Quaderno di comunicazione rivista di dialogo tra culture
Quaderno di comunicazione nuova serie
Direzione Angelo Semeraro Comitato di Consulenza Scientifica Alberto Abruzzese Marc Augé Egle Becchi Ferdinando Boero Raffaele De Giorgi Derrick de Kerckhove Paolo Fabbri Pina Lalli Michel Maffesoli Roberto Maragliano Mario Morcellini Salvatore Natoli Peppino Ortoleva Mario Perniola Agata Piromallo Gambardella Augusto Ponzio Elena Pulcini Antonio Santoni Rugiu Aldo Trione Ugo Volli
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Segretario di Redazione Mimmo Pesare
Registrazione presso il tribunale di Roma n. 600/99 del 14/12/1999
Pubblicato con il contributo dell’Università del Salento erogato tramite il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali
Tutti i numeri del Quaderno sono consultabili al sito web: www.quadernodicomunicazione.com
Indice
p.
5
Questo numero (a.s.)
Vicini, lontani p. 11
Luigi Zoja, La scomparsa del prossimo
15
Fabio Dei, Insieme con la nostra solitudine
25
Eugenio Imbriani, L’orchessa e l’antropologo
35
Pietro Clemente, Le crasi del vicino e del lontano
47
Duccio Demetrio, Nostalgia di comunità. Anghiari e la sindrome del dono
57
Diana Salzano, Prossimità dismorfiche: ricomposizioni ottiche dello sguardo mediatico
65
Charo Lacalle, El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano (traduzione di Angelo Nestore)
79
Alessio Rotisciani, Quanti amici hai? Caratteristiche e limiti delle connessioni sociali su Facebook
87
Lelio Semeraro, Il poker on-line scopre le sue carte
95
Silvia Gravili, Lo specchio cinese. Imprenditorialità a confronto
107
Franco Martina, Intellettuali, tra “vergini idee” e “non sempre casti appetiti”
Reset 119
Daniele Lamuraglia, Disconnessioni (Wired e culti adolescenziali)
127
Luciana Dini, Comunicare la scienza. Le biotecnologie nell’era della globalizzazione
139
Mimmo Pesare, Paideia come prassi trasformativa
145
Angelo Semeraro, Narrativa in cerca di paideia
Tessiture 159
Pulcini E., La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’era globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009
160
Mancuso V., La vita autentica, Raffaello Cortina, Milano, 2009
162
Martini C.M., Le ali della libertà, Piemme, Milano, 2009 (Angelo Semeraro)
163
Fiumanò M., L’inconscio è il sociale. Desiderio e godimento nella contemporaneità, B. Mondadori, Milano, 2010
165
Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano, 2010
166
Mancia M., Narcisismo. Il presente deformato allo specchio, Bollati Boringhieri, Milano, 2010
168
Siciliani De Cumis N., (a c.), A. Semënovicˇ Makarenko, Poema pedagogico, Edizioni Albatros, Roma, 2009 (Mimmo Pesare)
169
Lacalle C., El discurso televisivo sobre la inmigración, Ediciones Omega, Barcelona, 2008 (Stefano Cristante)
170
Marrone G., L’invenzione del testo. Una nuova critica della cultura, Laterza, Roma-Bari, 2010 (Cosimo Caputo)
172
Dorfles P., Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura, Garzanti, Milano, 2010 (Stefania De Donatis)
174
Piromallo Gambardella A., La comunicazione tra incanto e disincanto, Franco Angeli, Milano, 2009 (Diana Salzano)
175
«Alfabeta» 2. n.1, Gems, Milano, 2010 (Carlo Formenti)
177
Autori
Questo numero
Proponiamo in questo 11° fascicolo una riflessione sul tema della prossimità e della lontananza, muovendo dalla convinzione che le categorie del Vicino e del Lontano hanno subito trasformazioni profonde. Per millenni spazialità e temporalità hanno funzionato da paradigmi indiscussi delle relazioni interumane, ma l’età delle tecnologie reticolari li ha modificati e sconvolti. Il concetto di prossimo ad esempio, sembra essersi evaporato, anzi scomparso, ha fatto notare Luigi Zoja, il cui provocatorio volume einaudiano ha suggestionato l’agenda di questo monografico. Siamo sempre più connessi: dialoghiamo coi lontani, ma tendiamo a disinteressarci di chi ci è più vicino. Fabio Dei però non è d’accordo con questa tesi, e dal suo osservatorio antropologico sostiene che l’esplosione del Mitwelt non cancella il mondo-ambiente, ossia la sfera della prossimità nella quale intratteniamo le nostre relazioni fondamentali, e che nonostante la pervasività degli ambient media, noi continuiamo a vivere in universi addomesticati e locali che gli stessi mezzi di comunicazione rafforzano. Due tesi a confronto quindi, che rimandano a una più grande questione sollevata dallo stesso Dei: come guardano e giudicano il mondo gli intellettuali? Come erano gli intellettuali di ieri, e come sono quelli di oggi, i sans papier – come li definisce Maurizio Ferraris – migrati nella grande rete? E cosa c’è alla radice del loro eterno disagio? Il dibattito è in corso, e il tema non si poteva eludere, perciò questo fascicolo lo segnala con un saggio meditato di Franco Martina, ma anche con un buon grappolo di Tessiture. Lontananza del vicino e vicinanza del lontano. Mancanza del più prossimo e Presenza del più remoto. Presenze a rischio, direbbe ancora Ernesto de Martino, che cercano rifugio nel metastorico per sottrarsi alla scomparsa e all’irrilevanza, ma anche alla durezza del principio di realtà. Il virtuale, a pensarci bene, ha assunto le stesse funzioni magico-rituali, rifugio e recupero insieme di un’identità minacciata. Si lavora sulla fertilità sorprendente degli ossimori, sullo scontro dei codici: Bausinger, qui evocato da Imbriani, parla di una vicinanza estranea, e Clemente di lontananze vicine. Perché oggi la lontananza non è più lontana, dal momento che la tecnica del lontano ha avvicinato cose e persone. La temporalità nuota nel
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flusso lineare di un presente perenne, di un evenemenziale che si preclude sguardi più lunghi, sia avanti che indietro. La distanza – afferma Diana Salzano – si è compressa e ha cambiato tipo di misuratori; non si esprime più attraverso entità metriche ma in entità temporali. Non è più la distanza fisica a definire i margini dell’alterità, ma il flusso. Il tempo ha perciò assunto una sua centralità rispetto allo spazio, anche se si tratta di un tempo diverso da quello ciclico, perché misurato sulla sola durata delle connessioni; su rapporti che vivono e si consumano su centri provvisori di interesse, affinità, empatie. Non si tratta evidentemente di questioni che riguardano la prossimità o la distanza fisica. Le tecnologie che hanno contratto spazio e tempo sono sì strumenti, ma anche fonti di relazioni che espongono ’intimità oltre la soglia di relazioni protette. Sostiene Demetrio che esse “ottemperano ormai al bisogno di scegliere le proprie comunità e di costruirle informandole allo spirito della più totale opzionalità”. Le connessioni reticolari sono esperienze di intensità pari, e fors’anche superiore, a quelle che ci è dato vivere nei contatti reali. Spazi virtuali “acronici e atopici” che stimolano e suscitano attrazioni, repulsioni, intrighi, seduzioni. Un gioco dell’immaginazione che introduce una terza dimensione, accanto a quella privata e a quella professionale e lavorativa, fonti queste ultime di infinite frustrazioni e insoddisfazioni. L’enorme incidenza del web 2.0 sulle nostre vite – se ne occupa Charo Lacalle – ha aperto una partita nuova nel sistema delle relazioni reticolari. Gli incontri su blog, facebook – su cui scrive Rotisciani – twitter, e-terapy e altro ancora, si configurano qualitativamente altri rispetto al corpo a corpo della vita attiva. In questi formati elettronici si fanno investimenti emotivi che rispetto alle consuete forme di interazione fisicamente vicine hanno lo stesso peso delle narrazioni letterarie. Farne esperienza diretta, piacevole o deludente che sia, genera effetti non indifferenti, non solo in chi ha preso consuetudine di frequentarli, ma anche in tutti coloro che pur essendo lontani da quei luoghi virtuali, ne restano sia pure indirettamente coinvolti. Si tratta – spiega ancora Demetrio – di relazioni “concrete e vive” – come direbbero i sociologi del quotidiano – che offrono l’opportunità della finzione, laddove la sfera pubblica e quella privata tendono a sottrarci la dimensione vitale del gioco. La vita attiva, nel lavoro, nelle professioni, nelle istituzioni, ci sagoma per tempo a reprimere l’emotività, a dominare i sentimenti, a formalizzare i rapporti. Le prestazioni aziendali impongono distanze di sicurezza e ufficialità nei rapporti tra le persone. Le emozioni non possono interferirvi. Demetrio ci conduce nei luoghi della convivenza lavorativa dove la comunicazione ha completamento smarrito la funzione donativa che è nel suo etimo fondativo; non funge più da collante solidale in vista del raggiungimento di un’azione comune finalizzata al raggiungimento di obbiettivi soddisfacenti. La comunicazione aziendale, nel sistema del management, impone adattamenti sempre più stringenti a logiche indiscusse. Un come senza più un perché che alimenta rapporti gregari, anaffettivi, conflittuali. Scrive ancora Demetrio: “Le prerogative richieste nella gestione della lontananza emotiva dalle faccende di lavoro, corrispondono alla propria abilità nel riuscire a sdoppiarsi, nell’imparare rapidamente a interpretare, bene e con successo, in copioni impostici dall’arte della versatilità sia di ruolo che emotiva, badando bene a non confonderne i piani tra loro”. E ancora: “I contesti di lavoro obbligano ad autogestire gli aspetti emotivi, control-
Il vicino/lontano è indagato con diversa prospettiva in altri saggi. Silvia Gravili esamina i due modelli imprenditoriali italiano e cinese. Un’occasione, afferma, per “guardarci nello specchio”, con ciò rimandandoci a temi già trattati dal QC; alla necessità dello sguardo dell’altro-diverso come forma necessaria per ogni processo di identificazione. Il profilo del giocatore on-line analizzato da Lelio Semeraro ci apre a un mondo nuovo in cui tutto va ripensato: dove l’imperativo “giocatore, gioca il tuo gioco!” si allarga oltre Huizinga, Callois e Dostoevskij, richiamandoci il valore del rischio nello spazio invalicabile della regola. La rubrica Reset presenta altri saggi di diversa natura e aspirazione. Lamuraglia chiede attenzioni per una comunicazione non truccata, reagendo alle provocazioni delle parole mana dettate da un uso ammiccante delle tecnologie comunicative; Luciana Dini presenta a sua volta un contributo di comunicazione scientifica sulle nanotecnologie e i loro usi sociali, affrontando la questione degli OGM e dei brevetti. I due ultimi saggi infine riflettono sul bisogno di nuova paideia, recuperando discorsi lontani e fili spezzati, per risollevare le sorti di una pedagogia che ha un evidente bisogno di andare oltre se stessa. (a.s.)
7 Questo numero
landoli e dosandoli a seconda delle circostanze e degli interessi. E il risultato è che essi finiscono col trasformare uomini e donne in figure anaffetive”. Nelle comunità virtuali l’inaridimento emotivo del corpo a corpo sociale trova una cassa di compensazione e di sublimazione senza eguali. La ricchezza dell’offerta consente, per chi lo voglia, generosi risarcimenti sulle perdite subìte nella vita di relazione di prossimità. L’espansione della rete ha senz’altro alimentato legami orizzontali, spodestando la verticalità della comunicazione-potere. Ma la domanda è: ha aiutato a invertire la tendenza all’allontanamento dell’altro? In realtà le cronache della vita quotidiana ci descrivono situazioni in cui sentiamo più vicini ai lontani e più lontani dai vicini. La distanza è sempre stato un ostacolo alla comprensione. Ma la situazione in cui ci troviamo è che quella distanza dell’altro che è stata annullata dai mezzi informatici e mediatici, ha preso corpo nei rapporti di contiguità. Il fascino del distante avvicinato è l’altra faccia di una stessa medaglia del vicino allontanato. E l’idea di un prossimo distante, sempre più lontano, sempre più astratto, pone senz’altro (ha ragione Zoja) interrogativi etici. Certo, la possibilità aperta a tutti di sublimare con l’immaginazione la durezza del principio di realtà gode, in questo momento, di un alto e crescente indice di gradimento, e non solo tra le nuove generazioni. È il fascino, forse illusorio, del rapporto di cui hanno sempre potuto godere le figure del doppio e delle maschere proprie di ogni finzione narrativa.
Vicini, lontani
Luigi Zoja La scomparsa del prossimo
Tutte le grandi civiltà racchiudono aspetti mostruosi. L’illuminismo ha avuto troppa fretta di promettere la loro scomparsa: le mostruosità, però, sono state identificate, chiamate col loro nome e combattute. Non sono propriamente scomparse, ma non sono più state considerate inevitabili. La nascita dei diritti dell’uomo ha fatto invece nascere una mostruosità nuova: il marketing dell’umanesimo. Molti orrori antichi si sono attenuati, altri hanno preso vita dietro a facciate opposte. A differenza dei tempi passati, in cui il tiranno proclamava il proprio potere e il proprio arbitrio, oggi chi ha il potere o lo cerca si dichiara sempre benefattore. Ma la dittatura del proletariato presto trascura il proletariato, mentre la dittatura resta. Il new deal perde rapidamente il new, mentre conserva il deal: non è un caso che deal significhi accordo ma anche affare. L’aratro che apre le zolle è conquista sociale, il seme che vi cresce è egoismo mercantile. I movimenti degli anni Sessanta e Settanta hanno due anime: una nuova solidarietà sociale e la liberazione del desiderio. Ma la solidarietà presto scricchiola, poi si spacca sotto i colpi d’ariete dell’individualismo. Vince il desiderio, concepito sempre più indiscutibilmente come desiderio personale. Esso si allea alla nuova economia e funziona da acceleratore del consumismo. Non si tratta, però, di complotti che rivelino una falsità delle ideologie retrostanti. Si tratta di un percorso sotterraneo, universale e trasversale, che investe ogni popolo con la ipermodernizzazione, la nuova dittatura dell’economia e della tecnologia. Acquistando oggetti e progresso, la nostra attenzione è distolta dagli uomini, quindi riversata sugli acquisti e sulle cose. La tecnica genera (ad es. attraverso internet o i telefoni cellulari) rapporti prima inesistenti con chi è lontano,
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ma in cambio si porta via l’affetto per chi è vicino e ci svincola dalle responsabilità che esso comportava. Due sono dunque le cause – profonde e irreversibili – di questa estraneazione. La prima è l’anonimato della civiltà di massa. Fino a un secolo fa, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale (ben più del 90%) era agricola: una condizione dominante anche in Nordamerica e in Europa centro-settentrionale. L’economia e la società erano fortemente locali: la maggioranza della gente viveva nello stesso luogo per tutta la vita (il fascino ambiguo del servizio militare stava in gran parte nell’essere uno dei pochi eventi che potevano portare lontano). E la maggior parte della popolazione conosceva solo duecento, al massimo trecento persone in tutta la vita. L’animale-uomo, del resto, si è evoluto durante gran parte della sua storia come nomade che vagava in piccole bande su territori praticamente vuoti. Il suo sistema nervoso è dunque predisposto per riconoscere, memorizzare e accogliere positivamente un numero ben ristretto di presenze. Ma dal 2008, hanno detto le Nazioni Unite, più delle metà della popolazione terrestre vive in città. È una svolta senza precedenti, più importante del passaggio dell’egemonia mondiale dagli Stati Uniti alla Cina. Anche la Cina sarà una breve comparsa sul palcoscenico delle epoche: altri protagonisti vi saliranno e scenderanno, come è capitato all’Impero Persiano e a quello di Alessandro, a Roma, alla Spagna e all’Inghilterra. La città, invece, dice l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite1, non cederà più il primato alla campagna. Mai più. Nelle città, l’individuo medio, che esce in strada, usa mezzi pubblici, visita uffici e supermercati, vede migliaia di nuovi volti anonimi: non durante la vita, ma ogni giorno. Il suo sistema nervoso, i suoi meccanismi (animali e naturali) di allarme di fronte agli sconosciuti, sono costantemente mobilitati: non se ne accorge solo perché si tratta di una condizione che non è particolare, ma permanente. Vive in un stato (strisciante, inconscio) di stress e diffidenza continui. Non sorride più riconoscendo i volti, come facevano i suoi antenati nel villaggio. Per riconoscere volti, accende la televisione. I sorrisi, artificiali e anonimi, di attori e presentatori che non ha mai incontrato, gli sono noti: sono la sua famiglia, tecnologica e preconfezionata. Il secondo fattore di distanza e perdita del prossimo è infatti la tecnologia. La tecnologia ha fatto cose meravigliose che moltiplicano le possibilità di interagire con gli altri. Già da tempo, però, è stato lanciato l’allarme: gli uomini non sono capaci di usarla, ne divengono dipendenti come da una droga e perdono la capacità di comunicare anziché arricchirla. A questo fenomeno è stato dato il nome di paradosso di internet2. Più recentemente, pubblicazioni scientifiche ci hanno fornito dati concreti. In Gran Bretagna, nel ventennio 1987-2007 le ore quotidiane che il cittadino medio trascorre davanti a mezzi di comunicazione elettronici sono passate da quattro a circa otto. Nello stesso periodo, quelle trascorse comunicando con persone in carne ed ossa sono scese da sei a poco più di due: ma in seguito dovrebbero essersi contratte ancora vertiginosamente e oggi forse non arrivano a un’ora3. Tutto questo è morboso, in ogni senso. È ingiusto, ci suggerisce istintivamente ogni morale laica o religiosa. È dannoso psicologicamente, come ho cercato di argomentare in un breve saggio sulla scomparsa del prossimo4. Ma è anche così
Note 1 United Nations Human Settlements Program (U. N. Habitat) P. O. Box 30030, State of the World Cities 2008/2009, Nairobi, Kenya. www.unhabitat.org. 2 Kraut, R. et al., 1998, Internet Paradox: A Social Technology That Reduces Social Involvement and Psychological Well-Being?, in «American Psychologist», 53, 9, 1017 1031. 3 Sigman, A., 2009, Well Connected? The Biological Implications of “Social Networking”, in «Biologist», 56, 1, 14 20. 4 Zoja, L., 2009, La morte del prossimo, Einaudi, Torino. 5 Sigman, cit. 6 Ertel, K. A. et al., 2008, Effects of Social Integration on Preserving Memory Function in a Nationally Representative US Elderly Population, in «American Journal of Public Health», 98 (7), 1215 1220. Questo studio è particolarmente impressionante e incontestabile, perché basato su un campione molto vasto.
13 La scomparsa del prossimo
Avendo osservato l’accelerarsi di questi fenomeni negli ultimi decenni, avendone misurato le conseguenze devastanti sui propri pazienti, uno psicoanalista si è dunque permesso di uscire dal suo ambito e rivolgere una domanda a teologi e filosofi. Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento, non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È morto anche il prossimo. Abbiamo perso anche la seconda parte del comandamento perché non abbiamo più esperienza di una verità che ci era trasmessa dalla tradizione giudaico-cristiana: tanto in ebraico nel Levitico, quanto in greco nei Vangeli, il termine prossimo significava una cosa molto semplice: “il tuo vicino”, quello che vedi, senti, puoi toccare. Nella complessità delle tecniche e della società urbana l’esperienza della vicinanza sembra sparire per sempre.
Luigi Zoja
innaturale per il nostro corpo da costituire un grave fattore patogeno: la sostituzione dei contatti sociali con quelli elettronici può, per esempio, favorire alterazioni nei leucociti e diminuire la resistenza ai tumori5. Secondo la Scuola di Medicina di Harvard, nelle persone di oltre cinquant’anni socialmente isolate, la perdita di memoria avanza a velocità doppia rispetto a quelle integrate6. E così via.
Fabio Dei Insieme con la nostra solitudine
Il tema di questo Quaderno è il modo in cui i vari gradi della modernizzazione comunicativa e sociologica modificano e influenzano le relazioni interpersonali. In un mondo rimpicciolito alle dimensioni di un villaggio globale, la lontananza è un concetto che si relativizza. Potenzialmente potrei incontrare la maggior parte degli abitanti del pianeta viaggiando per 24 ore; e con i media elettronici potrei entrare in comunicazione con chiunque in tempo reale. D’altra parte, queste stesse condizioni possono relativizzare il concetto di vicinanza: la mediazione tecnologica della comunicazione, insieme ai processi di individualizzazione della vita economica e sociale, mutano (potenzialmente, occorre anche qui aggiungere e sottolineare) i rapporti con le persone più prossime nella sfera esistenziale. Questi temi, centrali nella sociologia e nell’antropologia contemporanee a partire almeno da Max Weber, hanno dato vita a interessanti programmi di ricerca etnografica concentrata su specifici contesti comunicativi. Per etnografia intendo una indagine empirica che tenta di descrivere le pratiche della vita quotidiana e di cogliere i significati che gli attori sociali attribuiscono ad esse. Ad esempio, se voglio studiare il modo in cui la televisione modifica le relazioni familiari, oppure verificare se e come i telefonini cellulari mutano il senso della prossimità comunicativa, dovrò cominciare con l’osservare e il descrivere ciò che la gente fa con la televisione e i telefonini in concreti contesti relazionali, e quale senso attribuisce a queste sue esperienze. Queste forme di ricerca sono state però spesso soffocate da un altro tipo di discorso sul rapporto tra modernizzazione e relazioni umane. Si tratta di un discorso moralista e apocalittico, forgiato a partire dal Romanticismo, che vede nelle condizioni della modernità – principalmente la tecnologia, l’individualismo e il disincanto – una minaccia all’autenticità spirituale e alla “umanità” delle relazioni sociali. Questa visione si è intrecciata con alcuni importanti momenti della teoria critica (dal marxismo alla psicoanalisi, dall’esistenzialismo alla scuola di Francoforte), utilizzando concetti diversi ma mantenendo inalterata una filosofia della storia guidata da una qualche “dialettica dell’Illuminismo”: più avanza il progresso tecnologico più le relazioni intersoggettive si impoveriscono e l’individuo si isola e si “aliena”, degradando verso una forma di vita meno che umana. In altre parole, la maggiore vicinanza sarebbe solo apparente, nascondendo in realtà una
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sempre maggiore distanza e incomunicabilità. Responsabile di questo processo sarebbe in particolare la diffusione della cultura (materiale e immateriale) di massa, il cui artificioso flusso avvolgerebbe gli individui sostituendosi all’autentico legame sociale. In questo articolo vorrei sostenere la necessità di disincagliare la ricerca sociale dalle filosofie della storia di segno moralistico. Queste ultime, per quanto talvolta suggestive, hanno la tendenza a desumere il senso dell’azione sociale (nel senso strettamente weberiano del termine) da presupposti teorici troppo forti, che difficilmente si prestano alla verifica etnografica. Per il tema che qui ci interessa, ad esempio, si assume che la società capitalistica, individualista, consumista e mass-mediale non possa che rendere gli individui sempre più soli, isolati e incomunicanti; del che sarebbe prova la diffusione di pratiche la cui natura degradata e alienante appare come ovvia, quali lo shopping, il guardare la televisione, dedicarsi al fitness, vivere in realtà virtuali della rete e così via. Un atteggiamento che prescinde dal tentativo di cogliere i significati culturali che gli attori attribuiscono a tali pratiche – obiettivo invece di quell’indagine che ho chiamato etnografica, o se vogliamo esprimerci diversamente di una socio-antropologia comprendente o interpretativa. Comincerò dunque con l’esaminare due contributi, peraltro assai diversi tra loro, di discorso critico-moralistico, ricavandone una fenomenologia della presunta “lontananza” degli individui nel mondo della “vicinanza” globale. Proseguirò chiedendomi se e in che misura una interpretazione di questi fenomeni come forme di azione sociale possa suffragare la diagnosi di solitudine.
Vita liquida e solitaria “Il contesto esistenziale che ha finito per diventare noto come ‘società dei consumi’ si distingue per il fatto che ridefinisce le relazioni interumane a modello e somiglianza delle relazioni tra i consumatori e gli oggetti di consumo. Questo fatto ragguardevole è il risultato dell’annessione e della colonizzazione, da parte dei mercati dei consumi, dello spazio fra gli individui”. Questo passo di Zygmunt Bauman (2007, p. 15) è tratto da uno dei numerosi volumi dedicati dal grande sociologo alla qualità della vita nella società tardo-industriale o “liquida”. Una società nata dalla sconfitta storica dei totalitarismi novecenteschi, che esalta la libertà e l’autonomia degli individui ma di fatto li rende soggetti a un sistema (il consumismo, appunto) che essi non controllano e che si infiltra nel nucleo più intimo della soggettività e delle relazioni personali. Il tratto cruciale della società liquida è la tendenza alla continua sostituzione dei beni e alla creazione di sempre nuovi e artificiosi bisogni. Rispetto alla società “solida”, la relazione tra bisogni, produzione e consumo si inverte. Non si parte più da bisogni primari che sollecitano la produzione e il consumo di beni per quanto possibile durevoli: al contrario, sono le esigenze del mercato a dettare i bisogni delle persone. Gli individui rappresentati nella teoria di Bauman, che in ciò è coerente erede della Scuola di Francoforte, sono soggetti passivi e opachi: vivono in un mondo che non solo non controllano, ma che neppure comprendono. Si illudono di sce-
17 Insieme con la nostra solitudine Fabio Dei
gliere autonomamente ma sono in realtà “agiti” da forze invisibili. Vivono in un mondo concepito come “un contenitore di potenziali oggetti di consumo”, sono guidati da obiettivi di soddisfazione edonistica e voyeuristica, e dalla “comparsa di desideri che esigono di essere appagati” attraverso il consumo (Bauman 1999, p. 81). La stessa vita sentimentale, il rapporto con il corpo e le relazioni umane sono piegate a questa logica: aspetti che Bauman analizza in rapporto a fenomeni culturali quali il fitness, i talk show televisivi, le reti per la ricerca di partner sessuali in Internet e così via. Le persone costruiscono se stesse, la propria identità e le proprie relazioni come prodotti, attraverso strategie di marketing. Il che spinge Bauman ad affermare che nella società dei consumi si confondono e si annullano le divisioni “tra le cose da scegliere e coloro che le scelgono; tra le merci e i loro consumatori; tra cose da consumare e persone che le consumano” (2007, p. 17). Come le cose, le persone-consumatrici sono pedine di un gioco più grande di loro, invisibile e incontrollabile. La solitudine, per Bauman, è il loro status essenziale. Il consumatore è solo perché i suoi bisogni e problemi edonistici e i modi per soddisfarli sono essenzialmente privati. Anche quando è insieme e si confronta con altri, la sua condizione non cambia. A proposito delle comunità dei weight watchers, formate da individui ossessionati dalla perdita di peso e dall’adesione a un modello estetico imposto dal mercato, Bauman osserva ad esempio che essi “non sono meno soli per il fatto di essere insieme”; le loro paure e incertezze e i loro “sogni” sono radicalmente privatizzati, non si trasformano in nulla di simile a una causa comune; al massimo, riunendosi con propri simili essi arrivano a sapere di “non essere soli nella loro solitudine” (1999, p. 54). Soprattutto in un libro come In Search of Politics (1999), l’approccio di Bauman coglie lucidamente il nesso tra la crescente privatizzazione dell’esistenza sociale e le difficoltà della pratica politica – in particolare, con la desertificazione dell’agorà, la sfera pubblica che dovrebbe dare sostanza alla democrazia ponendo in connessione la politica con l’educazione e con una concezione condivisa del bene comune. Convince meno la sua diagnosi di degenerazione antropologica (l’isolamento e la trasformazione in merce degli individui, quindi la loro totale alienazione dalle “vere” esigenze umane). Si potrebbe dire che la passività attribuita da Bauman agli attori sociali rispecchia la totale assenza della loro voce dalla sua teoria e dal suo metodo di ricerca. Il sociologo procede esaminando frammenti di comunicazione pubblica (ad esempio slogan pubblicitari, siti internet, programmi televisivi), dalla cui analisi deduce i significati che devono avere per gli attori. Ad esempio, lo slogan di una rivista di moda, che lancia “una mezza dozzina di look chiave…grazie ai quali sarete un passo avanti a chi fa tendenza”, è lo spunto per molte pagine in cui si descrivono i valori, le finalità esistenziali e gli stati di coscienza dei potenziali utenti (2007, p. 103 sgg.). Questi ultimi sono per così dire dedotti dallo slogan stesso. Oppure, la diffusione delle pratiche di fitness basta a giustificare una intensa discussione del rapporto reificato e mercificato che gli individui contemporanei hanno col proprio corpo. Il punto di vista degli attori non interessa (ad esempio, il fatto che chi va in palestra o compra abiti alla moda possa non sentirsi affatto solo, incomunicante e mercificato); anche perché – questo sembra un presupposto implicito della teoria – essi sono dominati dalla falsa coscienza e non sanno quello che realmente stanno facendo. Può capirlo solo
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il sociologo critico, che dall’esterno ha disvelato il meccanismo ingannatore del sistema e la sua capacità di creare bolle di realtà fittizia.
Dove si nasconde il prossimo? Il secondo documento che vorrei esaminare è un recente libro dello psicoanalista Luigi Zoja, La morte del prossimo (2009). Lo scelgo sia perché è stato evocato nel call for papers di questo numero, sia perché rappresenta un esempio particolarmente spinto di diagnosi sulla nostra solitudine e “lontananza”, che fa ben risaltare le differenze fra il discorso moralistico-apocalittico e una più modesta ed etnograficamente fondata ricerca sociale. Zoja non basa le proprie osservazioni su una grande teoria sociologica come quella della modernità liquida di Bauman. La pensa tuttavia allo stesso modo sugli effetti dei tre grandi fattori della modernizzazione, vale a dire la tecnologia, il disincanto e l’individualizzazione della vita quotidiana. Dopo aver ucciso Dio, come annunciato da Nietszche alla fine dell’Ottocento, essi hanno avviato un processo di isolamento e allontanamento delle persone; finendo per uccidere anche “il prossimo” – cioè il secondo termine del “doppio comandamento che ha retto per millenni la morale ebraico-cristiana: Ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso” (Zoja 2009, p. 3). Con un duplice effetto. Da un lato un progressivo allontanamento dell’altro, un “processo di estraniazione [con cui] il prossimo si è fatto sempre più astratto e ci ha emozionato sempre meno” (p. 125); dall’altro, un corrispondente bisogno di vicinanza e intimità che può esprimersi solo “in forme contorte” (p. 4). Il libro di Zoja è in effetti una specie di inventario di queste forme patologiche attraverso le quali noi allontaniamo e astraiamo il prossimo o aneliamo in modo “contorto” a una vicinanza ormai impossibile. Eccone alcune: – in treno non parliamo più con i vicini di scompartimento, ma urliamo nei nostri cellulari: non sappiamo comunicare con chi è vicino e invece lo disturbiamo cercando il rapporto con chi è lontano (p. 8); – nelle relazioni della vita quotidiana non cerchiamo lo sguardo degli altri, anzi lo rifuggiamo concentrandolo sulle apparecchiature tecniche; si pensi alla cassiera del supermercato che fissa il lettore ottico e non guarda nemmeno in faccia il cliente (p. 11); – il narcisismo è un sentimento prevalente, che guida la cura del corpo, ad esempio attraverso pratiche di culturismo o chirurgia estetica non legate ad alcun valore o “senso” (pp. 11-12); – i rapporti di vicinato sono in crisi, vogliamo abitazioni sempre più isolate da quelle dei vicini, secondo la logica di una “domanda di distanza” (p. 17); – ascoltare musica, un tempo attività socializzante e comunicativa, è diventata solitaria e isolante con l’uso del walkman e dell’iPod (p. 18); – l’arte, con la sua riproduzione tecnica, si distacca dagli esseri umani che la producono e la sua fruizione avviene al di fuori di ogni contesto relazionale (p. 23); – lo spettacolo mass-mediale “abitua a una distanza affettiva tra osservatore e osservato: alimenta costantemente gli occhi con immagini perfette di persone con le quali non si ha niente in comune” (p. 36);
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– in particolare i videogiochi producono un’intensa e continua eccitazione, a scapito della partecipazione e della “compassione”, che erano invece massime nel teatro (p. 35); mentre i giochi di ruolo on-line cancellano le relazioni ambientali a favore di quelle fittizie, producendo disadattamento e dipendenza (pp. 67-69); – il bombardamento mediatico crea indifferenza morale verso le altrui sofferenze (pp. 87-88). E così via. Di solito le filosofie della storia scelgono una certa scala temporale e alcuni eventi di cruciale rottura. Zoja è molto chiaro in questo all’inizio del suo libro. L’Ottocento ha ucciso Dio (a seguito della rivoluzione francese e di quella industriale), il Novecento ha ucciso il prossimo (come conseguenza della rivoluzione mass-mediale ed elettronica). Via via che il libro procede, la dicotomia vicino-lontano viene però proiettata anche su altre scale. Una è quella del rapporto tra natura e cultura (“in natura, all’interno di piccoli gruppi”, il rapporto col prossimo è al suo massimo grado; p. 14); un’altra è quella della civiltà “occidentale”, che sembrerebbe procedere per gradini successivi verso la lontananza. La parola scritta allontana più di quella orale, la stampa più del manoscritto, la comunicazione elettronica più del libro; e ancora, il cinema allontana più del teatro, la televisione più del cinema, internet più della televisione (anche se per la verità nelle pagine finali si ammettono alcune potenzialità positive della comunicazione on-line e della rete come piazza virtuale). In ogni caso, su ogni possibile scala temporale (dalla natura alla cultura, dalle società arcaiche e classiche a quelle moderne, dal capitalismo solido a quello liquido), il progresso produce degenerazione delle relazioni umane, isolamento e solitudine degli individui. Si può capire che lo sguardo di uno psichiatra, là dove si posa, scorga sintomi e da questi risalga a diagnosi – cioè a una realtà profonda che i “pazienti”, gli attori sociali, non possono comprendere. Ciò che accomuna questo libro ai lavori di Bauman è che entrambi si presentano come sguardi scandalizzati di intellettuali su un mondo complesso e degenerato, senza che si possa mai scorgere l’ombra di un dialogo con quei soggetti sociali le cui pratiche sono così severamente interpretate. Sono dunque libri che ci dicono più sulla storia e sulla condizione attuale degli intellettuali che non sulla più vasta realtà sociale che commentano. Ma cos’hanno da dire lo spettatore televisivo, l’ascoltatore di iPod, il body-builder narcisista, il maniaco dei telefonini, l’appassionato di videogiochi e così via sulle loro azioni? Quali significati vi scorgono? Si sentono davvero soli? E se no, cosa autorizza lo psichiatra o il sociologo a dire che “realmente” lo sono, anche se non se ne rendono conto? Quali prove possono portare a sostegno della loro interpretazione? E ancora, si può chiedere, cosa significa vicinanza e lontananza relazionale? Nel discorso di Zoja, questi termini si riferiscono volta per volta alla prossimità fisica, visiva e tattile; alla capacità di dialogo diretto; ai sentimenti etici di solidarietà o indifferenza; alla capacità di partecipazione politica. Significati diversi che rimbalzano in continuazione uno sull’altro, senza riferimento ad alcuna specifica teoria del legame sociale e perdendosi dunque in un generico senso comune che non può non ricordare la famosa battuta di Woody Allen (Dio è morto, Marx è morto e anch’io non mi sento tanto bene”).
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Il prossimo e la categoria di persona Nella tradizione degli studi antropologici, la questione del “prossimo” e della vicinanza-lontananza nelle relazioni umane è legata alle riflessioni sulla categoria di “persona”, aperte da Marcel Mauss in un pionieristico saggio del 1938. Obiettivo di Mauss era storicizzare il self: mostrare come ciò che oggi consideriamo come la sfera più profonda, intima e autonoma del nostro essere è in realtà il frutto recente di un complesso percorso storico e culturale. Per molte delle società che egli definiva “arcaiche”, la categoria di “io”, in senso sia psicologico che morale, non esiste: non è attraverso di essa che si pensa ai propri rapporti con gli altri e con la società. Alla fine degli anni ’30 appaiono anche i primi studi di Norbert Elias sul “processo di civilizzazione” – anch’essi, di fatto, centrati sulla genealogia della soggettività contemporanea; e la stessa filosofia seguirà ampiamente nella seconda metà del Novecento questa linea di indagine, fra l’altro con gli studi di Charles Taylor (1989) e Ian Hacking (1995). In una simile prospettiva, non si tratta di chiedersi se l’uomo di oggi è più o meno solo di quello di un tempo, o se il prossimo sia più o meno vicino; piuttosto, in che misura la tematica della solitudine (la sua stessa pensabilità) emerge in relazione alla plasmazione storica di un certo tipo di individualità. E ancora, i comportamenti relazionali come quelli su cui Zoja indirizza l’attenzione (gli sguardi, i contatti fra i corpi, gli scambi verbali, la manifestazione esplicita di emozioni) non saranno da intendere come indicatori assoluti di prossimità o solitudine; occorrerà invece comprenderli in relazione ai mutevoli codici culturali che regolano e attribuiscono significato agli usi comunicativi del linguaggio e del corpo. È in questo senso che Elias, appunto, ha mostrato lo sviluppo nelle società di corte europee di un codice distintivo di “cortesia” che tende a minimizzare nei rapporti sociali i contatti fisici, le esplosioni di rabbia e violenza e la manifestazione esplicita delle passioni. Quando il sociologo contrappone l’individuo moderno, controllato, distante e freddo, all’impulsivo, diretto e umorale uomo medioevale (Elias 1988, p. 346), non è per affermare che uno è più “solo” e l’altro più vicino al prossimo: il punto è comprendere la costituzione storico-culturale di entrambi. In direzione analoga possiamo leggere le analisi dei microrituali della comunicazione quotidiana in Erving Goffman; o gli studi di Mary Douglas (in particolare Douglas 1970) sugli usi simbolici del corpo e sulle categorie di purezza e di rischio. Salutare gli altri in modo più o meno informale, mostrare o coprire certe parti del corpo, incrociare o meno gli sguardi con gli sconosciuti, mostrarsi in pubblico affascinati o arrabbiati o piuttosto dissimulare queste emozioni; tutto questo può esser ricondotto non tanto a una condizione teologico-esistenziale di solitudine o di “apertura-al-prossimo”, quanto a sistemi di categorie e norme sociali che costituiscono il nucleo profondo di quanto chiamiamo “cultura”. Categorie e norme che si differenziano a seconda delle appartenenze e delle condizioni sociali: nel senso che un certo comportamento pubblico (ad esempio portare i capelli lunghi o corti, vestire in modo casual o ricercato, mostrarsi aperti o riservati etc.) rappresenta per gli attori una strategia di distinzione sociale rispetto alla classe, al genere, alla generazione e ad altri aspetti identitari. Ad esempio uno dei casi più suggestivi proposti da Zoja – il fatto che “una volta” si conversava e si
Consociati e contemporanei Vi troveremmo anche, io credo, reti di solidarietà, amicizia, partecipazione e com-passione più ampie e solide di quanto lo stato rovinoso dell’agorà possa farci sospettare. Naturalmente lo spazio mi consente solo di suggerirlo, non di dimostrarlo. Personalmente, ho cercato di approfondire questi punti sul terreno delle culture del “dono”. Forma di scambio “personalizzata” che alimenta i legami sociali, il dono sembrerebbe annientato dai meccanismi impersonali del mercato e dello stato: eppure, al di sotto o negli interstizi dei sistemi istituzionali di scambio, esso esiste e anzi prospera sotto numerose forme. Nell’età della presunta morte del prossimo, mettersi sulle tracce del dono può essere un modo per riconoscere ricche e ampie reti di “prossimità” (Dei, Aria 2008). Un mondo di individui isolati, guidati dal puro desiderio delle merci, tesi a mercificare se stessi e incapaci di vedere i propri simili potrà anche essere il modello ideale della società liquida e del capitalismo consumistico: ma non è certo la realtà della nostra vita quotidiana. Dobbiamo qui toccare un ultimo punto. Nella Fenomenologia del mondo sociale, Alfred Schütz considerava appunto la “prossimità” come criterio distintivo di “sfere” o “regioni” nelle quali la conoscenza degli altri (l’esperienza dei loro vissuti di coscienza) si attua in modo diverso. Le “regioni” che Schütz distingue sono quattro: a) il mondo-ambiente (Umwelt), costituito dalle persone che condividono la quotidianità spazio-temporale di ego, che dunque stanno in relazione di prossimità; b) il mondo dei contemporanei (Mitwelt), una sfera “più remota” composta dalle persone che condividono il tempo ma non lo spazio di ego, che non interagiscono normalmente con la sua vita quotidiana; c) il mondo dei predecessori (Vorwelt); d) il mondo dei successori (Folgewelt), composti da quelle persone che (in un dato momento) non condividono il tempo di ego (Schütz 1960, p. 44). Con i consociati del mondo-ambiente vi è una percezione immediata e diretta dei rispettivi vissuti di coscienza; tanto da giungere a fondere i rispettivi vissuti in un soggetto collettivo, un Noi attraverso il quale “possiamo cogliere simultaneamente
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offriva da mangiare e da bere agli anonimi compagni di treno, “oggi” ci si ignora parlando invece nei telefonini – non riguarda maggiori o minori solitudini: riguarda semmai l’incontro-scontro fra codici di comportamento e di cortesia connessi a generazioni, a provenienze culturali e a status sociali diversi. In questa prospettiva, l’intera fenomenologia della “alienazione” contemporanea proposta da Bauman, da Zoja e da altri critici potrebbe auspicabilmente trasformarsi in un’agenda di indagine etnografica centrata sui significati di queste pratiche, sui sistemi categoriali e sulle strategie di posizionamento sociale che esse sottendono. Non si tratta di essere più o meno “teneri” nei confronti del fitness, del tatuaggio, delle chat, dell’iPod e così via. Il punto è che se andiamo oltre la superficie consumistica e edonistica di questi fenomeni, vi troveremo i soliti vecchi esseri umani che tessono le loro ragnatele di senso, ordiscono le loro micropolitiche e vivono una intensa vita sociale (almeno, non meno intensa di quanto non accadesse nella società solida, in quella arcaica o, qualunque cosa voglia dire, “in natura”).
