simone ferrarini - FIGHT! - a cura di carlo pesce

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OVADA INCONTEMPORANEA FESTIVAL 2010

FIGHT! simone

ferrarini

a cura di carlo pesce

spazio sotto l’ombrello - scalinata sligge - ovada dal 06 al 20 novembre 10


OVADA INCONTEMPORANEA FESTIVAL 2010 spazio sotto l’ombrello - scalinata sligge - ovada dal 06 al 20 novembre 10

con il patrocinio della Provincia di Alessandria e della Città di Ovada organizzazione: Gruppo Due sotto l’ombrello mostra a cura di Carlo Pesce pubblicazione a cura di Andrea Repetto e Carlo Pesce copyright © 2010 - riproduzione vietata

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FACCE PIENE DI PUGNI Lo attesi al centro del ring e accennai a due diretti di sinistro mentre lui si chiudeva e muoveva la testa. J. Ellroy, Dalia Nera.

Nella storia dell’arte, il pugilato è rappresentato con un preciso valore emblematico da una statua ellenistica dal titolo “Pugile in riposo”. Il personaggio fuso nel bronzo, è seduto a terra. Egli è dotato di una muscolatura poderosa e le braccia si appoggiano appesantire alle gambe. Le sue mani sono ancora avvolte da spesse strisce di cuoio, quei proto guantoni adoperati nel pugilato antico, uno sport durissimo e cruento che spesso lasciava i praticanti sfigurati al termine della carriera. Egli, forse ha appena combattuto, o forse deve ancora combattere, ma questo è un dettaglio marginale: è il volto che mostra la terribile grandezza del pugilato. Il combattente solleva leggermente il capo e osserva dal basso verso l’alto, un brusco movimento verso destra come se la sua attenzione fosse stata richiamata all’improvviso da qualcosa o da qualcuno; il naso è schiacciato, con il setto frantumato, gli occhi sono gonfi, accerchiati da un volto che ha affrontato decine di combattimenti. Non si percepisce la gioia della vittoria o l’amarezza della sconfitta, la stanchezza e il dolore sono troppo intensi. È per questo che “il pugilatore” è l’emblema di questo sport, perché nel pugilato non esistono né vittoria, né sconfitta: una simile figura non comunica certo la gloria di chi ha vinto, ma piuttosto il drammatico divario che spesso intercorre tra l’obiettivo da raggiungere e il prezzo da pagare, o addirittura la dolorosa, beffarda amarezza della sconfitta che vanifica lunghi sacrifici e lascia nel corpo, e ancor più nello spirito, ferite troppo lente a rimarginarsi. Sul ring ci si affronta e basta, e il pugile è il simbolo del dolore e della sconfitta che, per l’umanità, sono perennemente in agguato. Ormai da tempo siamo abituati a assistere a incontri di pugilato, non tanto ai bordi di un ring, quanto nella finzione cinematografica, o talvolta con la fantasia, nel racconto di alcuni scrittori che amano questo sport. Una pagina memorabile sta nei primi capitoli del romanzo di James Ellroy “Dalia nera”.


Non è un caso che siano soprattutto gli americani a essersi dedicati alla descrizione del pugilato, e non è ugualmente un caso che sia un dipinto di George Bellows a riportare una delle più interessanti raffigurazioni di tale sport. È un lavoro dai solidi equilibri formali, etichettabile come uno dei massimi esempi del Realismo americano, presentato al pubblico nel 1924 con il titolo “Dempsey and Firpo”. La distribuzione dei pesi, la corrispondenza formale, l’evidenza plastica delle figure sono gli elementi più evidenti del quadro; ma è il carattere narrativo, veloce e sferzante, tipico dell’artista reporter, a identificare la scelta estetica alla base di questa composizione pittorica, cioè quell’interesse di fermare un attimo, un frammento autentico di vita contemporanea, a deciso vantaggio della volontà di comporre un’immagine in grado di funzionare solo per autonomi valori stilistici.

