorità maltesi dichiararono che i 27 (18 uomini e 9 donne) erano tornati in Libia di loro volontà, mentre alcuni dei somali ascoltati da Amnesty
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International hanno fornito una versione differente dei fatti. Secondo il loro racconto, la prima imbarcazione ad avvicinarli era stata quella battente bandiera di Malta, che aveva issato a bordo cinque donne considerate particolarmente vulnerabili, lasciando gli altri sul gommone, dopo aver distribuito giubbotti di salvataggio, acqua e biscotti. Poco dopo si era avvicinata un’altra imbarcazione, il cui equipaggio aveva interpellato i somali in inglese e italiano. Credendo che li avrebbero portati in Italia, 27 salirono a bordo, ma uno di loro sentì di sfuggita parlare arabo e tentò di gettarsi fuori bordo urlando “sono libici”. Quando si resero conto che l’imbarcazione era libica, i somali ancora a bordo del gommone si rifiutarono di salire. Alcuni, presi dal panico, saltarono in acqua o minacciarono il suicidio. La nave maltese, che secondo le testimonianze si trovava nei pressi, caricò i somali che ancora si trovavano sul gommone per portarli a Malta. I 27 somali furono riportati in Libia, dove non avevano alcuna possibilità di ottenere protezione internazionale ed erano a rischio di tortura e altre violazioni dei diritti umani. Tutti e 27 furono immediatamente detenuti per periodi variabili da pochi giorni a qualche settimana e in base a quanto riferito, i prigionieri di sesso maschile vennero fatti mettere in fila contro un muro, percossi con bastoni e alcuni vennero sottoposti a scosse elettriche durante gli interrogatori. I 28 somali trasportati a Malta furono rilasciati dopo due mesi e a tutti fu concessa protezione internazionale. Le autorità maltesi negano a tutt’oggi ogni accusa. A settembre 2010, relativamente all’incidente del 17 luglio e ad altri episodi analoghi, dichiararono ad Amnesty International che Malta non considera l’obbligo di non-refoulement valido anche in alto mare e che non ritiene di avere alcun obbligo nei confronti dei richiedenti asilo al di fuori delle proprie acque territoriali.21 Questa posizione, tuttavia, appare contraria a una recente sentenza della Corte europea dei diritti umani (vedi Hirsi Jamaa e altri contro Italia, pag. 11).
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Queste persone erano tra le circa 500 soccorse da uno skiff nel Mediterraneo e portati da sei imbarcazioni italiane a Lampedusa, Italia, maggio 2011.
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4. EXTRATERRITORIALITÀ DEGLI OBBLIGHI IN MATERIA DI DIRITTI UMANI
La legislazione in materia di diritti umani e dei rifugiati prevede che tutti gli stati rispettino e proteggano i diritti delle persone all’interno della propria giurisdizione, incluse quelle che si trovano entro le acque territoriali dello stato in questione, ma inclusa anche una serie di altri contesti in cui è lecito considerare gli individui soggetti alla giurisdizione di uno stato. L’esternalizzazione delle misure di controllo alle frontiere ha sollevato una serie di questioni riguardanti la giurisdizione, sia perché gli stati agiscono in alto mare, sia perché l’esternalizzazione coinvolge ufficiali e funzionari di uno stato che operano all’interno delle acque territoriali di un altro stato o a bordo di imbarcazioni battenti bandiera di un altro stato.22 Quando le autorità statali prendono a bordo di imbarcazioni battenti la loro bandiera persone intercettate o soccorse in mare, queste sono soggette alla giurisdizione di quello stato. Anche quando le operazioni di intercettazione o di soccorso in alto mare non implicano l’issaggio a bordo, nella maggior parte dei casi quello stato eserciterà un controllo e un’autorità effettiva sulle persone intercettate o soccorse e deve pertanto rispettare gli obblighi di diritto internazionale in materia di diritti umani e soccorso in mare, vale a dire attivarsi immediatamente per risolvere le necessità più urgenti di assistenza medica, cibo e acqua e assicurarsi che le persone soccorse vengano trasportate verso una destinazione sicura dove i loro diritti, compreso il diritto di non-refoulement, verranno rispettati. Inoltre, le persone intercettate o soccorse in mare devono poter accedere a procedure individuali e deve essere loro data la possibilità di spiegare la loro situazione; in più, chi lo desidera deve poter fare domanda di protezione internazionale e avere accesso a procedure d’asilo effettive ed eque.