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la mia e la tua durata con uno sguardo unitario” (Ibid., p. 315). Nei confronti dei contemporanei, invece, il vissuto dell’altro non è dato immediatamente, ma solo attraverso una conoscenza tipizzante che lo rende in vari gradi anonimo. Ora, per i teorici della morte del prossimo, sembra che il mondo-ambiente sia del tutto inaridito: vivremmo oggi esclusivamente in un mondo di contemporanei anonimi e sostanzialmente estranei. In effetti, le tecnologie comunicative e i processi di globalizzazione hanno aperto enormemente il nostro sguardo rispetto ai contemporanei, che incontriamo quotidianamente e in gran numero nelle folle urbane, nei programmi televisivi, nei viaggi turistici e così via. Ma l’espansione del Mitwelt non cancella certamente il mondo-ambiente – la sfera di prossimità nella quale intratteniamo le nostre relazioni fondamentali. Nonostante le tecnologie, il mercato e la comunicazione globale, ciascuno di noi continua a vivere in universi domesticati e in qualche modo locali, che gli stessi strumenti di comunicazione alimentano e rafforzano. Ad esempio, è vero che il telefono, internet, i social network e la posta elettronica possono metterci in contatto con chiunque nel mondo: ma di fatto sono usati in grandissima parte per alimentare reti di relazioni già costituite e per lo più radicate localmente (Bausinger 2002). È vero che farsi tatuare, praticare il fitness o ascoltare la musica con l’iPod possono essere attività individuali ed edonistiche: ma di fatto, come ormai molti studi dimostrano implicano e sostengono forme di socialità, fiducia, solidarietà e associazionismo (si vedano Sassatelli (2000) per il fitness, Truglia (2010) per le comunità di appassionati di tatuaggio, Dei (2008) per l’ascolto e la condivisione di musica in rete). Le diagnosi di “solitudine del cittadino globale” sembrano ignorare questa dimensione fatta di prossimità, di relazioni faccia-a-faccia, della condivisione di tempi e luoghi. Si prende troppo alla lettera la metafora del villaggio globale, immaginando che l’Umwelt giunga a comprendere l’intero pianeta e tutti i contemporanei. Ma naturalmente, che i rapporti con i contemporanei restino anonimi e tipizzanti non rivela alcuna patologia o mutazione esistenziale; che l’anonimato e la solitudine invadano anche la sfera dei consociati, al di là di casi particolari, sarebbe tutto da dimostrare. Certo è che studiare l’articolazione tra queste due regioni dell’esperienza sociale all’interno del processo di globalizzazione è il grande obiettivo dell’antropologia contemporanea. Bibliografia Bauman, Z., 1999, In Search of Politics, Cambridge, Polity Press; tr. it., 2008, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli. Bauman, Z., 2007, Consuming Life, Cambridge, Polity Press; tr. it., 2008, Consumo, dunque sono, Bari, Laterza. Bausinger, H., 2002, Fremde Nähe, Tubingen, Klöpfer und Meyer; tr. it., Vicinanza estranea. La cultura popolare fra patria e globalizzazione, trad. it. Pisa, Pacini. Dei, F., 2008, Tra dono e furto. La condivisione della musica in rete, in Santoro, M., Nuovi media vecchi media (Cultura in Italia, 1), Bologna, Il Mulino, pp. 49-74. Dei, F., Aria, M. (a cura di) 2008, Culture del dono, Roma, Meltemi. Douglas, M., 1970, Natural Symbols: Explorations in Cosmology, London, Barrie and Rockliff; tr. it., 1978, I simboli naturali, Torino, Einaudi.
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Elias, N., Über den Prozess der Zivilisation. I. Wandlungen des Verhaltens in den Weitlichen Oberschichten des Abendlandes, Frankfurt, Suhrkamp. 1969; tr. it. 1988, La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino. Hacking., I., 1995, Rewriting the Soul, Princeton, Princeton University Press; tr. it., 1996, La riscoperta dell’anima, Milano, Feltrinelli. Sassatelli, R., 2000, Anatomia della palestra. Cultura commerciale e disciplina del corpo, Bologna, Il Mulino. Schütz, A., 1960, Die sinnhafte Aufbau der sozialen Welt, Wien, Sprinter Verlag; tr. it., 1974, La fenomenologia del mondo sociale, Bologna, Il Mulino. Taylor, Ch., 1989, Sources of the Self. The Making of the Modern Identity, Cambridge, Cambridge University Press; tr. it., 1993, Radici dell’Io, Milano, Feltrinelli. Truglia, N., 2010, Il corpo delle meraviglie. Antropologia e fotografia del tatuaggio, Roma, Kappa. Zoja, L., 2009, La morte del prossimo, Torino, Einaudi.
Steven Warburton, My communities
Eugenio Imbriani L’orchessa e l’antropologo
Vongole Una domanda impossibile: cos’hanno in comune l’orchessa Kāwaka, personaggio di un mito dei Bella Bella, e l’antropologo Claude Lévi-Strauss? Ce lo dice lo stesso studioso: il modo di mangiare le vongole. L’orchessa fa il suo mestiere, è cannibale e rapisce un bambino (o una bambina); un aiutante soprannaturale spiega al bambino quel che dovrà fare per sfuggire alla terribile carceriera, e cioè seguirla quando andrà a pesca di vongole – di cui è ghiotta –, con la bassa marea, raccogliere i sifoni del mollusco, che essa getta via, infilarli nella dita delle mani e puntarle contro l’orchessa per farla spaventare. “Ma perché un’orchessa”, si chiede Lévi-Strauss, “per di più di statura gigantesca, si dovrebbe spaventare davanti ad oggetti insignificanti ed inoffensivi quali i sifoni delle vongole, cioè quelle piccole proboscidi molli attraverso le quali il mollusco aspira e rimette l’acqua (in certe specie sono vistose, e comodissime per afferrare l’animaletto cotto a vapore ed immergerlo nel burro fuso: famosa specialità di un ristorante vicino a Times Square al tempo in cui abitavo a New York)?” (Lévi-Strauss 1984, p. 128). La questione bisognerà consegnarla all’analisi strutturale che indagherà sull’esistenza di altre versioni del mito, in cui elementi narrativi producano una relazione di inversione con la prima: per esempio, presso i Chilcotin si racconta che un bambino piagnucoloso viene rapito da Gufo, che lo impaurisce mostrandogli le mani armate da corna di capra in cui ha infilato le dita: artigli di mare e artigli di terra costituiscono una coppia oppositiva e l’analisi può procedere; nei saggi di Le regard éloigné (1983) l’autore torna più volte sui miti degli indiani della costa americana nordoccidentale e sulle vongole, ma non sapremmo mai come vi sia abbondanza di sifoni separati dalle stesse se non immaginassimo Kāwaka tenere tra le dita il mollusco appeso alla sua coda, staccarlo con un morso e gettare il minuscolo residuo: più o meno gli stessi movimenti che Lévi-Strauss ripete al ristorante, con in aggiunta il passaggio nel burro fuso e senza buttare nulla. Lo sguardo da lontano permette di ricostruire le relazioni tra i mitemi e di individuare (o stabilire) le regole di produzione del pensiero mitico; allontanare lo sguardo consente di leggere un quadro ampio di connessioni e di trasformazioni e di riflettere sulla natura normativa e regolativa delle strutture; e tuttavia l’avvio
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dell’analisi viene determinato dai dati empirici, il che significa che bisogna conoscere non solo i miti, ma anche le vongole. Anzi, nel nostro caso, un tratto biografico casuale, consumatosi in un contesto del tutto estraneo alla materia dell’indagine, favorisce la comprensione dei gesti di un’orchessa che porta un certo cibo alla bocca, neanche fosse una commensale dell’antropologo. Vicino e lontano si rincorrono nell’opera di Lévi-Strauss, quasi si intrecciano in un andirivieni costante; e infatti, non casualmente, De près et de loin è il titolo che ha dato alla sua biografia (Lévi-Strauss, Eribon 1988). Si può dire che in questa espressione si condensa la vocazione più intima dell’antropologia novecentesca: andare lontano per guardarlo da vicino e sfruttare le conoscenze che nel frattempo si acquisiscono per cercare di attrezzare lo sguardo in modo da osservare la propria società con atteggiamento più distaccato, critico, distante. E in questo movimento si trovano le ragioni di un mestiere che ti porta a fare “il giro più lungo” per affrontare una questione, un tema sociale, di optare per la molteplicità e la varietà delle pratiche. “Per quell’aspetto del ritorno a casa”, scrive Francesco Remotti, “che è la riconsiderazione della propria società è come se gli antropologi ponessero quest’ultima nel mucchio o nell’ordine che si è venuto a determinare. Così facendo, gli antropologi manifestano spesso una tendenza, che si può definire una primitivizzazione della propria società: ‘noi come i selvaggi’ è la formula che esprime sinteticamente questa tendenza” (2009, p. 31). Insomma, sia che gli studiosi individuino, dopo il viaggio, un ordine generale che governa la molteplicità, sia che lo neghino, la società in cui vivono entra nel grande calderone tra tutte le altre, un caso tra i tanti possibili, una tra le declinazioni dell’umanità; ma non ci si ferma mai, perché la vita e la cultura sono soggette al mutamento, quanto è stato osservato si rinnova e le cose dette entrano nelle discussioni, nei dibattiti, entrano nel cumulo dei saperi, un bagaglio per nuove esplorazioni. Vedere noi come se fossimo gli altri, questo è il principio del distanziamento che, paradossalmente, dovrebbe aiutare ad avvicinarli, a comprenderli; non è facile, non sempre. Solitamente, in una delle prime lezioni del corso pongo ai miei studenti domande di questo genere: quel è quel popolo in cui, in particolari occasioni cerimoniali, le donne si tingono i capelli e indossano calzature scomode; oppure anche: qual è quel popolo le cui pratiche religiose più diffuse si basano sul consumo (cannibalico, aggiungo, per produrre un maggiore effetto) della carne del dio? Solo qualcuno intuisce e sorride, ma tutti aspettano che io risolva l’enigma e spieghi che quel popolo sono loro, siamo noi; poi proseguo – il canovaccio è abbastanza collaudato – riferendo qualcuno degli aneddoti di Nacirema: They are a North American group living in the territory between the Canadian Creel the Yaqui and Tarahumare of Mexico, and the Carib and Arawak of the Antilles. Little is known of their origin […]. Nacirema culture is characterized by a highly developed market economy which as evolved in a rich natural habitat. While much of the people’s time is devoted to economic pursuits, a large part of the fruits of these labors and a considerable portion of the day are spent in ritual activity. The focus of this activity is the human body (Miner 1956, p. 503)1.
La letteratura antropologica propone altri esercizi di questo genere. Uno degli esempi più divertenti lo fornisce l’etnomusicologo Gilbert Rouget: egli pubblica
Nessuno sembra sospettarlo: ma per pensare che i cantanti d’opera sembrano dei posseduti bisogna conoscere come si comportano i posseduti, e saper tracciare somiglianze e differenze – il giro lungo, appunto. Pietro Clemente applica una particolare procedura di de-familiarizzazione alla città di Siena, immersa nel mondo globalizzato, che può essere definita sulla base di somiglianze con: gli Azande (amanti della magia, se così si può dire), i Nuer (per la solidarietà o conflittualità fondata su relazioni di lignaggio), Manhattan (per il costo delle case), gli emirati petroliferi (per la ricchezza presente), la Svizzera (il ruolo delle banche), il Principato di Monaco (autoreferenzialità), un quartiere intellettuale di Parigi (il tasso di fecondità), la Costa Azzurra ( il tasso di anzianità), la ex Jugoslavia (marcare la distinzione tra le identità interne), lo spazioporto di Guerre stellari (gente di tutti i tipi), una rete giovanile di religiosità pagana (la passione per i riti calendariali), Pompei (flussi turistici), una cittadina degli anni Cinquanta (passeggiate sul corso), la Cina comunista (stabilità politica). Ho un po’ riassunto, ma non del tutto infedelmente, questa serie di comparazioni, che hanno lo scopo di illustrare “la lontananza del vicino”: Leggere Siena così – per produrre un effetto di “defamiliarizzazione” ironica – ne fa vedere improvvise connessioni nel mondo globale e la mostra, anziché come una città medievale compatta e continua nella sua civiltà antica, come un patchwork difficile in cui la costruzione dell’unità è una elaborazione continua. Queste immagini aiutano anche a capire meglio la dislocazione della località che caratterizza il mondo contemporaneo, la deterritorializzazione che Siena ha vissuto come nostalgia delle radici e ritorno tra le mura promesse, ma ha infine elaborato con una forte ed efficace risposta di compattamento e di governo» (Clemente 2005, p. 168-169).
Ma la città toscana è anche, emblematicamente, esempio della vicinanza del lontano, polo di attrazione di turisti e studenti (molti meridionali), di immigrati di vario genere, che rielabora le sue componenti, ma sperimenta costantemente il costituirsi di legami di appartenenza.
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Mio caro Agosba, che avventura! Ieri sono stato all’Opéra. Ho creduto di impazzire! Dal momento che nessuno me ne aveva parlato, non me l’aspettavo: non ti dico la mia sorpresa nel trovarmi in piena cerimonia di possessione! Avresti creduto di essere a Porto Novo, in piazza Dèguè, per la festa annuale di Sakpata, oppure ad Allada per le cerimonie di Adjahouto, o ancora a Abomey per le Grandi Usanze. Ovviamente, non si tratta della stessa cosa. Le differenze sono enormi. Che importa! Sono convinto che fondamentalmente una rappresentazione all’opera e una festa di Vodun nel Benin siano per molti aspetti paragonabili. Nessuno qui sembra sospettarlo. (Rouget 1986. p. 331).
Eugenio Imbriani
una falsa lettera che un giovane etnomusicologo nativo del Benin scrive da Parigi a un suo amico rimasto in patria, nella quale paragona l’esecuzione di un’opera lirica alle cerimonie di possessione:
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Fabrice a Waterloo Apro il Trattato della lontananza di Antonio Prete e trovo un’osservazione che mi pare del tutto condivisibile: Perché oggi la lontananza non è più lontana. È prossima, transitabile, persino domestica. È infatti nelle case, sul monitor del computer, sul display dei cellulari, nel suono che giunge agli auricolari. La tecnica del nostro tempo, la tecnica oggi trionfante, è infatti la tecnica del lontano. L’avverbio greco tēle – lontano – che compare già nei primi poeti greci, va a comporre gli elementi e gli strumenti della tecnica contemporanea. Telefono, televisione, telematica. Tutto quel che è lontano – isole, deserti, città, avvenimenti, paesaggi, costumi di ignote popolazioni – viene oggi verso di noi, bruciando il tempo e lo spazio della lontananza. Si fa contemporaneo. Si fa superficie, schermo, suono. Diventa il qui e ora offerto allo sguardo, all’ascolto. (Prete 2008, p. 10).
Il lontano che trovi a casa è certamente un’esperienza ricorrente nel mondo globalizzato, anche se non proprio originale, se consideriamo come, per esempio, tre secoli fa, le credenze e le pratiche della cultura e della pietà popolare apparissero inficiate di paganesimo e, forse, di eresia, ai missionari – esperti e desiderosi di martirio –, nelle città e nelle campagne in cui svolgevano la loro opera, nelle Indie di quaggiù, non agli antipodi, o in Africa, o oltreoceano; e se consideriamo le “novità” che i folkloristi hanno scoperto tra contadini, pastori, marinai, artigiani a due passi da casa, o poco più in là. Il giro lungo è un metodo, oltre che una prassi; Marc Augé, africanista e viaggiatore, ha eletto la metropolitana parigina, per altri versi incarnazione della routine quotidiana, luogo esemplare di incontri con l’altro e ispiratore di riflessioni di ampia portata: “L’altro”, egli scrive (1986, p. 31), “comincia accanto a me. Bisognerebbe anche aggiungere che in numerose culture (tutte hanno costituito delle antropologie, delle rappresentazioni dell’uomo e dell’umanità) l’altro comincia dall’io senza che Flaubert, Hugo o Lacan c’entrino qualcosa: la pluralità degli elementi che definiscono l’io come una realtà composita, provvisoria ed effimera”, offre ampia materia agli etnologi quando si dedicano a riflettere sul concetto di persona. “Tutti quelli che incontro sono degli altri, nel senso pieno del termine” (ivi); sarebbe troppo scontato scoprire la diversità nel colore della pelle o nelle lingue: ma quanto sono lontani i giovani da un professore ultrasessantenne?, si chiede Augé. Inoltre, tanti uomini significano altrettante storie, e anche coloro che affermano di appartenere a una storia condivisa declinano quello che Renan (1997)2 definiva “un atto di volontà” più che un sentimento dalle basi più concrete: Come quei navigatori solitari che la larghezza dell’onda nasconde tra loro ma ai quali la radio dice che conducono la corsa quasi in parità “in un fazzoletto di mare”, noi ci sentiamo vicini solo nella parola degli altri. Il passato che condividiamo è un’astrazione, nel migliore dei casi una ricostruzione: capita che un libro, una rivista o una trasmissione televisiva ci spieghino quel che abbiamo vissuto al momento della Liberazione o nel Maggio ‘68. Ma chi è allora questo “noi” cui dovrebbe essere riportato il senso di quanto è accaduto? Chi, insomma, non è Fabrice a Waterloo? (Augé 1986, p. 36).
Il folklore, dicevo. Lamberto Loria, al quale venne affidata la realizzazione della Mostra di Etnografia italiana all’interno dell’Esposizione universale del 1911, che si svolse a Roma per il cinquantenario dell’Unità, tra il 1883 e il 1905 viaggiò in Lapponia, Finlandia, Russia, Turkmenistan, poi in India e in Nuova Guinea, in Papuasia, dove rimase sette anni, quindi in Eritrea; gli oggetti che a centinaia riportò in Italia hanno a dir poco arricchito il Museo Nazionale di Antropologia di Firenze e il Museo Preistorico-etnografico di Roma. Nelle Istruzioni per lo studio della Colonia Eritrea (uscite nel 1907) raccontava che nel 1905, a Circello nel Sannio, rimase fortemente colpito dalla diversità di usanze e costumi, valutazioni, credenze riscontrabili in altre parti d’Italia, e concludeva: “Mi chiesi se non fosse più conveniente di raccogliere documenti e manufatti etnici in Italia che non in lontane regioni” (Puccini 2005, p. 15). Dopo aver lungamente girato il mondo, insomma, trovava uno straordinario repertorio di stranezze nel suo paese, un campionario di diversità da selezionare e mettere in mostra a rappresentare una nazione tutt’altro che monolitica. Inoltre, non tutto veniva giudicato idoneo a presentare pubblicamente la porzione d’Italia alla quale si apparteneva: pregiudizio (orribile, talvolta), superstizione erano i termini in uso all’epoca. Poco più di un decennio prima del Loria, nel 1893, lo scrittore Giuseppe Gigli, di Manduria, in Puglia, così descriveva e commentava la danza terapeutica del tarantismo: Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell’acqua. E non solamente nell’acqua si agitano per mezza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. È una cosa che muove a pietà, e a sdegno per così orribile pregiudizio! Immancabilmente è accompagnato il ballo dal monotono e cadenzato suono d’un violino, e dal rullo ineguale d’un tamburello con le nacchere (Gigli 1998, p. 79-80; Imbriani 2001).
Quel che faceva rabbrividire questo severissimo censore, il tarantismo, la barbarie nel proprio cortile, è oggi segno distintivo dello stesso territorio nel mondo, simbolo positivo e trionfante di festa e conseguimento del benessere (Lüdtke 2009); ma le cose cambiano, come è ovvio che sia. Andiamo ancora a ritroso, restando in Puglia. Nel 1876 il giudice e storico Luigi Giuseppe De Simone pubblicava sulla fiorentina Rivista Europea la monografia La vita della Terra d’Otranto; nei manoscritti preparatori dell’opera troviamo delle annotazioni che non utilizzò, ma che per noi possono essere interessanti; parte da D’Azeglio (l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani!) per ribadire che le varie parti del paese non si conoscono tra di loro, e conclude:
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Barbari nel cortile
Eugenio Imbriani
Quel “noi” così certo di esserci, sicuro di possedere una configurazione solida e definita, rivela una fondamentale molteplicità, una profonda incertezza costitutiva, se gli altri sono così vicini, al di qua di ogni muro di separazione.
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Abbiamo quindi necessità di conoscerci tutte le provincie italiane, e necessità presente e ineluttabile. Facciamo i nostri conti, chi siamo, donde veniamo, qual è il nostro suolo, come si venga la pianta uomo; quali usi e costumi, le tradizioni e i ricordi, i pregiudizi e gli errori, il dialetto che lo qualificano. Diamo alle provincie sorelle il nostro buget [sic] morale, come presentiamo a loro il materiale, nella nostra Esposizione provinciale, diamo a loro tanto di buono in mano che possano conoscere il nostro suolo e il nostro popolo; augurandoci che tutte facciano lo stesso, e presto, con noi. (De Simone 2006, p. 17)3.
Ecco motivato, quindi, come un dovere civile e patriottico lo studio del folklore locale, quale contributo alla conoscenza reciproca degli italiani; gli errori popolari tali restano e ci vorranno il tempo e i modi per correggerli; tuttavia, rappresentano una via per la conoscenza del passato, poiché costituiscono, secondo il nostro giudice, in accordo con gli studiosi dell’epoca, pratiche e credenze che si sono mantenute nel tempo, magari residui confusamente portatori di informazioni, alla stregua dei reperti archeologici o dei resti di antichi uomini e animali, o dei fossili. Il folklore nasce come scienza di resti, residui, avanzi, raccoglie un po’ quello che altre discipline trascurano, indovinelli, fiabe, proverbi, canti, orazioni, scongiuri, insegue pratiche magiche, culti non ortodossi, saperi terapeutici, pellegrinaggi, oggetti votivi, consuetudini suntuarie, un universo composito, disomogeneo, incoerente, i cui elementi vantano le più svariate provenienze, cambiano si conservano si perdono. Comunque sia, l’idea di una esposizione provinciale, seppure declinata non proprio in questi termini, spinse uno stuolo di folkloristi a fornire raccolte di testi e saggi sui costumi popolari; ciò non poté avere una efficace ricaduta pedagogica e morale sul popolo italiano al quale, in realtà, non erano dirette quelle sollecitazioni, che circolavano soprattutto tra le persone colte, ma che la Mostra romana avrebbe accolto ed enfatizzato. Gli apporti alla produzione di un’idea di nazione da parte degli studi demologici è davvero rilevante (Cuisenier 1995), ed è stato osservato che dietro quel concetto vi sia il trasferimento, su scala più ampia, dei valori di saldezza e di solidarietà attribuiti alle famiglie e alle piccole comunità (Herzfeld 2003). Anche qui, il Paese (con la maiuscola) e le piccole patrie sembrano chiamarsi l’uno con le altre e soccorrersi vicendevolmente. Secondo Hermann Bausinger, i processi innescati dalla globalizzazione, con tutte le implicazioni che ne derivano sui piani economico, giuridico, politico, della comunicazione, non hanno necessariamente mortificato gli ambiti della cultura locale; in effetti, oggi è facile osservare come sia in atto, ormai da alcuni anni, complessivamente, un progetto di valorizzazione di aspetti particolari della vita locale, si tratti di alimentazione, di feste, pratiche di pietà popolare, rappresentazioni sacre e profane, borghi e forme architettoniche: certo, confortato dall’apparato retorico del ritorno alla radici, alla vita autentica, del recupero delle tradizioni e quant’altro, attraverso un gioco talvolta sfacciato di invenzioni, ma non si può negare che accada («Melissi» 2007-2008). Quel che succede normalmente, egli dice, in un luogo del mondo privilegiato come l’Europa, è che gli uomini non telefonano oltre confine, si muovono soprattutto per il proprio lavoro, comunicano, chi lo fa, per posta elettronica più o meno con le stesse persone. Ma nei luoghi, e in un tempo, segnati dalle migrazioni, i sentimenti di appartenenza inevitabilmente si riconfigurano; Vanessa Maher (1994) ha raccontato di
L’ossimoro e il giogo Vicinanza estranea (Fremde Nähe) di Bausinger, Lontananze vicine di Clemente, due titoli che giocano esplicitamente con l’ossimoro per affrontare i temi dell’antropologia della complessità e della modernità. L’ossimoro unisce gli opposti, e ha anche dato il nome a una bella e importante rivista che non esce più; forse il suo risultato più noto e usato è l’espressione glocal, combinazione di globale e di locale, che, a quanto pare, sono in pochi ad amare, sebbene, una volta o l’altra, non certo in pochi se ne siano serviti. Personalmente vedo l’ossimoro come una figura euclidea, espressione di una geometria che descrive realtà puramente pensate: la linea ha la sola dimensione della lunghezza, il punto neanche quella, due parallele si incontrano all’infinito; l’ossimoro dà l’idea di una struttura simmetrica, contraddittoria ma simmetrica, vive nel mondo del discorso, delle forme retoriche, ma nella realtà storica e sociale è assai improbabile che se ne possa ricavare un esatto equivalente: l’orchessa e l’antropologo stanno insieme in qualche modo, ma non certo seduti allo stesso tavolo; uno scarto li distanzia, introduce una relazione asimmetrica, dello stesso genere di quella che opera anche nelle estreme vicinanze del sé e consente di scoprire la prossimità dell’altro. Ovviamente, nello sforzo che l’antropologia compie per descrivere la realtà sociale, per scrivere e dibatterne, non può evitare di servirsi di adeguati strumenti retorici. Geertz diceva che il problema vero per lo studioso dei fenomeni sociali non è accettare o negare la realtà dei fatti esterni all’osservatore, data per scontata la dimensione oggettiva dei fatti, il problema tocca la dimensione soggettiva delle descrizioni e delle narrazioni, il modo in cui avvengono l’osservazione, la rilevazione e il racconto, in altre parole, la lettura di quel che accade (Geertz 1995). Non per risolvere, ma per segnalare queste difficoltà qualche anno fa proponevo la metafora del pensiero zoppo: storicamente, gli antropologi hanno avuto a che fare con usi e abitudini che di solito somigliano poco a quelli dell’ambiente in cui vivono, sono entrati in terreni come la magia, la fiaba, il sacrificio, hanno incontrato lupi mannari e complicate formule matrimoniali, guidati e condizionati dal proprio sapere e dalla propria formazione, e le conoscenze che ne hanno ricavato
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quel signore siciliano, emigrato in Germania, che risaliva in treno la penisola per tornare, dopo un breve periodo di vacanze, nella città in cui viveva e lavorava; si era portato dietro delle arance, di cui vantava il pregio e che donava ai compagni di viaggio, quasi simbolo di una terra meravigliosa che era costretto a lasciare; il suo atteggiamento, però già cambiava quando ci si avvicinava al confine, varcato il quale ci teneva a mostrare la sua dimestichezza con la lingua tedesca e la familiarità con le abitudini e il modello di vita del paese di accoglienza, marcando la differenza con quello appena lasciato, a tutto svantaggio di quest’ultimo. L’ambivalenza o, meglio, la differenza, delle posizioni è più chiaramente leggibile se si mettono a confronto le generazioni nelle famiglie migranti; un solo esempio, illuminante, lo prendo da Bausinger (2008, p. 38): “Un bambino turco si rivolge a suo padre: Tu dici che la Turchia è la nostra patria, ma lì le persone non parlano tedesco”.
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sono state elaborate, ordinate, divulgate nella lingua dello studioso e consegnate, generalmente, a un pubblico di suoi pari. Un tratto di infedeltà, un grado di infedeltà, anche dovuto soltanto alla necessità di organizzare i materiali, suddividerli per temi o capitoli, selezionarne parti per lezioni o conferenze, risultava inevitabile: da qui la zoppia, gravida di discussioni, di ripensamenti, di ulteriori indagini, che, secondo me, andava collocata sotto il segno retorico dello zeugma, il giogo che unisce parole in modo imperfetto, come nel dantesco «parlare e lagrimar vedrai insieme», conservando una imprecisione, una asimmetria (Imbriani 1996).
Frammenti globali Maestro Cosimo è un bel signore alto, dai modi gentili; ha una postura elegante, un po’ rigida, si direbbe da ballerino; infatti scopro che ama moltissimo ballare. È lui il muratore; anche se ormai è in pensione da qualche anno, continua a prendersi qualche lavoro di manutenzione, muretti, parapetti da sistemare, cose del genere, perché altrimenti non saprebbe stare con le mani in mano. Insieme a lui c’è un giovane, anch’egli curatissimo nell’aspetto, le basette tagliate lunghe e sottili, che sento chiamare Niki; è evidentemente uno straniero, saprò poi che appartiene alla consistente colonia di Bulgari (si parla di duemila persone) presenti nel paese di M., un centro della provincia di Lecce, dove anche Cosimo vive. Egli è, però, di origine calabrese, di Corigliano, e si è trasferito quasi mezzo secolo fa nel Salento al seguito della moglie, conosciuta in Germania dove entrambi erano emigranti. Spiega a Niki quel che deve fare: «sposta le pietre grosse qua, quelle piccole in quest’angolo, le cose micci tutte in quest’angolo»; oppure, «passami le tavole micci, e il ferro maru», un po’ in dialetto, un po’ in italiano. Il giovane è piuttosto disorientato, ma se la cava bene; il concetto di«tenaglia» gli sfugge, «quella che taglia il ferro», ma recupera presto, e poi certe cose ci vuol poco a impararle. Chiedo poi al maestro se parole come micci e maru (col significato di piccolo e lungo) appartengono al dialetto del suo paese; «no,» mi spiega, «quelle sono parole bulgare, dicevo così perché altrimenti Niki non mi capiva; dopo un po’ di anni che lavoro con queste persone ho imparato qualche parola e la uso per aiutare quelli che magari sono meno esperti». Non so se Cosimo riveda se stesso emigrante nei Niki che conosce, o nel suo vecchio datore di lavoro tedesco, ma certamente la sua vita si è svolta in un percorso in cui mondi vicini e lontani si sono ripetutamente incontrati, ma come un fatto che normalmente accade, senza richiedere particolari disquisizioni. Prendo questa notizia dal volume Dances with spiders, di Karen Lüdtke (2009, p. 189), che ho già citato sopra. A Londra, nel luglio 2004, presso il prestigioso South Bank Centre si svolge il festival Rhythms and Sticks, che celebra la musica delle percussioni di tutto il mondo. Il noto gruppo salentino dei Ghetonia vi tenne un concerto di grandissimo successo, con l’esecuzione del repertorio di canzoni nel dialetto griko e di brani di pizzica. Il coinvolgimento e l’entusiasmo furono tali che l’auditorium esplose in una standing ovation finale. L’autrice, però, aggiunge un dettaglio, a suo parere, di grande rilevanza: mentre i musicisti tornavano sul
Dal 1998 si tiene nel Salento una importante manifestazione di musica popolare, La notte della taranta, una kermesse che coinvolge un alto numero di gruppi musicali non solo italiani per circa due settimane e culmina nel concerto conclusivo di Melpignano, evocando riferimenti al La taréntule, da M.Misson, Nouveau fenomeno del tarantismo e della danza terapeuvoyade d’Italie, La Haye 1702 tica; molti musicisti salentini e le loro formazioni hanno ottenuto notorietà e riconoscimenti grazie alle loro esibizioni in spettacoli che hanno goduto di una grande attenzione da parte dei media. Mi trovo a Fermo, nelle Marche, e scopro che, nel 2010, parte, anche lì, il 1° festival della taranta, intitolato, notate la sottigliezza, Le notti della taranta; si svolge tra luglio e agosto in tre serate. Il programma, brevemente: il 9 luglio suonano I tamburellisti di Torrepaduli; il 16 luglio gli Zimbaria; il 23 luglio i briganti di Terra d’Otranto. Si tratta di gruppi musicali provenienti dal Salento; a Fermo, come a Londra, come a Pechino e tanti altri luoghi hanno ascoltato la pizzica dal vivo, ma non è dato sapere se nei concerti si è fatto vivo qualche tifoso del Lecce. Il prossimo anno, magari, ci sarà una seconda edizione. Danza dei tarantati. da A. KIRCHER, Phonurgia Nova, Campidonae 1673
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palco per un bis e stavano per ricominciare a suonare, un membro del pubblico balzò in piedi come un omino da una scatola a sorpresa, brandendo, tra le braccia distese, una sciarpa giallorossa con su scritto: “Forza Lecce!”. In un contesto cosmopolita come un festival di world music, l’effetto dell’esultanza del tifoso risultava certamente comico, ma, nello stesso tempo, fungeva da indicatore di territori simbolici circoscritti, da cui ricavare e rivendicare, orgogliosamente, si direbbe, una qualche sorta di località e di appartenenza.
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Note 1 Nacirema è America scritto al contrario. Le pratiche quotidiane di cura del corpo e della salute di un comune cittadino degli Stati Uniti vengono descritte dall’autore con un linguaggio calcato sulle descrizioni etnografiche, alla stregua di rituali, con il risultato di renderle estranee a coloro stessi che normalmente vi si applicano. 2 In una lezione tenuta l’11 maggio 1882 alla Sorbona sul tema Qu’est-ce qu’une nation? 3 Il testo manoscritto è riportato fedelmente, non meravigli il paio di errori sfuggiti all’autore nel suo brogliaccio, che avrebbe emendato se avesse voluto destinarlo alle stampe; talvolta, scrutare tra i manoscritti equivale, almeno in qualche misura, a un atto di tradimento.
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Pietro Clemente Le crasi del vicino e del lontano1
Corpi tracciati e rintracciati Una cosa che mi ha dato l’idea del nesso vicino-lontano praticato da chi sta facendo il nuovo mondo e vivendo i nuovi conflitti del flusso e della diaspora, è stato un lavoro che ho visto a Villa Vigoni (sul Lago di Como), in un recente convegno italo-franco-tedesco sul patrimonio immateriale. Il giovane studioso presentava una ricerca sugli immigrati ‘tracciandone’ i movimenti nello spazio francese grazie a carte rintracciabili su Internet, e faceva vedere come gli itinerari dei migranti ripetano gli itinerari di precedenti migranti, e comunque tenevano le connessioni con il mondo dei loro ‘vicini’ dentro il ‘lontano’ : parenti, amici, gente del villaggio, della stessa lingua, dello stesso paese. Un altro documento del sito mostrava invece la produzione di vicinanza con i parenti lontani, tramite Skype corredata dallo sguardo della piccola telecamera2. Il migrante in Francia aveva lasciato a sua madre un computer con una connessione Skype e per almeno un’ora al giorno era con lei in casa e anche nel mondo del vicinato: con la piccola telecamera la madre gli mostrava scene del quartiere, in una comunità dell’Asia. È un intervento che mi ha colpito assai, da un lato per l’impegno di indagine epistemologica su come le TIC (Technologies d’Information et de Communication) cambiano il nostro mondo senza che ce ne rendiamo conto. Cambiano i confini, i corpi, le percezioni, i sentimenti. Dall’altra su come il lessico che ci pareva naturale, quello del buon senso, sia messo in difficoltà. Nei miei appunti ho scritto “l’altrove nel qui. Cambia il modo di immaginare mondi. Si è insieme nella distanza con Skype, a costo zero. La doppia assenza del classico saggio di Abdelmalek Sayad3, dal luogo di provenienza e dal luogo di arrivo, diventa qualcosa di nuovo, una strana presenza mediata e mediatica. Ho la sensazione che si stia producendo qualcosa come una nuova faglia epistemologica, che forse renderà più visibili noi stessi a noi stessi, in una dimensione diversa magari in forma di TIC. Secondo Foucault, il vicino è ciò che non vediamo, e il vicino è ciò che ora mi fa da macchina da scrivere, e poi da Internet, e da Skype, e poi prendo il telefono cellulare, e magari uso una di quelle schede intercontinentali numeriche attraverso le quali il migrante può essere ‘tracciato’ e produrre il paradosso del ‘sans papier’ invisibile ma connesso. Il corpo telefonico del migrante ha leggi diverse da quelle delle nazioni e delle leggi, anche se da quel corpo può essere tradito.
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I flussi dei movimenti dell’Atlante TIC sugli spostamenti dei migranti non è imprevedibile: come ha mostrato Hermann Bausinger4, spesso le tecnologie di grande portata sono usate per dialogare tra vicini, se non contigui, soprattutto tra i giovani europei. Il caso migratorio è più complesso ma non smentisce del tutto quella possibilità. Ciò che colpisce e che si tratti di flussi veri, che possono anche essere usati dalla polizia. Così come, sempre più, nei processi il telefono cellulare viene rin-tracciato, come ‘alias’ dell’individuo, corpo suppletivo. Le questioni della diaspora, dei flussi, dei migranti, del cosmopolitismo sono temi forti e nuovi della dimensione che ci sta cambiando, che ci consente anche di vederci riflessi. Capire con nuovi occhi cosa è vicino, cosa è lontano. Dibattiti già sono echeggiati su queste parole tra Cultural studies, migration studies, antropologi, sociologi e quant’altri.
Paese che vai, franchising che trovi Che confusione! Dobbiamo ri-descrivere il mondo, fuori dall’opacità del senso comune. Ma anche del buon senso. Senso comune e buon senso sono temi gramsciani che Alberto Mario Cirese ha trattato con grande energia intellettuale, ma che sembrano avere trovato una ‘dead line’ nel mondo globale. “Paese che vai usanza che trovi” per Cirese era lo spazio dello studio dell’alterità proprio di etnologi e demologi , “tutto il mondo è paese” invece era il campo delle identità, proprio dell’antropologia culturale, così Alberto Mario Cirese aveva definito i campi degli studi demo-etno-antropologici, connettendoli con il mondo proverbiale del buon senso. Ora, nei processi di globalizzazione e di interconnessione tecnologica, tutto il mondo è sempre più paese nel senso di unificato dai modelli tecnologici e industriali della modernità, e rischia di non valere più “paese che vai usanza che trovi” , perché le usanze sono mutate. Semmai paese che vai ‘franchising’ che trovi, perché le città e i luoghi della differenza (paesi che vai) si sono unificati all’insegna dei brand, che, almeno in Italia, hanno modificato l’immagine delle città storiche e ridotto la differenza. Tutto uguale, tutto vicino, tutto comunicante? Certo che no. Resta di principio l’unità della mente umana, e un universalismo elementare della vita degli uomini, ma in tutte le pratiche che traversano il mondo, siano diasporiche, cosmopolite, migranti, di flusso, di società liquida, tutto questo scenario viene eroso come da una sorta di nuova alluvione. E non sappiamo bene il paesaggio finale. La differenza in questo quadro è più rivendicata che in passato dai movimenti identitari, dalle religioni, dalle culture locali, e rinasce proprio dai processi brutali di avvicinamento, come una esigenza di allontanamento, di critica del siamo tutti uguali, diventata, da istanza filosofica, una pratica di massacro mercantile. La differenza trova nuovi modi, si nasconde, si mescola e si allontana dalla scena turistica, muta e, quando è identità, afferma il suo opposto. Occorre anche inventare una nuova ermeneutica del diverso, in cui l’antropologia culturale potrebbe avere un ruolo formidabile a tamponare e rivedere l’eccesso di ‘occidentalismo’ delle ermeneutiche filosofiche e letterarie. Dare ad esse nuova vita non elitaria, non basata sul consumo dell’acqua. Se l’ermeneutica è un arte
Ralph Linton, illustre antropologo statunitense, ne Lo studio dell’uomo 6 propose un apologo con il quale cominciava i corsi di antropologia: Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India, o di lino, pianta originaria del vicino Oriente…si infila i mocassini inventati dagli indiani..si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone , inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri op dagli antichi egiziani (…) 7
e via via mostra di quante cose non originali e non americane sia fatta la vita di un americano che si sente tale ed è ignaro di poggiare la sua vita sulla grande mescolanza e scambio delle esperienze umane. Ma ora con i flussi globali muta anche il mondo della vita e il suo insieme di mescolanze. Il lontano che fa il vicino non è più solo ‘inventato da’, ‘originato da’, ‘derivato da’, il lontano è qui fisicamente: le nostre anziane mamme sono gestite da rappresentanze di genti della diversa terra (?), e anche noi lo saremo presto, e i pastori, i contadini, i criminali, i lavoratori del metalmeccanico, perfino i giovani sono misti, vari, i confini si confondono, talora si stagliano dentro nuove aree di riferimento. Quando Giovanni, amico fotografo, a casa mia, seduto in poltrona, mi racconta animatamente della adozione di un bambino del Mali che ora vive con lui nel Chianti, è chiaro che l’immaginazione e la differenza vanno per nuovi percorsi. Vicino e lontano si alternano e si giocano in movimenti complessi. Dialogo in banca: “Non amo queste chiavette dell’home banking”, dico io, “ ma guardi che garantiscono più sicurezza”, dice lei, “io faccio fatica con tutti questi numeri di codice da mettere su Internet, così effimeri e confondibili da trasferire sullo schermo”, “ stia tranquillo”, dice lei, “la chiavetta è un oggetto familiare, vede, è made in Cina”. L’apologo di Linton andrebbe rivisto alla luce della constatazione che per lo più, inventate o derivanti etc…da luoghi diversi, le cose sono fatte in Cina, e l’americano medio lo può leggere sull’oggetto. Questo ha a che fare con il lavoro, con la produzione mondiale, con il futuro, e anche con il conflitto che si è aperto in Italia sulla questione dell’auto e della Fiat, tra Campania, Basilicata e Serbia, Polonia. Made in Taiwan, made in Corea, made in China, made in Hong kong. La funzionaria di banca aveva ragione nella sua ironia: viviamo di cose fatte in Cina. Non solo in Cina ovviamente, spesso si tratta di ‘dislocazione’. La parola ‘dislocare’ evidentemente altera il nesso di buon senso tra vicino e lontano. Cristina Papa, Veronica Redini8, hanno scritto delle nuove storie di vita di imprenditori italiani ‘dislocati’, del carattere dei prodotti lavorati altrove e ‘mar-
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Mò che il tempo si avvicina 5
Pietro Clemente
riservata al pensiero di chi consuma il 70% della acqua del mondo, i suoi limiti sono evidenti. Può resistere, come io vorrei, quel pensiero alla prova dell’acqua? Ecco un compito nuovo.