Simone Ferrarini è spiritualmente vicino a un artista come Bellows. Con lui, infatti, condivide la passione per la boxe, e come lui sa esprimere narrativamente questo evento. Ferrarini parte dal presupposto che ciò che ha di fronte è comunque la sintesi di una sequenza di combattimento. Anch’egli, dunque, veste quello stesso abito del reporter tipico del Realismo americano, un abito che lo ha già messo a confronto con la riproduzione pittorica di fotografie di ricercati o di militari italiani impegnati nella campagna di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale. La boxe raccontata da Simone Ferrarini ha però una componente sacrale che affonda le sue radici nel mito, nella storia stessa dell’uomo. Essa è la sublimazione dell’evento violento che accompagna da sempre la razza umana. La boxe è dunque un esorcismo, un gesto apotropaico che annulla le forze malefiche della natura dell’uomo, è un combattimento simbolico che ha le movenze della danza e racchiude tutte le più importanti abilità umane: forza, agilità, intelligenza. Il pugile è il guerriero che affronta se stesso e le sue paure per salvare gli altri, è l’uomo che deve uscire dall’antro per contendere alle belve il dominio del mondo. I dipinti di Ferrarini si inseriscono prepotentemente nell’immaginario collettivo. Ricordano epoche passate, epoche non lontane ma ormai entrate nel mito di molte generazioni, epoche nelle quali gli incontri di pugilato dei grandi


campioni americani giungevano “via satellite” da Las Vegas o da New York, in un confuso bianco/nero che non impediva di ammirare l’armonia di quei corpi, il balenare dei flash sui muscoli madidi di sudore, il KO devastante che spezzava la resistenza di uno dei due contendenti. Sul ring si è soli con i propri pensieri, e i pensieri sono pochi, istintivi, ridotti all’essenziale: non si deve cedere. Ferrarini è erede di un espressionismo narrativamente eccezionale, di un realismo essenziale che si esplicita con la velocità del tratto e la capacità di immortalare l’attimo. Ecco che allora si spiega la volontà di adoperare delle grandi superfici con sfondi monocromatici, o addirittura prive di sfondo, proprio per esaltare l’immagine dell’atto puro. Simone Ferrarini è talvolta estremamente sintetico nel tracciare il profilo dei combattenti, ma anche in questo caso ci si trova di fronte a una scelta che vuole privilegiare l’aspetto essenziale del combattimento. Questi lavori possono essere percepiti come sequenze separate di un’azione continua, possono essere messi insieme per ottenere un “film”, un documentario sportivo nel quale non si insiste tanto sull’aspetto eroico del protagonista, ma si guarda lo sfidante, quel personaggio che svolge il ruolo di una comparsa, uno dei cosiddetti “attori di seconda fila”, che vivono ai margini delle luci e dei lustrini di Hollywood e che qualche volta hanno avuto un’occasione, ma che non sempre sono riusciti a sfruttarla. Così sono i pugili dopo aver combattuto, – “gente maledetta” afferma Giorgio Scerbanenco in uno dei suoi racconti neri; “un uomo moralmente distrutto”, fa comprendere Luchino Visconti a proposito di Simone Paronda, il personaggio interpretato da Dario Salvatori in “Rocco e i suoi fratelli”, uno dei più bei film in cui compare questo sport –. Essi, come il pugilatore del III secolo a.C., si presentano con il naso schiacciato e gli occhi tumefatti, sconfitti dal campione, quello che in quell’occasione ha il diritto di alzare le braccia sul ring, e, sollevando leggermente la testa, guardano il mondo immersi nel loro dolore.

Carlo Pesce


FIGHT!


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FIGHT! OVADA INCONTEMPORANEA FESTIVAL 2010 spazio sotto l’ombrello - scalinata sligge - ovada dal 06 al 20 novembre 10 dal venerdì alla domenica, dalle 17,00 alle 19,30

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