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In caso di rinvio nel paese di partenza o d’origine, la procedura deve svolgersi in totale sicurezza e nel rispetto della dignità delle persone. Qualora la responsabilità dello stato venga chiamata in causa dalla legislazione in materia di diritti umani e dei rifugiati e dal diritto marittimo, lo stato non può sollevarsi da tale responsabilità facendo riferimento al coinvolgimento di altri stati o ad accordi presi con altri stati. Inoltre, gli stati devono assicurarsi di non stipulare accordi, bilaterali o multilaterali, che possano causare violazioni dei diritti umani. Ciò implica che gli stati sono tenuti a garantire che tali accordi non si basino su violazioni dei diritti umani, né che le possano provocare o in qualche modo contribuirvi. Nel contesto dell’esternalizzazione, ciò solleva gravi perplessità riguardo al coinvolgimento europeo (tanto tra stato e stato quanto tramite Frontex) in operazioni volte all’intercettazione di imbarcazioni nelle acque territoriali di un altro stato, quando le persone intercettate corrono il rischio concreto di subire violazioni dei diritti umani. Uno stato non può dispiegare le proprie risorse, i propri agenti o le proprie attrezzature ufficiali per l’esecuzione di azioni che costituirebbero una violazione dei diritti umani, nemmeno all'interno della giurisdizione territoriale di un altro stato.
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Gli accordi tra Italia e Libia prevedono misure che implicano gravi violazioni dei diritti umani. Anche gli accordi stipulati tra altri paesi europei e paesi dell'Africa settentrionale e occidentale, come pure gli accordi e le operazioni riguardanti l’Ue e Frontex, devono essere presi in esame per quanto riguarda il loro impatto sui diritti umani. Tuttavia, a causa della scarsa trasparenza che caratterizza tali accordi e prassi, allo stato attuale le possibilità di un’analisi accurata sono molto limitate. Il desiderio di alcuni paesi europei di prevenire l’“immigrazione irregolare” sta mettendo a rischio la possibilità di un soccorso in mare tempestivo e sicuro. Uomini, donne e bambini disperati sono stati lasciati in mare per giorni, mentre le nazioni discutevano su quale dovesse essere la loro destinazione. I sopravvissuti a questa terribile prova rischiano di essere riportati in un paese che mette ulteriormente a rischio i loro diritti umani e che ignora la loro legittima necessità di protezione internazionale. È noto che i ritardi nei soccorsi hanno provocato la morte di centinaia di persone, mentre non è stato possibile documentare la reale portata del problema.
© AP Photo/Guardia costiera italiana, Francesco Malavolta
5. CONCLUSIONI
Sommozzatori della guardia costiera italiana, in basso a sinistra, soccorrono migranti a Pantelleria, Italia, 13 aprile 2011. Secondo le autorità, due donne erano
Gli stati devono essere ritenuti responsabili delle violazioni dei diritti umani commesse nel contesto dell’esternalizzazione. La mancanza di trasparenza che caratterizza le prassi di gestione delle frontiere di molti paesi europei e gli accordi stipulati con paesi terzi implicano che tali violazioni rimarranno incontrollate. Il clima d’indulgenza creato da tale mancanza di controllo nega di fatto a migranti, rifugiati e richiedenti asilo qualsiasi tutela dei loro diritti.
annegate mentre tentavano di raggiungere l’Italia dall’Africa del Nord, dopo che la loro imbarcazione con a bordo 250 persone era andata fuori rotta e si era incagliata proprio davanti all’isola.
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6. RACCOMANDAZIONI
Amnesty International esorta tutti gli stati a proteggere i diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo nel rispetto degli standard internazionali. Il presente rapporto è incentrato sull’Italia.
L’ITALIA DOVREBBE:
I PAESI EUROPEI E L’UE DOVREBBERO GARANTIRE CHE:
le loro politiche e prassi di controllo dell’immigrazione non causino violazioni dei diritti umani, né vi contribuiscano o traggano vantaggio da esse;
sospendere gli accordi esistenti con la Libia sul controllo dell’immigrazione;
non stipulare altri accordi con la Libia finché questa non sarà in grado di dimostrare rispetto per i diritti umani di rifugiati, richiedenti asilo e migranti e non avrà messo in atto un sistema soddisfacente di valutazione e riconoscimento delle domande di protezione internazionale;
assicurarsi che tutti gli accordi sul controllo dell’immigrazione negoziati con la Libia o altri stati vengano resi pubblici.