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chiati’ Italia, il loro caso di studio è la Romania. Il loro tema è il ‘made in Italy’ quando il lavoro che rende possibile quel marchio viene fatto altrove. Almeno la chiavetta dell’home banking è più sincera, lo rivela subito di esser fatta in Cina, o meglio in China, così come la mia ‘pennetta’ (periferica) della Tim da infilare nel portatile per avere la connessione Internet. Il vicino-lontano entra in un avvitamento ossimorico nei racconti di vita familiare: il lavoro di una delle mie figlie è la produzione di borsette made in Italy, di varie ditte che sono anche ‘griffe’, ‘brand’, ‘logo’ e che si danno anche in franchising, e che contribuiscono all’omologazione dei negozi e dei mercati urbani. Gli imitatori di questi ‘marchi’ italiani possono essere gravemente puniti secondo la legge, così come gli imitatori del made in Italy fatto in Romania. Marchi, chessò, come Benetton per esempio, imprenditore italiano, veneto, antirazzista per eccellenza e per campagne pubblicitarie. Ma il ‘ vicino’ per queste aziende di accessori di moda dell’hinterland fiorentino dove mia figlia lavora è Hong Kong, la loro vita è dislocata tra sfilate e relazioni commerciali fatte qui e ordini, serie, produzioni fatte lì. Il personale viaggia, vive un po’ nei grandi alberghi di Hong Kong, porta della Cina comunista e nutrice di consumismi mondiali, entra nella Cina produttiva. Nel caso di mia figlia il luogo di entrata in Cina è stato Guangzhou che era una volta Canton. Ma l’esperienza non è stata di turismo nella Cina storica, ma una doppia segregazione in quartieri industriali, doppia perché sono segregati gli italiani, che sono lì in veri e propri non luoghi (spazi costruiti in modo ripetibile in qualsiasi parte della terra, non originali, non storici, che vivono nel tempo della produzione, forse un eterno presente: si somigliano tra Guangzhou e Sesto Fiorentino, che diventano vicine per ‘somiglianze di famiglia’) per dirigere e controllare la produzione di accessori di moda, e per gli operai cinesi che vivono tempi lunghi di lavoro, ignoti ai lavoratori europei (almeno dalla fine del 1800), in contesti che sanno di istituzione totale e di segregazione, che ricordano, forse in meglio, le strutture da campi di lavoro in cui vivevano i migranti italiani nell’Europa postbellica9. Da questo lavoro di uomini cinesi, spesso venuti lì da lontano a vivere segregati alla produzione per mesi, nascono cinture o borsette dove c’è scritto Made in Italy. Per produrle è come se il mondo di accartocciasse: quartiere industriale cinese di Canton, e area industriale fiorentina vivono in un cronotopo proprio, in contatto esclusivo, ignorano il resto del mondo, e da questa unione (che avviene al buio, nel senso che né gli italiani conoscono la Cina né i cinesi l’Italia dopo questo connubio) nascono oggetti italiani. Se il mondo lo si ragiona da questo esempio, si capirà meglio cosa succede nella attuale querelle Fiom – Fiat, e si capirà che non è facile giudicare! Così come si intuisce anche cosa succederà ai nostri nipoti, se la produzione italiana continuerà ad essere delocalizzata: o lavorano come i cinesi, o fanno lavorare i cinesi al loro comando o vengono comandati dai cinesi. Si danno anche altre possibilità, certo, ma queste danno l’idea del futuro. I nostri nipoti devono guardare a come lavorano i cinesi e gli indiani non a come lavorano i loro genitori e i loro nonni. Il progresso dell’800 del ‘900 era solo una sacca di privilegio dell’occidente. All’apparir del vero esso si rivela non solo distruttivo per la terra intesa come mondo, ma anche rigiocabile in una sorta di cupa vendetta dei paesi sfruttati . La Cina è vicina10 era anche il titolo di un film cult degli anni ‘60 . Ma non è più che il tempo si avvicina, o che la Cina
Nel 1980 sono stato a Città del Messico per uno scambio universitario. Sia a me, che ad Alberto Mario Cirese, al quale mi affiancavo in un percorso di presentazione dell’antropologia italiana che lui aveva già fatto, la Città in tanti dettagli della vita quotidiana appariva un’Italia anni Cinquanta, se non Quaranta. C’erano giostre e parchi gioco per bambini da film di Fellini, rarità e socialità delle tecnologie della comunicazione; mi colpì un autista che aveva il figlio – un bambino – come controllore dei biglietti, e mi fece venire in mente una scena di Napoli fine anni Quaranta (nel mio primo viaggio fuori della Sardegna). Anche alcuni negozi avevano l’aria e gli odori, ad esempio, delle mesticherie o drogherie del passato, anche lo stile familiare e pubblico di tutto. Eppure era la città più grande che avessi mai visto, una volta che andammo in auto in una gita ‘fuori porta’, la città non terminava mai e vissi una sorta di sindrome da claustrofobia urbana. Di recente allora, nella fase della mia vita più appassionata di fumetti, avevo letto la vicenda futura di una città senza fine, senza confini conosciuti. Queste esperienza mettono in movimento l’abitudine delle rappresentazioni di buon senso: Città del Messico era una periferia italiana degli anni Cinquanta o una megalopoli del mondo postmoderno?Arretrata o avanzata? 10 anni dopo a New York ebbi la conferma che le città sono luoghi dove la complessità si rispecchia, e che siamo noi spesso a non vederla. È il nostro modo abituale di pensare per opposti: vecchio/nuovo, avanzato/arretrato, etc… Dove abitavo, vicino alla Columbia University, dove insegnò Franz Boas, zona del tutto moderna, c’erano tanti piccoli negozi di sartoria ed altri piccolissimi di attività artigiane che in Italia e perfino a Siena, dove abito, erano completamente scomparsi. Nel mio condominio, di meno di 10 piani, l’ascensore doveva essere guidato e attivato da due inservienti ‘ascensoristi’, che facevano i turni; il loro lavoro era tutelato sindacalmente, ma per salire e scendere pigiavano il tasto come altrove si fa da soli. Pensai che l’idea di una modernità coerente e integrale, capace di plasmare lo spazio urbano, attribuita alle città americane era forse un sogno italiano, o una proiezione delirante dell’Italia che voleva ‘fà l’americana’. A Città del Messico incontrai il frutto del mango e quello della papaja, e del primo mi innamorai, lo definii alla Borges, l’aleph della frutta, e così ne nascosi uno in valigia e lo importai clandestinamente in Italia, dove ebbe grande successo tra i pochissimi familiari che poterono assaggiarlo. Non so quanto tempo dopo nei supermercati cominciò ad esserci la frutta tropicale, mango, papaja, avocado…Oggi in un supermercato si vede tutto il mondo se solo si legge la provenienza dal cartellino. Funghi dalla Romania, kiwi dal Cile, pesci dal Pacifico, pompelmi da Israele, e non mancano prodotti cinesi. Alla faccia della filiera corta. Forse oggi nessuno ci crede che negli Ottanta non c’erano né manghi né altro nei supermercati, come in genere nessuno crede che nel 1980 nelle macellerie
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Filiera lunga, memoria corta
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è vicina, ora la Cina è qui, dentro, intorno, fra il nostro mondo delle cose, il nostro home banking, le nostre storie di vita quotidiana.
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italiane (di Siena per testimonianza diretta) non c’era traccia né del lardo né dello strutto. Nella memoria il presente gioca sul passato; sembra strano ai giovani che quando sono nate le mie figlie non esistesse la tecnica ecografica che consentiva di conoscere in anticipo il sesso del nascituro. Visto sul piano sociale questo è il fenomeno che chiamo della ‘smemoratezza del moderno’11 ed è stato descritto per il fumo in un dettaglio di un romanzo di Gianluca Carofiglio: - Lo sai che mi sembra impossibile che fino a qualche anno fa si potesse fumare nei bar e nei ristoranti? Mi riesce difficile anche solo ricordarlo, devo fare uno sforzo e ripetermi che le sigarette c’erano e che in certi posti l’aria era irrespirabile. È come se il divieto interferisse con i miei ricordi manipolandoli. - Non sono sicura di aver capito bene quest’ultimo concetto - Mi spiego con un esempio. Oggi pomeriggio ero seduto in un bar e aspettavo una persona. Mentre ero lì da solo mi sono ricordato di una volta, tanti anni fa, che ero stato in quello stesso bar con i miei amici. Erano i tempi dell’università e sicuramente almeno tre di noi fumavamo, all’epoca. E, sicuramente, quel pomeriggio di tanti anni fa fumammo diverse sigarette. Eppure la scena che mi è apparsa alla mente era senza sigarette, come se il divieto avesse esteso una specie di efficacia retroattiva sui ricordi. - Efficacia retroattiva sui ricordi. Dici delle cose strane. Però belle. Perché ti sei ricordato proprio di quel pomeriggio?12.
Questa efficacia retroattiva sui ricordi è anche un effetto ‘Grande Fratello’, quello di Orwell, 1984, forse ha a che fare con i media, con una idea di incivilimento e di progresso che in realtà finiscono per nascondere la complessità del mondo. Il dialogo che riporto ora è a mio avviso possibile ed emblematico: - Ci sono mai stati ospedali psichiatrici in cui i pazzi non avevano diritti civili, né potevano uscire, anzi erano segregati, gli ‘agitati’ erano messi insieme e sovente lavati collettivamente con delle pompe, venivano bloccati con delle camicie di forza etc…? - Certo che no, mica è possibile. - Sapevi che gli americani hanno bombardato l’Italia sistematicamente, buttando giù città storiche, edifici religiosi, ammazzando tanta gente comune, più di quante ne uccise la guerra guerreggiata e le stragi naziste? - Ma quando? - Dal 1942 al 1945 ma soprattutto nel ‘43 e ’44. - Ma va non è mica possibile!
Vicino-lontano. Ecco un altro effetto, tutto si avvicina e il passato diventando lontano, incredibile, inaccettabile, viene negato. I giovani rifiutano il racconto della miseria del passato sentita come una vergogna, i ceti medi negano di avere avuto rapporti di parentela con generazioni di emigranti. Siamo nati nel benessere e nel televisore. Questo ci impedisce di vedere la diversità nel presente: le guerre, le migrazioni, appaiono come un disturbo al benessere raggiunto, non come un modo di manifestarsi del mondo e delle sue patologie, della quali una componente è il nostro benessere. Nella filiera lunga della produzione che vede l’Asia al centro torna di attualità la filiera corta della produzione alimentare. Quella che richiederebbe una memoria meno corta, un ponte con le generazioni passate di una nazione contadina che
La guerra è vicina La cosa più vicina che non vediamo per l’effetto Foucault è la guerra. Per me, formatomi negli anni Sessanta e Settanta, il mondo emerso dagli anni Novanta è uno shock, dopo il bipolarismo mondiale, anziché l’unificazione del mondo nella pace c’è stata la diversificazione del mondo nella guerra. Diversificazione che non
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ha rimosso il passato. La proposta di una Terra madre faticosamente si fa strada, con tante parole: i prodotti locali, i prodotti di nicchia, i prodotti tipici, ma il DOC, il DOCG, il DOP sono un’altra faccia del Made in Italy, non è che il vino del Chianti ‘geografico’ sia fatto in Cina, ma certo non è fatto nel Chianti, così come il lardo di Colonnata non è fatto (almeno per il 90%) a Colonnata. E mentre la filiera lunga apre e lega – forse in modo perverso – al mondo globale, la filiera corta rilancia la dimensione locale e, anche se lo fa per reagire al globale e rivolgendosi al globale (perché il prodotto di nicchia fa parte del mondo liquido e di flusso, mica lo consumano i ‘nicchiaioli’), per obblighi di teoria rilancia zone di protezione: le regioni, le nazioni, i mercati chiusi, temi del dibattito italiano dei primi del Novecento, liberisti contro protezionisti. Il ministro Tremonti e la Lega Nord hanno fatto prove generali di teorie protezioniste, pur in un contesto politico economico che si propone come liberale. Ma anche i movimenti intellettuali che una volta si sarebbero detti progressisti (ora non so più), lanciano temi del lontano, forse il principale è l’acqua. Anche l’acqua è coinvolta nello stravolgimento del buon senso. Bene comune, privatizzato, consumato in modi sperequati, con violenza e protervia dalle nazioni cosiddette più avanzate. Qui se non si guarda lontano non si può capire vicino. I movimenti per la filiera corta sono i sostenitori della rinascita del vicino. Il loro modello è quello delle popolazioni contadine del passato: allora si trattava di auto-sussistenza obbligata, oggi si tratta di una scelta, sia di produzione che di qualità della vita. Ma è chiaro che il vicino non risorge dalle sue stesse ceneri, è in un certo senso un prodotto del lontano, e della produzione che questo ha fatto di cattiva qualità della vita e degli alimenti. Questa estate in Sardegna un imprevisto movimento dei pastori ha bloccato gli aeroporti, il prezzo del latte prodotto localmente è troppo alto rispetto a quello prodotto industrialmente. Ci sono industrie alimentari sarde che comprano il latte in Olanda e lo trasformano in Sardegna chiamando i formaggi che ne nascono ‘sardi’: sono i formaggi della ‘crasi’13, il lontano si fa vicino si interseca, ma i pastori sono ‘fritti’. Il mercato globale espropria i produttori locali. Mentre alla fine degli anni Novanta sembrava esserci speranza per una idea di riequilibrio città-campagna e produzione territoriale – mercato globale, ora questa sembra non esserci più. Ho avuto l’impressione di una catastrofe ultima e vicina. In effetti occorre una forte consapevolezza e una certa capacità di spesa per la filiera corta; nella crisi economica non c’è molto spazio per questo. Ma la crescita di domanda alimentare nel mondo comunque imporrà all’Europa una ri-contadinizzazione: un ritorno del lontano inteso come passato (ancora un titolo-metafora di Carofiglio: Il passato è una terra straniera) dentro il vicino. Filiera corta, memoria lunga14.
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esclude l’omologazione nel senso pasoliniano, giacchè la guerra è quasi sempre per il potere, le risorse, i consumi, ovvero è per la modernità. La guerra fa parte dei fenomeni che a livello collettivo vengono dimenticati, di fronte a rare e torve minoranze che covano vendette e guerre future, larghe maggioranze si impegnano a far finta che non sia successo niente. La generazione dei serbi giovani di oggi, mi dicono, è lontana mille miglia dalla guerra, la ignora. Così come i miei alunni dell’Istituto Magistrale di Iglesias ignoravano (siamo nei primi anni Settanta del Novecento) l’esistenza della miniera, chance e tragedia della vita dei loro padri. Così come i miei alunni dell’Università di Siena (siamo negli anni Settanta e Ottanta) ignoravano l’esistenza della mezzadria della quale, forse maledicendola, erano vissuti il 70% dei loro nonni, se non genitori. La ignoravano, così come i nipoti dei nostri emigrati nell’Europa del Nord, in America o in Australia ignorano che i loro antenati hanno vissuto situazioni assolutamente simili a quelle dei migranti attuali in Italia: che sono trattati da pezzenti da figli e nipoti di persone a loro volta esperte dell’esser trattati da pezzenti. Non si impara mai. Per questo Cristo andava girando per il mondo sotto mentite spoglie e se qualcuno gli rifiutava ospitalità magari il giorno dopo si trovava senza casa, senza animali, o sprofondato in un lago. L’ospite è sacro da millenni, ma se lo senti minaccioso per il tuo tempo, per il tuo lavoro, per il tuo benessere, fingi che non esista o chiami il 113. Forse Cristo ha ripreso i suoi viaggi. Io almeno me lo auguro. Un tragico esempio del fatto che la guerra non è lontana nello spazio ma è lontana nel sistema percettivo (occhi e orecchie in particolare) è dato dalla guerra nella ex Yugoslavia. Siamo nei primi anni Novanta. La vicinanza dello spazio della guerra era impressionante, non solo per le frontiere, o l’essere dirimpettai nell’Adriatico, ma per la contiguità storico-morale di quel mondo, oggetto di turismo estivo, di mercato calcistico e parte intrinseca della storia d’Europa (Trieste, Gorizia…). Anche chi era vicino, durante la guerra è stato lontano. Dunja Rithman era una collega dell’Università di Zagabria con cui avevamo scambi amichevoli e rapporti assai cordiali di lavoro, reti di studenti, interessi di studio. La guerra la aveva sorpresa e straziata perché, un po’ più grande di me d’età, aveva fatto in tempo a vivere la guerra precedente, lacerata tra storia italiana e nuova identità yugoslava ‘socialista’. Scrisse per noi una lettera che fu pubblicata nel primo numero della rivista Ossimori, che raccontava di come la gente riprendesse pratiche di socievolezza nei rifugi contro i bombardamenti, dopo anni di individualismo nei nuovi condomini. Raccontava la propria delusione per i nostri studi che tendono sempre a non mostrare i conflitti e a dare idee edificanti della possibilità di dialogo interetnico, criticava il nazionalismo ritornante in Croazia, e vedeva nell’Europa l’unica speranza per il futuro della Croazia15. Ma la guerra continuò e noi su Ossimori non ne parlammo più. Era diventato difficile dire, condividere, era forse più semplice agire, anche solo per solidarietà, ma come? L’orrore si faceva sempre più insopportabile, inesprimibile, incomprensibile. Donammo libri per la libreria di Sarajevo. Qualche collega li accompagnò. Si parlò dell’assedio come di quello più lungo della storia dell’Occidente, dopo la guerra di Troia. Anni dopo mi ritrovai ad ammirare il lavoro di gruppi di donne italiane psicanaliste che avevano nel dopoguerra seguito e accudito, cercato di contenere il tremito orripilato delle donne
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violentate, massacrate. Ma la spiegazione del perché si era creato un baratro tra la nostra vita in Italia e la vita contigua di chi, amico, interlocutore di scambi, rischiava il massacro quotidiano, lì vicino a poca distanza, forse l’ha data l’autore di uno dei libri più tremendamente chiari, anche antropologicamente, sulla guerra: Luca Rastello, legato al gruppo Abele, che racconta di essere rimasto coinvolto permanentemente nell’ascolto, nell’organizzazione di aiuto, nella vicenda della guerra, nella vita con i profughi, quasi per ‘contagio’16, per un coinvolgimento che progressivamente lo ha fatto essere diverso e distante da tutti quelli che non erano come lui impegnati a trovar casa, andare a prendere, seguire sviluppi per aiutare persone; altri che lo guardavano con stupore, anche con ammirazione, come un essere di un altro mondo. Così Rastello è stato vicino alla guerra e lontano da chi gli viveva vicino. Sono temi segnalati anche nella letteratura sulla guerra e l’olocausto, penso ai nomi di George Semprun e ovviamente di Primo Levi. La ‘differenza’ di esperienza vissuta come estraneità al mondo della vita quotidiana, essere visti come ‘altri’, come ‘morti risuscitati’, non essere creduti. Lavoro da due anni nella didattica universitaria, in una classe di antropologia culturale di base, sui temi della guerra. Lo faccio perché ora sono disponibili dei libri legati a esperienze di colleghi più giovani di me che sono stati capaci di ridare ai temi della guerra sia valore antropologico sia forza di ricerca etnografica. E lo faccio perché penso che come cittadini del 2000, prima che come antropologi, i miei allievi devono alfabetizzarsi alla guerra, immaginare la morte, l’orrore, la mattanza etnica, come parte del mondo ‘progredito’ e tecnologico. Come parte della loro vita nel mondo. La guerra appariva nell’antropologia classica come o qualcosa di ‘altro’ da raccontare come ‘primitivo’: prove di valore, tecniche di trattamento dei corpi, riti di iniziazione, o qualcosa di irraccontabile (la morte delle culture), ma essa non trattava le guerre contemporanee, né la contemporaneità della guerra giacché forse per l’ideologia del moderno la guerra non è contemporanea, o non esiste, o è una mera operazione di ecologia mondiale verso zone arretrate, o è roba legata a gruppi fanatici, o che fanno i ‘primitivi’ tra loro. Nei nuovi studi sulla guerra e sulla violenza l’antropologia è tornata in scena, forse nel tentativo di essere presente con la propria metodologia teorico-etnografica17 al cuore del mondo globale e moderno, per non essere ridotta alla nostalgia dei passati angoli di mondo e comunità primitive della terra. I libri per lavorare sulla guerra ora non mancano: io ho lavorato soprattutto su un libro che ha i tratti della monografia antropologica, ed è insieme un diario di vita dentro una guerra africana, scritto da Valerio Petrarca sulla guerra civile in Costa d’Avorio, si tratta di I pazzi di Grégoire18, un libro molto utile per gli scopi formativi che mi sono prefisso. Altri cominciano ad apparire come monografie19. Forse è proprio la guerra a caratterizzare a livello globale il primo decennio del 2000, sia come memoria, sia come terribile attualità. Il decennio si apre con l’attentato alle torri gemelle, e si chiude con l’incancrenirsi della guerra in Afghanistan e la uscita dell’esercito americano dall’Iraq, protagonista di una delle guerre più assurde, controproducenti, distruttive che mai si siano date. Nel lavoro sulla guerra, nel vederla come produttrice di orfani, di mutilati, di pazzi, di massacratori, di profughi, sacrificati a finalità sempre di profilo limitato
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ma sempre anche connesse con interessi economici e politici mondiali, è venuto via in evidenza il tema dell’esodo dai luoghi del conflitto, e il connettersi dei transiti di migrazione e di fuga. Una connessione che ci viene ricordata anche spesso sulle coste del nostro mare, quando profughi in fuga e migranti vengono indistintamente rimpatriati, respinti. L’espressione ‘respingimento’ è tornata nel lessico politico amministrativo ad indicare la ‘accoglienza’ e la ‘tolleranza’ dell’antico occidente dei lumi. Migranti e profughi sono il vicino del lontano, sono la guerra e la miseria del mondo altro ormai ‘occidentalizzato’e impegnato nella modernizzazione, che si fa ‘domestica’ tramite loro. Per questo forse nessuno li ascolta, nessuno dà loro la voce. Uno dei modi più drammatici con cui si esprime questa paradossale situazione in Italia è quello rappresentato dagli accordi italo-libici per il respingimento, in un contesto di terribili guerre che sconvolgono il Corno d’Africa, e che coinvolgono anche l’Italia e la sua storia coloniale per la compartecipazione drammatica al quadro di Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia, l’intero quadro ex coloniale italiano. Nella coscienza collettiva comincia ad entrare la consapevolezza del costo in vite umane che è significato dai nostri respingimenti, e dagli accordi italo-libici. Le stragi della guerra e le stragi di persone in fuga in quell’area dell’Africa (che non è l’unica) non sono cose di altri, ma sono legate alla nostra storia e ai nostri accordi di difesa dall’immigrazione, sono il nostro modo di partecipare all’Europa fortificata che respinge i poveri del mondo, allontana le guerre, anche quelle in cui ci guadagna, nasconde qualcosa che è molto vicina e per ciò va rimossa: la nostra responsabilità di cittadini per ciò che accade. Più che vicina questa responsabilità sta dentro noi stessi, come soggetti politici in senso pieno,quando la espungiamo è come se negassimo noi stessi come cittadini. Vicino-lontano è la dialettica che porta qui da noi a raccontare i protagonisti del viaggio dell’orrore attraverso l’Africa in guerra e in rapina di vite umane del libro film Come un uomo sulla terra20. Note 1 Questo testo può essere considerato una seconda puntata, e forse un aggiornamento del saggio di Pietro Clemente, Lontananze vicine: sui modi di pensare e insegnare l’antropologia nel mondo globale, apparso in Pasquinelli, C. (a cura di), Occidentalismi. La parola, le interpretazioni, i luoghi, i modelli, in «Parole chiave», n. 31, 2004, ripubblicato come volume autonomo, Roma, Carocci, 2005. 2 Gli atti non sono pubblicati, il seminario si svolge in più atelier, a cura di Chiara Bortolotto, il primo atelier si intitolava “L’inscription territoriale du patrimoine ommatériel”, l’intervento era di Mathieu Jacomy, che interveniva su Analiser puis archiver l’occupation des territoires numériques par les migrants, dava conto di un programma di ricerca TIC-Migrations basato su una mutazione di paradigma, dal migrante sradicato al migrante interconnesso. Con cellulari e Internet si formano nuove frontiere del mondo. Utile per capire questo approccio il sito tic-migrations.fr , dove si trovano anche i riferimenti di Le migrant connecté. Pour un manifeste épistémologique e del E-DIASPORAS ATLAS. 3 La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina, 2002. 4 Vicinanza estranea. La cultura popolare fra globalizzazione e patria, Pisa, Pacini, 2008. 5 “mò che il tempo si avvicina viene avanti la grande Cina” era un verso che De Martino riportò cantato nelle lotte dei contadini nel dopoguerra . Era la Cina di Mao che entrava libera e comunista nel grande consorzio dei popoli. La citazione più che ironica vuol essere antifrastica,
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e segnalare che c’è un nuovo tempo che si avvicina e che in questo tempo viene avanti di nuovo la grande Cina, ma in un modo meno epico, diverso, ma ugualmente riflessivo per noi. 6 Bologna, Il Mulino, 1973 (ed.or. 1936). 7 In Aime, M., 2008, Il primo libro di antropologia, Torino, Einaudi, pag. 184. 8 Papa, C., Imprenditori trasmigranti. Note etnografiche, (in collaborazione con V. Redini), in Papa, C., Pizza, G., Zerilli, F.M. (a cura di), 2003, La ricerca antropologica in Romania. Prospettive storiche ed etnografiche, SMAC, Studi e Materiali di Antropologia Culturale, nuova serie, n. 4, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Redini, V., Made in Italy. Estetica e politiche di autenticazione sociale delle merci ‘italiane’ prodotte in Romania, in «Lares», n.3, 2006. Molto interessanti i riferimenti al riconoscimento del Made in Italy, al dibattito sulla ‘delocalizzazione’, ai temi politico-economici e giuridici che si muovono in questo spazio nuovo e incerto. 9 Clemente, P., Bachiddu, E., Iuso, A., 2007, Il canto del nord, Roma, Cisu. 10 Marco Bellocchio, 1967. 11 Clemente, P., La smemoratezza del moderno, in Ronzon, L., Redemagni, P. (a cura di), 2008, Manifattura Tabacchi/Milano, Milano, Edizioni Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia. 12 Carofiglio, G., 2010, Le perfezioni provvisorie, Palermo, Sellerio, pag.226. 13 Letteralmente fusione di vocali finale e iniziale di due parole, o di dittonghi, ma anche mescolanza di umori e medicamenti nella medicina antica. 14 Quest’anno in Toscana è stato ‘l’anno dei mezzadri’. La Toscana era terra di contadini che, dimentica di sé, si è spacciata per terra di antiche città (cosa mangiavano?) e di natura intatta (se lo fosse non ci sarebbe stata storia), o per terra di nuove industrie. Lavorare sul passato ‘lontano’, sepolto, rimosso ha forti potenze conoscitive e immaginative. Io ho studiato i contadini toscani e la loro smemoratezza e vedo bene il passato che si fa futuro. Vedi il sito www. annodeimezzadri.it . 15 Rihtman, A.D., I simboli e la guerra: Una lettera dalla Croazia (Zagreb, dicembre 1991), in «Ossimori», 1(1), 1992, pp. 44–47. Il dibattito antropologico sulla guerra è poi continuato con vari saggi e nel 2005 è stato ripreso anche dalla rivista Current Anthropology. 16 Rastello, L., 1998, La guerra in casa, Torino, Einaudi. 17 Dei, F. (a cura di), 2005, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi; De Lauri, A., Achilli, L. (a cura di), 2008, Pratiche e politiche dell’etnografia, Roma, Meltemi (in particolare due saggi , uno dei due curatori, l’altro di C.Nordstrom). Sulle guerre, sulle stragi, sui dopoguerra anche l’antropologia italiana ha studi importanti, sia nei mondi altri, sia da noi. Sul nostro fronte ricordo il lavoro, a cura di Fabio Dei e di chi scrive, sulle stragi naziste del 1944, Poetiche e politiche del ricordo (Roma, Regione Toscana-Carocci, 2005). 18 Palermo, Sellerio, 2008. 19 Segnalo solo Jourdan, L., 2010, Generazione kalashnikov. Un antropologo dentro la guerra in Congo, Bari-Roma, Laterza. 20 Film di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene con un libro dell’Archivio delle Memorie Migranti a cura di Marco Carsetti e Alessandro Triulzi (Roma, Infinito, 2009).
Duccio Demetrio Nostalgia di comunità. Anghiari e la sindrome del dono Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone J. Godbout e A. Caillé 1
Vicini ma lontani: il desiderio impossibile di autenticità Se assumiamo le categorie di “vicino e lontano” non da un punto di vista spaziale o temporale, bensì emotivo, queste si presentano di un certo interesse quando le si intenda ricondurre (anche) ai luoghi della convivenza professionale. Mi riferisco, per meglio dire, ai contesti lavorativi nei quali vigono regole formali, norme, obiettivi assegnati, pratiche, livelli di responsabilità e gerarchie, funzionali al conseguimento di finalità produttive o inerenti l’offerta di servizi. Dove ciò che indichiamo con la parola “dono” non trova una sua legittimazione, se non nella variante di regalo (di compleanno, di Natale, di promozione o pensionamento) che nulla ha a che vedere con una problematica antropologica e filosofica tra le più affascinanti2. La vicinanza o la lontananza, in simili luoghi dove il dono viene bandito e tutto si fonda sullo scambio e sul favore, non in quanto contiguità o distanza fisica, ma in quanto stati d’animo e d’affezione intercorrenti tra i membri di uno stesso organismo operativo, costituiscono una necessità interpersonale ineliminabile. Essa contribuisce a determinare, a istituire e a diffondere – sovente irreversibilmente – sensazioni di malessere o viceversa di benessere individuale sul lavoro. Sia quando ci si trovi come costretti a convivere e a lavorare gli uni accanto agli altri, sia quando ci sia data la rara opportunità di scegliersi reciprocamente, di mettere in comune scopi e modi concordemente pattuiti. In quanto colleghi, per lunghe ore nell’arco della giornata, per prolungati, anzi lunghissimi periodi, in ogni caso, si tratta di trovare un modus vivendi et operandi, il cui successo non è certo garantito soltanto a “colpi” di direttive e mansionari. Nelle società attuali, pertanto, accade di trovarsi a dover stare insieme non per una libera scelta aggregativa o partecipativa, per un desiderio di vita in comune, ma per ragioni preventivamente definite da ruoli, profili, obblighi: il cui scopo è il lucro, il profitto, un tornaconto remunerativo. In queste organizzazioni, si accede, come ben sappiamo, sia per adempire a un dovere e a una responsabilità sociale, sia per vedervi realizzato il diritto inalienabile al lavoro, sia per trovarvi le fonti di reddito necessarie alla sopravvivenza. Al fine di poter adempiere alle mansioni di consumatori, e di produttori al contempo o di prestatori d’opera, secondo le leggi
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dell’economia di mercato, secondo le modalità della domanda e dell’offerta. Fra l’altro, tali condizioni non sono sempre l’esito di una libera opzione vocazionale, ma più spesso, nella difficile e tormentata correlazione tra formazione e occupazione, esse sono accettate per necessità contingenti, non sempre proprio aderenti alle aspettative o al grado di preparazione di coloro che vi lavorano. Lo stato di crisi relazionale è sovente generato dalla mancanza di una coerenza auspicabile tra la preparazione ricevuta e uno sbocco, disatteso e chimerico, a essa coerente. La componente remunerativa, ordinata contrattualmente o con criteri discrezionali, costituisce senz’altro la più importante ragion d’essere di simili convivenze. Inutile negarlo. Ma anche, spesso in correlazione a questo aspetto, la fonte di disagi, conflitti, malumori, la cui ricaduta travalica gli aspetti inerenti l’esclusivo ed efficiente funzionamento di un organismo tecnico inceppato tante volte dalle imprevedibilità umane. Il quale è preordinato, e performato tecnologicamente, secondo criteri che talvolta hanno voluto instaurare forme di razionalità ed efficienza illimitate, anche rispetto ai mondi relazionali e affettivi. Infatti, questi fattori incidono non poco, oltre che sulle sue mete sociali esplicite, sui vissuti dei singoli: sulle nostre storie, fino a modificarne la traiettoria o a consentirci di mantenere segrete, occulte, tacite le nostre altre vite. Secondo modalità, non necessariamente illecite, ma di tipo trasgressivo: e comunque alternative alle nostre frequentazioni usuali. Ciò accade tanto più quando l’organismo organizzativo cui si appartiene risponda a una logica basata su incentivi e premi o su criteri non sempre trasparenti di riconoscimento delle competenze e dei successi conseguiti. La pregnanza, o viceversa, l’irrilevanza emotiva del trovarsi insieme, sono dunque fattori talvolta dipendenti dagli assetti organizzativi (dalla loro maggiore o minore disponibilità e tolleranza nel lasciar spazio al bisogno umano di informalità), nonché dagli incoraggiamenti più o meno incentivati di riconoscere le necessità emotive e di far spazio ad esse: favorendo, ad esempio, le occasioni informali di narrazione, discussione, apertura di se stessi. Talaltra, invece, queste si delineano come indipendenti dalle pur ammirevoli intenzioni delle leadership, degli apparati dirigenziali, che auspicherebbero la creazione di condizioni ottimali di convivenza, scambio, identificazione affettiva con le mete dell’organismo di cui si fa parte. Nelle aziende e nelle imprese, è ovvio ricordarlo, l’orgoglio e il vanto di appartenervi rappresenta del resto, a livello simbolico, uno dei sentimenti determinanti. Fonte di discriminazione per chiunque non sia a essi sintonico. Lontananza nella vita organizzativa però non significa soltanto mancanza di affezione per il tipo di lavoro svolto: può equivalere a una indifferenza umana per gli altri, con i quali si lavora anche gomito a gomito, se non ad una aperta insofferenza nei loro confronti. Vicinanza, per converso, non è modalità di convivenza da ricondursi ad una automatica coesività di intenti, quanto ai livelli di investimento emotivo; commisurabili alle vicende esistenziali extra lavorative, o alle interiori vicissitudini, che non possono, per consuetudine, entrare a far parte delle norme lavorative, ma che, nemmeno, possono essere ignorate e, tanto meno, represse.3 La maggior parte di noi, tranne che in alcune professioni private, dipende non solo dall’assetto organizzativo e relazionale cui si è destinati, ma dalla varia umanità – indecidibile a priori – con la quale andranno spartiti incarichi, compiti, tempi
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esecutivi. Tutti e tutte, in quanto attori organizzativi, ci troviamo ad assumere, gli uni rispetto agli altri, un ruolo dalla più o meno accentuata valenza emotiva, i cui effetti sono imprevedibili e che, non per nulla, i dispositivi di selezione del personale, quando esistano, cercano di intercettare preventivamente. Si tratta di variabili che vanno inoltre commisurate al grado di anzianità, al sesso, ai meriti reali o millantati, al prestigio, ai livelli gerarchici. Le emozioni e i sentimenti, senza dimenticare le affezioni motivazionali e le passioni per il proprio lavoro, non sono dunque “astrazioni estetiche”, loisir e “passatempi” interstiziali: fra l’altro sempre poco analizzati e discussi con chi li interpreta variamente sulle scene del lavoro. Tali forme del sentire (uso tale dizione inclusiva per riferirmi a tutto quanto suscita emozione in noi: dalla meraviglia, all’orrore, dall’eros alla sofferenza, alla dedizione disinteressata o meno per l’altro, ecc) si accendono, si acquietano, si riattizzano e ripropongono ciclicamente in rapporto agli “ingredienti” individuali citati. Gli effetti emotivi di una simile ineluttabilità, com’è noto, equivalenti a fattori umani di simpatia, disponibilità, gradevolezza dei modi o, viceversa, d’intolleranza, di indifferenza, di astio, ben lungi dall’essere soltanto manifestazioni del tutto personali, convergenti o eccentriche, incidono come è risaputo non poco sui climi organizzativi complessivi, sui suoi obiettivi, sull’efficacia delle sue più svariate “mission”. Divengono atteggiamenti collettivi capaci di aggregare consenso o rifiuto. Per non tacere degli umori – ottimi o pessimi – indotti da tali convivenze, che si trasferiscono ai rispettivi contesti privati, cui i membri di una data entità organizzativa appartengono. Di solito nella famiglia, le amicizie, le relazioni affettive o altri contesti nei quali ci si realizza, ci si sente accettati di più: o cercati elettivamente, proprio per compensare quanto l’organizzazione fonte di reddito prevalente non offre, sotto il profilo delle relazioni soddisfacenti e gratificanti auspicabili. Allo stesso tempo, non è così raro che negli ambienti lavorativi si possa trovare, anche emotivamente, quanto i luoghi mitizzati del proprio privato (a livello di calore, accoglienza, comprensione, ecc) non riescono invece a offrire adeguatamente. Non sono poi un’infima minoranza coloro che proprio sul lavoro, più che altrove, scoprono quanto al di fuori di esso non troverebbero mai. Così come, oggi, è impossibile non citare le opportunità che le reti informatiche, i media portatili, le globalizzazioni telematiche ci offrono, proprio al fine di soddisfare quegli appagamenti emotivi che né il privato, né il pubblico a noi fisiologicamente più “vicini” sono in grado di offrirci. A differenza di quanto riescono a donarci, sempre sotto il profilo emotivo, i contatti, le interazioni, le connessioni con gli universi emozionali di donne e uomini sconosciuti. I quali, seppur “incorporei”, siano costoro lontani o vicini, riescono a tessere, e noi nei loro confronti, luoghi virtuali di intensità pari, se non superiore, a quelli che ci è dato vivere nei contatti reali. Tali nuovi spazi, acronici e atopici, stimolano e suscitano infatti attrazioni, intrighi, seduzioni dall’indubbio potere immaginativo e desideriale. Dinanzi alla monotonia e al tedio emotivo, alle ritualità superficiali, alla perdita di senso del nostro vivere. Al punto che tali neofenomenologie già sono state paragonate alle manifestazioni oniriche del nostro stato di veglia. Tutto ciò riesce a generare quanto potremmo definire, accanto a quella privata e a quella ufficiale, una terza dimensione relazionale, che si rivela fonte di soddisfazioni altrove inappagate e decisamente frustrate. Questi incontri si configurano qualitativamente “altri”; spesso
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si tratta di investimenti che hanno lo stesso peso emotivo della fantasia letteraria, rispetto alle consuete forme di interazione a noi più prossime e fisicamente vicine. Le tecnologie fonte di relazioni e affettività tra ignoti (blog, facebook, second life, e-therapy, ecc) che arrivano a svelare segreti e intimità irriferibili a chiunque altro faccia parte della nostra usuale cerchia, che evitano anche quando lo potrebbero di incontrarsi dopo infiniti scambi neo-epistolari, iconici, dialogici, ecc, ottemperano ormai al bisogno di scegliere le proprie comunità e di costruirle informandole allo spirito della più totale opzionalità. L’ineluttabilità della vita di relazione ce ne assegna altre, sgradite o sgradevoli, alle quali tuttavia dobbiamo aderire o acconsentire obbligatoriamente. Il vicino e il lontano, considerati da questo punto di vista, non investono quindi soltanto questioni inerenti la prossimità o la distanza tra i corpi in reciproca collaborazione. Il farne esperienza diretta, piacevole o deludente, genera effetti secondari non indifferenti, anche in tutti coloro che, pur essendo lontani da quei luoghi, pur non appartenendovi, non possono sempre esimersi, e non per loro decisione, dal non esserne coinvolti pur indirettamente. Si tratti di relazioni “concrete e vive” (per usare un’immagine cara ai sociologi della quotidianità) o, viceversa, di dimensioni all’apparenza lontane, che ci risultano più vicine – e fattore di ricompensa emotiva – di quelle frequentate usualmente, basate sul contatto fisico e sulla sua mitizzazione. Da che mondo è mondo, l’attrazione e la repulsione viaggiano sulle ali della fantasia, dell’impensabile, dell’invenzione. Dal momento che le emozioni, quale ne sia la natura, evadono sempre dai contesti nei quali si originano per migrare altrove; per incidere sui comportamenti altrui e sulle vite dei singoli. Ai quali è così data l’opportunità di vivere almeno nella finzione quanto la realtà nega loro e ci sottrae il bisogno umano di produrre sogni e non solo fatti o dati di realtà. Sappiamo anche che i fattori emotivi, quali essi siano – inerenti l’amore, l’amicizia, la solidarietà o viceversa l’indifferenza, l’ostilità, il risentimento – riemergono in tutta la loro forza spesso irrazionale e incontenibile. Nelle organizzazioni, per lo meno in quelle qui evocate, la comunicazione e la condivisione della lontananza o della vicinanza di natura affettiva, sono per lo più espressione di sentimenti che i soggetti si auto-impongono, con successo relativo, di nascondere o di camuffare. La capacità di apprendere a separare il pubblico dal privato, l’imparare a farlo il più rapidamente possibile, del resto, costituisce una delle componenti e abilità non scritte richieste dal passaggio all’età adulta, dalle quali non ci si può esimere. I processi di adultizzazione si adempiono giocoforza all’insegna di una separazione tutta interna, fonte di conflitto prolungato o di adattamento rapido, ritenuta indispensabile; poiché, il non riuscire ad occultarla, potrebbe nuocere alla propria immagine. Fino al punto da mantenere all’oscuro anche i colleghi e le colleghe, verso i quali parrebbe (o sembrerebbe) sussistere un sentimento di fiducia e di apprezzamento per la loro discrezionalità amicale. Le prerogative richieste nella gestione della lontananza emotiva dalle faccende di lavoro, corrispondono così alla propria abilità nel riuscire a sdoppiarsi, anzi a moltiplicarsi, nell’imparare rapidamente a interpretare, bene e con successo, in copioni impostici dall’arte della versatilità sia di ruolo che emotiva, badando bene a non confonderne i piani tra loro. L’uomo e la donna maturi, consapevoli di trovarsi in un’organizzazione che domanda loro di sapere autogestire anche gli
Gli stati emotivi che entrano ed escono, germinano, nelle organizzazioni sono dunque molteplici: essi riguardano bisogni di appartenenza, di riconoscimento delle proprie capacità, la possibilità di farsi amici, alleati, sodali e di poter contare sull’aiuto e la disponibilità all’ascolto e alla confidenza dell’uno o dell’altra. Per far filtrare qualcosa di sé, che non attenga soltanto ai problemi lavorativi. Concernono poi, in taluni contesti, il raggiungimento dei traguardi condivisi: il riuscire a fare squadra, l’esercizio di alcuni rituali comunicativi, relazionali, simbolici, senza i quali l’obiettivo di sentirsi vicini, coinquilini e partecipi di uno stesso mondo (con conseguente vissuto emotivo di inclusione) e l’obiettivo di allontanare da sé l’esuberanza della sfera privata, di esibire che si sa contenerla o nasconderla una volta che si sia entrati nel luogo organizzativo, fedeli alla consegna di estrometterla, non potrebbero essere conseguiti. Dopo queste premesse, in questo articolo, ci occuperemo di uno soltanto di questi sentimenti elusi, o meglio inibiti, nelle organizzazioni; i quali insorgono (qualche volta, in alcuni e per nulla in altri) per obbedire a scopi anche socialmente utili (l’istruzione, l’educazione, la salute, la cura, ecc), ma non vantaggiosi, economicamente, per coloro che vi operano. Esso è dominato dal desiderio di supplire alla comunità ideale che si vorrebbe abitare ma che non può sussistere in base alle circostanze esaminate. Chi scrive si riferisce, e ne tratterà autobiograficamente, all’ambizione di agire come una comunità di sodale (abitata da mete e idealità condivise) scelta elettivamente, dove spendersi per finalità del tutto volontaristiche e comunque non connesse a gratificazioni di ordine economico. Bensì di natura sociale: dove la necessaria ricompensa, che è componente umana inevitabile di ogni nostra vita, viene a coincidere con la categoria del dono e con l’esperienza di spendersi ed offrirsi disinteressatamente. Oltre che con la necessità di condividere, questa volta, tanto gli aspetti inerenti alle strategie volte a raggiungere i fini per i quali l’organizzazione nasce, quanto le dimensioni emotive più riservate. Il cui ascolto e la cui accoglienza – a differenza delle organizzazioni prima sommariamente descritte – siano parte costitutiva, perseguita intenzionalmente, della sua stessa natura. Il sentimento del dono e del donarsi fa parte delle
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Il bisogno di compensare emozioni inibite: l’anomalia del donare
Duccio Demetrio
aspetti emotivi, secondo la cultura della pluriappartenza sociale e psicologica,4 sanno controllare i loro istinti e dosarli sapientemente, a seconda delle circostanze e degli interessi. E, se abili, in queste modalità comportamentali vengono ricompensati a livello di maggiori poteri e atti di riconoscenza vantaggiosi. Pertanto la condizione adulta, spesso più al maschile che al femminile, si disegna all’insegna della flessibilità emotiva e relativistica, più che di condotte etiche ispirate da codici di natura morale nel trattamento dei rapporti interpersonali e non solo. Dal che, ne consegue che le emozioni provate è bene non interferiscano mai, o non più di tanto, con la figura anaffettiva che il ruolo professionale ci chiede di interpretare. Con il rischio che, a lungo andare, si riproducano simili algidi modelli adultistici: laddove una maggiore attenzione alla cura e alla espressione degli affetti più naturali sarebbe auspicabile.