gli accordi sul controllo dell’immigrazione rispettino appieno la legislazione europea e internazionale in materia di diritti umani e dei rifugiati, come pure il diritto marittimo; includano misure di protezione adeguate per proteggere i diritti umani con meccanismi di implementazione appropriati; e siano resi pubblici;
le operazioni di intercettazione abbiano come priorità la sicurezza delle persone in difficoltà e siano previste misure per fornire accesso a procedure di valutazione individuali, inclusa la possibilità di richiedere asilo;
gli organismi di ricerca e soccorso incrementino la loro capacità e cooperazione nell’area del Mediterraneo; rendano pubbliche le misure per ridurre i decessi in mare; e gli obblighi in materia di ricerca e soccorso vengano letti e messi in atto in conformità ai requisiti stabiliti dalla legislazione sui diritti umani e dei rifugiati.
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© Fulvio Bugani
Gli attivisti di Amnesty International hanno formato con i loro corpi la scritta “Grazie” su una spiaggia di Lampedusa, Italia, per ringraziare gli abitanti dell’isola per la loro solidarietà con le migliaia di rifugiati e migranti che arrivano da Tunisia, Libia e da altri paesi dell’Africa, luglio 2011.
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NOTE 1 Amnesty International ha documentato casi di detenzione e abusi in Mauritania avvenuti in passato e in Libia, sia in passato che attualmente. Vedi Mauritania: “Nobody wants to have anything to do with us”: Arrests and collective expulsions of migrants denied entry into Europe (Index: AFR 38/001/2008); Libya of Tomorrow: What hope for human rights? (Index: MDE 19/007/2010); Libya: Militias threaten hopes for new Libya (Index: MDE 19/002/2012). 2 Vedi il comunicato stampa (in italiano) presente sul sito web del ministero dell’Interno italiano, disponibile online all’indirizzo http://bit.ly/JK4YKn, ultima visita: 21 maggio 2012. 3 Vedi gli accordi bilaterali sul sito web del governo spagnolo, disponibili online all’indirizzo http://bit.ly/JgXJXG, ultima visita: 21 maggio 2012. 4 Vedi ad esempio Libya of Tomorrow: What hope for human rights? (Index: MDE 19/007/2010), giugno 2010; Libya: Militias threaten hopes for new Libya, (Index: MDE 19/002/2012), 16 febbraio 2012. 5 Libya struggles with illegal migrants, arms trafficking, 28 aprile 2012, disponibile online all’indirizzo http://www.alarabiya.net/articles/2012/04/28/210863.html, ultima visita: 17 maggio 2012. 6 Vedi il testo del Trattato (in italiano), disponibile online all’indirizzo http://bit.ly/MUUPwn, ultima visita: 29 maggio 2012. 7 Vedi ad esempio Hirsi Jamaa e altri contro Italia (application no. 27765/09), la sentenza della Grande camera della Corte europea dei diritti umani è disponibile all’indirizzo http://www.echr.coe.int/ECHR/EN/hudoc. 8 Rapporto di Thomas Hammarberg, Commissario per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa, a seguito della sua visita in Italia del 26 e 27 maggio 2011, para. 51, disponibile online all’indirizzo http://bit.ly/LaQsYM, ultima visita: 21 maggio 2012. 9 Vedi il comunicato stampa del ministero dell’Interno italiano (in italiano), disponibile online all’indirizzo http://bit.ly/LtV55S, ultima visita: 21 maggio 2012. Vedi anche il comunicato stampa in inglese Italy, Libya sign anti-migrant pact, http://bit.ly/HlbgKO, ultima visita: 21 maggio 2012. 10 Il 18 giugno 2012, il quotidiano La Stampa ha reso noti i contenuti dell'accordo - processo verbale della riunione delle due delegazioni - siglato dai ministri dell'Interno italiano, Annamaria Cancellieri, e da quello libico, Fawzi AlTaher Abdulali il 3 aprile, a Tripoli. Amnesty International ha commentato con grande preoccupazione i contenuti dell’accordo. Vedi L'accordo Italia - Libia in materia di immigrazione mette a rischio i diritti umani, 18 giugno 2012, disponibile online all’indirizzo: http://www.amnesty.it/accordo-italia-libia-in-materia-diimmigrazione-mette-a-rischio-i-diritti-umani. 11 Sebbene l’Unhcr operi in Algeria, Ciad, Egitto, Niger, Tunisia e Sudan, al momento nessuno di questi paesi può offrire protezione a lungo termine a rifugiati o altre persone bisognose di protezione internazionale. 12 L’ambasciatore italiano in Libia ha fornito queste