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emozioni anomale che un’organizzazione usuale può far emergere, che però non è suo dovere assecondare, né tanto meno incentivare. Di conseguenza, non possiamo che definire “anomali” (inusuali, imprevedibili od anche ricorsivi) taluni nostri sentimenti taciuti: come quello evocato. Tanto più quando esso si configuri, come diremo, in quanto esigenza individuale, forse ad altri occhi bizzarra e da anime belle, di alcuni (non quindi avvicinabile con criteri universalistici) anzi di pochi: protesa verso l’esigenza di colmare i vuoti emozionali ed affettivi che un’organizzazione “normale”, per la sua stessa identità istituzionale si trova a dover disattendere. Questi luoghi non sono certo le organizzazioni o le modalità di convivenza usuali nelle quali lavoriamo, produciamo, offriamo beni e servizi. Sono emozioni e riflessioni, queste, che impariamo a contenere e che, a lungo andare, auto convincendoci di ciò, possono anche scomparire: venendoci esse a trovare in forma di sogno o mediante disturbi fastidiosi dal latente significato. Rabbia, ansia, disprezzo, indignazione, insofferenza, rancore, invidia, livore, sadismo: ma nondimeno la malinconia, la nostalgia, la tristezza, la consolazione, il cordoglio, la compassione, la tenerezza … non possono, o sanno, abitare le nostre parole normali e le nostre giornate uguali, nei diversi stati di veglia che potrebbero esaminarle ed affrontarle soltanto se si accettasse di esplicitarle e non di reprimerle e, con sotterfugi, celarle in primo luogo a noi stessi. L’anomalia nostra è attribuibile al percepirne tutta la presenza, pur trovandoci nella impossibilità e nell’impotenza (consapevole) di non riuscire a palesarle nella vita ordinaria. Sempre nel sospetto non peregrino che qualcuno se ne avvalga come mezzo di ricatto, oltre che per farci sentire incapaci di spiegarne le origini e le ragioni. Sono sentimenti perciò ammutoliti, negati, in cerca di qualcuno che li ascolti e raccolga. Tale silenzio può incidere sugli stessi nostri modi d’essere e d’agire.
Il registro autobiografico: la sintomatologia di Anghiari La nostra tesi, la ribadiamo in sintesi, è che, seppur a livello marginale e di minoranze particolarmente sensibili a simile richiamo, il lavoro nelle organizzazioni per sua stessa natura non oblativo, improntato a generosità, a solidarietà generi una “voglia di comunità ”che resta nella più parte dei casi una latente araba fenice. Una comunità, quella vagheggiata, che si vorrebbe ben diversa da quella vissuta sia nel privato che nel pubblico. Dove, la stessa voce comunità, difficilmente si rivela adattabile ai luoghi consueti nei quali spendiamo energie relazionali per oneri professionali o privati. Ci manca quindi uno spazio ideale, di carattere interpersonale, insomma, nel quale poter essere autenticamente noi stessi insieme agli altri. Per fare, pensare, agire, parlarsi stando elettivamente e vocazionalmente insieme.5 Il sogno di vivere una comunità, come nel caso ora evocato, che ci consenta di riavvicinare fra loro il lontano e il vicino. In altri termini, i sentimenti alla ragione sociale, finalmente condivisa, del nostro agire e pensare. Il mio scritto, in questa sua terza parte, vuol essere dunque la cronaca breve (e vera) di un disagio personale che inizia da pagine che si avviano alla fine; dalla presentazione di una comunità culturale di formazione, ricerca, promozione intellettuale da me inven-
La scrittura come esercizio del donare e del donarsi Piuttosto, mi riconcilio ogni volta con il piacere ben consapevole e razionale di ritrovarmi in una comunità in cui il “sentimento di appartenenza” – di cui vi decifrerò il significato – è la dimensione prevalente che, per miei indubbi limiti e incapacità, non sono riuscito a scoprire e a costruire altrove. Non a mia personale misura (per essere sinceri, per lo meno non del tutto); a misura, piuttosto, di una piccola aggregazione umana in transito, contingente e sempre diversa, resa possi-
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tata nel 1998 per oltrepassare l’anomalia (normalissima e doverosa nella quotidianità professionale e nelle relazioni di vita, come abbiamo visto) delle finzioni e degli occultamenti necessari, che tuttavia ci tocca accettare sovente con sofferenza e disagio. O, comunque, non proprio all’insegna di un ingenuo ideale di felicità organizzativa. Quando tentiamo di alzare e diradare la nebbia su tutto ciò, scopriamo di iniziare ad ammalarci, invece di guarire. La sintomatologia del fastidio, all’inizio oscura, non può essere confusa con la ricerca dell’assoluta trasparenza reciproca. Bensì, può essere isolata nei sintomi del tenace perseguimento di un luogo informale (non un setting, né una seduta di gruppo di autocoscienza) in cui tali anomalie – i bisogni emotivi e relazionali citati ma negati – possano essere esaminate, narrate, descritte in aperta confidenza e iniziale anonimato. Lontani da occhi e orecchie indiscrete. Un luogo diverso dagli ordinari luoghi va cercando chi, poiché questi non trova, non si sente bene e si distanzia sempre più dai comportamenti di coloro che ritengono infermo, invece, chi ne sente la mancanza. E vorrebbe parlarne, scriverne, narrarsi. Lo strano morbo donativo compare tutte le volte che vogliamo sfidare le normalità del nascondere, del fingere, del tacere, dell’ignorare: per meglio apparire e appartenere, per meglio assolvere funzioni e compiti quale sia l’ordine organizzativo frequentato. Controcorrente si cerca un luogo che possa essere abitato dalla sincerità, dalla autenticità, da una qualche forma di utopia. Io ci ho provato a realizzare un simile spazio umano: di vicinanza e di lontananza al contempo, ammalandomi di un benessere finalmente realizzato. Non per grazia ricevuta, per sforzo progettuale e determinazione. Definisco perciò sintomatologia di Anghiari6 il tormento gratificante che mi affligge da alcuni anni a questa parte e che turba, in una gioia pensosa, anche tutti coloro che la frequentano con piacere come me, non potendone più di nascondere quel che nelle organizzazioni (le più micro o le più macro di appartenenza od infausta creazione) è vietato coltivare. Non (sempre) per colpa perversa o istituzionalizzata, di questo o quel tiranno (capo ufficio, preside, manager, oppure coniuge o figlio o allievo impertinente, amante, ecc ). Per quanto concerne dunque la mia malattia (non assumendomi responsabilità in vece d’altri), che prende nome da un luogo reale, non si tratta dell’amore spaesante per uno dei borghi medioevali toscani più belli d’Italia; una versione aggiornata, per intenderci, della ben nota sindrome di Stendhal. Tale esperienza affettiva (che colà mi conduce spesso ormai regolarmente a realizzare quanto è impossibile vivere nella organizzazione universitaria che mi dà da vivere) non è paragonabile ad un deliquio o ad un obnubilamento dei sensi. Anzi, me li acutizza e risveglia.
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bile grazie, invece, al valore e all’amore universale, sempiterno poiché qualcuno prima o poi lo raccoglie, per la scrittura di sé e autobiografica. Ecco, il problema è trovare una casa – un’appartenenza – dove si possa andare e venire a proprio piacimento e da lasciare, quando, dopo tanta scrittura, potrai tornare ad appartenere alle altre tue appartenenze quotidiane più sicuro del tuo sentire, anche se dovrai continuare a tenere per te certe emozioni. Con un notes, una penna, un diario per amici fidati. Da Anghiari, si torna sempre in più di uno nelle tasche: la scrittura ti sdoppia e accentua l’abitudine al dialogo interiore. Ma non all’insegna degli effetti dissociativi prima citati, bensì riconciliatori e ricompositivi. Sai che, al rientro, i fogli potranno raccogliere i sentimenti che provi, nella sicurezza che queste tue pagine non ti tradiranno mai; nell’orgoglio di imparare a raccontare a se stessi quelle anomalie del sentire. Ma è in una vita temporanea messa in comune (nell’intreccio di un tempo e di uno spazio apicali, memorabili) che tutto questo prende forma e si sviluppa. Anghiari non è una ridicola e presuntuosa “piccola Atene” della scrittura, semmai, una polis della memoria autobiografica: personale e collettiva. Dove sostare e lavorare insieme per produrre null’altro che non siano parole in libertà (retrospettive e introspettive); per pensare e ripensarsi; per riflettere sulla propria vita al passato e al presente; per occuparsi delle biografie degli altri: salvando storie, raccogliendo ricordi altrimenti perduti, ”intossicandosi”della mania di tenere un diario, di scrivere appunti, di leggere quel che l’altro in amicizia, trovando qui un’opportunità di raccoglimento e spunti meditativi, va scrivendo di sé o di te, ascoltandoti. Qui ci si cura, in sostanza, imparando una mania o a non considerarla più nociva; confermandola, sviluppandola aspirando a contagiare altri. Anghiari è un habitat di ossessioni innocue che ti dà energia, togliendotela: quando, alla fine di una giornata, hai narrato l’inenarrabile. È un luogo partecipativo che ti fa ricordare di più per dimenticare, in modo “buono” (cioè libero e profondo) e fertile; che ti chiede di riscoprire il piacere della solitudine, stando diversamente con gli altri. Per intraprendere altre forme di ripensamento, talvolta meno dure di quelle cui una pagina bianca e un po’ di inchiostro ti impongono di scoprire. Anghiari è la sintomatologia di me stesso che cercavo: per vivere diversamente un modo di stare tra adulti di varia cultura, provenienza e genere, non soltanto italiani, che non si conoscono affatto e che qui possono conoscersi (non con giochi psicologici, tantrici e, vivaddio, nemmeno per cercarvi la felicità) come mai è avvenuto accadesse loro. È un esperimento continuo di nuova convivenza e tolleranza reciproca: in presenza fisica, o nella distanza, di carattere epistolare. Alcuni la considerano una “clinica”dove accade però di infettarsi ancor più di penna, e tale è poiché ti reclini su di te ad ascoltarti con lo stetoscopio del lapis. Altri, ed io fra questi, delusi dalla vita d’ufficio, dal lavoro amministrativo, dalla scuola o dalla formazione, scoprono in questa comunità (a basso tasso e costo organizzativo e ad alta tensione umanistica e di volontariato intellettuale) quel che cercavano e continuano a cercare vanamente nei diversi posti di lavoro o che iniziano a rivendicare in questi luoghi. In altri termini questa esperienza “ concreta e viva”, ha saputo generare un modo meno asettico, formale, funzionalistico di stare insieme. Dove ci si dedica a un’oziosità operosa che non possiamo permetterci quando in gioco ci sono interessi economici, di carriera, di sopravvivenza, di impegno. Anghiari non è un’opportunità regressiva per anime
Una sindrome da esportare e perseguire in altre forme Anghiari è il sintomo – la sindrome – la cura che non trova risposte appropriate in una qualsiasi “normalità”organizzativa. Anche la più perfetta e amata. Poiché c’è sempre qualcosa che non riusciamo sinceramente e pienamente a essere. Poiché il luogo in cui si lavora solitamente, pur nella convinzione di operare per il meglio e persino con passione, elide giocoforza, reprime, ostacola il manifestar-
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perse e fallite: lo è soltanto per chi forse aveva qualche conto in sospeso per i tanti – troppi – appuntamenti rinviati con la coscienza, con l’autocritica, con la voglia di cambiare. Qui produci qualcosa, a differenza della coltivazione di altri loisir alla moda, che ha il raro privilegio di non servire a niente. Nessuno che qui alberghi per i periodi della formazione alla scrittura di sé aspira a vincere un concorso letterario, un premio di poesia, a pubblicare: tutt’al più, l’unica ricaduta potrà riguardare il trasferimento di quanto scrivendo si è sperimentato su di sé in altri luoghi, in cui disseminare l’arte e la cura della scrittura. Qui puoi disperdere al vento del primo finestrino quanto hai scritto per giorni e giorni. Poi un dubbio ti ferma, di solito, poiché quelle righe sono il tuo alter ego, il personaggio che sei stato e quello nuovo che sta stagliandosi in una nuova gestazione, soltanto affidata a te, alla tua caparbietà scrivana. È l’anomalo sentire che sta uscendo dalla sua imposta cattività e che ti chiede cura e rispetto. In conclusione, la sintomatologia di Anghiari ha preceduto per me l’incontro con questa comunità prima esistente soltanto nel mio immaginario: oggi rappresenta la “difesa immunitaria” di cui avevo bisogno, per sopportare i corridoi e i tavoli dove ho dato e offro il mio contributo professionale e organizzativo. In una quotidianità spesso usuale e mutilante purtroppo. Anghiari mi serve per disintossicarmi dalle impercettibili o vistose manifestazioni di disumanità che, senza accorgermene, o pervicacemente lucido, accumulo; lavorando nelle stanze usuali dell’organizzazione che formalmente compare sui miei documenti di identità. Se, allora, hai nostalgia per i mondi impossibili da perseguire senza evasioni, alla luce del sole, per trovare quel che non trovi – poiché un conto è formare secondo regole formali e un altro è formare in base al criterio della motivazione libera a formarsi per sé – inventare una comunità di ricerca e di pratiche come questa, non è una fuga. È un risarcimento non chiesto ad altri ma a te stesso, in quanto ammetti non un fallimento, bensì un debito nei confronti di quel che non riesci a fare più di tanto in questi luoghi del quotidiano di cui continui a perseguire gli scopi alati soltanto perché lavori per delle persone. Dove il lucro non conta, dove non pensi di inventarti un nuovo Cepu, o una confraternita di allievi devoti, semmai, un territorio (meglio un paesaggio) in cui si possa continuare a crescere in un’età adulta tendente alla senile nella libera ragione di sentirsi esistere meglio e di voler pensare e offrire in modo diverso quel che si è già pensato. La sindrome di Anghiari, la cui sintomatologia e genealogia ho cercato di descrivere, è la mia restituzione dovuta, dunque, il mio debito estinto con la necessità ancestrale, già precristiana, del dono.
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si di altre aspettative e di altri desideri. Anghiari e tanti altri luoghi assimilabili alla sua sindrome, pur con altri intendimenti (quali sono gli ormai innumerevoli gruppi di volontariato, di ricerca scientifica, di dilettantismo e amatorialità, di partecipazione civile e politica, di assistenza a chi soffre, anche in rete, ecc) rappresentano, sul piano dell’esercizio della nostra cittadinanza vocazionale, tutto ciò che più riattiva in noi passione sociale, nel tentativo di essere individui che provano il gusto ed esercitano il diritto di voler associarsi liberamente. Anche perché l’organizzazione in cui si è passata tutta una vita, o le molteplici in successione che si sono conosciute, non del tutto ti hanno accontentato: non potevano farsi difatti comunità dal “normale” sentire, dire, raccontarsi e scrivere.7 Note 1
Godbout, J., Caillé, A., 1992, Lo spirito del dono; tr. it., 1993, Torino, Bollati Boringhieri, p.
30. 2 Tra i saggi più celebri, ormai classici, citiamo soltanto sul tema del dono e donare: Caillé, A., 1998, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono; tr. it., 1998, Torino, Bollati Boringhieri; e di Derrida, J., 1991, Donare il tempo. La moneta falsa; tr. it., 1996, Milano, Raffaello Cortina; Temple, D., Chabal, M., 1995, La Reciprocitè et la naissance des valeur humaines, Paris, L’Harmattan. 3 Si veda a tal proposito, sulla variabile interiorità in quanto simbolo anche civile delle nostre soggettività inalienabili: Demetrio, D., 2000, L’educazione interiore. Introduzione alla pedagogia introspettiva, Milano, Rcs, La Nuova Italia; Id., 2010, L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini, Milano, Raffaello Cortina. 4 Elster, J., 1987, L’io multiplo; tr. it., 1990, Milano, Feltrinelli. 5 Sul concetto di autenticità e trasparenza si rinvia al saggio noto e recente di Mancuso, V., 2009, La vita autentica, Milano, Raffaello Cortina. 6 Anghiari, in provincia di Arezzo, è un comune di oltre ottomila abitanti collocato sui colli che circondano l’inizio dell’Alta Val Tiberina. Qui ha sede la Libera Università dell’Autobiografia. Per avvicinarsi on line a tale luogo si può consultare il sito www.lua.it. La Libera è stata fondata da chi scrive, che ora la dirige, e dal giornalista Saverio Tutino, già inventore dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, nel 1998. La comunità di scrittori e scrittrici è un’associazione culturale senza fini di lucro, che conta oggi oltre 1500 associati e attua ininterrottamente tutto l’anno iniziative didattiche e formative, promuove convegni scientifici, gestisce scuole estive e seminari con lo scopo precipuo di diffondere la cultura delle memorie scritte sia individuali che collettive. 7 Sulla esperienza metodologica della Libera Università dell’Autobiografia, sui suoi antefatti teoretici e sugli esiti clinici del lavoro di cura di sé e degli altri mediante l’esercizio sistematico, monitorato, sollecitato della scrittura si può leggere di Demetrio, D., 2008, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Milano, Raffaello Cortina.
Diana Salzano Prossimità dismorfiche: ricomposizioni ottiche dello sguardo mediatico
La dinamica vicino/lontano caratterizza il disancoraggio mediale, trasposizione concettuale dell’idea di disembedding con cui Giddens intende significare le trasformazioni avvenute nella società tardo moderna, ad opera dei trasporti veloci e delle tecnologie della comunicazione, nel rapporto spazio-tempo e nell’organizzazione delle pratiche sociali. La natura dinamica della vita sociale è riferibile essenzialmente a tre fattori fondamentali: “la separazione del tempo e dello spazio e la loro ricombinazione in forme che permettono una precisa delimitazione di ‘zone’ spazio-temporali della vita sociale, la disaggregazione dei sistemi sociali (…) e infine l’ordinamento e il riordinamento riflessivo dei rapporti sociali alla luce dei continui input di sapere che interessano le azioni degli individui e dei gruppi” (Giddens 1990, p. 28). La contrazione spazio temporale disancora le relazioni sociali dalle particolarità dei contesti di presenza rendendole estensionali. I luoghi diventano fantasmagorici, sono penetrati e modificati da influenze remote: “Ciò che struttura il luogo non è semplicemente ciò che ne occupa la scena; la ‘forma visibile’ della località nasconde le relazioni distanziate che ne determinano la natura” (ivi, p. 30). I corpi continuano ad ancorare gli individui allo spazio e al tempo, a un determinato contesto locale, ma tale località è diversa da quella delle società premoderne: è abitata da presenze e assenze, contaminata dall’eco di mondi di vita distanti. È innegabile il potere dislocativo dei media, la loro capacità di trascendere spazio e tempo, di connettere presenza e assenza, proiettandoli sul palcoscenico della rappresentazione. Le immagini del cinema, della televisione, dei linguaggi video hanno costruito strutture di esperienza mediata le cui principali peculiarità sono per Giddens l’effetto collage e la familiarità con eventi e situazioni lontane1. La contrazione delle distanze ad opera dei media elettronici è alla base dell’idea mcluhaniana di villaggio globale (1964): la spinta centripeta delle tecnologie della comunicazione contrae improvvisamente il mondo, estendendo il nostro sistema nervoso sino a coinvolgerci in tutta l’umanità e ad incorporare tutta l’umanità in noi. La nuova geografia situazionale disegnata dai media elettronici è tratteggiata da Meyrowitz (1985) che analizza la ristrutturazione dei palcoscenici sociali e della nostra concezione di comportamento appropriato ad opera dei media. Le spazialità create dalle tecnologie della comunicazione riconfigurano le distanze tra le identità di gruppo, tra pubblico e privato, infanzia e maturità,
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mascolinità e femminilità, risemantizzando i concetti di vicino e lontano. I media dislocano, infatti, il rapporto tra ambiente fisico e situazione sociale e la natura dell’interazione è decisa dai modelli di flusso informativo piuttosto che dagli ambienti fisici. Modificando le peculiarità informative del luogo, le tecnologie della comunicazione trasformano situazioni e identità sociali. La stampa prima e i media elettronici poi disancorano le forme simboliche mediali dalle coordinate spazio-temporali e dai territori dell’enunciazione. L’elaborazione discorsiva2 e la mediatizzazione estesa3 contribuiscono a sganciare ulteriormente tali forme simboliche dalle coordinate spazio-temporali dell’ambiente di produzione. La televisione, attraverso quella che Thompson definisce interazione quasi mediata4, crea l’illusione di un’interazione diretta con i personaggi dello schermo, un rapporto para sociale, di familiarità ed intimità (Horton, Whol, 1956). La simultaneità despazializzata crea una storicità e una socialità mediate che mutano totalmente il senso della distanza, del rapporto vicino/lontano. L’interpolazione spazio temporale riguarda tempi e luoghi reali e immaginari (ivi). L’intimità connessa all’esperienza locale trova nell’intimità non reciproca a distanza5 (Thompson, 1995) creata dai media di massa una nuova forma di espressione. Un’illusoria vicinanza agli eventi rappresentati libera dai doveri di reciprocità ma può creare dipendenza dai personaggi dello schermo che si venerano proprio perché inaccessibili. L’intimità delle grandi cerimonie dei media (Dayan, Katz 1992), il pathos collettivo che muove dalle sorti di un forte nucleo di immaginario (si pensi ai funerali o ai matrimoni delle celebrità) possono essere interpretati come una conseguenza del sequestro d’esperienza6 (Giddens 1990) che sperimenta l’uomo contemporaneo in una società sempre più caratterizzata dalla privatizzazione delle esperienze. La crescente astrazione dei sistemi sociali, l’aumento delle relazioni impersonali basate sull’intellettualità e sulla strumentalità ci fa desiderare di vicariare l’esperienza perduta con quella ricreata dai media audiovisivi. In assenza di quella che Benjamin definisce esperienza accumulata7 va rarefacendosi anche quella vissuta, intesa come percezione attuale, presentificazione di un contenuto alla coscienza. È il valore dell’esperienza in sé che sembra, come afferma Jedlowski (1989), decrescere in una sorta di tachiestraneità al mondo (Marquad 1987). Nella pausa protetta dell’altrove simbolico mediatico possiamo allora riappropriarci dell’esperienza degli eventi che ci è sottratta nei contesti di vita quotidiana: “ciò che si dissolve sul piano esperienziale si materializza a livello immaginifico, trova un’immanenza segnica, una corporeità virtuale in qualche recesso dell’immaginario individuale e collettivo” (Salzano 2003, p. 137). Essere esposti agli eventi mediali non significa però esperirli personalmente nei contesti in cui avvengono e non implica necessariamente un coinvolgimento; cambia la qualità del contatto (Silverstone 1994, p. 58). Le caratteristiche sensoriali della televisione impediscono una reale partecipazione emotiva ed etica alle condizioni di individui lontani nello spazio e nel tempo: “lo schermo televisivo riduce tutte le immagini alla stessa qualità visiva. L’atrocità e l’intrattenimento si alternano nello stesso rettangolo di vetro convesso” (Miller 1971, p. 126). Lo spettatore, nella costruzione di Adam Smith (1759), è per definizione un beholder, colui che vede o un bystander, una presenza senza impegno, uno spectator, imparziale e irrimediabilmente distante da ciò che osserva; la sua attenzione per l’oggetto osservato è sostanzialmente
Le nuove tecnologie non fermano la guerra o il genocidio, possono anzi renderli più efficaci (…) e anche invisibili (…), tenendoci quindi separati con il ricorso a immagini che rendono impossibili la cura e la responsabilità (…). La tecnologia può isolare e annullare l’Altro, e senza l’Altro siamo persi. La tecnologia può, all’opposto, annullare la distanza, può portare l’Altro troppo vicino perché ne possiamo riconoscere la differenza e la specificità (…). Le immagini che documentano altri mondi si devono conformare ai nostri preconcetti: i poveri devono sembrare poveri; gli affamati devono avere ventri gonfi e mosche sugli occhi. La familiarità indotta dalla tecnologia può non produrre disprezzo, ma molto probabilmente produce indifferenza” (Silverstone 1999, p. 213).
La prossimità dismorfica che cortocircuita il vicino e il lontano è quindi una patologia dello sguardo; i media chiedono un impegno morale per il quale spesso non offrono risorse. Il rischio di adiaforizzazione (Bauman 1999), di emancipazione delle azioni dal giudizio e dal significato morale è davvero alto: La sensazione è (…) che i media siano in senso strutturale amorali (…). Se non ci piace qualcosa, in ogni caso scomparirà presto, lontano dagli schermi, scivolando all’estremità del mondo (ivi, p 215).
L’intensità delle comunicazioni e degli scambi tra gli individui non sembra più assicurare quella che Durkheim definiva densità morale. Le tecnologie della comuni-
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disinteressata. Hannah Arendt (1967,p. 126) notava come la compassione avesse un carattere pratico, potesse cioè attivarsi solo quando chi soffre e chi non soffre e osserva il dolore dell’altro sono in grado di stabilire un rapporto diretto. La compassione8 si può provare per il singolo individuo; non è uno stato d’animo che tende alla generalizzazione, come è invece la pietà9. È la possibilità di agire per alleviare la sofferenza dell’altro che determina le condizione del moral engagement, dell’impegno etico. Lo spettatore televisivo tende ad interpretare come finzionali gli eventi sui quali non può intervenire (Boltanski 1993). È l’impotenza, il senso di colpa che determinano in lui il ritiro morale da ciò che osserva. Il lontano a cui i media ci connettono rimane inevitabilmente tale. La connettività tecnica consentita dalle tecnologie della comunicazione (Tomlison 1999) è cosa ben diversa dalla reale prossimità agli altri che richiede la compresenza, il cumpatire. La prossimità dismorfica dei media altera le forme della distanza e quindi del senso di vicinanza. La rappresentazione iperrealistica della televisione (…) ingigantisce le cose lontane e le pone troppo vicine al nostro sguardo perché si possa notarle, oppure, dissimulando la loro reale portata, le purifica della originaria drammaticità che le caratterizza e le proietta, in formato asettico e ridotto, sul palcoscenico della simulazione. In entrambi i casi, nell’ipertrofia e nell’ipotrofia degli eventi mediali, la prossimità è ingannevole. Eppure affascina e allontana le cose che ci sono realmente vicine che, pur restando prioritarie per la nostra vita, come sostiene Thompson, diventano secondarie per il nostro intrattenimento. E sappiamo quanto l’intrattenimento conti (Salzano 2003, p. 142). L’abbreviazione prospettica simmeliana porta il mondo mediato dalla tecnologia nelle nostre case, nelle nostre prevedibili routines quotidiane ma ne sbiadisce i colori, ne smorza le tonalità affettive. L’emancipazione simbolica (Elias 1991) consentita dai media crea un disembedding morale:
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cazione fungono da cordone sanitario proteggendoci nei nostri spazi locali di vita da eventi lontani a cui possiamo voyeuristicamente assistere ma che non devono in alcun modo turbarci; eventi troppo spesso decontestualizzati, desemantizzati, privati della loro drammaticità reale. Lo straniero tele mediato rimane tale, è estraniato da un processo di esorcizzazione, di tabuizzazione della sofferenza, del dolore, della morte: In nome del realismo e del dovere di cronaca si mostrano le immagini più brutali e, tanto più sono esplicite e atroci quanto più rappresentano l’estraneo, lo straniero, chi ha poca possibilità di essere conosciuto altrimenti. La rappresentazione del dolore di chi ci è più vicino chiede maggiore pudore e minore realismo: è considerato indecente esibire i propri morti” (Sontag 2003, p. 19).
Il sogno del villaggio globale televisivo che crea maggiore compartecipazione ed interattività si infrange contro il rischio di una profonda interpassività (Slavoj Zizek), di una desensibilizzazione progressiva creata dall’impossibilità di agire sugli eventi rappresentati e dalla tendenza dei contenuti mediatici ad attivare continuamente la rabbia narcisistica con immagini-colpo (Nancy 2002) per poi immediatamente depotenziarla. L’essenza non dialogica dell’interazione quasimediata resa possibile dalla televisione ci fa apparire gli eventi come refrattari ed immodificabili; la natura deterritorializzante del dispositivo televisivo spiega lo scarso coinvolgimento nelle vicende rappresentate. L’urgenza di empatizzare con il dolore degli altri, di immaginarne la portata, di convertire in parola politica e in azione quell’indefinita apatia che ci coglie di fronte all’Altro lontano che la tecnologia mediale avvicina crea la necessità di un reembedding etico; da parte dei pubblici perché coltivino un atteggiamento critico, ermeneutico e metabolizzante nei confronti dei prodotti mediatici e da parte dei media perché possano vincere la pigrizia linguistica, implementare l’uso dei marcatori semiotici che consentono di distinguere la finzione dalla realtà, rappresentare storie che coinvolgano moralmente, calando le narrazioni nei contesti etici locali delle audiences e mantenendo in vita la disposizione all’azione. La comunanza despazializzata (Thompson 1995) deve convertirsi in una coevità etica che trasformi il disincanto del turista baumaniano in un’attitudine riflessiva e in un’occasione di pensosità (Resta 1997). La rete creata dal meta medium internet, la dialettica tra processi di globalizzazione della cultura ed istanze di appropriazione legate ai contesti locali riaprono le maglie del nesso vicino/lontano disegnando rapporti reticolari che non possono più essere misurati in base alla logica centripeta del villaggio globale. Lo spazio dei flussi (Castells 1996) della comunicazione immateriale della rete, distinto dallo spazio dei luoghi che ancora le persone ai contesti locali, riformula le logiche dell’embedding territoriale, introducendo un nuovo modello spaziale policentrico, orizzontale, a rete e nodi. Lo spazio è in continua definizione, è istantaneamente percorribile, è espanso e connesso. La geografia non muore ad opera della velocità tecnologica (Cairncross 1997; Virilio 1989) ma si risemantizza: In realtà internet ha una propria geografia, fatta di network e nodi che elaborano il flusso informazionale generato e gestito dai luoghi. L’unità è il network, così che l’architettura e le dinamiche dei network multipli sono le funzioni e le fonti del significato per
la morte della distanza (…) è una prospettiva sbagliata. È un’imposizione dettata dall’esigenza di un isocronismo universale che faccia funzionare a ritmo continuo la macchina globale, ma in realtà è morto solo il tipo di distanza che misuravano in chilometri o miglia. La distanza si è compressa e ha cambiato tipo di misuratori, non si esprime più attraverso entità metriche, ma in entità temporali (…). Non è infatti più la distanza a definire i margini e l’alterità, ma i flussi, le connessioni, (…) gli spazi deterritorializzati delle relazioni. In quest’ottica scompare la dicotomia vicino/lontano per lasciar posto ad una dicotomia più radicale ed escludente: connesso/non connesso (…). Saltano dunque i presupposti della contiguità territoriale, mentre la distanza, cacciata dalla finestra della metrologia, rientra dalla porta delle relazioni aspaziali, creando interzone di buio trasmissivo e netti margini di incomunicabilità. Differenziazioni che si fanno sempre più drammatiche e acute, dicotomiche” (Bonora 2001, p. 12).
Il digital divide segna una redistribuzione e ridefinizione delle distanze e delle collocazioni spaziali. La distanza tra i luoghi online non è misurata dal tempo necessario per raggiungerli ma dall’alterità rispetto ai luoghi offline di appartenenza. Tale differenza può essere di tipo linguistico, culturale, cognitivo ecc. La rete non è isotopica bensì crea una nuova gerarchizzazione dei luoghi: “nella geografia dei provider di contenuto di Internet” (Castells 2001, p. 209) solo alcuni luoghi fisici riescono ad impossessarsi dei siti virtuali. Il dominio comunicazionale, il potere dell’informatività crea inedite distanze, tracciando lo scarto tra reti attive che veicolano significato e reti passive, tra i capitalisti dell’informazione e un nuovo tipo di cognitariato (Berardi 2001): bisogna saper distinguere (…) tra reti di significati, valori, codici condivisi, in cui la comunicazione è frutto di reciprocità, di scambio paritario, generatrici di coesione, dai circuiti funzionali, il cui scopo è la mera trasmissione, il trasferimento, la velocizzazione del comando, l’organizzazione e il coordinamento (Bonora 2001, p. 17).
La logica della connessione telematica accende e spegne luoghi e persone in relazione al valore attribuito ad ogni luogo dagli interessi socialmente dominanti. La Galassia internet è mossa da una spinta centrifuga, non è omologante e democratica come la Galassia Gutenberg mcluhaniana; la disuguaglianza e l’esclusione sociale vivono una nuova stagione. Il reembedding della rete è tessuto sulla trama della connettività ma non crea una prossimità libera dalla logica funzionale: La distanza ha accentuato la sua natura diversificante, e se dentro la rete non ha più senso parlare di vicino e lontano, fuori prevale un principio di esclusione. Nella sfera cibernetica ciò che è lontano non è (ivi, p. 20).
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Nello spazio dei flussi il territorio coincide con la mappa (Gras 1993); si tratta di uno spazio progettato, negoziato e oggetto di conflitti (Ortoleva 2001, p. 70). Nella nuova territorialità telematica non conta dove ci si trova, conta la possibilità di connettersi alla rete:
Diana Salzano
ciascun luogo. Il risultante spazio dei flussi è una nuova forma di spazio, caratteristica dell’Età dell’informazione, ma non è priva di luoghi: essa collega i luoghi attraverso network informatici e sistemi di trasporto informatizzati. Ridefinisce la distanza ma non cancella la geografia” (Castells 2001, p. 195).
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L’universalismo reticolare cede di fronte alla logica gerarchizzante: “Il modellamento spaziale di Internet non segue la distribuzione della popolazione ma la concentrazione metropolitana dell’economia informazionale” (Castells 2001, p. 209). Le comunità di pratiche del cyberspazio, frutto della messa in comune di attività ed interessi, i network io-centrati (Wellman 2001) basati sul modello sociale dell’individualismo reticolare rappresentano però una possibilità di reembedding perché riterritorializzano i rapporti mediante lo scambio di significati. In rete il linguaggio costruisce, infatti, lo spazio sociale; le prossimità sono di tipo semantico10: Nell’iperspazio delle reti, in cui vicino e lontano assumono solo un valore comunicativo, il senso del luogo diventa allora il ‘luogo del senso’, lo spazio di significazione e visibilità che si epifanizza oltre gli orizzonti semantici della territorialità fisica, dove il luogo, smessa la sua natura di spazio radicato al suolo, assume il ruolo di nodalità significativa, di crocevia di nuove vettorialità comunicazionali, di inedite traiettorie della redistribuzione cognitaria (Salzano 2003, p. 187).
Note Il collage indica una giustapposizione non narrativa ad opera dei media di storie e materiali diversi che “esprimono (…) disposizioni di consequenzialità tipiche di un ambiente spazio temporale nel quale l’attenzione al locale è in gran parte scomparsa”(Ivi, p. 35). La familiarità con eventi lontani può produrre “delle sensazioni di ‘inversione della realtà’: l’oggetto e l’evento reale cioè, quando vengono percepiti, sembrano avere un’esistenza meno concreta della loro rappresentazione nei media” (Ibid.). 2 Il processo di narrazione, commento e reinterpretazione dei messaggi da parte dei riceventi. 3 La riproposizione da parte di altri media, in nuove forme e contesti, di messaggi già trasmessi da un determinato medium. È l’idea di rimediazione di Bolter e Grusin. 4 L’interazione mediata si instaura quando tramite un mezzo tecnico (lettera, telefono ecc.) si trasmettono informazioni a chi è lontano nello spazio e nel tempo mentre l’interazione quasimediata è creata dai media di massa come la stampa, la radio e la tv che prevedono una comunicazione prevalentemente unidirezionale, per un pubblico indefinito. Tale interazione “non è caratterizzata dal grado di reciprocità e specificità interpersonale delle altre forme di relazione (…). E tuttavia, è una forma d’interazione” (Thompson 1995, p. 125). 5 “La forma di intimità che gli individui possono vivere comporta reciprocità, ma manca di alcune delle proprietà che caratterizzano le relazioni basate sulla condivisione di un ambiente comune. Viceversa, nel caso della quasi-interazione mediata, la forma d’intimità che è possibile si stabilisca è essenzialmente non reciproca” (ivi, p. 290). 6 La mediazione dei sistemi astratti nell’era tardo moderna crea un tipo di esperienza che riduce la necessità della compresenza fisica e della conoscenza reciproca e che rimuove l’intimità a favore di una crescente astrazione. 7 Riferita alla sedimentazione di contenuti nella nostra memoria. L’“interruzione corrisponde tanto ad una ostruzione della capacità dei singoli di esser colpiti nel profondo dai materiali del vissuto e di permetter loro di depositarsi nella memoria, quanto ad una difficoltà nell’elaborazione di tali materiali attraverso un linguaggio che medi i vissuti del singolo con elementi della memoria collettiva” (Jedlowski 1989, p. 23). 8 La compassione è comunque “un’emozione instabile. Ha bisogno di essere tradotta in azione, altrimenti inaridisce” (Sontag 2003, p. 88). 9 La pietà, per compensare la distanza, deve generalizzarsi, farsi eloquente, riconoscersi come emozione. 10 In rete forme linguistiche informali, sintetiche e allusive riducono le distanze tra gli interlocutori, a differenza del linguaggio formale e prolisso che allontana socialmente. 1
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Elisa Maspero, Sembra ieri, Musee d’Orsay
Charo Lacalle El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano1
Il dibattito sulla rete: dall’individuo isolato all’occhio del Grande Fratello1
Internet nacía en 1989, a 36 años del inicio de la televisión. La World Wide Web (el primer web browser), completaba su propia trayectoria entre 2004 y 2005 con la llegada de la web 2.0, que finiquita el sistema jerárquico administrador/usuario del período anterior y modifica radicalmente la concepción del uso de la Red y de las informaciones. La web 2.0 materializa el ideal de la retroalimentación y convierte los monólogos en diálogos, al incorporar el feedback del destinatario en los procesos de comunicación de masas. Los innumerables productos de software on line generados por la web 2.0 no sólo son capaces de gestionar un volumen ingente de recursos, cuya existencia era difícil imaginar hace tan sólo unos pocos años. Los servicios de la web 2.0 también modifican el sentido tradicional de la navegación (entendida como búsqueda de informaciones o contenidos) y la convierten en una mezcla de investigación, producción e intercambio entre usuarios por efecto del feedback. Pero, más allá de sus innumerables aplicaciones, la verdadera revolución desencadenada por la web 2.0 reside en su potencial social, que vuelve la Red un espacio idóneo para establecer relaciones y comunidades de todo tipo.
La nascita di Internet risale al 1989, 36 anni dopo la televisione. Il World Wide Web (il primo web browser) ha completato la sua traiettoria tra il 2004 e il 2005 con l’avvento del web 2.0, che pone fine al sistema gerarchico amministratore/utente del periodo precedente e modifica radicalmente la concezione dell’uso della rete e dell’informazione. Il web 2.0 rende tangibile l’ideale della retroazione ed è in grado di trasformare i monologhi in dialoghi, grazie all’introduzione del feedback del destinatario nei processi di comunicazione di massa. Gli innumerevoli software online creati ad hoc per il web 2.0 sono in grado di gestire un volume ingente di risorse, realizzando operazioni difficili da immaginare anche solo pochi anni fa. Inoltre, i nuovi servizi modificano il senso tradizionale della navigazione (intesa come ricerca di informazioni e contenuti), rendendola, al contempo, un insieme di ricerca, produzione e scambio tra utenti proprio grazie al feedback. Tuttavia, al di là delle sue numerose applicazioni, la vera rivoluzione disinnescata dal web 2.0 risiede nel suo potenziale sociale, che trasforma la rete in uno spazio idoneo per stringere relazioni e dar vita a comunità di ogni sorta.
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A diferencia de la primera fase de la Internet, cuya estructura comunicativa apenas alteraba la linealidad propia de la comunicación mediática, el carácter metamórfico de la web 2.0 multiplica las posibilidades de compartir informaciones entre usuarios y hace de los textos perpetua mobilia, susceptibles de ser modificados constantemente. La intervención simultanea en los contenidos por parte de los usuarios y el desarrollo de comunidades virtuales, que se mezclan con las comunidades físicas, generan nuevas formas de relación, intercambio y sociabilidad. La web 2.0 conecta personas capaces y deseosas de interactuar unas con otras, cuyo feedback traslada a la Red su “mundo empírico” (Eco, 1979). En términos de participación, la web 2.0 constituye un sistema complejo, público y privado a la vez, integrado por un número ilimitado de páginas que ofrecen contenidos, servicios y herramientas de software de todo tipo. Público porque potencialmente la Red está abierta a cualquier tipo de usuario. Privado porque permite el desarrollo de actividades comerciales y de un amplio mercado, pero manteniendo gratuitos una buena parte de los contenidos, los servicios y el software de código abierto (Alberich i Roig, 2008).
La Web social El carácter social de la web 2.0 ha convertido Internet en una plaza pública, donde es posible debatir de cualquier cosa y con cualquiera; a cualquier hora y desde cualquier sitio, y donde los usuarios acuden deseosos de consolidar su propia identidad. La web 2.0 ha convertido Internet en el epígono de la aldea global (en el senti-
A differenza della prima fase di internet, la cui struttura comunicativa alterava minimamente la stessa linearità della comunicazione mediatica, la natura metamorfica del web 2.0 moltiplica le possibilità di condividere informazioni tra gli utenti e rende i testi perpetua mobilia, suscettibili, quindi, ad essere costantemente modificati. La partecipazione in tempo reale degli utenti sui contenuti e la nascita di comunità virtuali, che spesso si armonizzano con comunità fisiche, generano nuovi modelli di relazione, scambio e socialità. Il web 2.0 connette persone capaci e desiderose di interagire tra di loro che, mediante il feedback, trasmettono in rete il loro “mondo empirico” (Eco, 1979). In termini di partecipazione, il web 2.0 risulta essere un sistema complesso, allo stesso tempo pubblico e privato, costituito da un numero infinito di pagine che offrono contenuti, servizi, strumenti e software di ogni genere. Pubblico perché la rete è potenzialmente aperta a qualunque utente; privato perché permette lo sviluppo di attività commerciali e di un vasto mercato, assicurando, al contempo, la gratuità di gran parte dei contenuti, di servizi e software open source (Aberrich i Roig, 2008).
Il Social Web La natura sociale del web 2.0 ha reso internet una piazza pubblica, dove tutti gli utenti desiderosi di consolidare la propria identità possono accendere dibattiti su qualsiasi argomento con chiunque, a qualsiasi ora e da qualunque luogo. Il web 2.0 ha trasformato internet nell’epigono del villaggio globale (nel senso di “opinione pubbli-
L’enorme impatto del web 2.0 sulle nostre vite e le numerose controversie che suscita derivano dalla sua intrinseca socialità anche se, a rigor di termini, l’impatto sociale della rete è un argomento di dibattito che non
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ca”, come afferma Mcluhan), che offre la possibilità di mettersi in contatto con persone provenienti da ogni parte del mondo e di intavolare una conversazione con una immediatezza simile a quella di una comunicazione faccia a faccia ma con la stessa intimità della comunicazione epistolare. L’unione della comunicazione personale e condivisa colloca l’utente in una sorta di “non-luogo” (Augé, 1992) equidistante tra l’intimità e l’estimità2 e lo posiziona nell’“intelligenza collettiva” (Lévy, 1995) senza pregiudicare la sua identità individuale. Le comunità virtuali presenti su internet sono associazioni di “computer savvy people” (Baym, 2000:203), che promuovono il dibattito tra individui uniti da stessi valori e interessi per condividere sentimenti, pensieri, idee ed esperienze (Prati, 2007:35). Il filo rosso che unisce le comunità virtuali è la rapidità e la natura delle relazioni tra i vari utenti, in virtù del loro background comune. Ciò nonostante, a differenza delle “comunità immaginate” di Benedict Anderson, che descrivono il ruolo della stampa all’interno del nazionalismo (Anderson, 1983) o dei “mondi immaginati” di Arjun Appadurai, che definiscono i mondi costruiti dalle “immaginazioni storicamente localizzate di persone e gruppi diffusi nel pianeta” (Appadurai, 1997:33), il substrato delle comunità virtuali su internet non è meramente concettuale ma, anche, fisico.
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do de “opinión pública” que Mcluhan le otorga al concepto), que permite conectar con personas provenientes de cualquier lugar del Mundo y hablar con ellas con una inmediatez semejante a la de la comunicación cara a cara, pero con una intimidad propia de la comunicación epistolar. La mezcla de comunicación personal y compartida sitúa al usuario en una especie de “nolugar” (Augé, 1992) equidistante entre la intimidad y la extimidad2 y lo integra en la “inteligencia colectiva” (Lévy, 1995) sin perjuicio de su identidad individual. Las comunidades virtuales de Internet son asociaciones de “computer savvy people” (Baym, 2000:203), que promueven el debate entre individuos acomunados por los mismos valores y por los mismos intereses para compartir sentimientos, pensamientos, ideas o experiencias (Prati, 2007:35). La característica común a las diferentes comunidades virtuales es la celeridad y la naturalidad de los contactos entre usuarios, en virtud del background común a todos ellos. Pero a diferencia de las “comunidades imaginadas” por Benedict Anderson para describir el papel de la prensa en el nacionalismo (Anderson, 1983), o de los “mundos imaginados” por Arjun Appadurai para definir los mundos construidos por “las imaginaciones históricamente localizadas de personas y de grupos repartidos por el planeta” (Appadurai, 1997:33), el sustrato de las comunidades virtuales de Internet no es meramente conceptual, sino también físico. La enorme incidencia de web 2.0 en nuestras vidas y las numerosas controversias que suscita derivan de su intrínseca sociabilidad aunque, en rigor, el impacto social de la Red es un argumento de debate que no
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ha surgido en este contexto. Bien al contrario, el paso de lo virtual a lo real está atenuando y modificando la polémica sobre los efectos del alejamiento de lo social inducidos por las nuevas tecnologías. De la misma manera que la hipótesis de la “audiencia activa” acabó desplazando hacia los efectos limitados, en la década de los ochenta, la creencia en los powerfull media del período anterior (Wolf, 1992), el “pánico moral” (el temor a la alienación del individuo) por culpa de la Red) está cediendo paso a una visión mucho más ponderada. Se subraya el paso de una realidad que absorbe, atrae y, eventualmente, aísla al sujeto, a una experiencia cognoscitiva que si se realiza adecuadamente estimula la reflexión, el diálogo y, sobre todo, el intercambio. Como veremos sucesivamente, las primeras aplicaciones de lo que se ha dado en llamar web 3.0 o web semántica revalidan el carácter inteligente de los nuevos desarrollos de Internet basados en la sinergia, como la inserción de marcadores para simplificar y acelerar las diferentes operaciones realizadas en la Red. En el dossier del diario británico The Guardian, dedicado a la web 2.0 en novembre de 2006, la reflexión introductiva de John Lanchester sobre MySpace subraya la soledad del hombre delante del ordenador. El periodista elogia los aspectos colaborativos de la Red, pero considera que por más sólidas y profundas que puedan llegar a ser las conexiones entre usuarios, el hombre conectado a Internet es un cuerpo situado delante de la pantalla, que aliena sus capacidades sensoriales para simplificar sus relaciones y buscar en el espacio virtual aquello de lo que carece su propio entorno:
si è presentato in questo contesto. Al contrario, il passaggio dal mondo virtuale a quello reale sta attenuando e modificando la polemica intorno all’impatto negativo indotto dalle nuove tecnologie sulla vita sociale. Così come l’ipotesi dell’“audience attiva” che negli anni Ottanta spostò il dibattito sui powerful media del periodo anteriore verso gli effetti limitati (Wolf, 1992), il “panico morale” (il timore dell’alienazione dell’individuo sollevato dalla rete) sta dando spazio ad una visione molto più ponderata. Si sottolinea il passaggio da una realtà che assorbe, attrae e che potrebbe isolare il soggetto ad una esperienza conoscitiva che, se si realizza nel modo corretto, stimola la riflessione, il dialogo e, soprattutto, lo scambio. Come si vedrà in seguito, le prime applicazioni di ciò che si è poi denominato web 3.0 o web semantico rappresentano un’ulteriore conferma della natura intelligente degli ultimi progressi di internet basati sulla sinergia, come l’inserimento di semplici strumenti che accelerano le differenti operazioni sulla rete. Sul dossier di novembre del 2006 del quotidiano britannico The Guardian, interamente dedicato al web 2.0, la riflessione introduttiva di John Lanchester su MySpace mette in risalto la solitudine dell’umanità di fronte allo schermo del computer. Il giornalista esalta gli aspetti collaborativi della rete ma considera che, per quanto le relazioni tra gli utenti possano essere solide e profonde, l’essere umano connesso ad internet è comunque un corpo davanti ad uno schermo, che aliena le sue capacità sensoriali per semplificare i suoi rapporti e cercare nello spazio virtuale ciò che gli manca nell’ambiente circostante:
Tuttavia, a differenza di altri mezzi di comunicazione, che isolano il lettore o lo spettatore e ne assorbono l’attenzione in cambio dell’apprendimento, il contatto tra utenti attraverso le interminabili risorse del web 2.0 (in particolar modo tramite le reti sociali) espande il potenziale di socialità connaturale all’essere umano, mediante il dialogo e la collocazione dell’individuo all’interno di comunità virtuali in rete. L’Era dell’accesso, come Rifkin denomina la commercializzazione (commodification) e la mediazione della vita individuale 24 ore al giorno, per effetto della trasformazione istantanea di ogni desiderio in un determinato servizio (Rifkin, 2001), non è semplicemente una era dell’isolamento. I nuovi mezzi promuovono forme di socialità più produttive, che permettono una fusione tra produttori e prodotti. Con il passaggio dall’analogico al digitale, l’era dei Mass Media ha ceduto il passo ai Custom Media, che selezionano i propri utenti in base alle loro caratteristiche e ai loro interessi, favorendo una maggiore personalizzazione grazie alle interconnessioni possibili con i nuovi supporti tecnologici. Si potrebbe dire, dunque, che il web 2.0 “umanizza” il software e collettivizza il sapere, incrementando in modo esponenziale il traffico e la complessità delle risorse in rete, grazie ad un contino aumento dei contenuti e alla diversi-
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Sin embargo, a diferencia de otros soportes de la comunicación, que aíslan al lector o espectador y fagocitan su atención a cambio de la asimilación, el contacto entre usuarios a través de los innumerables recursos de la web 2.0 (particularmente de las redes sociales) expande el potencial de sociabilidad connatural al ser humano, mediante el diálogo y la integración del individuo en las comunidades virtuales de la Red. L’Era dell’Accesso, como denomina Rifkin a la comercialización (commodification) y a la mediación de la vida individual 24 horas al día, por efecto de la conversión instantánea de cada deseo en un servicio (Rifkin, 2001), no es simplemente una era de aislamiento. Los nuevos medios promueven formas de sociabilidad más productivas, que permiten la fusión de los productores con los productos. Con el paso de los medios analógicos a los digitales, la era de los Mass Media cede su sitio a los Custom Media, que seleccionan a los usuarios en virtud de sus características e intereses, incrementando la personalización gracias a la interconexión de los nuevos soportes tecnológicos. En cierto modo se puede decir que la web 2.0 “humaniza” el software y colectiviza el saber, aumentando de manera exponencial el tráfico y la complejidad de los recursos de la Red por el continuo crecimiento de los contenidos y la diferenciación
El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano
Fai sedere una persona davanti allo schermo di un computer e ti renderai conto che è completamente sola. Osserva poi cosa accadrà. Si avvicinerà ad altre persone, ma solo in parte; avrà “amici”, che non sono realmente tali ed una vivace vita online, che non ha nulla a che vedere con la vita sociale; si sentirà più connessa, ma rimarrà comunque sola. Tutti coloro che si trovano dietro lo schermo di un computer sono soli. 3
Charo Lacalle
Sit someone at a computer screen and let it sink in that they are fully, definitively alone; then watch what happens. They will reach out for other people; but only part of the way. They will have “friends”, which are not the same thing as friends, and a lively online life, which is not the same thing as a social life; they will feel more connected, but they will be just as alone. Everybody sitting at a computer screen is alone.3
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de los usuarios. A fin de obviar los problemas derivados de la expansión de Internet y encontrar una aplicación adecuada a las nuevas posibilidades ofrecidas por la tecnología, han surgido portales temáticos y directorios que poco a poco han ido evolucionando y fidelizando a sus usuarios a través de las redes sociales. Las comunidades y las posibilidades de interacción entre las personas que se conectan se potencian cada vez más, porque que constituyen el verdadero valor añadido de la Red. En su forma actual, Internet supera el concepto tradicional de multimedialidad y de red, mediante la constante reelaboración de los contenidos de la Web por parte de los usuarios. En vez de imaginar un progresivo aislamiento de los seres humanos, originado por el paso de la sociabilidad tradicional a la sociabilidad on line, quizás sea más razonable pensar en un futuro en el que el tiempo dedicado a la navegación se inserte entre las actividades sociales y encuentre un cierto equilibrio, más allá de las dudas de Rifkin sobre la mengua del espacio personal, razonables, pero formuladas en los albores de la web 2.0. Las nuevas comunidades on line poseen una elevadísima capacidad de integración, tanto a nivel individual como colectivo. A nivel individual porque el anonimato potencia la espontaneidad y la tolerancia entre los usuarios. A titulo colectivo porque, a diferencia de cualquier otro tipo de comunidad, las nuevas comunidades de Internet se construyen, se mezclan, se dividen o se disuelven sin otras repercusiones a largo plazo que la necesaria readaptación a los cambios provocados en la estructura de la Red por el entramado económico generado a su alrededor.
ficazione degli utenti. Per ovviare ai problemi che derivano dall’espansione di internet e trovare una applicazione adeguata alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia, sono nati portali tematici e direzioni che hanno fatto trasformare gradualmente gli utenti abituali i quali, a loro volta, hanno acquisito più fiducia, grazie anche all’introduzione delle reti sociali. Le comunità e le possibilità di interazione tra gli internauti si potenziano sempre di più, in quanto costituiscono un vero valore aggiunto della rete. Attualmente, internet supera il concetto tradizionale di multimedialità e di rete, attraverso una costante rielaborazione dei contenuti sul web da parte degli utenti. Invece di immaginare un progressivo isolamento degli esseri umani, che trova la sua origine nel passaggio dalla società tradizione alla socialità online, si potrebbe pensare ad un futuro nel quale il tempo dedicato alla navigazione trovi uno spazio autonomo ed equilibrato tra le attività sociali, al di là dei dubbi esposti da Rifkin riguardo la riduzione dello spazio personale che, anche se ragionevoli, sono stati avanzati agli albori del web 2.0. Le nuove comunità online possiedono un’elevatissima capacità di integrazione, a livello individuale e collettivo. Nel primo caso perché l’anonimato potenzia la spontaneità e la tolleranza tra gli utenti; nel secondo caso perché, a differenza di qualunque altra tipologia, le nuove comunità su internet si costruiscono, si mescolano, si dividono e svaniscono senza alcuna ripercussione a lungo termine che non sia dovuta ad un riadattamento ai cambiamenti della struttura della rete, spesso dovuti a fattori economici che la riguardano.
La Web semántica Los escépticos replican que el término web 2.0 carece de sentido propio, en cuanto que depende exclusivamente de lo que quienes lo definen deciden qué es lo que debe significar para poder convencer a los inversores
Il web semantico I più scettici non credono nell’uso del termine web 2.0, in quanto il significato di questa espressione viene spesso alterata ed utilizzata per persuadere investitori e mezzi invece di sviluppare tecnologie esistenti. Perciò,
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Le enormi potenzialità di internet, la maggior parte delle quali non sono state ancora esplorate, insieme alla costante crescita di interesse da parte delle nuove generazioni, che si allontanano progressivamente dai mezzi tradizionali, stanno cambiando la nostra percezione del mondo. Gli utenti più giovani (nativi digitali) rappresentano un fattore cruciale per l’accelerazione di questo fenomeno. Vivere internet ed esplorare le sue potenzialità è il primo passo per comprendere la sua struttura e il suo particolare movimento. Per poter ridefinire il proprio Io in rete, partecipare ad attività proposte dalle comunità o contribuire allo sviluppo di idee e progetti, bisogna comprendere a fondo i nuovi modelli di comunicazione. Il web è una piattaforma che permette agli utenti di muoversi e di compiere azioni, senza essere dipendenti dai contenuti. Si tratta, dunque, di uno spazio aperto dove tutti coloro che lo costituiscono si trovano sullo stesso livello. In conclusione, il web 2.0 è una realtà così dinamica che si ridefinisce e non finisce di sorprenderci, oltre a costituire un sistema comunicativo innovatore e la via d’accesso privilegiata al futuro del settore dei prodotti multimediali. Tuttavia la sua ricchezza deriva principalmente dalla sua estrema complessità, che ci pone dinanzi a nuovi interrogativi principalmente di carattere sociale.
Charo Lacalle
Las enormes posibilidades de desarrollo de Internet, en su mayor parte aún sin explorar, y el constante crecimiento del interés experimentado por las nuevas generaciones, que se alejan progresivamente de los medios tradicionales, están cambiando nuestra percepción del mundo. Los usuarios más jóvenes (nativos digitales) impulsan una ulterior aceleración de este fenómeno. Vivir la Web y explorar sus potencialidades es el primer paso para comprender su estructura y su particular movimiento. Para poder redefinir al propio Yo en la Red, participar en las actividades de las comunidades o contribuir al desarrollo de ideas y proyectos, hay que entender los nuevos modelos de comunicación. La Web es una plataforma que permite moverse y realizar acciones, en vez de depender de los contenidos. Un espacio abierto donde todos aquellos que lo integran se sitúan en el mismo plano. En definitiva, la web 2.0 es una realidad tan dinámica que se redefine y nos sorprende constantemente, además de constituir un sistema comunicativo innovador y la vía de acceso preferente al futuro del sector de los productos multimedia. Pero su riqueza deriva en buena parte de su extremada complejidad, que nos plantea nuevos interrogantes derivados precisamente de su carácter social.
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y los medios, en vez de desarrollar las tecnologías existentes. En consecuencia, el término web 3.0 aparece por primera vez a comienzos de 2006 en un artículo Jeffrey Zeldman, un crítico de la web 2.0 y sus tecnologías asociadas (como por ejemplo AJAX4). En la 15th International World Wide Web Conference, celebrada en Edimburgo en mayo de ese mismo año, el ideador de la Web, Tim Berners-Lee, relacionaba el término web 3.0 con el concepto de “web semántica”, que sintetiza el verdadero valor añadido de la evolución de la web 2.0 mediante la organización y la gestión de cantidades ingentes de datos: People keep asking what Web 3.0 is. I think maybe when you’ve got an overlay of Scalable Vector Graphics – everything rippling and folding and looking misty – on Web 2.0 and access to a semantic Web integrated across a huge space of data, you’ll have access to an unbelievable data resource.5
agli inizi del 2006 appare per la prima volta il termine web 3.0 in un articolo di Jeffrey Zeldman, critico della web 2.0 e delle tecnologie ad essa associate (come per esempio AJAX4). Nella quindicesima edizione dell’International World Wide Web Conference, celebrata ad Edimburgo nel mese di maggio dello stesso anno, Tim BernersLee creò la relazione tra il termine web 3.0 e il concetto di “web semantico”, che sintetizza il vero valore aggiunto dell’evoluzione del web 2.0 mediante l’organizzazione e la gestione di ingenti quantità di dati: È in continua crescita il numero di persone che vogliono sapere cosa sia il web 3.0. Personalmente credo che nel momento in cui si sarà ottenuta una sovrapposizione della Grafica Vettoriale Scalabile – oggi tutto appare poco nitido, con pieghe ed increspature – nel web 2.0, e l’accesso ad un web semantico integrato attraverso un grosso quantitativo di dati, si potrà ottenere l’accesso ad un’incredibile risorsa di dati. 5
En el Technet Summit de noviembre de 2006, Jerry Yang, fundador y presidente di Yahoo!, asimilaba la web 3.0 con una simplificación de los recursos de la Red inversamente proporcional a su creciente complejidad6, mientras que otro participante del mismo evento, Reed Hastings, fundador y presidente de Netflix, resumía las diferentes fases de la Web en términos de incremento de su capacidad:
Durante il Technet Summit, organizzato nel mese di novembre del 2006, Jerry Yang, fondatore e presidente di Yahoo!, associava il web 3.0 ad una semplificazione delle risorse della rete inversamente proporzionale alla sua crescente complessità6, mentre altri partecipanti allo stesso evento, come Reed Hastings, fondatore e presidente di Netflix, riassumeva le diverse fasi del web, facendo riferimento all’aumento della sua capacità:
Let’s go back to Web 1, 2, 3. I think it’s pretty straightforward. You have dial-up and 50k average bandwidth at homes, that set of things […] Web 2 was there is some interaction, Ajax and these other things on one megabit, and when we get to average home bandwidth of 10
Ritorniamo al web 1, 2, 3. A me sembra abbastanza semplice. In casa abbiamo connessioni dial-up ed una larghezza di banda media di 50k […] Il web 2 con qualche interazione, Ajax e simili con un megabit e quando avremo nelle nostre case una larghezza di banda media di
Il termine web 3.0 ha acquisito fama gradualmente fino a generare dibattiti sociali a partire dalla fine del 2006 e, a distanza di quasi quattro anni, si continua a discutere sia sul suo significato che sulla sua definizione, anche se la maggior parte degli esperti tende a basare il web 3.0 sull’interpretazione del linguaggio naturale e sulla semantica. Tuttavia, suddetto temine è stato anche utilizzato per descrivere il percorso evolutivo di internet che sfocia nell’Intelligenza Artificiale, capace di interagire con il web in un modo “quasi” umano. Per esempio, Google cominciò a lavorare nel 2009 su uno strumento in grado di applicare il data mining alla gestione delle risorse umane del suo organico, con l’obiettivo di prevedere quali lavoratori avessero una predisposizione più alta ad abbandonare l’azienda8. Analogamente, la possibilità di archiviare e di studiare le informazioni relative all’interesse espresso durante la navigazione grazie a software avanzati, o anche la possibilità di trasferire sensazioni, necessità, gusti e comportamenti in ambito medico, permettono alle macchine di poter assistere e, al contempo, aiutare, persone con problemi di salute tali da non permettere l’autosufficienza9. Attualmente è in piedi anche un altro dibattito nel quale ci si interroga se i sistemi intelligenti costituiscano il vero punto di forza del web 3.0 o se, invece, si costruirà in modo più organico, attraverso sistemi di persone intelligenti. Un esempio è costituito da alcuni servizi di filtro collaborativo come quelli utilizzati da Flickr, del. icio.us e Digg (dove gli utenti segnalano siti preferiti, foto o notizie), che
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El término web 3.0 ha ido ganando protagonismo y generando debates sociales a partir de finales de 2006 y, casi cuatro años después, aún se continua discutiendo tanto relación a su significado como a su definición más adecuada, a pesar de que la mayor parte de los expertos tienden a basar la web 3.0 en la interpretación del lenguaje natural y en la semántica. Pero el término web 3.0 también ha sido utilizado para describir un recorrido evolutivo de Internet que desemboca en la Inteligencia Artificial, capaz de interactuar con la Web de manera “casi” humana. Por ejemplo, Google comenzó a trabajar en 2009 en un herramienta para poder aplicar el data mining a la gestión de los recursos humanos de su plantilla, con el objetivo de prever qué trabajadores eran susceptibles de abandonar la empresa8. Asimismo, el archivo y el estudio de aquellas informaciones relativas al interés expresado durante la navegación por parte de un software evolucionado, o bien la posibilidad de transferir sensaciones, exigencias, gustos y comportamientos en el ambiente médico, sitúan las máquinas en condición de poder asistir, y a la vez de ayudar, a las personas cuyos problemas de salud merman su autosuficiencia.9 También hay otro debate en curso acerca de si los sistemas inteligentes constituyen la fuerza de arrastre de la web 3.0, o bien si la inteligencia se irá construyendo de manera más orgánica, a través de sistemas de personas inteligentes. Por ejemplo, mediante algunos servicios de filtro colaborativo como los utilizados en Flickr, del.icio.us y Digg (donde los usuarios etiquetan sus páginas favoritas, fotos o noticias), que ex-
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10 megabit, sarà possibile parlare di full video web e nuovi contenuti che ci porteranno al web 3.07
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megabits, we’ll have the full video web, all these different streams of content, and that will feel like Web 3.0. 7
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traen el significado y el orden de la Red existente y de las interacciones de los usuarios. Un ulterior posible recorrido de la web 3.0 apunta hacia la visión tridimensional, lo que implicaría transformar la web 3.0 en una serie de espacios 3D, en sintonía con lo que ya se ha hecho en Second Life o en Habbo10. Esta última eventualidad podría inaugurar nuevas maneras de conexión y de colaboración mediante espacios 3D compartidos. El término “web semantica”, acuñado por Berners-Lee (Berners-Lee, Hendler y Lassila, 2001) define de manera más específica la transformación de la World Wide Web en un ambiente donde los documentos publicados se asocian con informaciones y datos para llegar a especificar el contexto semántico en un formato adecuado a la interrogación, a la interpretación y, en general, a la elaboración automática. Esto haría posible que las búsquedas fueran mucho más precisas, al basarlas en la presencia en el documento de palabras clave y marcadores (snippets) o de otras operaciones especializadas, como por ejemplo la construcción de redes de relaciones y conexiones entre documentos a partir de procedimientos más elaborados que el simple link intertextual. Actualmente, la web semántica se propone dar un sentido a las páginas y los enlaces intertextuales, simplificando los procesos de exploración y haciendo posible la búsqueda precisa tan sólo de lo que se pide. Se suele afirmar que la web semántica podría añadir un sentido a nuestras páginas; un significado que ayudaría a cada motor a identificar lo que se desea buscar, descartando todo aquello que no satisficiera la petición del usuario. Pero los avances realizados hasta el momento demuestran que esta nueva modalidad de gestión del saber y de las
estrapolano il significato e l’ordine della rete esistente insieme alle interazioni degli utenti. Un ulteriore possibile percorso del web 3.0 è costituito dalla tridimensionalità, in sintonia con le scelte di Second Life o Habbo10. In questo caso, si potrebbero creare nuove modalità di connessione e di collaborazione attraverso spazi 3D condivisibili. Il termine “web semantico”, ideato da Berners-Lee (Berners-Lee, Hendler y Lassila, 2001) definisce in modo più specifico la trasformazione del World Wide Web in un ambiente in cui i documenti pubblicati si associano ad informazioni e dati per riuscire a specificare il contesto semantico in un formato adeguato all’interrogazione, all’interpretazione e, in termini più generali, all’elaborazione automatica. Ciò significherebbe poter effettuare delle ricerche più dettagliate, basate sulla presenza di parole chiave e snippet (letteralmente “ritagli”) insieme ad altre operazioni specifiche, come per esempio la creazione di reti di relazioni e connessioni tra documenti a partire da procedimenti più elaborati del semplice link intertestuale. Al momento, il web semantico cerca di dare un senso alle pagine e ai link intertestuali, per semplificare i processi di esplorazione e, quindi, rendere la ricerca il più precisa possibile. Il web semantico, dunque, potrebbe dare un nuovo senso alle nostre pagine, aiutando ogni motore di ricerca ad identificare esattamente ciò che si cerca e scartando tutto ciò che non corrisponda alla richiesta dell’utente. Nonostante ciò, i progressi realizzati finora dimostrano che questa nuova modalità di gestione del sapere e delle relazioni
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non costituisce assolutamente un sistema rivoluzionario basato sull’intelligenza artificiale, in quanto i documenti si codificano semplicemente mediante un linguaggio in grado di gestire le varie applicazioni e di introdurre vocaboli specifici. Il gruppo O’Reilly, una delle aziende più all’avanguardia sui progressi della rete, commentava nel mese di marzo del 2009 il cambio di rotta di Google da una iniziale scommessa sulle macchine intelligenti (machine learning) al sistema di annotazione semantica (semantic markup)11. Il processo di codificazione introdotto da Google permette ai webmaster di segnalare sulle proprie pagine contenuti strutturati con frammenti di dati determinati per aumentare la visibilità di prodotti o servizi che si ritengono più importanti rispetto ad altri. Con la finalità di espandere questo sistema attraverso l’uso dei cosiddetti rich snippets, Google ha addirittura fornito ai webmaster istruzioni dettagliate su come svolgere queste operazioni sui propri siti12. A differenza di qualsiasi altra applicazione, i rich snippets potrebbero dare un impulso decisivo al web semantico in quanto, come afferma Tim O’Reilly nel sopracitato articolo, per la prima volta è possibile contare su un considerevole investimento economico. Queste innovazioni tecnologiche proprie del web semantico che rendono più facile l’associazione dell’utente con “pagine, date, aziende, altri utenti, documenti, foto e video” per poi estrarre automaticamente dei dati13, non interessa unicamente motori di ricerca o aziende ma in particolar modo le reti sociali, il cui protagonismo in internet ha la meglio su qualsiasi altro portale.
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relaciones no es en absoluto un sistema revolucionario de inteligencia artificial, sino que simplemente se realiza codificando los documentos mediante un lenguaje capaz de gestionar todas las aplicaciones e introduciendo vocablos específicos. El observatorio O’Reilly, una de las ventanas con mejores vistas sobre los avances de la Red, comentaba en marzo de 2009 el viraje de Google desde la apuesta previa por las máquinas inteligentes (machine learning) al etiquetado semántico (semantic markup)11. El procedimiento de codificación introducido por Google consiste en permitir que los webmasters marquen sus páginas de contenidos estructurados por fragmentos de datos determinados, con el objetivo de incrementar la visibilidad de los productos o servicios que se desee destacar respecto del resto de los contenidos. A fin de expandir el sistema de etiquetado mediante los marcadores enriquecidos (rich snippets), Google incluso facilita a los websmasters las instrucciones necesarias para marcar sus propias páginas.12 A diferencia de cualquier otra aplicación, los marcadores enriquecidos podrían dar un impulso decisivo a la web semántica porque, como señala Tim O’Reilly en el artículo citado, por primera vez hay de por medio una potente motivación económica. Pero la facilidad con la que los nuevos instrumentos de marcación de la web semántica pueden asociar a los usuarios “con direcciones, con fechas, con empresas, con otros usuarios, con documentos, con fotos y con vídeos” y extraer los datos automáticamente13, no sólo interesa a los motores de búsqueda o a las empresas, sino sobre todo a las redes sociales, cuyo protagonismo en Internet está desbancando al de cualquier otro portal.
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En abril de 2010, Facebook anunciaba el lanzamiento de su nueva plataforma a gran escala Open Graph, cuyo protocolo permite a los editores integrar sus páginas en el social graph, el término acuñado por Mark Zuckerberg (el creador de Facebook) para definir las interacciones de los usuarios on line, mediante la utilización de un RDFa abreviado14. Con aproximadamente 500 millones de usuarios (tan sólo el 28% de los cuales tienen más de 34 años), las reacciones contra los posibles riesgos derivados de la publicación de los datos de Open Graph en la mayor comunidad virtual del mundo no se hicieron esperar. La inclusión de marcadores en las redes sociales ha reavivado una polémica latente sobre el derecho a la privacidad y el abuso de los instrumentos de control, que desplaza definitivamente los recelos sobre la desconexión del usuario de su entorno inmediato al temor al Gran Hermano. Facebook daba marcha atrás en su planteamiento inicial tan sólo un mes después del lanzamiento de la plataforma, deseosa de acallar las críticas cuanto antes, y restringía algunas informaciones de la social graph publicadas previamente, como por ejemplo las redes de contactos de los usuarios. La compañía de Zuckerberg anunciaba asimismo que en breve plazo los usuarios podrían elegir a quién mostrar sus informaciones (a sus amigos, a sus amigos y a los amigos de sus amigos o a todos los usuarios). Por el momento, estas iniciativas han sido bien recibidas por algunos de los sectores más críticos y las aguas han vuelto momentáneamente a su cauce. Pero los reguladores son conscientes de que únicamente han ganado una primera batalla de una guerra por la gestión de los datos que acaba de comenzar.
Ad aprile del 2010, Facebook ha annunciato l’introduzione della sua nuova piattaforma a grande scala Open Graph, che permette ai web master di integrare le proprie pagine al social graph, termine ideato da Mark Zuckerberg (il padre di Facebook) per definire le interazioni degli utenti online, mediante l’uso di un RDFa abbreviato14. Considerando che Facebook può contare su circa cinquecento milioni di utenti (e solo il 28% ha un età superiore ai 34 anni), le reazioni contrarie ai possibili rischi che derivano dalla pubblicazione dei dati di Open Graph sulla più grande comunità virtuale del mondo non sono mancate. Tutto ciò è servito a ravvivare una polemica latente sul diritto alla privacy e sull’abuso degli strumenti di controllo, che sposta immediatamente l’attenzione sulla paura del Grande Fratello. Facebook decise di fare marcia indietro rispetto al suo progetto iniziale il mese successivo all’introduzione della piattaforma, per cercare di mettere a tacere le polemiche il prima possibile. Per queste ragioni, furono ristrette alcune informazioni del social graph pubblicate in precedenza, come per esempio la rete di contatti degli utenti. L’azienda di Zuckerberg annunciava anche che a breve termine gli utenti avrebbero potuto scegliere chi poteva aver accesso alle informazioni personali (amici, amici ed amici di amici o tutti gli utenti). Al momento, queste iniziative sono state accolte positivamente anche dai settori più critici e, finalmente, le acque si sono calmate. Tuttavia, i responsabili sono coscienti di aver solo vinto la prima battaglia di una guerra per la gestione dei dati che è appena cominciata. (traduzione di Angelo Nestore)
Bibliografia Alberich, J., Roig, A. “Creación y producción audiovisual colaborativa. Implicaciones sociales y culturales del uso de software libre y recursos audiovisuales de código abierto”, UOC Papers.
77 El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano
1 Este artículo ha sido escrito en el marco del proyecto de investigación La representación de los jóvenes en la ficción catalana y española: construcción de identidades, atribución de roles sociales y correspondencia con la realidad. En dicha investigación, dirigida por la profesora Charo Lacalle y financiado por la Agencia Catalana de la Juventud de Catalunya, han participado las investigadoras Beatriz Gómez, Manuela Russo, Mariluz Sánchez, Lucía Trabajo y Berta Trullàs. 2 El término extimité, acuñado por Lacan para expresar el conflicto entre el interior y el exterior del Sujeto, es utilizado en este lugar en la acepción del psicoanalista Serge Tisseron, para designar la exterioridad de la intimidad (Tisseron, 2003). 3 J. Lanchester, “A bigger band”, 4 de novembre 2006, <http://www.guardian.co.uk/technology/2006/nov/04/news.weekendmagazine1> [Consulta junio 2009]. 4 AJAX, acrónimo de Asynchronous JavaScript and XML, es la combinación de varios lenguajes de programación y técnicas HTML, XML, Javascript, XMLHttpRequest. 5 V. A. Shannon, “A more revolutionary Web”, 23 maggio 2006, <http://www.nytimes. com/2006/05/23/technology/23iht-web.html?_r=1> [Consulta junio de 2010]. 6 Intervención de Jerry Yang en la mesa redonda “What’s the next: The New Innovation Era” al Technet Techenet Summit, Stanford University 15 novembre 2006 <http://www.technet.org/2006Video1/ > [Consulta junio 2010]. 7 Intervención de Reed Hastings en la mesa redonda “What’s the next: The New Innovation Era” al Technet Techenet Summit, Stanford University 15 novembre 2006 <http://www.technet.org/2006Video1/ > [Consulta junio 2010]. Neflix es una compañía californiana, creada en 1997, que ofrece via Internet DVD, Blu-ray y vídeo streaming <http://www.netflix.com/> . 8 S. Morrison, “Google Searches for Staffing Answers” <http://online.wsj.com/article/ SB124269038041932531.html> [Consulta junio de 2010]. El data mining (explotación o minería de datos) representa una de les actividades cruciales para la comprensión, la navegación y el aprovechamiento de datos de la nueva era digital. Se trata de un proceso automático de descubrimiento e identificación de estructuras en el interior de los datos, que permite extraer conocimiento, en términos de informaciones significativas e inmediatamente utilizables, de grandes cantidades de datos. La aplicación de Google podría tener implicaciones importantes en relación al constante tránsito de talentos de un país a otro. 9 La sociedad de investigación de mercado, Datamonitor, señala que el negocio de la telemedicina interactiva está creciendo en Estados Unidos del orden del 10% anual <http://www.nytimes.com/2010/05/30/business/30telemed.html?ref=technology> [Consulta junio de 2010] 10 Second Life es un metaverso (entorno virtual en 3D), donde cada usuario construye un avatar (personaje virtual en 3D) que lo representa y le permite interactuar. Creado en 2003, el gran despegue de Second Life se produce en 2006. Habbo es el mayor mundo virtual para adolescentes a nivel mundial, con más de 158 millones de usuarios registrados y más de 16 millones de usuarios únicos por mes, está presente en 31 países y pertenece a la compañía finlandesa Sulake. 11 T. O’Reilly, “Google’s Rich Snippets and the Semantic Web”, <http://radar.oreilly. com/2009/05/google-rich-snippets-semantic-web.html> [Consulta junio de 2010]. 12 Véase “Google Rich Snippets Tips and Tricks” <http://knol.google.com/k/google-richsnippets-tips-and-tricks#> [Consulta julio de 2010]. 13 Ibídem nota 11. 14 Se donomina RDF (Resource Description Framework) el lenguaje primario de la web semántica. El RDFa es una especie de versión abreviada, que añade metadatos a las páginas HTML.
Charo Lacalle
Note
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Revista sobre la sociedad del conocimiento, n. 7, 2008 <http://www.uoc.edu/uocpapers/8/ esp/index.html> [Consulta junio 2009]. Anderson, B., 1983, Imagined communities : reflections on the origin and spread of nationalism, Londres, Verso. Appadurai, A., 1996, Modernity at large: cultural dimensions of globalization, Minneapolis-Londres, University of Minessota Press. Augé, M., 1992, Non-lieux : introduction à une anthropologie de la surmodernité, París, Seuil. Baym, N., 2000, Tune in, log on. Soaps, fandom, and online community, London, Sage Publications. Berners, L., Hendler, J., Lassila, O., «The Semantic Web», Scientific American Magazine, 17 mayo de 2001. Eco, U., 1979, Lector in fabula, Milano, Bompiani. Lévy, P., 1995, L’Intelligence collective: pour une anthropologie du cyberspace. Paris, La Découverte. Rifkin, J., 2000, The Age of Access. New York, Penguin Putman Inc. Tisseron, S., 2003, Hitchcock m’a guéri, Paris, Albin Michel. Wolf, M., 1992, Gli effetti sociali dei media, Milano, Bompiani Strumenti.
Magritte, Gli amanti
Alessio Rotisciani Quanti amici hai? Caratteristiche e limiti delle connessioni sociali su Facebook
Sempre più vicini: dai media elettronici al web 2.0 Nel corso del Novecento i mezzi di comunicazione elettronici, parallelamente allo sviluppo dei trasporti, favoriscono una crescente compressione delle distanze spaziotemporali (Meyrowitz 1985; Giddens 1991; Thompson 1995; Tomlinson 1999). La radio e la televisione portano all’interno dei contesti di vita quotidiana immagini e suoni provenienti da altre realtà, ampliando la possibilità di conoscere eventi che si verificano in ogni parte del mondo. Il telefono rende più semplice tenersi in contatto con persone lontane. Grazie a queste caratteristiche, i media elettronici forniscono all’uomo contemporaneo una grande quantità di nuovi materiali simbolici per il processo di costruzione dell’identità e modificano le scale di priorità secondo cui è organizzata la sua vita. I media elettronici riducono infatti la centralità del luogo fisico e delle interazioni faccia a faccia nell’esperienza del soggetto (Giddens 1991, pp. 187191; Thompson 1995, pp. 289-325; Tomlinson 1999, pp. 188-209). Internet si pone su una linea di continuità rispetto ad essi (Tomlinson 1999, pp. 176-177), ne ingloba le forme espressive e le adatta alle sue logiche (Bolter, Grusin 1999, pp. 233-244), rendendo i processi appena descritti più intensi e pervasivi. In rete aumenta esponenzialmente la quantità di materiali simbolici a disposizione del soggetto (cfr. Gruppo Ippolita 2007, p. 119-122) mentre si moltiplicano e si arricchiscono le forme di comunicazione interpersonale. Internet offre infatti numerose applicazioni che si affiancano alla lettera e al telefono, applicazioni che possono essere usate per interazioni più rapide, frequenti e funzionali. L’e-mail si rivela un valido strumento per superare le distanze che separano da amici e familiari (cfr. Castells 2001, pp. 121-122) anche se nella quotidianità degli utenti sembra avere più spazio l’instant messaging. Le nuove generazioni, in particolare, lo ritengono più divertente e immediato, quindi ideale per la comunicazione con il gruppo dei pari (Lenhart, Madden, Hitlin 2005, p. II). In entrambi i casi, e-mail e instant messaging, la comunicazione si fa più leggera e meglio adattabile ai ritmi di vita del soggetto. Scrivere una mail richiede molto meno tempo che scrivere una lettera tradizionale, è più breve e informale, raggiunge quasi istantaneamente il destinatario e si può inviare a più persone
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contemporaneamente (cfr. Carrada 2000, pp. 123-126; Metitieri 2003, p. 138). Le conversazioni via instant messaging sono meno impegnative e meno costose di una telefonata (Grinter, Palen 2002, pp. 23-25), permettono di scambiare materiali multimediali e di sentirsi costantemente in contatto con la propria cerchia di amici (Boneva et al. 2006). Nei forum e nei gruppi di discussione, invece, trova espressione la cultura cooperativa che sta alla base della rete. I partecipanti condividono conoscenze utili a risolvere problemi tecnici di ogni tipo, offrono e ricevono risorse sociali come approvazione, stima e sostegno (Paccagnella 2000, pp. 120-122). L’interazione tra gli utenti diventa ancora più importante, addirittura strategica nella fase attualmente attraversata da Internet, di solito indicata con il termine “web 2.0”. Il web 2.0, infatti, è caratterizzato da applicazioni strutturate in modo da favorire la comunicazione fra gli utenti, comunicazione da cui nascono contenuti, connessioni e classificazioni. Le stesse applicazioni aggregano di default i dati che vengono così prodotti. In questo modo possono accrescere il database, migliorare il servizio e, in definitiva, aumentare il loro valore, ma solo a patto di incentivare quotidianamente, già a partire dalla loro architettura, l’interazione sociale (O’Reilly 2005).