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informazioni nel corso di un’interrogazione del comitato parlamentare del 13 ottobre 2009, citata in questo sito http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=760&l=it. 13 Vedi, ad esempio, la dichiarazione pubblica di Amnesty International Italy: Over 100 reportedly “pushed back” at sea, 30 agosto 2011, disponibile online all’indirizzo http://bit.ly/qZxdpE e Seeking safety, finding fear: Refugees, asylum-seekers and migrants in Libya and Malta, (Index: REG 01/004/2010), 14 dicembre 2010, disponibile online all’indirizzo http://bit.ly/JofVwE. 14 UNHCR deeply concerned over returns from Italy to Libya, 7 maggio 2009, disponibile online all’indirizzo http://www.unhcr.org/4a02d4546.html, ultima visita: 17 maggio 2012. 15 Vedi Submission by the Office of the United Nations High Commissioner for Refugees in the Case of Hirsi and Others v. Italy (application no. 27765/09), 29 marzo 2011, disponibile online all’indirizzo http://bit.ly/KDNS0F, ultima visita: 17 maggio 2012. 16 More than 1,500 drown or go missing trying to cross the Mediterranean in 2011, disponibile online all’indirizzo http://www.unhcr.org/4f2803949.html, ultima visita: 17 maggio 2012. 17 Vedi il rapporto di Amnesty International State of the World’s Human Rights 2010. Vedi anche “Italy allows ship with rescued migrants to dock”, Guardian, 19 aprile 2009; “UN rebuke as governments squabble over immigrants found clinging to tuna nets”, Guardian, 29 maggio 2007. 18 L’Unhcr ha dato notizia del caso all'indirizzo http://www.unhcr.org/4d9c8bf56.html. Le questioni riguardanti Italia e Malta sono state riportate dalla stampa italiana e maltese: ad esempio, La Repubblica http://www.repubblica.it/cronaca/2011/04/06/news/lampedu sa_naufraga_barcone_strage_immigrati14584220/?ref=HREA-1; e Times of Malta http://www.timesofmalta.com/articles/view/20110407/local/ maroni-implies-blame-on-malta-for-migrantstragedy.358699. 19 Amnesty International ha sentito due sopravvissuti all’incidente. Il rapporto dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Lives lost in the Mediterranean Sea: who is responsible?, pubblicato il 29 marzo 2012, è disponibile online all’indirizzo http://assembly.coe.int/CommitteeDocs/2012/20120329_mi g_RPT.EN.pdf. I mezzi di comunicazione hanno dato ampio risalto all’incidente. 20 Traduzione non ufficiale. 21 Vedi Seeking safety, finding fear: Refugees, asylumseekers and migrants in Libya and Malta, (Index: REG 01/004/2010), 14 dicembre 2010, disponibile online all’indirizzo http://bit.ly/JofVwE. 22 La sentenza completa della Grande camera della Corte europea dei diritti umani sul caso Hirsi Jamaa e altri contro Italia rappresenta uno strumento di grande utilità per fare luce su alcune questioni.
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S.O.S. EUROPE IL COSTO UMANO DEL CONTROLLO DELL’IMMIGRAZIONE Nel tentativo di contrastare la “migrazione irregolare” proveniente dall’Africa e diretta in Europa, alcuni paesi europei attuano misure extraterritoriali di controllo alle frontiere, in mare o sulla terraferma. In base agli accordi stipulati da questi stati, le imbarcazioni vengono intercettate in mare e gli occupanti rinviati nei paesi dell'Africa occidentale o settentrionale, in circostanze che li espongono a gravi violazioni dei diritti umani. La quasi totale mancanza di trasparenza rispetto alle pratiche di gestione delle frontiere seguite da molti paesi europei e agli accordi siglati con alcuni stati dell’Africa settentrionale e occidentale, impediscono di fatto l’accertamento di tali violazioni. Questo rapporto prende in esame alcuni aspetti delle ripercussioni delle politiche europee per il controllo dell’immigrazione sui diritti umani, con particolare attenzione agli accordi tra Italia e Libia e alle relative conseguenze. Il rapporto chiede che tutte le politiche di controllo alle frontiere siano conformi agli obblighi in materia di diritti umani e che tutti i governi garantiscano la trasparenza negli accordi sul controllo dell’immigrazione. Il rapporto è stato pubblicato nell'ambito della campagna di Amnesty International “When you don’t exist”, lanciata con lo scopo di proteggere i diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in tutta Europa.
amnesty.org Index: EUR 01/013/2012 Giugno 2012
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