Supporto all’individualismo in rete o a comunità geograficamente situate? Facebook appare l’emblema del web 2.0: semplice e usabile, in grado di amalgamare felicemente le caratteristiche di blog, siti per la condivisione di foto e video, instant messaging e network professionali (Pesare 2009, pp. 46-47). Facebook è infatti un sito di social network che consente all’iscritto di creare un profilo semi-pubblico su cui inserire commenti, link, immagini e filmati; di costruire un network di contatti con cui interagire e condividere i materiali di cui sopra; di navigare attraverso questo network visualizzando profili e connessioni creati dagli altri utenti (cfr. Boyd, Ellison 2007). La lista di connessioni navigabili è composta dagli “amici” Facebook, cioè dagli iscritti che hanno accettato la richiesta di amicizia del proprietario del profilo o che gli hanno chiesto essi stessi l’amicizia, ricevendo risposta positiva. Nato nel 2004, grazie al meno che ventenne Mark Zuckerberg, Facebook si diffonde rapidamente dalle università della Ivy League1 a tutti gli Stati Uniti, da qui agli altri paesi anglosassoni, per poi approdare nel resto del mondo (cfr. AA. VV. 2008, pp. 11-14). Nel luglio 2010 conta complessivamente 488 milioni di utenti, 16 dei quali in Italia2, ed è il sito di social network più diffuso in quasi tutti i paesi di Nord America, Europa e Oceania. Riscuote grande successo anche in Sud America (solo in Brasile non è al primo posto per numero di utenti) e in molte importanti realtà di Asia e Africa3. Facebook si presenta, dunque, come un’applicazione straordinariamente popolare, in grado di garantire una comunicazione ricca e variegata tra un gran numero di persone sparse per il mondo: sembrerebbe il supporto ideale per l’individualismo in rete. Secondo Wellman (2001), che elabora il concetto di individualismo in rete, e Castells (2001, pp. 124-131), che lo applica nella sua analisi delle trasformazioni
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portate da Internet, l’uomo contemporaneo tende a costruire le sue appartenenze in base a caratteristiche acquisite nel corso della vita piuttosto che possedute dalla nascita. Egli sceglie le reti sociali in cui entrare in base ai suoi interessi, idee e valori. Si tratta di reti spesso disperse a livello geografico e sganciate dal contesto quotidiano che costituiscono la sua “comunità personalizzata”. Internet favorisce l’affermazione di questa forma di socialità. Le analisi di Wellman e Castells, però, non trovano riscontro nell’osservazione degli usi effettivi di Facebook. Facebook, infatti, è utilizzato principalmente per comunicare con persone che fanno già parte della rete sociale dell’utente: amici e conoscenti della sua vita offline (Lampe, Ellison, Steinfield 2006, 2008; Ellison, Steinfield, Lampe 2007; Boyd 2008; Joinson 2008). Questo orientamento è evidente fin dai suoi primi passi. Quando si diffonde nelle stanze di Harvard e poi in quelle degli altri college americani, Facebook funge da supporto per comunità geograficamente situate, i campus, piuttosto che per forme di aggregazione online costruite esclusivamente su affinità cercate dal singolo (Ellison, Steinfield, Lampe 2007). In base a una ricerca condotta da Lampe, Ellison e Steinfield (2006) su un campione di 1.440 matricole della Michigan State University, le ragioni più comuni per cui si usa Facebook sono: tenersi in contatto con vecchi amici o con compagni delle scuole superiori, cercare il profilo di qualcuno incontrato offline, raccogliere informazioni su persone del proprio dormitorio o del proprio corso. I risultati sono coerenti con l’audience percepita dai ragazzi per il loro profilo, tutta appartenente al gruppo dei pari: amici delle scuole superiori (93 %), compagni di corso (86 %) e persone incontrate a feste o eventi sociali (70 %). Tra i rispondenti prevale nettamente il modello d’uso che i ricercatori definiscono social searching: si ricorre a Facebook per mantenere legami preesistenti o per conoscere meglio contatti con cui si ha già una connessione offline. Anche là dove Facebook serve a superare le distanze, esso risulta sempre vincolato alla rete sociale del soggetto e ai luoghi attraverso cui si snoda la sua vita. Con ulteriori studi svolti nei due anni successivi tra i ragazzi della stessa università, Lampe, Ellison e Steinfield (2008) consolidano queste prime osservazioni. Le dinamiche di interazione e l’audience percepita per il proprio profilo su Facebook rimangono sostanzialmente invariate, nonostante le profonde trasformazioni che nel frattempo toccano il sito. Nel settembre 2006, infatti, la possibilità di accesso a Facebook viene estesa a chiunque abbia più di 13 anni e vengono introdotte le funzioni News Feed e Mini Feed4. L’ingresso di utenti provenienti dal mondo esterno all’università e la maggiore visibilità dei propri e altrui comportamenti portata dalle ultime funzioni potrebbero incoraggiare la tendenza a conoscere nuove persone. Gli studenti, però, continuano a preferire l’uso di Facebook per mantenere e articolare la loro rete di amicizie offline. Joinson (2008) evidenzia la prevalenza di questa modalità anche in un campione misto composto da studenti a tempo pieno, studenti lavoratori e lavoratori a tempo pieno; per Boyd (2008) essa diventa quasi totalizzante tra gli adolescenti. Nelle interviste ai teenager statunitensi realizzate per Digital Youth Research5 (ibidem), infatti, i siti di social network, tra cui Facebook, sono descritti come
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estensioni della vita quotidiana. Al loro interno si prolungano, e in parte si trasformano, i processi caratteristici dell’adolescenza: ricerca dell’accettazione del gruppo dei pari, lotte per la popolarità e il prestigio, flirt e pettegolezzi. Sebbene questi siti offrano nuovi modi di fare amicizia, i ragazzi li usano per comunicare con gli amici di tutti i giorni, per approfondire il rapporto con i coetanei, soprattutto con i compagni di scuola, e per trasformare semplici conoscenze in legami più solidi. La pratica di dialogare in rete con estranei riguarda solo una minoranza ed è fortemente stigmatizzata (ibidem). Le ricerche fin qui presentate disegnano un quadro abbastanza chiaro: l’uso di Facebook non libera il soggetto dalle appartenenze e dai luoghi quotidiani, ne è anzi profondamente influenzato. L’utente costruisce il suo network di amici in base agli ambienti sociali in cui vive o è vissuto, cerca nuovi legami forti tra conoscenti e non tra estranei incontrati per la prima volta in rete e se decide di comunicare con qualcuno che vive lontano lo fa per tenersi in contatto con un vecchio amico. La vita sociale, anche su Facebook, si costruisce attorno a vincoli difficilmente eliminabili, come vedremo più chiaramente nel prossimo paragrafo.
Amicizie Facebook e dimensioni delle reti sociali Una delle peculiarità di Facebook, e dei siti di social network in genere, è definire in maniera esplicita aspetti della vita sociale che solitamente così espliciti non sono. La lista degli amici, ad esempio, rende visibile direttamente sul profilo dell’utente il numero di contatti con cui egli può interagire. Da studi americani su campioni composti da universitari emerge che questo numero ammonta in media a: 246 per Walther e colleghi (2008, p. 41), 272 per Vanden Boogart (2006, p. 32), 201 per Lampe, Ellison e Steinfield (2008, p. 724) nel 2006, valore che sale a 333 nel 2008. Si ha l’impressione che i dati disegnino network online molto più ampi di quelli che l’individuo normalmente coltiva al di fuori della rete. Questa impressione è confermata dal lavoro di Dunbar (1993) sulla dimensione media dei gruppi umani, intesi come insiemi di persone a cui il singolo è legato da una conoscenza diretta e con cui interagisce con sufficiente regolarità. Dunbar calcola, a partire dalla dimensione della neocorteccia6 nell’Homo Sapiens, che i gruppi possono raggiungere una composizione di 150 unità, limite oltre il quale è probabile che si disgreghino. Questo valore si ritrova, con scostamenti accettabili, all’interno delle comunità indigene del passato e del presente, nelle unità di base degli eserciti antichi e moderni, nelle società occidentali contemporanee, ed è evidentemente inferiore al numero degli amici che gli utenti collezionano su Facebook. Si potrebbe ipotizzare che Facebook agisca da ottimizzatore dei contatti interpersonali, consentendo all’individuo di ampliare le dimensioni del suo gruppo di riferimento. Facebook potrebbe potenziare la funzione di coesione sociale svolta dal linguaggio, continuando un percorso che comincia con il grooming. Nei gruppi di primati non umani il grooming, cioè l’attività di pulizia reciproca del pelo,
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serve a mantenere e consolidare i legami, è così importante che questi animali arrivano a dedicarvi il 20% del loro tempo (ibidem). Tra gli uomini la dimensione media dei gruppi è tale da richiedere una forma di interazione più efficiente: il linguaggio. Il linguaggio, al contrario del grooming, consente di interagire mentre si stanno svolgendo altre attività e di comunicare contemporaneamente con più persone (fino a un massimo di 3, calcola Dunbar). Le caratteristiche di Facebook rispondono a entrambi i requisiti: si può aggiornare il proprio profilo mentre si guarda la Tv, si ascolta la radio o ci si prende una pausa dal lavoro, e con una semplice frase si possono far conoscere a centinaia di persone gli stati d’animo, le riflessioni o gli ultimi eventi della propria vita. Facebook rende l’interazione sociale meno impegnativa e abbassa le barriere che spesso la bloccano in quanto riprende ed enfatizza la leggerezza di e-mail e instant messaging (cfr. primo paragrafo). Con Facebook basta lasciare un breve commento in bacheca per far capire a un amico che lo si sta pensando e anche l’onere della risposta è molto meno gravoso rispetto ad altri media. Grazie alla funzione News Feed, inoltre, è possibile seguire facilmente le vicende dei propri contatti, decidendo se e quando iniziare uno scambio di messaggi (cfr. Vergnani 2009, pp. 27-28; Marlow 2009). L’immagine di Facebook come moltiplicatore dei legami sociali, però, si ridimensiona decisamente se consideriamo le implicazioni che derivano dall’intensità di questi legami. Per intensità di un legame nella vita offline intendiamo: “la combinazione (probabilmente lineare) della quantità di tempo, dell’intensità emotiva, del grado di intimità (confidenza reciproca) e dei servizi reciproci che caratterizzano il legame stesso” (Granovetter 1973, p. 117). La frequenza delle comunicazioni online tra due persone, sebbene non copra tutte le dimensioni, può essere un indicatore adeguato a misurare questo parametro nell’interazione in rete. Secondo uno studio realizzato dal Facebook Data Team (Marlow 2009) su un campione casuale di iscritti Facebook, il numero di contatti con cui l’utente comunica regolarmente corrisponde solo a una piccola parte del suo network. Chi ha 50 amici mantiene una stretta relazione con 3 di loro se maschio, 4 se femmina. I valori salgono, rispettivamente, a 5 e 7 per 150 amici e a 10 e 16 per 500 amici. Anche su Facebook, come nella vita offline, i legami forti, quelli su cui si può contare, sono pochi e crescono molto lentamente in rapporto al numero complessivo degli amici. Quest’ultimo aspetto è dovuto alla natura stessa dei legami forti: essi comportano un elevato investimento in termini di energia e un forte coinvolgimento emotivo; il loro numero, di conseguenza, rimane relativamente stabile in ogni contesto (Paccagnella 2000, p. 147). Si potrebbe allora correggere l’ipotesi iniziale affermando che Facebook funziona da moltiplicatore dei legami deboli, che rappresentano comunque un’importante risorsa cognitiva. Grazie ai legami deboli, infatti, informazioni, idee e punti di vista possono circolare più rapidamente all’interno della società (Buchanan 2002, pp. 41-49). Marlow (2009) evidenzia che i legami stabiliti attraverso Facebook supportano lo stesso processo. Per arrivare a questa conclusione Marlow confronta i diagrammi dei diversi network che un utente-tipo crea attraverso l’uso di Facebook. Il network più ampio è costituito da tutti gli amici dell’utente. Al suo
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interno troviamo l’insieme delle Maintained Relationships, cioè delle persone sul cui profilo l’utente è andato almeno due volte nel corso del mese di osservazione. Le dimensioni si riducono ancora per il network della One-way Communication, cioè dei contatti con cui l’utente ha comunicato almeno una volta, per arrivare ai pochi legami della Mutual Communication. Nell’ultimo diagramma, che Marlow paragona a quello prodotto dalla comunicazione telefonica, molti individui sono disconnessi l’uno dall’altro. Una notizia, ad esempio la nascita del bambino di una vecchia compagna di classe, viaggia molto lentamente all’interno di un gruppo connesso solo da questi legami mentre grazie alla pagina delle notizie di Facebook un numero molto più elevato di persone può venirne a conoscenza. Anche questa affermazione, però, si presta a diverse osservazioni critiche. In primo luogo i legami deboli (che possiamo far coincidere con le Maintained Relationships), pur crescendo molto più rapidamente dei legami forti basati sulla Mutual Communication, diventano una porzione sempre più piccola dell’ammontare complessivo dei contatti Facebook: il 19% per 50 contatti, il 14% per 150 e il 9% per 500. Insomma la stragrande maggioranza degli amici Facebook sono persone con cui non si comunica affatto. La situazione è il risultato delle norme ancora fluide in base a cui si sceglie se accettare le richieste di amicizia (Boyd 2008). Rifiutare la richiesta di un completo estraneo non comporta costi sociali mentre è più difficile rifiutare la richiesta di chi si conosce. In quel caso si tende a rispondere positivamente a prescindere dalla natura della conoscenza, finendo per avere decine se non centinaia di contatti a cui non si ha niente da dire. In secondo luogo, la moltiplicazione degli amici non favorisce necessariamente la circolazione delle informazioni. Quando gli amici diventano troppi gli aggiornamenti raccolti da News Feed si trasformano in rumore e non permettono di seguire le singole vicende che interessano all’utente. Questo, scoraggiato, rischia di disamorarsi di Facebook o è costretto a impostare parametri più restrittivi per la visualizzazione delle notizie, riducendone la diffusione (Vergnani 2009, pp. 33-34). Inoltre l’utente, sebbene sia consapevole dell’accezione ampia da dare al concetto di amicizia su Facebook, tende a formulare giudizi negativi sui proprietari di quei profili che espongono cifre troppo elevate. La sovrabbondanza di amici viene interpretata come il risultato della ricerca di una facile popolarità, basata sulla collezione di legami superficiali (cfr. Tong et al. 2008, pp. 538-539). Tong e colleghi (pp. 541-542) registrano, all’interno di un campione di 153 studenti di un’università del midwest americano, una relazione curvilinea tra il numero degli amici e l’attrazione sociale percepita nei confronti del proprietario del profilo. L’attrazione aumenta con il numero degli amici, raggiungendo il massimo quando questi sono 302. Superata questa soglia, l’attrazione scende rapidamente fino a toccare il valore più basso dopo il picco in corrispondenza di 902 amici. Tong e colleghi (pp. 543-544) verificano che gli osservatori elaborano i loro giudizi indipendentemente dal numero di contatti posseduti, applicano piuttosto degli standard normativi: chi vi si avvicina di più ottiene i giudizi più positivi. Sono consapevoli che oltre un certo limite la leggerezza di Facebook si trasforma in inconsistenza.
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1 Della Ivy League, la “Lega dell’edera”, fanno parte: Harvard, Yale, Princeton, Brown, Columbia, Cornell, University of Pennsylvania e Dartmouth. L’edera richiama l’antichità di questi college, considerati i più prestigiosi degli Stati Uniti. 2 Fonte: http://www.checkfacebook.com/ (24 luglio 2010). 3 Fonte: http://www.vincos.it/world-map-of-social-networks/ (24 luglio 2010) 4 News Feed consente di visualizzare sulla home page le attività più recenti dei propri amici: aggiornamenti del profilo, nuove amicizie, eventi imminenti, compleanni ecc. Mini Feed, invece, è centrata sul singolo utente: visualizza sul profilo gli ultimi cambiamenti relativi a status, note, foto ecc. 5 Digital Youth Research (http://digitalyouth.ischool.berkeley.edu/) è una vasta ricerca etnografica condotta da studiosi della University of Southern California e della University of California, Berkeley sull’uso dei media digitali da parte degli adolescenti. Obiettivi: evidenziare la natura innovativa di questo uso e le sue implicazione per i processi educativi e per lo sviluppo di software per l’apprendimento. 6 La neocorteccia è la parte del cervello che l’uomo ha sviluppato più di recente, è considerata la sede delle funzioni di apprendimento, linguaggio e memoria.
Alessio Rotisciani
Note
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Lelio Semeraro Il poker on-line scopre le sue carte
L’ economia in gioco C’è un settore dell’economia italiana che sembra non conoscere crisi. Se guardando la televisione, o sfogliando un periodico vi siete imbattuti in qualche comunicazione commerciale (di quelle sfidanti come dicono i bravi esperti di marketing) da parte di Bwin, GiocoDigitale, PokerSnai, EuroBet, (...) è perché il poker del web, nella variante della Texas Holdem, ha avuto finora un enorme successo, non solo superiore ad altri giochi come scacchi o briscola, ma anche a tanti alti settori del terziario avanzato. Per avere un’idea sommaria della posta in gioco è meglio ricorrere brevemente alla noiosa semplicità delle cifre. “In tempi di crisi economica, secondo le stime di Agicos, il settore del Gaming Italiano ha visto una crescita inaspettata. Quella più elevata viene proprio dal settore del poker, che registra un aumento di quasi 60 punti percentuali: una raccolta pari a 1,6 miliardi di euro da gennaio a giugno 2010, che permette agli skill games (o giochi d’abilità) di superare Superenalotto e Win for Life” (dal sito www.xcasino.it, Dati Agicos). “In termini di fatturato, il mercato del gioco online ha visto nel 2009 una crescita del + 96%. Analizzando le diverse categorie di gioco, il fatturato da skill games arriva a 234 milioni di euro (di cui oltre il 99% relativo al Poker online), una cifra superiore a quella derivante dalle scommesse sportive. Pur sapendo che il gioco compulsivo è un fenomeno da tenere sotto controllo, dalla ricerca emerge un approccio degli utenti online mediamente “sano”. Sui 2,8 milioni di conti di gioco utilizzati almeno una volta nel 2009, sono infatti 835.000 quelli mediamente movimentati ogni mese. Detto in altri termini, la maggior parte dei giocatori non utilizza il proprio conto ogni mese. Inoltre la maggior parte degli utenti online si diverte con cifre moderate: il 64% dei conti di gioco movimenta infatti meno di 100 euro ogni mese” (Dati del Sole 24 ore, 21 aprile 2010).
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Tra i milioni di pokeristi del world wide web potrebbe anche esserci il vostro insospettabile vicino di casa, che nella privacy delle mura domestiche, si traveste in un accanito interprete del gioco e usando un nick (o un nome di battaglia come “spellotutti, “makemoney” “squalettoromagnolo”) a seconda del mix quotidiano tra fortuna, disciplina e abilità, accumula denari, oppure li dissolve, tra milioni di giocatori lontani che puntualmente accedono ai siti suddetti. Sarebbe un discreto oggetto di dibattito discutere se il poker è oppure no un’attività produttiva. Se crei cioè nuove ricchezze o semplicemente le sposti da un conto a un altro. (Ma quali sono poi tra passaggi, appalti e indotti le attività nel nostro terziario realmente produttive?) Ciò che è certo è che il gioco, come la scommessa, può far sentire chiunque un Robin Hood odierno, talmente moderno che non prende ai ricchi per dare ai poveri ma per risolvere la propria situazione personale. L’illusione di poter generare capitale grazie al gioco sembra una sorta di naturale compensazione delle rigidità dell’attuale struttura economica, che nonostante i principi democratici di fondo si presenta ancora con le divisioni di caste, clan e compagnie di ventura, e non sembra così pacifico che possa dare le stesse possibilità a tutti. (Il rampollo Lapo Elkann, in un’intervista per l’Espresso paragonò la fortuna di nascere in quella famiglia a una scala reale donata in sorte da un destino arcigeneroso.)
Quell’oscuro divieto di socialità Forti malumori sono sorti negli ultimi tempi tra gli amanti della texas in carne e ossa. La recente normativa sul poker ha vietato infatti i circoli dal vivo. Lo Stato Italiano ha assunto quindi un comportamento al contempo repressivo e schizofrenico, perché ha eliminato proprio i circoletti dove la quota di iscrizione ai tornei era talmente bassa (dai 10 ai 30 euro) da favorire il fattore ludico, amicale e di aggregazione sociale rispetto all’obiettivo della vincita. Non tutti i giocatori vogliono e possono attraversare le porte dei Casinò. Inoltre, da una parte i governi tentano di controllare il mondo selvaggio del web, dall’altra invece di frenare il gioco d’azzardo incoraggiano Lotterie, Superenalotto, Gratta e Vinci, con spot a dir poco ingannevoli (Ti piace vincere facile? era il promettente claim della campagna del Gratta&Vinci) e così facendo favoriscono quei giochi per i quali non è richiesta alcuna intelligenza, nessuna abilità o strategia particolare.
Microcosmi Per ciò che ci riguarda, la nozione di gioco è così suggestiva da avvicinare ambiti molto diversi. Microcosmi si aprono ai giocatori delle 52 carte. Fiori, quadri, cuori, picche sono i simboli rispettivamente di bellezza, soldi, amori e armi. Incroci dell’immaginario che fanno apparire il gioco in sé come un superconcetto filosofico capace di oltraggiare l’etica e l’estetica e far stringere la mano tra l’apollineo e il dionisiaco. Per dar vita in queste pagine al gioco della scrittura (un gioco inesauribile per dirla con Blanchot e il suo infinito intrattenimento) le
Poker-room Nel poker on-line si trovano in nuce tutte le dimensioni del gioco finora descritte, amplificate sotto alcuni versi dalla potenza della rete che permette di sottoporre nella misura e nei modi offerti dal virtuale (chat, forum, blog) la vocazione sociale del gioco. Nelle poker-room ci si scambia contatti e si discute di qualsiasi argomento, dal gioco, al calcio, alla politica. L’essenza del gioco sta nella essenzialità delle relazioni sociali. Come è deprimente infatti assistere da soli a una
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prime mosse vanno lasciate a un classico dell’antropologia: I giochi e gli uomini, di Roger Caillois, un testo del 1967, scritto un po’ tempo prima cioè della rivoluzione digitale che ha sparigliato le nozioni di spazio e di tempo. Caillois ordina il tavolo sul significato di gioco e inquadra le diverse attività umane (alcune così somiglianti a quelle di certi animali). L’antropologo francese individua quattro categorie principali: agon, alea, mimicry o ilinx, a seconda che predomini il ruolo della competizione, del caso, del simulacro o della vertigine. Per chiarirci: il calcio è agon, la roulette è alea, giocare agli indiani o recitare la parte di Amleto è mimicry (pensate al verbo inglese to play o al francese jouer che è sia giocare che recitare), le montagne russe, le discoteche e la droga appartengono maggiormente alla sfera dell’ilinx. Ovviamente questi non sono settori a compartimenti stagni. Al contrario sono categorizzazioni di massima e in ogni gioco questi quattro quadranti subiscono un certo grado di compenetrazione. Pensiamo per un attimo al calcio-scommesse: la partita più equilibrata del mondo avrà il 33% di probabilità di vittoria di una o dell’altra squadra e il 33% di pareggio e proprio per il suo risultato incerto potrà diventare oggetto di alea, un affidarsi alla sorte. L’amor fati era già per Nietzsche un atteggiamento umano che non implicava passive rassegnazioni. In sostanza, si cerca di far coincidere la propria volontà col corso degli eventi, sciogliendola nell’innocente casualità degli eventi. Caillois sostiene che “i giochi d’azzardo appaiono i giochi umani per antonomasia” (Caillois, 1967, p. 35). Perché solo il cervello dell’uomo, rispetto agli animali è dotato di virtù calcolatrici. Le bestie invece conoscono la competizione, la maschera e la vertigine. Basti pensare rispettivamente ai giochi di lotta dei cervi o dei cuccioli di leone, alla stupefacente coreografia della ruota del pavone, al nascondimento del camaleonte o alla febbre delle falene impazzite attorno a una fonte di luce. Il gioco qui preso in esame, è un gioco essenzialmente d’abilità dal momento che la fortuna, contrariamente a quanto si pensa comunemente, non ha una così grande incidenza. Il poker sportivo, chiamato anche texas holdem, prevede una somma iniziale di ingresso a un torneo, così oltre a quell’esborso iniziale non si può perdere. Tutti i partecipanti poi partono dalle stesse quote di fiches. Caillois parla di due universi ludici in qualche misura antagonisti, uno legato alle regole e alle convenzioni arbitrarie: “ludus”, e un altro più libero, improvvisato e spensierato che chiama “paidia”. Nel ludus, come nel caso dei cruciverba, sono le difficoltà create appositamente a offrire gli stimoli per giocare. Nella paidia, invece, viene esaltata la creatività di scegliere in base alle proprie intuizioni le mosse da compiere.
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proiezione cinematografica in sala, oppure salire su una giostra da unico avventore, o saper giocare a scacchi ma non avere rivali! Così anche il poker ha bisogno di concorrenti e spettatori, per lo meno virtuali. La compagnia inoltre non può essere una qualsiasi, ma più è preparata e professionale più se ne ricava soddisfazione. Il virtuale offre il metadone di questo piacere. Con alcuni semplici gesti possiamo commentare una mano o un punto appena fatto, ci possiamo imbattere e sfidare i migliori professionisti, siamo connessi cioè con la comunità virtuale dei pokeristi, una lobby, come tante altre in Italia che ragiona in termini di inclusione/esclusione. E possiamo farlo da Milano, come da un’isoletta sperduta del mar Egeo. Più numerosi i partecipanti, maggiore è la sfida, più alto sarà il montepremi. Ogni sito di gioco on line offre tornei anche da 3000 persone, suddivise in trecento tavoli da 10 giocatori, qualcosa che nel mondo reale non sarebbe facilmente organizzabile nemmeno nei più grandi Casinò. È il mondo del gioco che entra direttamente in casa, nella maniera più rassicurante possibile, lasciando a disposizione tutto il confort e la sicurezza dei propri oggetti. Una comoda e divertente alienazione.
Psicologia del poker Il fatto che il poker sia un gioco legato alla matematica e al calcolo della probabilità (molti matematici e economisti l’hanno utilizzato come riferimento e applicazione per i propri studi) non basta però a spiegare il suo successo. Andrebbero invitati gli psicologi e i sociologi ad analisi più approfondite, come non si può trascurare il suo lato educativo e formativo. Tra le caratteristiche psicologiche un posto di grande importanza è da attribuire alla previsione. Il piacere sottile di riuscire a prevedere le carte che usciranno dal mazzo, o le carte dei rivali, o il comportamento degli avversari suscita nel giocatore una soddisfazione legata a quella della magia, dell’irrazionalità, una coscienza superiore al normale, un’atmosfera medianica, un sesto senso che sfiora il religioso. Un’altra caratteristica è quella del nascondimento. Saper travestire un punto debole da punto forte, e viceversa, per ricavare maggiori vantaggi, è un’altra delle tante frecce all’arco del rounder (giocatore). Una sorta di calcolo unita alla fantasia, all’improvvisazione, all’ebbrezza: le due facce del gioco sono così mescolate da risultare inscindibili. Per un buon bluff bisogna saper raccontare una storia credibile fin dall’inizio. Si inizia a bluffare solitamente quando le cose vanno bene, per spiazzare gli avversari, costringerli a decisioni sbagliate, che poi rimpiangeranno. Parafrasando un vecchio cliché potremmo dire: dimmi come giochi e ti dirò chi sei. Esistono gli ostinati che non si arrendono mai, i narcisi che si innamorano delle proprie carte, gli idealisti che inseguono luminosi progetti di scale e colore, eccetera eccetera.
Che niente non sia fatto La teoria dei giochi nasce con Von Neumman ma viene teorizzata in modo sistematico da John Nash e parla delle possibile applicazioni del gioco a campi più lontani, come l’economia o la strategia di guerra, e suddivide le varie situazioni di gioco. Nel caso del poker, John Nash ci direbbe che è un gioco a somma zero (se uno perde un tot di fiches, c’è un altro che le guadagna), non cooperativo (tranne in rari casi, dove due avversari con molte fiches decidono di eliminare quello che ne ha poche), ripetitivo e sequenziale perché il piccolo e il grande buio ruotano tra tutti i giocatori e per parlare bisogna aspettare il proprio turno. Nessun professionista smentirà il fatto che la posizione rispetto al mazziere non è mai da trascurare. Quanto sei più vicino al “bottone” tanto più la mano può essere favorevole. La teoria dei giochi invita a traslare differenti ambiti e ci fa capire quanto, ad esempio si possa avvicinare il poker al gioco in borsa, e quanto gli speculatori quotidiani siano veri giocatori d’azzardo, in un mondo assolutamente non cooperativo e a informazione imperfetta. Per la teoria dei giochi, il poker può essere la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Ma non c’è solo azione. I cinesi, questo è indubbio, sono bravi negli affari. Una formula taoista recita così “wu wei er wu bu wei”. Che nella lingua del nostro gioco diventa così: Do Nothing and Leave Nothing Undone. Non fare nulla ma che niente non sia fatto. A prima vista può sembrare una contraddizione: l’azione della non-azione. tornando stanco dopo una dura giornata di lavoro, il paterfamilias si chiede sempre a fine giornata “che cosa non ho fatto oggi”, e già avverte l’ingombrante presenza del non-fatto tutt’attorno. (cfr. Jullien F, 2005). Se non si agisce cosa si fa? La parola chiave è trasformazione. Qualunque stratega lo sa. Se un avversario dà filo da torcere perché è troppo chiuso, il consiglio è di sembrare assente e ancora più chiuso per invitarlo a scoprirsi. Quando è molto forte, meglio evitarlo. Con la dovuta pazienza, lo si coglierà in flagrante quando sarà più debole. Il dubbio su cosa fare è già un potente indizio, meglio non fare che sbagliare. Le mani perdenti che abbandoniamo possono valere quanto le mani vinte. Un fold (lasciare il piatto) al momento giusto spesso è inefficace ma nel proseguo del torneo può risultare molto efficace. Rispetto al poker dal vivo, ai tornei on line manca qualcosa, come la mimica, i tic non-verbali, quei suggerimenti (in gergo tells) che i professionisti conoscono bene avendo studiato il linguaggio non verbale. Psicologicamente il gioco on line è più indicato per le persone che conoscono la
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Sul piano pedagogico il gioco educa a controllare l’impulsività, a saper bilanciare i pro e contro, a non fare puntate esagerate e a rispettare se stessi e gli avversari. È un modo per guardare le cose con la giusta distanza, il distacco che tante volte desideriamo sul posto di lavoro o nelle questioni di cuore. Come la poesia di Kipling insegnava, si diventa uomini non abbattendosi troppo per una sconfitta e non inebriandosi più del dovuto per una vittoria. La lealtà e il bon ton sul tavolo di gioco è certamente considerata una specie di vittoria a sé stante, e come negli antichi duelli cavallereschi vige un sottinteso codice di buone maniere da rispettare. Stare al gioco significa anche rispettare l’etica del gioco. Se play è performance, game è invece il sistema delle regole (Eco in Huizinga, 2002).
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tecnica, che danno il giusto peso alle proprie carte, e che rilanciano senza esagerare, ma sono incapaci di disciplinare il linguaggio corporeo. Dal vivo poi c’è più bisogno di resistenza (anche fisica), la concentrazione dev’essere maggiore. I due mondi virtuali e reali sono perciò lontani tra loro, anche se alcuni siti cercano di avvicinarli mettendo in palio pacchetti-premio verso tornei reali. Non necessariamente però chi è forte on line è altrettanto forte nella vita reale. Uno squalo on-line può risultare un pollo dal vivo e viceversa.
Parole in prestito Il linguaggio del poker è pieno di prestiti dal mondo animale. I nomi più diffusi sono Fish (pesciolino) un giocatore molto debole e perdente, e Donk (asinello) giocatore scarso ma pericoloso perché spesso vince grazie a una forte dose di fortuna. Shark (squalo) è poi un giocatore molto forte che va a caccia di fish. Ma il bestiario del poker è più vario. Mouse (topolino) è un giocatore molto chiuso e prudente. Lion (leone) è un avversario molto solido che non bluffa quasi mai. Jackal (Sciacallo) è un disturbatore che porterà disarmonia al tavolo con le sue giocate pazze. Elephant (elefante) è portato a vedere tutte le mani, senza rilanciare, e infine abbiamo Eagle (Aquila), il giocatore che valuta meglio la propria posizione e che ha la visione d’insieme migliore. Un bestiario pokeristico che sottolinea istinti e pulsioni naturali di ogni giocatore. Soprattutto nella rappresentazione giornalistica della politica, il linguaggio ha preso molto dal mondo del poker. Ad esempio cercando su Google: “Berlusconi rilancia” si squadernano ben 32.800 pagine. E molte altre su eventuali bluff: Aquila, Onna, Iran, fisco, giustizia eccetera eccetera (un articolo datato 4 agosto 2010 sul periodico Vanity Fair di Gad Lerner ha per titolo: Elezioni anticipate: Il Bluff del Cavaliere). Per par condicio citiamo anche il neonato blog del giornalista PolPok (Politica, potere e altri vizi capitali) di Lanfranco Pace, ex-militante di potere operaio, successivamente riciclatosi negli orizzonti pro-life di Giuliano Ferrara e opinionista del Foglio.
Assaggi di musica cinema e letteratura La metafora del poker era stata immortalata in pieni anni ‘70 nella musica leggera con Rimmel (1975) da un giovanissimo Francesco De Gregori: “Ora i tuoi quattro Assi /bada bene di un colore solo/ li puoi nascondere o giocare come vuoi/.” E qualche strofa dopo recita “come quando fuori pioveva” (musicando una nota tecnica mnemonica per ricordare l’ordine dei semi: cuori quadri fiori picche). Tra i cantautori si ricorda lo scomparso Ivan Graziani (1983) con il Chitarrista (Così mi sono avvicinato/ e a giocare a poker l’ho invitato/ avevo un full e lui due coppie/ cosa rilanci se non hai più niente tranne lei?). Fino ad arrivare al pop moderno con Lady Gaga, l’erede spirituale di Madonna, col titolo Poker Face (2009). (No, he cant’read my poker face. Tr. it. lui non riesce a leggere la mia faccia da poker). In ambito anglosassone l’espressione pokerface è entrata in uso anche nel linguaggio comune.
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Il gioco dei rimandi nel cinema sarebbe poi infinito. Ne diamo qui solo un piccolissimo assaggio. Dai film di Pupi Avati Regalo di Natale (1986) con il meno riuscito seguito Rivincita di Natale (2004) ai classici western: da La Conquista del West (De Mille, 1936) al più che celebre Ombre Rosse (Ford, 1939) passando dal divertente La Stangata (Hill, 1973) al pluristudiato Jhonny Guitar (Ray, 1954) senza trascurare il capolavoro C’era una volta il West (Leone, 1968). E tanto altro: Cincinnati Kid (Jewison (1965), California Poker (Altman, 1974) e La Casa dei Giochi (Mamet, 1987). Tornando in Italia si deve citare l’istrionico Adriano Celentano in Asso (Castellano e Pipolo, 1981), anche se forse il più bell’incastro tra cinema e poker ce lo ha finora regalato l’americano Rounders di (Dahl, 1988) grazie anche a un cast di tutto rispetto: Edward Norton, John Turturro, John Malkovich, Matt Damon e di cui si sa già che è in cantiere il sequel (atteso per il 2012). In letteratura un tentativo di bibliografia ragionata dovrebbe partire necessariamente da Il giocatore di Fëodor Dostoevskij, sul tentativo di contrastare il caso; un romanzo che a quanto pare funzionò bene per colmare i debiti di gioco dello scrittore. Viaggiare verso le lontane atmosfere di Philip Dick (Lotteria dello spazio e I giocatori di Titano) e avvicinarsi a Bari con Il passato è una terra straniera di Carofiglio, in cui il topos letterario del barare è un pretesto per parlare dei rapporti umani. Fuori dal mondo dei tavoli verdi, lo scrittore palermitano Giorgio Vasta (2010) considera il belpaese uno Stato “a somma zero”. Una traccia da non trascurare per orientarsi nei giochi aperti della crisi della politica, stanare i bari e sottrarre l’Italia dall’essere pensata come una posta in gioco, immersa in un mare infestato di squali.
Silvia Gravili Lo specchio cinese. Imprenditorialità a confronto
Occorre chiarire sin da subito un equivoco di base: considerato che in Cina esistono circa una sessantina di etnie, ciascuna con atteggiamenti, valori, cultura e dialetti diversi, la definizione di “immigrato cinese” è evidentemente frutto di una generalizzazione impropria. Essa, tuttavia, presenta un’indubbia utilità, soprattutto se ci aiuta a comprendere perché ancora oggi italiani e cinesi, pur condividendo da tempo il medesimo territorio1, si sentono ancora così “lontani” gli uni dagli altri.
Caratteristiche socio-demografiche Dei circa 181 mila immigrati cinesi in Italia2, la stragrande maggioranza proviene dalla provincia del Zhejiang e da quella confinante di Fujian: si tratta di aree costiere, situate a Sud-Est della Cina, in cui vive una popolazione storicamente propensa al commercio e agli affari, con una notevole propensione al lavoro autonomo e alla realizzazione economica (Ma Mung 1992). Sono, quindi, persone che non provengono da situazioni di miseria estrema, ma dalle aree più ricche e più dinamiche del proprio Paese: loro intenzione è migliorare la propria condizione economica aprendo un’attività all’estero (Ceccagno 2002). Piuttosto equilibrata dal punto di vista del genere (la presenza maschile è superiore solo di qualche punto percentuale a quella femminile), la popolazione cinese in Italia comprende soprattutto persone giovani in età lavorativa e produttiva (19-40 anni), che hanno intenzione di rientrare in patria per trascorrervi gli anni della vecchiaia.
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Caratteristiche della struttura produttiva Di grande importanza per il tessuto produttivo è la famiglia3 (e, più in generale, la rete di familiari, parenti e conoscenti), intesa come istituzione fondante della vita quotidiana individuale, lavorativa e sociale sia in patria che nel Paese d’approdo (Pedone 2008). A differenza di quanto avviene per tutti gli altri fenomeni migratori, infatti, una volta arrivato per la prima volta in Italia, il cittadino cinese può contare su una vera e propria “rete etnica”4 (guanxi) che si rivela estremamente vitale per la sopravvivenza del singolo nel Paese straniero, in quanto gli offre sin da subito (tramite la figura del laoban, cioè del datore di lavoro) vitto, alloggio e lavoro, oltre che supporto per il disbrigo delle formalità burocratiche5. “Ci vuole fatica, ma il sacrificio non basta. Senza le relazioni non sarebbe possibile restare” (Oriani, Staglianò 2008). C’è il forte rischio, però, che, una volta a destinazione, il singolo venga risucchiato all’interno di una struttura sociale e produttiva autonoma rispetto al contesto di accoglienza6, che lo priva di fatto della possibilità di conoscere tutto ciò che accade al di fuori di essa: il suo unico compito è, infatti, quello di lavorare il più possibile per poter prima saldare (pena l’ostracismo perpetuo da ogni attività economica) i debiti7 contratti per migrare, e poi, magari, intraprendere una carriera imprenditoriale, occupandosi a sua volta di altri concittadini. Il senso del dovere nei confronti del proprio superiore non ha, però, soltanto implicazioni pratiche (lavorare per rifondere i prestiti), quanto soprattutto morali: il rispetto della gerarchia, l’obbedienza, la riconoscenza e la devozione che si devono al capofamiglia si devono anche al datore di lavoro, perché solo accettandone le regole si esprime la propria fedeltà al gruppo. Per questo difficilmente le scelte dell’imprenditore vengono messe in discussione: che si tratti di mancate tutele o di orari di lavoro superiori a quelli previsti, il lavoratore non considera il datore di lavoro uno sfruttatore (anche quando ce ne sarebbero i presupposti) né si sente in diritto di avanzare delle lamentele contro colui che si é occupato di lui appena giunto in Italia, e che continua a costituire un punto di riferimento in caso di necessità. Le civiltà asiatiche segnate dall’impronta buddista e confuciana praticano il rispetto filiale verso i genitori, mettono la famiglia al di sopra dei suoi singoli membri, la collettività al di sopra dell’individuo, il bene comune al di sopra dell’egoismo personale, privilegiano l’armonia e la stabilità anziché la controversia e la polemica. Il confucianesimo educa al rispetto dell’autorità, non a rimettere continuamente in discussione chi sta in alto (Rampini 2005). Proprio in virtù dello stretto legame tra struttura familiare e struttura economica è ampiamente utilizzata l’espressione “familismo imprenditoriale”, intendendo la forma più comune di imprenditoria cinese: – che “lancia la famiglia come unità di competizione economica in cui i membri vengono percepiti come la risorsa lavorativa più economica, fidata e facilmente reperibile” (Ceccagno 1999),
La propensione imprenditoriale degli immigrati cinesi, sebbene storicamente consolidata, negli ultimi anni ha manifestato una forte crescita nel nostro Paese9. Ambrosini (2001) suggerisce che ciò si deve a diverse ragioni quali, innanzitutto, l’aspirazione alla mobilità sociale che, nel caso del lavoro imprenditoriale, è percepita da coloro che migrano come una reale opportunità di crescita e un traguardo meno difficoltoso rispetto ad altri sbocchi occupazionali, più legati al riconoscimento dei titoli di studio e a una più approfondita competenza linguistica. Egli, inoltre, propone una classificazione dell’imprenditorialità immigrata secondo la dicotomia “impresa etnica” vs. “impresa non etnica”: in particolare, per “impresa etnica” s’intende un’impresa in cui sono impiegati (se non in maniera esclusiva, quanto meno prevalente) cittadini appartenenti alla stessa comunità, e che si sviluppa sulla base di un modello organizzativo e culturale proprio10. Si tratta, in ogni caso, di progetti imprenditoriali di piccole dimensioni, che riescono a sopravvivere ed essere competitivi grazie a costi contenuti e a una gestione tipicamente familiare11. I cinesi che lavorano in Italia “sono umili, ambiziosi, tenaci” (Cremona, De Cecco 2009), anche perché chi non riesce a emergere da clandestinità e duro lavoro esibendo una piena realizzazione economica porta il peso del giudizio severo della comunità d’origine, che spesso finisce per interiorizzare e fare proprio. C’è anche da precisare, però, che, oltre a una forte propensione ad aprire una propria attività, gli immigrati cinesi si sono mostrati flessibili e capaci di cogliere le opportunità e i cambiamenti imposti dal contesto socio-economico di accoglienza, anche se diversi dalle loro aspettative: per questo, a seconda delle richieste del mercato del lavoro e dei cambiamenti del quadro legislativo, quando il lavoro subordinato si è mostrato più vantaggioso o più richiesto di quello imprenditoriale, essi hanno cercato lavoro come operai (Ambrosini 1999).
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Propensione al lavoro imprenditoriale
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– in cui le gerarchie sociali interne vengono riprodotte a livello di struttura produttiva8 e dove, più generalmente, l’attività economica è strutturata sulla convivenza (vita familiare e attività produttive spesso coincidono) – dove l’autorità del laoban (il datore di lavoro) non è messa in discussione, in quanto garantisce protezione e orientamento ai nuovi arrivati. Non si tratta, quindi, di inquadrare genericamente il fenomeno secondo le categorie di “schiavi” e “padroni”, ma di comprendere che esiste quasi sempre un patto che si fonda sulla condivisione di tradizioni comuni e nel quale tutti, sia nelle fasi di investimento sia in quelle di divisione del profitto, hanno il loro ruolo e il loro guadagno (Rastrelli 2000).
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Settori di attività Gli immigrati cinesi si sono prevalentemente dedicati ad alcuni specifici settori, come la ristorazione, la produzione e la vendita di confezioni, la pelletteria e l’artigianato (dati CCIAA). La ristorazione, in particolare, è stata, soprattutto negli anni Ottanta e fino ai primi anni Novanta del Novecento, il settore che ha permesso una prima stabilità economica, oltre che territoriale; la scelta, però, non è stata certo casuale, ma è maturata tenendo in considerazione (e mettendo a frutto) una serie di aspetti differenti, quali la ricchezza della tradizione gastronomica cinese, la possibilità di lavorare sulla base di conoscenze già possedute (la propria cucina), la ricerca di cibo “esotico” che si stava diffondendo tra gli europei, l’alta disponibilità di manodopera (camerieri, cuochi, ecc.) reperita all’interno del nucleo familiare. Il successo nel settore della ristorazione, poi, ha creato l’identificazione del cittadino cinese in Italia come colui che possiede un ristorante e questo, se da una lato ha giocato a favore della percezione di una presenza straniera più sicura12 – in quanto più “collocabile” – rispetto alle altre etnie presenti sul territorio, dall’altro ha causato una sorta di “fossilizzazione” dell’immaginario degli italiani, che non si sono quindi resi conto di come, piuttosto, i cinesi si siano dimostrati abili a cambiare attività a seconda delle esigenze del mercato del lavoro (Quattrocchi 2005). Gli investimenti accumulati, infatti, sono stati utilizzati sempre di più, a partire dagli anni Novanta, per l’apertura di punti vendita13 e/o stabilimenti legati al settore delle confezioni e a quello della lavorazione della pelle: nemmeno in questo caso, però, si è trattato di settori completamente nuovi per gli imprenditori cinesi, in quanto essi erano già ben sviluppati sia nella madrepatria che in altri paesi stranieri dove i cinesi si erano stabiliti. La chiave del successo, quindi, degli imprenditori-immigrati non è tanto quella d’inventarsi l’impiego in nuovi settori quando quelli tradizionali (la ristorazione) si sono saturati, quanto piuttosto la capacità d’inserirsi nel tessuto sociale e produttivo in cui sono immersi, ritagliandosi una nicchia lavorativa con settori già “collaudati” in altre aree geografiche. È innegabile, poi, che un fattore decisivo per la competitività cinese sia stata la capacità di produrre a costi molto bassi, sfruttando il basso costo della manodopera (numerosa e disposta a lavorare a ritmo serrato) unito a intesi orari di lavoro, a un salario a cottimo, alla scarsa (per non dire quasi inesistente) propensione a protestare per le proprie condizioni di lavoro e purtroppo, talvolta, anche al
Ma, per guardarci in uno specchio e cercare lo sguardo dell’altro che ci fonda, come si comportano gli imprenditori italiani che operano in Cina? Che idea si sono fatti di loro i cittadini cinesi che vivono in madrepatria? Ci considerano, come noi facciamo con loro per il nostro territorio, una sorta di “invasori”? Lo chiediamo al Dott. Mattia Bellomi, responsabile esecutivo del Galileo Galilei Italian Institute di Chongqing.
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mancato rispetto delle modalità di assunzione e/o di trattamento retributivo (più che un vero e proprio contratto, ciò che unisce datore di lavoro e lavoratore è un “impegno d’onore”) e all’alimentazione di un’immigrazione clandestina da parte della malavita. Ciononostante, ci sono molto imprese cinesi in Italia che lavorano legalmente, e riescono ad avere consistenti volumi di vendita: come fanno? Molto spesso ci si dimentica che, soprattutto in passato, una forte spinta all’imprenditorialità cinese è venuta proprio da parte di imprese italiane committenti che hanno beneficiato, in qualche modo, di tali durissime condizioni di lavoro: “imprese capo-fila, grossisti, rivenditori, affittuari di laboratori e magazzini ricavano vantaggi competitivi dai deprecati sistemi di lavoro posti in atto dalle imprese cinesi” (Ambrosini 2001). Se, quindi, da una parte la capacità degli imprenditori cinesi di rapportarsi al tessuto economico locale e di offrire un’alternativa ai circuiti produttivi tradizionali è indubbia, anche se talvolta in maniera non legale, dall’altra ciò non sarebbe successo (o, almeno, non con la portata attuale) se il contesto economico locale non avesse di volta in volta assecondato, o addirittura offerto, tale possibilità. Ceccagno (2002) in particolare rileva che un numero sempre crescente di imprenditori italiani, soprattutto nei settori produttivi ad alta intensità di lavoro e a basso livello di specializzazione, ha a lungo fornito gli imprenditori cinesi di commesse a carattere discontinuo e urgente, chiedendo loro di lavorare conto terzi per compensi contenuti14 e alta flessibilità. Si è così venuto a creare, spesso anche in contrasto con la nostra normativa in materia di lavoro e tutela sindacale, un intreccio reciproco di interessi, che ha scardinato le “regole” della produzione tradizionale: è come, infatti, se, invece di delocalizzare all’estero, i piccoli (e grandi) imprenditori italiani abbiano “potuto beneficiare di una ‘delocalizzazione in loco’, in cui imprese cinesi adottano ritmi e modalità di lavoro tipiche di zone a basso sviluppo, rimanendo però a portata di mano” (Barrocci, Liberti 2004). Un altro problema spinoso, che incide come catalizzatore di conflitto tra italiani e cinesi, è poi l’abilità di alcuni Paesi (la Cina in primis, ma anche la Corea) di offrire un prodotto contraffatto molto simile all’originale nella “forma” (ma non nel “contenuto”, cioè nella qualità dei materiali e della lavorazione artigianale), che attira un’ampia fascia di compratori desiderosi di acquistare quell’oggetto griffato che, altrimenti, non potrebbero permettersi; senza considerare, poi, che gli esercenti italiani spesso accusano i loro colleghi cinesi di evasione fiscale e di non rispettare gli orari di apertura e/o la chiusura infrasettimanale, tradizionalmente presente nella gestione italiana.
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Dott. Bellomi, ci può presentare l’attività del Galileo Galilei Italian Institute in Cina? Il Galilei Galilei Italian Institute nasce nel 2007 da una delle tante intuizioni del Prof. Riccardo Varaldo, Presidente della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, in collaborazione con Roberto Colaninno, Presidente e Amministratore delegato del gruppo Piaggio: nel 2004, essi ebbero l’idea, assolutamente innovativa a quel tempo, di affiancare le università (la Chongqing University e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) all’accordo di partnership industriale che la Piaggio stava stipulando a sud della Cina tramite joint venture. Un buon banco di prova per rafforzare le relazioni tra Pisa e Chongqing è stato il primo corso post graduate di 4 mesi che abbiamo organizzato a maggio 2006, e di cui sono stato tutor responsabile: abbiamo costruito un ponte all’interno di una realtà in così rapido sviluppo, offrendo agli italiani la possibilità di acquisire esperienza sul territorio, per identificare opportunità di studio, ricerca e collaborazione commerciale e industriale da e verso l’Italia, e ai cinesi la possibilità di conoscere in modo più approfondito eccellenze industriali, tradizioni e tipicità del nostro Paese. Che consigli darebbe a un imprenditore italiano che vuole investire in Cina? Quali sono gli accorgimenti da adottare e quali, invece, gli errori da evitare assolutamente? Un errore purtroppo molto diffuso è conservare un approccio occidentale a una realtà che non lo è: “when in Rome, do as the Romans do”, si dice; sembra una banalità, ma sono ancora in molti a dimenticarsene. E ciò diventa ancora più grave, se si considera che spesso i cinesi fanno leva proprio su questa debolezza. Un altro errore da evitare è la presunzione di voler fare bottino presto: la relazione a breve termine, dettata da una logica di saccheggio o dalla voglia di cogliere in fretta le enormi opportunità che, senza dubbio, il mercato cinese offre, non porta mai a buoni risultati. Quando dimostri interesse a investire nel loro Paese, i cinesi vogliono prima di tutto sentire una cosa da te: che hai intenzioni a medio-lungo termine. Come provarglielo? Facendo tutto insieme a loro. Non si può aprire una joint venture e venire in Cina ogni 6 mesi, per poi lamentarsi del proprio partner. La joint venture o, più in generale, la collaborazione con i cinesi è come un matrimonio: il rapporto va coltivato nel tempo, con costanza e dedizione. Qual è lo shock più grande per gli imprenditori italiani che arrivano per la prima volta in Cina? Le diversità culturali. Il problema è che ci mancano gli occhiali adatti per cogliere alcune sfumature che per i cinesi sono importanti: quelle che a noi sem-
La dinner diplomacy, che in Cina riveste un’importanza fondamentale, molto diversa rispetto alla cultura occidentale. In Italia l’invito a cena ha luogo quando si deve celebrare la conclusione di un accordo; in Cina, invece, non ci si può aspettare di concludere un accordo dopo tre incontri in un ufficio. Lì i cinesi ti ascolteranno, ma non ti diranno mai un “sì” definitivo: è a tavola che viene decisa buona parte della transazione. Se, quindi, oltre che incontrarli sul luogo di lavoro vai a cena con loro, bevi con loro, mangi con i bastoncini e vai al karaoke, vuol dire che la trattativa commerciale sta andando bene. Se in Cina non ti arriva un invito a cena, inizia a preoccuparti. Che caratteristiche dovrebbe avere un prodotto per penetrare nel mercato cinese? E qual è il modello di business più adatto? Il radicamento: se spendi tempo qui e stai insieme a loro, non puoi che ottenere vantaggi. Lo abbiamo constatato noi stessi da quanto abbiamo aperto il Galileo Galilei Italian Institute rispetto a quando facevamo visite frequenti, ma estemporanee: i cinesi premiano chi ha il coraggio di stare in Cina. Per questo, il consiglio che mi sento di dare a chi vuole proporre i propri prodotti in Cina, è prima di tutto quello di focalizzarsi con molta cura sulle strategie di marketing, focalizzandole sulle caratteristiche specifiche del mercato cinese. Purtroppo, invece, molti imprenditori italiani continuano a temere la Cina, perché la vedono come un posto troppo lontano, troppo diverso, troppo “difficile”: essi ignorano che, con un po’ di attenzione in più e di diffidenza in meno, come italiani avremmo molte più opportunità di quante riteniamo esistano di primo acchito. Come vengono percepiti in Cina gli imprenditori italiani? Scinderei innanzitutto l’immagine dell’Italia da quella degli italiani. Qui in Cina c’è un grande rispetto per il nostro Paese, cosa che non a tutti gli altri Stati occidentali è concesso, e questo grazie al fatto che sia Cina che Italia hanno una storia millenaria alle spalle. I cinesi nutrono un grande interesse per alcuni “grandi classici” del Made in Italy: i film, la musica e soprattutto l’opera lirica, la moda e il design, le auto da corsa. Degli italiani, invece, non hanno ancora un’idea ben definita perché qui a Chongqing di imprenditori italiani se ne vedono veramente pochi. E questo è un vero peccato, se si considera che Chongqing è la città più grande della Cina, una vera e propria frontiera commerciale anche per gli stessi cinesi.
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Qualche esempio?
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brano banalità di poco conto e che qui, invece, sono fondamentali. In effetti, non siamo ancora abituati al mercato cinese perché abbiamo una scarsa conoscenza della cultura cinese: alcune brevità relazionali o shortcut comunicativi semplicemente qui non funzionano.
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Cinesi e italiani sono così lontani tra di loro, come si crede? Direi proprio di no: tutto sommato, i cinesi hanno con gli italiani, rispetto agli altri europei, più motivi di affinità che di scontro. Pensiamo, ad esempio, all’importanza che entrambi i popoli attribuiscono alle relazioni personali, rispetto a una certa “fissità” anglosassone, e non dimentichiamo, poi, il valore che viene attribuito alla famiglia, in Cina come nella tradizione italiana. Ci sono, ovviamente, anche alcune differenze: la prima che mi viene in mente è proprio la diversa prospettiva in cui viene inquadrata l’attività imprenditoriale: in una dimensione familiare in Cina, in una più individualistica in Europa. Tuttavia, anche in Cina la famiglia si sta disaggregando, soprattutto da quando sta venendo meno l’essere legati a un territorio. Beninteso, i legami familiari sono ancora fortissimi, ma in misura minore rispetto a quanto fossero nel passato. Se Marco Polo arrivasse oggi in Cina, che cosa lo sorprenderebbe? C’è ancora qualcosa della Cina di quel tempo che è ancora viva? Lo spirito mercantile dei cinesi non cambia mai, e ciò non smetterebbe mai di sorprendere qualcuno. I cinesi sono fatti per vendere tutto, in qualsiasi modo: nel passato poteva essere il ventaglio di rafia e oggi il piccolo ventilatore portatile, ma la loro abilità di adattarsi a tutte le piccole esigenze dell’utente finale è rimasta immutata. La Cina è, ovviamente, cambiata molto, soprattutto dal 1949 in poi, ma i cinesi non son cambiati troppo. E nemmeno la cultura cinese si è molto modificata con i tempi: è rimasta fondamentalmente una cultura che si replica su se stessa con i suoi continui riferimenti millenari, senza soluzione di continuità; è come se, chiacchierando con un amico, citassimo abitualmente Catullo, per sentirci rispondere con un detto di Sant’Agostino. La Regione Puglia si è presentata al World Expo di Shanghai puntando su alcuni punti forti: cinema, produzioni di eccellenza (soprattutto moda ed enogastronomia) ed energie rinnovabili. Come giudica questa scelta? Il padiglione italiano, intitolato La città dell’Uomo, è stato uno dei più apprezzati a Shanghai, e ha velocemente superato la soglia del milione di visitatori. Purtroppo il nostro Paese non si è sempre dimostrato lungimirante nelle strategie di approccio al mercato cinese, sopratutto nel passato: organizzare delle missioni economiche di sistema ogni due, se non ogni quattro anni (la prima è stata nel dicembre 2004,
1 Il primo flusso migratorio verso l’Italia si registrò intorno agli anni Trenta dello scorso secolo, quando piccoli gruppi di poche decine di persone di origine cinese (non provenivano direttamente dalla Cina, ma da Francia e Svizzera) s’insediarono nel Nord del Paese, cercando fortuna prevalentemente come venditori ambulanti di prodotti tessili quali borse e cravatte. Una ventina di anni dopo, invece, si assistette alla prima ondata migratoria di cittadini che arrivavano direttamente dalla Cina: di solito, si trattava degli amici e dei parenti degli immigrati già presenti in Europa, che decidevano d’intraprendere un proprio percorso appoggiandosi alla rete di conoscenze e di contatti che questi ultimi già possedevano nel Vecchio Continente. È proprio durante questi anni che in madrepatria s’iniziò a sviluppare nell’immaginario collettivo la figura del cinese intraprendente, che lascia il proprio Paese e trova fortuna economica e realizzazione sociale all’estero. 2 Rapporto Istat – La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2010. 3 La famiglia riveste un’importanza cruciale già all’origine del progetto migratorio, che è un progetto collettivo e non individuale (Pedone 2008): diversi parenti, coinvolti e beneficiari dell’esperienza lavorativa all’estero di un membro del proprio nucleo, si attivano per diversi mesi per reperire le risorse economiche e di contatti sociali necessarie al viaggio, considerato un vero e proprio progetto imprenditoriale, uno strumento di affermazione e di avanzamento sociale non solo per l’individuo che migra, ma anche per tutto il suo gruppo di parenti, che rimane così unito nel perseguire un obiettivo comune. 4 Di solito si tratta di un parente, che è anche il titolare della ditta presso cui il nuovo arrivato inizia a lavorare. In questo caso, il senso di “legame” e di “devozione” verso chi riveste una posizione di autorità si consolida ulteriormente, proprio in virtù del rapporto di parentela. 5 Il laoban, inoltre, offre disponibilità a favorire, dietro pagamento, la regolarizzazione degli operai e delle loro famiglie e aiuta il nuovo arrivato in tutte quelle incombenze che presuppongono una seppur rudimentale conoscenza della lingua italiana e, più in generale, del nuovo contesto in cui si trova immerso, gestendo la raccolta d’informazioni utili come il ricongiungimento familiare, il pagamento delle multe, l’invio di rimesse in Cina, ecc. (Ceccagno 1999). 6 È pregiudizio comune tra gli italiani che i cinesi siano per definizione una comunità chiusa, che non intende avere rapporti, se non occasionali, con la società esterna e che, quindi, nemmeno si sforza di conoscerne la lingua, gli usi e i costumi. In realtà, questa convinzione errata è frutto di molteplici fattori, quali: – l’informazione semplicistica fornita dai mass-media, che spesso descrivono la comunità cinese come arroccata in impenetrabili e misteriose Chinatowns, luoghi non solo chiusi, ma anche socialmente pericolosi (Cremona, De Cecco 2009). In realtà, però, lo sviluppo di modelli d’insediamento etnico concentrato in determinati quartieri non è prerogativa delle comunità cinesi (basti pensare alle varie Little Italy sparse per il mondo), ma è piuttosto simbolo della volontà di non dispersione territoriale; – il fatto che i cinesi si occupino tradizionalmente di settori economici ben precisi: ristoranti, confezioni, abbigliamento, pelletteria; – i ritmi di lavoro intensissimi, che privano del tempo e della possibilità materiale di ritagliarsi degli spazi per tessere rapporti sociali al di fuori della cerchia dei connazionali con cui si vive e si lavora; – il bisogno, seppure non manchino adeguamenti pragmatici e contaminazioni dinamiche con il
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Note
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la seconda nel 2006 in concomitanza con l’anno dell’Italia in Cina e la terza nel maggio del 2010) rischia di far perdere la bussola sulle grandi opportunità che un Paese come l’Italia potrebbe avere qui. Ha fatto bene, però, la Puglia ha organizzare workshop e cineforum: danno visibilità immediata al nostro Paese, grazie al loro impatto diretto e veloce. Lo stesso dicasi per la ricerca sull’energia pulita, che anche qui in Cina è il futuro: prima ci si propone sulla green economy, prima potremo firmare dei buoni accordi.
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nuovo contesto in cui si trovano immersi, di un punto di riferimento che “esprima un’autorevolezza non in contrasto con alcuni valori che gli immigrati portano con sé” (Ceccagno 1999); – la difficoltà oggettiva di apprendere la lingua italiana, la cui conoscenza sancisce le premesse di un successo sociale, come si rileva in Basso 2009, acuita del fatto che spesso i cinesi, in virtù della pluralità dei dialetti parlati nella madrepatria, non hanno nemmeno un’omogenea conoscenza della loro lingua madre. In effetti, la presenza di un contesto comunitario così forte alle spalle, la mancanza di condizioni pratiche per seguire un corso di lingua italiana e il motore che spinge gli adulti cinesi a raggiungere il nostro Paese (l’Italia non è scelta come alternativa alla propria patria, un Paese dove ricominciare da capo, ma come una tappa in un percorso migratorio che auspicabilmente per la prima generazione prevede il rientro in Cina in età avanzata) rende questo sforzo non necessario a tutti i suoi membri: l’apprendimento della lingua del Paese ospitante è un compito che viene delegato solo ad alcuni membri della comunità – quelli della prima generazione che si trovano più a diretto contatto con i cittadini autoctoni o quelli della seconda generazione –, che si rendono disponibili agli altri in caso di necessità (Pedone 2008). 7 La somma necessaria per il progetto migratorio è molto variabile: dipende dai costi effettivi del viaggio e delle pratiche burocratiche, dalla monetarizzazione dell’appoggio che i parenti già residenti in Italia offrono per inserire l’ultimo arrivato nel nuovo contesto, ecc. Un ingresso su chiamata diretta può costare tra i 18 e i 20 mila euro, cifra che l’immigrato può ripagare soltanto lavorando sodo – e gratis – per almeno due, tre anni. Se a fare da intermediario è un parente, gli anni di lavoro gratis possono diminuire. Così come spariscono se il cinese è pronto a saldare il debito, magari grazie ai prestiti ottenuti dalla sua rete di conoscenze (Oriani, Staglianò 2008). Bisogna precisare, però, che la disponibilità al duro lavoro e all’autosfruttamento, in quanto strumenti per una rapida affermazione economica e sociale, vengono percepiti dai lavoratori cinesi come una necessità transitoria: un periodo durante il quale ripagare i propri debiti e acquisire competenze e contatti con il mondo della diaspora e con la realtà d’accoglienza, da utilizzare successivamente per il proprio progetto imprenditoriale (Ceccagno 1999). Non bisogna dimenticare, infine, che non sempre l’immigrazione avviene in maniera regolare: spesso il migrante viene gettato in balia di organizzazioni ben strutturate che ricevono ingenti somme di denaro per predisporre una falsa documentazione e per far trovare ai clandestini dei connazionali già residenti all’estero, i quali si incaricano di trovare loro ospitalità e lavoro. 8 Laddove i rapporti d’affari devono essere intrapresi anche con persone non legate da vincoli parentali, gli imprenditori cinesi tendono a trasformare l’interazione in qualcosa di quanto più simile possibile al rapporto che intercorre tra i membri di una famiglia (Ceccagno 1999). 9 Secondo i dati raccolti dalla Camera di Commercio Industria e Artigianato di Milano le ditte individuali cinesi in Italia sono aumentate considerevolmente a partire dal triennio 20002003: erano 8.778 al 31 dicembre 2000, e quasi il doppio (15.937) nel 2003. 10 Articolando maggiormente questa classificazione, tra le “imprese etniche” si possono distinguere: – “imprese tipicamente etniche”, che rispondono alle esigenze peculiari di una comunità straniera ben insediata, fornendole prodotti/servizi specifici che non sono facilmente reperibili sul mercato normale (ad esempio, prodotti alimentari); – “imprese esotiche”, che offrono prodotti derivati dalla tradizione culturale del proprio Paese di origine (ad esempio, ristorazione); – “imprese rifugio”, non identificabili con un settore merceologico preciso, ma comunque orientate sia verso il gruppo etnico, sia verso il mercato aperto. Tra le imprese “non etniche”, invece, Ambrosini include: – “imprese intermediarie”, che offrono alla popolazione immigrata prodotti/servizi che, per essere fruiti, necessitano di una “mediazione” basata sulla fiducia (ad esempio, consulenze legali o professionali, agenzie di viaggio, ecc.); – “imprese aperte” che, identificandosi meno su base etnica, tendono a competere in settori labour intensive (ad esempio, pulizie, trasporti, edilizia, abbigliamento, ecc.). 11 Oggi, tuttavia, si assiste a un significativo gap culturale: se le prime generazioni di immigrati scelgono di aprire quelle attività che vengono ormai inevitabilmente associate alle comunità cinesi, i figli, spesso più integrati, dopo il lavoro nell’azienda di famiglia decidono di continuare gli studi e abbandonare la via tradizionale, per andare ricerca del proprio ruolo nel mondo
Bibliografia Ambrosini, M., 1999, Utili invasori. L’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, Milano, Franco Angeli. Ambrosini, M., 2001, “Immigrati e lavoro indipendente”, in G. Zincone, a cura, Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, pp. 366-392. Barocci, T., Liberti, S., 2004, Lo stivale meticcio. L’immigrazione in Italia oggi, Roma, Carocci. Ceccagno, A., 1999, Nei-Wei: interazioni con il tessuto socioeconomico e autoreferenzialità etnica nelle comunità cinesi in Italia, «Mondo Cinese», n. 101. Ceccagno, A., 2002, “Prime riflessioni sulla mobilità economica e sociale dei cinesi di Prato”, Atti del convegno «Imprenditoria degli immigrati cinesi», Vicenza, 5 marzo. Cremona, R., De Cecco, V., 2009, Miss Little China, Milano, Chiarelettere. Ma Mung, E., 1992, Dispositif économique et ressources spatiales: elements d’une économie de diaspora, «Revue Europeenne des Migrations Internationales» vol. 8., n.3. Oriani, R., Staglianò, R., 2008, I cinesi non muoiono mai, Milano, Chiarelettere. Pedone, V., 2008, Il vicino cinese, Roma, Nuove Edizioni Romane. Quattrocchi, P. , 2005, L’imprenditorialità cinese a Trieste. Peculiarità, dinamiche e prospettive, «Quaderni del Dipartimento di Economia, Società e Territorio. Università di Udine», n. 55.
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(Basso, 2009). “Le cinesi d’Italia, [con] le loro aspirazioni da adolescenti, [sono] così simili alle ragazze italiane. (...) Nelle pause di turni estenuanti, quelle mamme che credevamo macchine da lavoro si emozionano sino a piangere parlando delle figlie. E queste, dal canto loro, sono sicure soltanto di una cosa: non voler ripetere la vita sfinente dei genitori” (Cremona, De Cecco 2009). 12 È singolare notare come, se i ristoranti cinesi non vengono percepiti come concorrenti dai gestori di pizzerie e osterie italiani, lo stesso non si possa dire per gli altri settori di attività (Quattrocchi 2005). Qui i cinesi si sono inserirti sul territorio attraverso meccanismi propri (quali, ad esempio, la propensione al lavoro autonomo, la mentalità imprenditoriale, il familismo economico, ecc.) che hanno però saputo rielaborare in funzione del contesto in cui, di volta in volta, si sono trovati. Nel nostro Paese, poi, il tessuto socio-economico di medie e piccole dimensioni, spesso a carattere familiare anche quando gestito da italiani, si è rivelato perfetto per la gestione dell’impresa cinese. Ovviamente non si è trattato di un processo semplice, o breve, quanto piuttosto di una continua negoziazione di spazi con la comunità economica autoctona, che ha dato vita a non pochi conflitti e problematiche: è idea comune, tra gli italiani imprenditori ma non solo, che la proliferazione di attività con titolare cinese abbia procurato un calo di clientela nelle attività (soprattutto negozi) a gestione italiana, e che dunque essa rappresenti un pericolo per l’economia autoctona. 13 Caratteristica generale dei punti vendita cinesi, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento, risulta essere quella dell’offerta mista, rispetto alla specializzazione: sebbene, infatti, gli articoli esposti nelle vetrine siano principalmente articoli di abbigliamento, sia maschile che femminile, molti negozi vendono anche altri prodotti, che possono andare dai piccoli articoli di elettronica ai giocattoli o all’oggettistica in generale. Proprio la varietà e la larga disponibilità di merci, unito al basso prezzo, sembra essere il fattore di maggiore attrazione per i consumatori italiani: i clienti, infatti, apprezzano la possibilità di “essere sempre alla moda, spendendo poco”, indipendentemente dalla qualità della merce (una delle giustificazioni che maggiormente viene addotta è che “anche se un capo si butta via prima, si è speso poco per comprarlo”). I titolari dei punti vendita lo hanno capito e, soprattutto per quanto riguarda la clientela di giovane età e di sesso femminile, si sono dati da fare per rifornirsi di merce con maggior frequenza (si arriva anche a ritmi di una volta alla settimana). Ancora una volta, l’imprenditore cinese si è dimostrato capace d’intuire dove stava andando al mercato, e di farsi trovare pronto. 14 Rileva Ceccagno (1999): “complessivamente, l’arrivo di tanta manodopera dalla Cina e il tentativo di molti di avviare un’attività in proprio da micro-imprenditori, hanno prodotto un’esasperazione della concorrenza interna che ha ulteriormente eroso i margini di redditività”, oltre che portato profonde lacerazioni all’interno del gruppo familiare, sebbene la famiglia resti ancora “un vantaggio competitivo irrinunciabile della vita dell’emigrazione”.
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Sitografia www.agichina.it www.associna.it www.cineresie.info www.chinaitaly.info http://ggii.cqu.edu.cn www.italychina.org
Franco Martina Intellettuali. Tra “vergini idee” e “non sempre casti appetiti”.
Nel suo libro su Kant, mettendo a confronto la cultura francese e quella tedesca, Lucien Goldmann usò le metafore di ‘sano’ e ‘malato’, desunte da Goethe, per dire di una società rivolta al suo esterno, attiva e capace di operare; e di un’altra concentrata sulle sue patologie e perciò bloccata. Con le dovute modifiche questa distinzione può essere applicata forse alla discussione in corso intorno alla figura dell’intellettuale. Pur guardata da un’ottica nazionale, nella discussione si possono distinguere due ambiti abbastanza chiaramente: quello relativo a chi lavora alla delegittimazione delle figura stessa dell’intellettuale; e quello che riflette invece sulla “crisi” che questa figura attraversa ormai dagli ultimi decenni del secolo scorso. Il primo ambito non può certo essere circoscritto alla sola realtà italiana, basti per tutti ricordare il libro di Paul Johnson, Intellectuals, del 1988. Anche se qui presenta indubbiamente aspetti e articolazioni che rendono la discussione non solo particolare ma addirittura rilevante in un orizzonte generale. Il secondo ambito è invece quello che merita maggiore attenzione. Guardare la figura dell’intellettuale dal punto di vista della “crisi”, obbliga ad interrogarsi sul senso del passaggio di significato impostogli dalla nuova realtà politico-sociale. L’eclisse, l’afasia, le tante formule, insomma, con le quali si è richiamata la crisi della figura dell’intellettuale non rimandano, infatti, ad una sua scomparsa. 1. Anche se, come ha ricordato di recente Umberto Eco (Alfabeta 2, 2010, pp. 3-4) il suo nome acquista un significato sostantivo solo alla fine dell’Ottocento, la figura dell’intellettuale è in realtà nata con la modernità ed è indissolubilmente legata ad essa. L’intellettuale nasce insieme all’opinione pubblica, cioè all’interno di una straordinaria congiuntura che interseca scoperte tecniche e trasformazioni economico-sociali con una profonda rivoluzione scientifico-filosofica. Il concetto di modernizzazione va comunque precisato, nel senso che esso rimanda non solo ad un fenomeno con una precisa collocazione spazio-temporale, quella dell’Europa tra il XV e il XVIII secolo, ma a un processo che si sviluppata incessantemente nello spazio e nei caratteri originali, producendo sempre nuovi e più complessi equilibri. Almeno in questo senso appare plausibile la tesi di Jack
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Goody quando sostiene l’idea di una modernizzazione che non è solo uno stadio della storia, ma un processo in costante trasformazione con un continuo scambio tra diversi centri: “Ritengo, scrive, che possiamo considerare la crescita della vita moderna come lo sviluppo a lungo termine di queste grandi ‘costellazioni’, e dell’interscambio di beni, servizi e idee al loro interno e tra di essi, meglio che secondo la classica periodizzazione di antichità, feudalesimo e capitalismo, ‘punteggiati’ di rivoluzioni” (Goody, 2005, p. 197). Tuttavia, ammettere che la modernità muti continuamente il suo orizzonte e il suo baricentro, non comporta di mettere in discussione né l’enorme potenza di cambiamento prodotta dalla modernizzazione originaria, né la sua perdurante importanza ed attualità, se solo essa viene considerata in tutta la ricchezza delle forme che la costituivano. Fu infatti in quel contesto che cambiò definitivamente il rapporto tra sapere e potere, tra cultura e politica. Un rapporto, comunque, complesso, articolato, contradditorio. La figura dell’intellettuale è figlia diretta di quella complessità e, se si vuole, di quelle contraddizioni. La nascita dell’opinione pubblica, rompe le sfere entro cui erano rispettivamente chiusi sapere e potere, rendendo il rapporto non solo “aperto” ma anche libero e quindi incerto dal punto di vista del reciproco dominio. Un’incertezza dovuta al fatto che la cultura produce un effetto che va all’esterno di se stessa. L’esigenza di un sapere operativo, l’istanza di una cultura comunque utile agli uomini, presenti sia nella cultura umanistica e rinascimentale, sia nella Rivoluzione scientifica che nella Riforma protestante, dovevano rompere la più che millenaria concezione delle discipline, fissata nell’enciclopedia aristotelica, per investire non solo la meccanica ma anche l’astronomia, non solo la politica ma anche la religione. In questo contesto il sapiente non è responsabile solo di fronte ai principi del suo sapere, ma anche nei confronti di quanti potrebbero subire gli effetti del suo sapere. 2. La figura dell’intellettuale segue necessariamente la nuova dialettica della modernità, essa cambia in relazione al modificarsi di precise condizioni economico-sociali e politiche. Ma la sua ‘crisi’, la fase della ‘malattia’, per usare la metafora di Goldmann, va collocata in un tempo relativamente più recente, quello che coincide non con il secolo ‘breve’ ma con quello ‘lungo’; non con lo scontro tra totalitarismi e democrazia, o meglio tra fascismo, comunismo e liberaldemocrazia, ma con la storia europea a partire dal 1870, quando un nazionalismo aggressivo avvita l’Europa in un crescendo di violenza tragica che tocca i suoi livelli catastrofici con la seconda guerra mondiale e poi, come per effetto di un sortilegio malefico, apre lo scenario globale di una nuova, più terribile eventualità bellica con l’unico esito possibile di una distruzione planetaria. Tanto dolore, tanto sangue non fu l’effetto di forze lontane e estranee, di popoli rozzi e incivili guidati da dèi crudeli e da astuti sacerdoti. Essi sgorgavano dal cuore della civiltà occidentale. Occorreva pure chiedersi perché i due pilastri su cui poggiava l’architrave della modernità, lavoro e libertà, fossero finiti sul cancello d’ingresso ad Auschwitz.
Quindi è possibile chiedersi se quell’enorme esperienza collettiva, il cui senso è stato per anni come velato, non costituisca una straordinaria risorsa non per recuperare una ‘memoria’, quanto per ricostruire la storia effettuale, nella quale sola è contenuto il senso della realtà che abbiamo vissuto e che ci può ancora aiutare ad affrontare le sfide straordinarie che abbiamo di fronte. Un contributo importante in questa direzione lo offre il bel libro di Leonardo Paggi. Pur costruito con l’obiettivo di rintracciare nel “popolo dei morti”, secondo l’espressione di Piero Calamandrei, cioè nel contributo di sangue, e nella pur limitata consapevolezza politica che ne derivò, il fondamento vero della Repubblica, il lavoro di Paggi va ben oltre l’orizzonte italiano. Esso infatti riguarda una più generale convinzione: che la guerra abbia rappresentato la più importante frattura nella coscienza politica europea, al di là della pur decisiva contrapposizione tra fascismo e antifascismo. Un’esperienza collettiva tanto più rilevante perché effetto di esperienze personali dirette e perciò fortissime. Paggi costruisce la sua argomentazione oltre che su fonti storico-archivistiche anche su quelle letterarie, cioè sulla coscienza riflessa di quanti vissero quell’espe-
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Non mancò chi avvertì subito l’enormità del pericolo incombente e la portata della posta in gioco. Con il senno del poi, è impressionante la lucidità del ‘Discorso all’umanità’ che conclude Il grande dittatore (1940) di Chaplin. Né chi dall’esperienza diretta della guerra fu costretto a modificare radicalmente valori e visione della realtà, sentendo il dovere di dirlo pubblicamente. Il caso più significativo è quello di Ernest Jünger, il cui percorso da Nelle tempeste d’acciaio (1922) a La pace (1945) è stato efficacemente sottolineato da Leonardo Paggi. Ma a simili prese di posizione non seguì una coscienza diffusa, chiara e immediata; essa invece ha richiesto un processo lungo e faticoso, come dimostra soprattutto il riconoscimento della portata e dell’importanza della Shoah. Ovviamente il caso di Primo Levi è centrale. Un processo per altro lontano dall’aver raggiunto risultati soddisfacenti e che anzi risulta ancora, per molti aspetti, ambiguo e contraddittorio. Occorre dire che troppo potente è stato l’effetto di disorientamento prodotto dalla logica della guerra fredda prima e dell’11 settembre poi: come una tempesta magnetica sull’ago della bussola. Solo ora quella tempesta sembra allentarsi.
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Interrogativo a cui non si poteva rispondere con le formule del nichilismo e dell’irrazionalismo. Così come ancora oggi non ci si può sottrarre dal riflettere sulle conseguenze scaturite dalla combinazione di colonialismo e antisemitismo che Leonardo Paggi, seguendo Amos Oz di Contro il fanatismo, definisce come “le due grandi derive catastrofiche dello Stato nazione dal 1870 al 1945” (Paggi, 2009, p. 72). In quel punto la pur ferma convinzione del ‘nesso’ tra politica e cultura cambiò di senso. Fu come se i veleni delle camere a gas, il sangue dei civili innocenti, la luce abbacinante del sole artificiale distruggessero anche antichi recinti e antiche certezze. Parlare di purezza della cultura, della sua separatezza, a quel punto, era semplicemente empio. Si facevano chiari insomma i contorni della nuova “trahison des clercs”.
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rienza. Più esattamente egli usa la poesia come testimonianza che fa emergere ciò che nessun documento d’archivio può: i riflessi nella coscienza individuale degli eventi vissuti. Paggi si serve della nozione heideggeriana di ‘pensiero rammemorante’ per indicare l’orizzonte attivo e propositivo che la parola poetica riesce a dare al ricordo del passato. Non solo Montale e Calamandrei, ma anche Sereni e Saba consentono di far emergere una condizione diffusissima che tuttavia, per usare un’espressione facile, non trovava cittadinanza. A proposito di Sereni, Umberto Saba usò la formula di “ebrei esclusi”, per denotare la condizione esistenziale di chi avendo vissuto una catastrofe non si vedeva ‘riconosciuto’. Era la condizione di quella che Sereni definì la “gioventù in malora”, quella “esclusa dal futuro”. 3. Non si può porre l’interrogativo sull’importanza che ancora può avere la figura dell’intellettuale se non collocandolo sullo sfondo di questi problemi, maturando una più esatta coscienza della storia europea tra la fine dell’Otto e la prima metà del Novecento. Sicché quella rilevanza emerge in tutta la sua nettezza, accompagnata però da due consapevolezze. La prima è quella di non concedere alla politica (al potere) il monopolio della gestione e soluzione dei problemi, tanto globali quanto locali. Su questo punto è sempre bene avere presenti le parole di Norberto Bobbio: Non si tratta…di respingere la politica, ma si tratta…di trascenderla continuamente, pur riconoscendone la funzione indispensabile. Le idee senza forza, lo so, sono fantasmi. Ma anche i fantasmi hanno talora la loro forza. ‘Un fantasma si aggira per l’Europa’: chi lo ha dimenticato? E perché non ricordare quel re barbaro che sul letto di morte continuava a ripetere: ‘Ci sono cinquanta giusti che mi impediscono di dormire’? La forza è tanto necessaria che senza quel processo di monopolizzazione della forza in cui consiste lo Stato, le società umane, almeno sino ad ora, non potrebbero sopravvivere…Il primo compito degli intellettuali dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il monopolio della verità. (Bobbio, 1993, p. 125). La seconda consapevolezza comporta di non perdere mai di vista dietro la potenza della tecnica l’enorme rilevanza etica delle sue applicazioni. Non occorre essere d’accordo con tutte le sue conclusioni per riconoscere la validità del quadro problematico che Aldo Schiavone ha posto alla base del suo Storia e Destino (2007). Riflettendo sulla formidabile ‘rivoluzione’ che stiamo vivendo, egli osserva: ”prima ancora che di politica, la rivoluzione della tecnica ha bisogno di etica. Di storia attraversata da disciplinamento morale” (Ivi, p. 89) e poco prima aveva osservato: ”abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, costruttore di una razionalità integrata e globale al passo con le nostre responsabilità” (Ivi, p. 81). Dopo la guerra del Golfo, mentre negli Stati Uniti la figura dell’intellettuale ascillava tra il modello trionfale che proclamava ‘The End of History’ e quello catastrofista che invece poneva l’interrogativo su una prossima ventura ‘Clash of Civizations’, Edward Said avviò una riflessione sul dovere dell’intellettuale come
In polemica diretta con Lyotard, egli individua il fine ultimo dell’attività intellettuale nella promozione della libertà e della conoscenza (Ivi, p. 32), per poi fissare con nettezza alcune sue caratteristiche di fondo che vale la pena ricordare per intero: Caratteristica prima dell’intellettuale…è il fatto di essere una persona capace di rappresentare, incarnare, articolare un messaggio, un punto di vista, un atteggiamento, una filosofia o una convinzione di fronte a un pubblico e per un pubblico. Questo ruolo è un’arma a doppio taglio. È indispensabile, per tanto, che non venga mai meno la consapevolezza di essere qualcuno la cui funzione è di sollevare pubblicamente questioni provocatorie, di sfidare ortodossie e dogmi (e non di generarli), di non lasciarsi facilmente cooptare da governi o imprese, di trovare la propria ragion d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate oppure censurate. Questo modo di agire dell’intellettuale si fonda su principi universali: tutti gli esseri umani hanno il diritto di aspettarsi dai poteri secolari o dallo stato modelli di comportamento dignitosi in fatto di libertà e di giustizia; la violazione deliberata o involontaria di tale diritto va denunciata e combattuta con coraggio (Ivi, p. 26).
4. Una riflessione sulla figura dell’intellettuale non può prescindere dalla grande lezione di Eugenio Garin. È quanto riconoscono due recenti libri che, direttamente o indirettamente, trattano il tema. Uno è di Michela Nacci, Storia culturale della Repubblica, e l’altro una impegnativa Intervista sugli intellettuali data da Alberto Asor Rosa a Simonetta Fiori. Bisogna partire dal fatto che Garin riprende la convinzione crociana della “separazione impossibile” tra politica e cultura, intendendola però in senso profondamente diverso. In generale, porre in relazione i due termini significava negare il presupposto di una cultura intesa come dimensione separata dalla vita; significava, insomma, riconoscere negli uomini la radice prima e ineludibile della cultura stessa, dello Spirito. Ma quando Croce pone come fondamentale il rapporto tra la cultura e gli uomini, egli pensa
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Durante la recente Guerra del Golfo contro l’Iraq, non era facile ricordare ai cittadini che gli Stati Uniti non erano una potenza innocente o disinteressata… né che si erano autoconferiti il mandato di poliziotti del mondo. Eppure in quel momento quello era principalmente il compito che spettava all’intellettuale: dissotterrare ciò che era stato dimenticato, ripristinare i collegamenti che venivano negati, mettere in luce modalità di intervento alternative che avrebbero potuto evitare la guerra e l’inevitabile conseguente obbiettivo di distruggere vite umane (Said, 1994, p. 36).
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coscienza critica dalla politica e della società, non mancando di dare un esempio con un giudizio diretto:
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soprattutto alla cultura, perché ha in se stessa la sua ragion d’essere. Mentre Garin pensa soprattutto agli uomini. Occorre partire da questa fondamentale differenza per comprendere meglio come alla base del monumentale lavoro storiografico di Garin ci sia non tanto una valutazione metodologica, quanto una vera e propria filosofia, ossia una generale visione della vita, analoga a quella che egli aveva messa in evidenza per Machiavelli, per Leonardo, per Galilei o per l’Alberti. Garin vede, come altri, in Croce un modello intellettuale, reso tanto più affascinante dalla visione tragica della vita, totalmente priva di quelle pulsioni mistiche che si intuivano nel pensiero di Gentile. Ma quella figura era terribilmente segnata dal tempo. Croce non volle riconoscere l’emergere delle forme di soggettività di massa; non poteva concepire una soggettività diversa da quella individuale; né poteva accettare ciò che essa postulava: ossia una filosofia della storia in grado di spingere quel “noi” verso una meta. La tragicità della sua figura intellettuale era proprio lì: nella consapevolezza, da un lato, del fallimento del liberalismo storico di farsi forza politica di emancipazione all’altezza di questa nuova realtà e, dall’altro, dell’emergere di forze nuove che egli sentiva come potente veicolo di irrazionalità e quindi come potenziale strumento dell’irrazionalismo. Per Croce l’intellettuale è colui che deve attraversare questo passaggio storico non testimoniando i propri convincimenti ma combattendo per la verità e per la sua vittoria. Per Croce, insomma, l’intellettuale non è il sacerdote della verità, ma uomo tra gli uomini che si batte per la libertà. Questo il suo lascito, dopo l’esperienza fascista, questa la sua perdurante attualità. Poggiava su questa convinzione l’affermazione della “separazione impossibile” di politica e cultura. Questo stesso convincimento ha in Garin tutt’altra motivazione. Egli sentì e fu coinvolto dalle speranze e, in parte, dalle passioni del “Secolo breve”, ma è riduttivo e sbagliato leggere il suo contributo alla cultura italiana in quest’unica direzione, fino a ridurlo a “mandarino della sinistra”, come ebbe a definirlo uno storico alla moda. Garin non condivise la chiusura nei confronti delle masse, nel senso che non considerò la loro richiesta di soggettività come un cedimento o come una pericolosa avventura, bensì come un dovere connaturato alla cultura, il cui carattere universalistico si contraddice quando si chiude all’uomo, in tutte le sue dimensioni; non negò l’importanza di organizzazioni e strutture che potenzino la soggettività. Ma ciò non comportò alcuna adesione alla teoria e, men che mai, alla pratica dell’intellettuale collettivo. Michela Nacci osserva l’intima contraddittorietà tra la presunta vocazione universalistica dell’intellettuale (della cultura) e il suo impegno (politica). Ma questo non è un problema che riguarda Garin, quanto la stessa figura dell’intellettuale, come si è cercato di dire. La lezione più significativa su questo punto, egli l’ha data ricostruendo la storia di una cultura, in gran parte italiana, che ha sempre, coerente con il ‘suo’ umanesimo, un orizzonte civile e politico. Una concezione della cultura ha il suo punto di forza non nella logica, quanto nella capacità di reggere l’urto implacabile di forze potentissime che, in forme e tempi diversi, hanno un unico obiettivo, quello di tenere sotto scacco la ragione.
Stimolato da Simonetta Fiori a un confronto con Garin che si era prestato a un’analoga ‘intervista’ più di un decennio prima, Asor Rosa esce in un giudizio preciso: Con Garin…siamo stati testimoni delle ultime manifestazioni di un’opera intellettuale fondata sul presupposto che la storia avesse un senso, che si potesse influire su quel senso o, ammesso che quel senso fosse perduto o lacerato, occorresse lavorare per ridefinirlo. Tutto questo non esiste più. Ecco, forse bisogna partire da qui. Capire cosa è stato l’intellettuale occidentale nel corso di due secoli, e quali colossali cambiamenti siano intervenuti in questi ultimi decenni (cit. p. 6).
Sarebbe del tutto improbabile, anche a uno studioso della statura di Asor Rosa, dimostrare l’esistenza di una qualunque filosofia della storia correlata in qualche modo al lavoro storico di Garin. Su questo punto, anzi, si può dire che egli era perfettamente d’accordo con Croce. Ma il fatto di non credere che la realtà e la storia abbiano una razionalità e un senso propri, non vuol dire che l’uomo non abbia bisogno di dare razionalità alla realtà e senso alla storia. In una passaggio della Critica del Giudizio in cui Kant affronta il problema della finalità della natura, si può leggere una pagina utile, forse, anche al di fuori del preciso ragionamento che sorregge: Come l’unico essere che sulla terra abbia un’intelligenza, e quindi una facoltà di porsi volontariamente degli scopi, egli è, in verità, il ben titolato signore della natura; e, se
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Ciò su cui invece occorrerebbe riflettere, proprio partendo dal rapporto di un uomo come Garin con il PCI in particolare, riguarda il tema della famosa egemonia della cultura di sinistra e, più precisamente, di quella di matrice marxista. Che nel secondo dopoguerra in Italia ci sia stata un’egemonia ‘comunista’ cioè della cultura riconducibile al marxismo si può considerare un dato di fatto. Ciò non vuol dire che non ci fossero altre e più forti proposte e prospettive culturali dal punto di vista quantitativo. Ma fu soprattutto sul versante marxista che la dimensione culturale assunse una vitalità capace di trainare il dibattito e di sviluppare la ricerca. Senza tuttavia negare tendenze, acuitesi soprattutto a partire dai tardi anni Sessanta ad una autoreferenzialità della discussione che si tradusse in una sorta di scolastica marxista. Una distinzione tra propaganda ed egemonia è centrale per sottrarre il tema alla polemica che lo riduce a solo effetto dell’astuta politica culturale togliattiana e per riconoscerlo come un momento della nostra storia, non solo culturale, di cui occorre ancora descrivere i contorni precisi e definire il significato storico. Una prospettiva egemonica vive e si alimenta non solo di una profonda discussione interna, che di fatto ne costituisce la fonte propulsiva, ma anche nel confronto con altre diverse o contrapposte prospettive. Perciò una politica egemonica non solo si deve tradurre in un generale arricchimento culturale, cioè universalmente valido, ma deve poter produrre cambiamenti politici. Il posto di Garin nel dibattito egemonico della sinistra va collocato in quest’ottica, a partire dalla recensione di Roderigo di Castiglia alle Cronache di filosofia italiana, passando per il secondo convegno di studi gramsciani del 1967 e finendo ai suoi interventi sulla morte del PCI.
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questa si considera come un sistema teleologico, egli ne è, per la sua destinazione, lo scopo ultimo; ma sempre condizionatamente, cioè a condizione che sappia e voglia dare alla natura e a se stesso una finalità sufficiente per se stessa e indipendente dalla natura e che quindi possa essere uno scopo finale, il quale però non deve essere cercato nella natura (Kant, 1970, p. 307).
Certo, se la storia rappresenta un “onnivoro presente”che si muove senza avanzare in una dimensione ‘liquida’, allora non c’è alcuna possibilità per il lavoro dell’intellettuale, perché la leva che egli adopera, la critica come strumento che gli consente di incidere sulla realtà per modificarla, non può essere usata, è inutile non solo perché manca ‘l’oggetto’ su cui poggiarla, ma anche la possibilità di sapere che cosa è ‘avanti’ e ‘dietro’. La piena realizzazione dell’annuncio dell’uomo folle si traduce di fatto nella piena legittimazione di quegli atteggiamenti minimalisti di cui c’è ampia varietà nel nostro presente. Ma Garin si muoveva su una linea completamente diversa. Quando dice che compito dell’intellettuale è quello di dire la verità, non pensa certo all’algida verità della scienza né a quella infuocata dell’ideologia, bensì alla verità emersa dalla catastrofe della storia novecentesca. Egli delineò una figura di intellettuale che non è un incantatore di serpenti, un sapiente interprete dei fatti. La sua ricerca della verità non poggia sulla volontà, ma sulla filologia, sulla storia, e, poi, secondo l’insegnamento socratico, sul dialogo, cioè sul confronto razionale in un orizzonte di apertura. Tradotta dalla filosofia alla politica, quella lezione doveva portare alla dialettica, negata da Croce, di libertà e democrazia: la libertà che non si può affermare senza generare conflitti, e la democrazia come solo metodo che compone i conflitti pacificamente senza conculcare le libertà. 5. L’affermazione di Heidegger, contenuta in quella ultima intervista considerata il suo testamento intellettuale, secondo la quale “solo un dio ci può salvare”, aveva probabilmente una sua verità. La formidabile esperienza della guerra, e di ciò che seguì, non sarà un ‘passato’, cioè oggetto di memoria soggettiva, solo se, continuando un cammino intrapreso, il suo insegnamento diventerà il fondamento di una nuova religio, cioè di una verità condivisa alla quale non siamo arrivati né per via di ragione né per via di fede, bensì attraverso l’esperienza diretta di una catastrofe che ha sommerso milioni di uomini al di là di ogni convincimento culturale. Il dovere dell’impegno della cultura scaturisce dal “popolo dei morti” e si deve legittimare esclusivamente in quello che Kant chiamava Gemeinsinn (‘sensus communis’), opinione pubblica. Resistendo al fascino consolatorio delle ‘vergini idee’ e al lezzo dei ‘non casti appetiti’. Trasferire quell’esperienza particolare in insegnamento universale è la ’missione’ dell’intellettuale: quello è il ‘dio’ che ci può salvare. Se è vero che un dio è tale solo perché è sentito”in interiore homine”. E solo gli intellettuali possono fare di una verità universale una coscienza diffusa, una religio appunto.
Franco Martina
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Bibliografia
Vicini e lontani
Reset
Daniele Lamuraglia Disconnessioni (Wired e culti adolescenziali) Il nuovo è uno di quei veleni eccitanti che finiscono per essere più necessari di qualsiasi nutrimento; succede che, una volta impadronitisi di noi, sentiamo il bisogno di aumentarne sempre la dose e renderla mortale fino alla pena di morte. È strano attaccarsi così alla parte deperibile delle cose, che è esattamente la loro qualità di essere nuove. Voi non sapete dunque che bisogna dare alle idee più nuove, non so quale certa aria di essere nobili, non affrettate, ma maturate; non insolite, ma esistenti da secoli; e non fatte e ritrovate questa mattina, ma soltanto dimenticate e ritrovate. Paul Valéry
Per trovare un’immagine capace di rappresentare lo stato attuale del nostro universo linguistico, non c’è bisogno di andare molto lontano. Basta lasciarsi andare al flusso ininterrotto di pubblicità-desideri che tappezza le pareti del nostro labirinto quotidiano, e ci si ritrova ai Grandi Magazzini, nella pancia del gigante, a rovistare tra i rimasugli ben confezionati della sua digestione. Le ultime generazioni di occidentali hanno vissuto un passaggio epocale: dall’acquisto di beni di prima necessità nel negozio, all’acquisto di beni di consumo nel supermercato. La pulsione d’acquisto, trasferitasi dalla necessità al consumo, correlata al trasloco dei beni dal negozio al supermercato, è un’analogia proporzionata a ciò che è accaduto al linguaggio. Le frasi del nostro idioma si erano adattate alla dimensione del negozio, a quelle geometrie fisiche e psicologiche che disegnavano il dialogo tra chi vendeva e chi comprava: la linea del marciapiede, il perimetro del quartiere, l’altezza delle case, la circonferenza delle mura della città. Le parole sono anche la misura delle cose: hanno un’estensione relativa alle esperienze che abbiamo vissuto o conosciuto. Ogni parola richiama dal serbatoio della memoria un’immagine, che ha la sua collocazione nel tempo ma anche la sua disposizione in uno spazio. La sensazione che molti oggi percepiscono dell’attuale universo comunicativo è simile a quella dell’inesperto avventore del grande magazzino che, non trovando il bancone del proprio negozio, né il rassicurante volto del negoziante, subisce una sorta di stupefacente stordimento: travolto dal sovrapporsi rumoroso di un insieme di suoni, voci, luci, colori, ne avverte per un attimo qualche singolarità, ma per venir subito distratto da un altro schiamazzante richiamo, ben presto anche quello disatteso dal successivo, senza riuscir più, alla fine, a distinguere l’una cosa dall’altra. Nell’ipermercato della comunicazione il cliente maturo cerca di comprare un segno e si perde; il giovane cliente vuol perdersi e viene comprato da un segno. Nessuno dei due sa leggere: il maturo perché non ritrova i segni del negozio, il giovane perché non ha avuto il tempo per conoscerli. Entrambi non dispongono di un adeguato sistema d’interpretazione dei segni.
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Pretia rerum imponere, dicevano gli stoici: imporre un prezzo alle cose. Il prezzo non lo deve decidere il venditore, ma l’acquirente. Distinguere una cosa dall’altra, una parola dall’altra, e attribuire ad ognuna dei valori. L’applicazione di questa filosofia sovvertirebbe le regole del mondo. Nell’apparente frastuono dei messaggi contemporanei, indisturbato per l’assenza di decodificatori e quindi libero di travolgere in un unico destino mittenti e riceventi, chi decide quali parole valgono di più e debbano avere un peso maggiore di altre? Alla Politica non crede più nessuno da anni, le scelte elettorali si fanno sulla base di un calcolo tra le promesse dei candidati e il proprio tornaconto personale. L’Economia ha smesso di dettare la verità assoluta dopo una crisi globale che l’ha mostrata talmente inattendibile razionalmente da rivelarsi nient’altro che una delle forme attraverso le quali si manifestano le religioni. I movimenti critici, antagonisti, alternativi, decimati da decenni di sconfitte e da un sistema che ha continuato imperterrito a moltiplicare i prodotti che gli venivano contestati, sta scomparendo in piccoli comitati di quartiere, divisi a loro volta dai personalismi che una radicale purezza ideale impone ai suoi ultimi agitati epigoni. La filosofia del Successo come sta? Trova ancora moltissimi candidati al sacrificio sull’altare del nulla, condito dalle mille possibilità della “bella vita”, ma provoca anche molti disagi, pentimenti, angosce, insicurezze, solitudini, nevrosi. E dunque, un interprete dei segni dove deve guardare per trovare qualcuno o qualcosa che rappresenti la Verità, dove può trovare un emittente di segnali che non venga contestato da nessuno o quasi? Potremmo dedicarci all’individuazione di una lista di parole-mana che fioriscono momentaneamente al di sopra delle altre ad indicare la via della saggezza. Per ora limitiamoci ad analizzare il caso di una rivista che è riuscita nell’impresa di apparire saggia, e dunque vincente, nel bailamme mediatico della nostra società. Si tratta di Wired, un mensile che porta un promettente sottotitolo: “storie idee e persone che cambiano il mondo”. La rivista ha da alcuni mesi un’edizione italiana, scaturita dal modello originario statunitense (sarebbe stata poco credibile e soprattutto poco vincente una provenienza diversa). Ogni mese, con circa 150 pagine patinate, ci viene insegnato come e chi cambia il mondo. Il primo forte e chiaro messaggio è perciò in copertina: si può essere ignoranti su tutto, ma non su come cambia e come fa chi cambia il mondo. Nessuno vuol rimanere all’oscuro sugli stravolgimenti epocali che si svolgono mensilmente, benché il mio fornaio (che però non legge Wired) afferma di non aver notato ancora mutamenti significativi né nel nostro quartiere, né dal telegiornale. Ma tranne il mio fornaio e per adesso la maggioranza della popolazione del paese, questa rivista la si può vedere sottobraccio ad alcune tipologie di persone che rappresentano la punta avanzata della nostra società. O perlomeno loro si percepiscono così, ed il possesso della rivista non fa che dargliene la conferma, un po’ come il cane che si morde la coda. Lo studente universitario informato, il manager in carriera, l’avvocato dei diritti civili, l’assessore alla cultura, il grafico del web, il professore di liceo, l’artista creativo, il precario in attesa di esplodere, tutti sono connessi a questa rivista. La
Peccato per l’identità, tuttavia, come semplici interpreti di segni, e quindi fuori da ogni resoconto morale, possiamo dare per probabile che questo nucleo di persone, che non necessariamente rappresentano i valori migliori, detengano le chiavi d’accesso alla società futura. Possiamo dirlo perché il nostro punto di vista non prevede – come accade per loro – che il nuovo corrisponda al bene. Ecco una parola-mana utilizzata come cavallo di troia dagli intrepidi giornalisti di Wired: il Nuovo. È dall’Illuminismo che questo termine supera tutti i naufragi delle varie ideologie che si sono succedute nel tormentato oceano dell’Occidente. Nonostante il Decadentismo, l’Espressionismo, l’Esistenzialismo, gli stermini razziali ed etnici, i milioni di morti per fame che aumentano ogni anno dal dopoguerra a oggi, nessuno è stato in grado di togliere dalla testa di alcune persone la massima che recita: tutto ciò che è nuovo fa bene. Il padre spirituale della rivista, il direttore che ha creato Wired U.S.A., lo sa, e ci illumina chiaramente sui fondamenti della sua missione: Ai nostri autori chiediamo di stupirci, di dirci cose che non abbiamo mai visto in un modo che non abbiamo mai sentito, di mettere alla prova le nostre convinzioni. Questa rivista è destinata a coloro che cercano la nuova anima di questa società in piena trasformazione2.
Dite qualunque cosa, ma che sia nuova – dice Rossetto. E magari aggiungeteci qualche parola come anima, che funziona dal IV secolo avanti Cristo. Se vogliamo scoprire qual è la cosa più nuova che esista, e dunque qual è il migliore dei mondi possibili, non c’è bisogno di scomodare dalla tomba il simpatico Pangloss, ma è sufficiente leggere il direttore di Wired Italia, Riccardo Luna: È l’alba di un nuovo mondo, di una nuova Italia. Se alziamo lo sguardo possiamo già scorgerne i confini. E i futuri leader. Hanno meno di 24 anni, sono uno diverso dall’altro, hanno paure e speranze spesso contraddittorie. Vorrebbero cambiare tutto ma si muovono con una prudenza che è già diffidenza; sono affascinati dal progresso ma pretendono di soppesare prima attentamente i rischi delle nuove tecnologie, senza deleghe in bianco a nessuno, nemmeno agli scienziati. Vorrebbero che a decidere fossero piuttosto ciascuno di loro e tutti assieme. I cittadini: questa è democrazia diretta […] In nessuna altra generazione questo sentimento è così forte, così netto. Se gli chiedete a cosa non potrebbero mai rinunciare per una settimana loro, gli under 24, non avrebbero dubbi. E scarterebbero la televisione, il cinema, la musica, i libri, i giornali e lo sport. Praticamente tutto, ma la rete no. A loro basta essere connessi. Dai 25 anni in su, nessun altro lo fa in Italia. Nessuno. È il mondo che conosciamo alla rovescia. Non è una distinzione. È una rivoluzione culturale. Per i più giovani internet non è solo man-
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Get Wired, quindi: comprate Wired, ma non solo, siate nervosi, attenti, sempre eccitati, non perdete mai il colpo. Pensate sempre che state vivendo un’epoca di eccezionale cambiamento, l’era della velocità, anzi dell’accelerazione dell’innovazione. Tutta la vostra vita è un continuo e tumultuoso emergere del nuovo, tutto ciò crea uno stile, anche se forse non un’identità1.
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parola wired vuol dire infatti “collegati”, e col tempo ha preso il significato di essere attaccati ad una macchina, ad una tecnologia sempre rinnovata dalla quale bisogna farsi condurre:
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dare una mail o pagare una bolletta. È molto più di condividere dei byte. Quei files che cercano e si scambiano ogni giorno sono idee, passioni, progetti. Cose da fare assieme, per divertirsi certo ma anche per vivere un giorno in un mondo migliore. Perché la rete non è un passatempo per adolescenti ma la più grande piattaforma tecnologica che l’umanità abbia mai avuto […] È un fatto generazionale, fra chi ha capito le potenzialità della Rete e chi no. Ne sentiremo parlare di questa generazione. Cambierà il nostro futuro. In meglio.3
Quindi Riccardo Luna inaugura una campagna d’opinione per consegnare il Premio Nobel a Internet: […] Vorrei che internet vincesse il premio Nobel per la pace del 2010 […] Internet in quanto rete di persone che si parlano, internet in quanto più grande piattaforma di comunicazione che l’umanità abbia mai avuto, internet perché abbatte i muri, rafforza la democrazia, perché ci fa parlare e quando ci parliamo ci scopriamo meno diversi. Non più nemici […]4
Quando Gutenberg inventò la stampa non esisteva il Premio Nobel ma, escludendo qualche esaltato fondamentalista, nessuno profetizzò che da quel momento sarebbe cominciata un’era di pace. Non c’erano giornalisti che ritenevano una comunicazione tecnicamente più diffusa sinonimo di un miglior rapporto tra gli esseri umani. Incontrare più persone non induce automaticamente all’affetto reciproco. Mi pare che già nel IV secolo a.C. l’avessero detto, e senza aver potuto constatare quanti scambi di armi, droga, organi, prostituzione, pedofilia, terrorismo, si sono moltiplicati grazie a internet. La rivista Wired, edita in Italia dalla Condé Nast, che annovera nel suo catalogo anche Vogue, Glamour, Vanity Fair, L’Uomo, Io Sposa, oltre all’appassionata battaglia per il Premio Nobel, in questi mesi del 2010 ci sta illuminando con una sequenza di idee che cambiano il mondo. A Gennaio scopre il motore a impatto zero (o quasi: -90% di emissioni) grazie ai cavalieri-managers del Santo Graal della Fiat; a Febbraio “diamo retta a Netsukuku”, ovvero ad Andrea Lo Pumo, un ragazzo di 22 anni che ha progettato una nuova internet democratica che ci garantisce “una rivoluzione per l’Unità d’Italia” (e gratis! Alla faccia di Giuseppe Mazzini, sempre alla ricerca di finanziatori); a Marzo ci rivela “come salvare le fabbriche? Demolitele e ricostruitele così” (le istruzioni a pag. 58, per i dettagli chattare su Facebook con Renzo Piano, prima chiedere l’amicizia); ad Aprile veniamo travolti da un’altra notizia sconvolgente, ovvero “Così la generazione Y prepara la rivoluzione” (ce n’è una al mese, da capogiro, da tornare punto a capo) grazie a una scuola per blogger situata clandestinamente a Cuba; a Maggio niente rivoluzione, ma addirittura si azzera tutto perché “Arriva l’iPAD, tabula rasa: così la tecnologia facile ci migliorerà la vita”; a Giugno ci sono i Mondiali e grazie a loro abbiamo “Il calcio e la ricerca della perfezione”, perché grazie allo scanner del wired lab sapremo se “super atleti si nasce?”; a Luglio un’altra rivoluzione, post-Copernicana, perché Wired manda in soffitta il Sole, astro troppo anziano e disconnesso, e quindi “i vecchi pannelli solari? Rottamiamoli – Rivoluzione energia pulita: arriva la chimica”.
Per i più tradizionalisti mandare sms in presenza di qualcuno è da maleducati. Ma è vero? Osserva gli adolescenti di oggi, esempi comportamentali dell’era futura... Per loro, messaggiare mentre si è in compagnia è una cosa del tutto normale. Anzi... Gli antropologi culturali che hanno analizzato il fenomeno sms tra gli adolescenti concordano che non si tratta solo di una gratificazione immediata. Secondo Mimi Ito, esperta di usi e costumi telefonici tra i teenager giapponesi, mandare sms a persone che non sono presenti in un dato momento fa sentire ognuno di noi parte di una rete sociale più estesa. Molti non fanno distinzione tra la socializzazione che avviene di persona o tramite cellulare. I modi adolescenziali sono raramente un modello comportamentale, ma in questo caso sono lo specchio di un enorme divario tecnologico. Siamo di fronte alla prima generazione cresciuta con il cellulare in mano. Che vi piaccia o no, il modo dei ragazzi di usare gli sms presto sarà la norma. Quindi, ecco la nuova “regola del pollice” per cultori dell’sms: sentiti libero di messaggiare mentre parli o ceni con gli amici, ma solo se stai cercando di coinvolgere qualcuno che non è lì con voi. Se ciò che ti spinge a farlo è escludere le persone con cui sei uscito, sai già la risposta. I luoghi pubblici – con persone sconosciute – pongono un altro tipo di problema. È nella natura dell’adolescente messaggiare con l’amica del cuore nel bel mezzo del film («Oddio, è stato ucciso!»), ma il display dei cellulari distrae le persone che ti stanno intorno. In questo senso, messaggiare può essere paragonato al fumare in pubblico: stai dando davvero fastidio alle persone intorno a te? Se la risposta è sì, giù le dita.
Il comandamento è emanato nel titolo: nessuno ti potrà condannare se mandi un sms mentre sei in compagnia. Angosciati da questo dubbio morale, Null ce ne libera d’un colpo e per sempre (o almeno fino al prossimo Galateo, perché tutto invecchia rapidamente e c’è bisogno di nuovo). Su quale logica si basa la sua
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Dopo tutte queste rivoluzioni che hanno radicalmente trasformato la nostra vita, ci disconnettiamo un pochino, e ci riposiamo. Facciamo qualche passo indietro per approfondire un articolo emblematico della rivista, che può darci delle indicazioni sulla logica che regola questa nuova filosofia, o vecchia religione: a seconda dei punti di vista. Il direttore di Wired Italia, nominato a questa prestigiosa carica dopo quattro anni di conduzione della rivista “Il Romanista”, uno dei giornali sui quali si documentano i tifosi della squadra di calcio della Roma (se l’informazione è esatta, ma derivandomi da internet la devo dare per migliore possibile), nel numero di ottobre 2009 ci presenta in copertina, con i toni entusiasti dell’ultras, il suo Galateo, il manuale di comportamento per il Popolo Connesso. Come testimonial di questa nuova tavola delle leggi troviamo una grande foto di Brad Pitt. Una di queste voci si occupa di quel linguaggio di comunicazione che si chiama sms (short message service), ovvero i messaggini dei cellulari. Sarà costato molto alla rivista occuparsi di qualcosa che per i loro ritmi frenetici appartiene al secolo scorso, dato che i messaggini hanno cominciato a essere inviati già dal lontanissimo 1993. Tuttavia ora siamo al nuovissimo Galateo, che inevitabilmente traduce gli articoli da scrittori americani (quando si tratta di cambiamenti epocali e norme morali non si può rischiare di sbagliare). Nel caso degli sms, a volerci trasmettere un itinerario eticamente corretto è Christopher Null, che si presenta con un curriculum di tutto rispetto5. Seguiamolo per un tratto in un suo articolo dal titolo Puoi mandare sms anche se sei in compagnia, apparso su Wired, nell’edizione italiana dell’ottobre 2009. Scrive Null:
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morale lo possiamo vedere dall’articolo. Si comincia stigmatizzando la categoria per eccellenza nemica dei connessi: i tradizionalisti. I disconnessi sono quelli legati ai valori antichi, alle tradizioni. Basta prendere una loro norma etica ed avremo certamente un errore da rovesciare per trovare la verità. Ciò che i tradizionalisti definiscono “maleducazione”, non può che essere “buona educazione” per i paladini del nuovo. Ecco inaugurata la luminosa logica. A questo punto la riflessione si fa sottile: se nella linea progressiva del tempo si trovano indietro i tradizionalisti, e nel Presente Connesso i wired, chi ci può essere avanti, nel segno del futuro? Naturalmente gli “adolescenti”, esempi comportamentali del futuro. Più nuovi di loro non c’e nessuno. I “bambini” non hanno ancora un’esistenza sociale ed un profilo morale, poiché ancora non sono connessi alle tecnologie (restano in attesa: in download). Il rapporto dei wired con gli adolescenti è drammatico, poiché sono gli unici che da un momento all’altro (il tempo è sempre veloce, brevissimo) potrebbero spodestarli dalla vetta del mondo. Gli adolescenti incutono sentimenti contrapposti di ammirazione e timore, ed è necessario “monitorarli” costantemente. Sicuramente indicano qualche nuova via che sta per esplodere e potrebbe costare la condizione di non esserne al corrente: la massima digrazia per un connesso. Intanto, osservandoli attentamente, Null scopre che per gli adolescenti “messaggiare mentre si è in compagnia è una cosa del tutto normale”. Tuttavia non si accontenta di un dato sperimentale, ma sente la necessità di un supporto scientifico. Si appoggia allora agli studi di “antropologi culturali” (in questo caso per la sua serenità è sufficiente citare la qualifica professionale), e soprattutto alle indagini di Mimi Ito, la quale viene definita “esperta di usi e costumi telefonici tra i teenager giapponesi”. “Giappone” è un’altra parola-mana che indica più o meno “futuro”, e “usi e costumi” è una derivazione etimologica della parola “etica”. Secondo l’esperta di etica telefonica, per i teenager giapponesi (esiste forse categoria più meravigliosa e minacciosa per i wired?) “mandare sms a persone che non sono presenti in un dato momento fa sentire ognuno di noi parte di una rete sociale più estesa. Molti non fanno distinzione tra la socializzazione che avviene di persona o tramite cellulare”. Le virgolette per capire dove inizia e finisce la citazione non sembrano necessarie a Null, per cui non sapremo mai dove finisce il parere di Mimi Ito e dove comincia il suo. Ma in fondo a lui non importa, dato che con la Ito la pensano allo stesso modo. Però sarebbe interessante sapere se la logica di Null corrisponde a quella della Ito: non si valutano le nuove usanze degli adolescenti secondo una serie di criteri etici, ma si dà una qualifica di valore etico universale ad una loro usanza solo perché è da loro praticata. Qui è la coda che morde il cane. Dopo altri elogi al fatale potere degli adolescenti (“Che vi piaccia o no, il modo dei ragazzi di usare gli sms presto sarà la norma”, piacere e timore verso i futuri wired), finalmente Null enuncia il fondamento morale del suo comandamento tratto dal Vangelo dei Teenager, ovvero la nuova “regola del pollice”: “sentiti libero di messaggiare mentre parli o ceni con gli amici, ma solo se stai cercando di coinvolgere qualcuno che non è lì con voi. Se ciò che ti spinge a farlo è escludere le persone con cui sei uscito, sai già la risposta”. Dunque, se scambiando sms coinvolgi una persona non presente col gruppo in cui ti trovi, questo è moralmente giusto. Il contrario, ovvero escludere i presenti, è sbagliato.
Note 1 Antonio Caronia, dal sito http://www.noemalab.org/sections/specials/netmag_magnet/ netmag/wired.html . 2 Dall’editoriale di Luis Rossetto del numero 1 di Wired U.S.A., aprile 1993. 3 http://riccardoluna.tumblr.com/ . 4 http://riccardoluna.tumblr.com/post/114909437/una-gara-per-dire-io-amo-internet-e-unsogno-per-il . 5 Da Wikipedia: Null has written for numerous publications, including Wired, Business 2.0, PC World, Men’s Journal, San Francisco Magazine, Yahoo! Internet Life, Working Woman, San Jose Magazine, The Austin Chronicle, and The Austin American-Statesman. He is also the author of two books: Five Stars!(2005, Sutro Press), a manual for aspiring film critics, and Half Mast (2002, Sutro Press), a novel.
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Null non può che ricondurre la sua morale alla legge del wired, alla sua unica contrapposizione: coinvolto/escluso, che è per lui sinonimo della rassicurante divisione del mondo fra connesso e disconnesso. Non sappiamo se Null abbia confidenza con quegli antropologi culturali che hanno scritto molto sulla questione del coinvolgimento; su cosa possa voler dire dal punto di vista psicologico, sociale, storico, umano, essere partecipi o sentirsi ai margini di una relazione o di un gruppo, sulla solitudine che si può provare stando in mezzo agli amici. Non sappiamo se ha mai letto qualcosa che riguardi la comunicazione come sistema di forze fra due o più individui che si sfidano continuamente. Non sappiamo nulla di Null, ma lui sa tutto di noi, e ci illumina il cammino verso il Nuovo Mondo. Peccato non occuparsi di identità, e dell’esclusione che procuriamo a noi stessi ogni volta che apriamo bocca, connessi e disconnessi. Nessuna innovativa piattaforma tecnologica potrà introdurre un’eterna pace tra il nostro immaginario e il nostro simbolico, due dei registri della nostra genetica disconnessione. Ma l’ultima tecnica potrà essere un nuovo prezioso strumento se saprà valorizzare il nostro fecondo senso critico, il quale deriva dalla coscienza della nostra contraddittoria e miracolosa condizione umana.
Luciana Dini Comunicare la scienza. Le biotecnologie nell’era della globalizzazione
La trasformazione bio-tecnologica Il mondo deve aspettarsi una rivoluzione ancora più intensa e sconvolgente di quella industriale: le tecnologie, l’informatica, sempre più veloci e potenti, stanno trasformando la società, il modo di lavorare e di conseguenza una nuova economia globale. L’informatica non è più il grande motore dell’innovazione, ma un fattore, all’interno di un cambiamento ancora più grande, che conduce al commercio genetico. Si è giunti alla manipolazione dei geni e ciò ha provocato rilevanti mutamenti nei diversi campi dell’economia, dal settore agricolo a quello energetico, farmaceutico e medico, ponendo le basi di un “nuovo mondo” bio-industriale. Ma siamo solo all’inizio; ci sono biologi molecolari che stanno mappando e decifrando il corredo genetico di un’ampia gamma di specie viventi, dai batteri, all’uomo. Per le aziende biotecnologiche, i geni rappresentano la nuova corsa all’oro; non è casuale che le multinazionali e i governi stiano scandagliando i continenti alla ricerca di microrganismi, piante, animali e persino esseri umani con caratteristiche genetiche rare che potrebbero avere un potenziale sviluppo in un mercato genetico del prossimo futuro. Nel 1998 Jeremy Rifkin scrive Il secolo biotech, e manifesta, in maniera eloquente, la crescente preoccupazione per molti aspetti dell’emergente rivoluzione biotecnologia, che non è contrarietà alla scienza e alle tecnologie, ma esprime consapevolezza che l’avvento delle biotecnologie coinvolgerà tutti gli aspetti della società e della vita. Cambierà il modo di vivere, mangiare, di interagire, di esprimere una fede religiosa, di avere dei figli, di mangiare, di concepire lo sport, di percepire il mondo, e il posto che ciascun individuo ritaglierà per sé stesso. Quindi, tutti gli aspetti della realtà individuale saranno toccati e modificati nel secolo della biotecnologia. Appena due secoli or sono, si iniziò a guardare con occhi nuovi al mondo degli esseri viventi, che sono stati scomposti in unità, le cellule, e a loro volta questi blocchi di costruzione sono stati scomposti per interrogarsi sulle molecole che li compongono e ad investigare come queste molecole funzionino nell’assicurare l’integrità e la fisiologia cellulare e dell’organismo. Di conseguenza, il percorso conoscitivo
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proposto, iniziato con organismi “semplici”, quali i virus batterici ed i batteri, appare concettualmente caratterizzato dal ridurre la comprensione di un organismo alla comprensione prima delle sue parti, per poi intraprenderne la ricostruzione. L’aspetto riduzionista è stato spesso criticato, ma le conseguenze applicative delle conoscenze acquisite fanno già parte della nostra civiltà materiale. La nostra visione del mondo vivente si è modificata, ed ora è lecito attendersi anche una modificazione epocale dei processi di produzione, compito proprio della Biotecnologia, il cui “dogma” centrale, proposto da Sidney Brenner, premio Nobel 2002 per la fisologia e medicina, recita: il DNA produce RNA, l’RNA produce proteina, la Proteina produce Denaro. Considerando che il Denaro permette di estrarre informazione dalla proteina e di convertirla di nuovo in DNA, il dogma centrale della biotecnologia si distingue da quello della biologia molecolare per la sua circolarità.
Cosa sono le biotecnologie? Le biotecnologie (nel linguaggio corrente, si utilizza più frequentemente il termine al plurale), stanno ad indicare la pluralità di tecnologie sviluppate e i campi di applicazione interessati (Tabella I) che rientrano nella grande “rivoluzione scientifica” di questi ultimi anni. Ma cosa sono? La parola “biotecnologia” in realtà è del tutto innocua, anche se a molti evoca mostri e mostruosità. Si riferisce all’integrazione delle scienze naturali, di organismi, cellule, loro parti o analoghi molecolari, nei processi industriali per la produzione di beni e servizi (definizione del European Federation of Biotechnology, EFB). Sostanzialmente essa consiste nella decifrazione e nell’utilizzo pratico delle conoscenze biologiche. Tra le definizioni disponibili, la più completa è senza dubbio quella stesa dalla Convenzione sulla Diversità Biologica UN, ossia: “La biotecnologia è l’applicazione tecnologica che si serve dei sistemi biologici, degli organismi viventi o di derivati di questi per produrre o modificare prodotti o processi per un fine specifico” (Tabella III). Anche se noi, moderni e appartenenti alla civiltà occidentale, riteniamo di essere gli “inventori” delle biotecnologie, già nell’antichità possiamo trovare alcune forme di biotecnologia utili ad ottimizzare il ruolo dei microrganismi. Basta pensare all’uso dei batteri lattici e lieviti per ottenere la lievitazione del pane, al caglio per produrre il formaggio o ai processi fermentativi di birra e vino (Tabella II). Sia la biotecnologia moderna, che maneggia i geni degli organismi e li inserisce in altri organismi per acquistare la caratteristica voluta, che la biotecnologia tradizionale, che usa invece i processi degli organismi, come per esempio la fermentazione, si basano entrambe sull’utilizzo degli organismi per aiutare l’uomo. Vi sono applicazioni che, pur non servendosi di microrganismi, sono classificate come biotecnologiche e sono quelle ampiamente utilizzate nello sviluppo di nuove terapie mediche o innovativi strumenti diagnostici, come le tecniche di DNA e RNA microarray utilizzate in genetica ed i radiotraccianti utilizzati in medicina. Lo strumento principale di cui si avvalgono le biotecnologie, è l’ingegneria genetica, che attraverso il clonaggio dei geni di un organismo e le relative analisi che permettono di costruire genoteche o di utilizzare vettori di espressione, si possa controllare l’attività trascrizionale\traduzionale di una data proteina d’interesse, per fini di ricerca o produttivi.
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Quando si parla di “rivoluzione biotecnologica” ci si riferisce alle cosiddette biotecnologie innovative, alle tecniche capaci di modificare l’informazione genetica degli organismi viventi (Tabella I). Con queste tecniche è oggi possibile inserire, modificandoli se necessario, geni provenienti da una certa specie nell’informazione genetica di un’altra specie completamente diversa. Così i geni animali sono inseriti in batteri o piante, i geni umani negli animali, ecc., con il risultato di produrre piante o animali “transgenici” che non sono presenti in natura. Questi nuovi organismi sono anche detti “organismi geneticamente modificati” o OGM in quanto il loro DNA è stato manipolato e modificato dall’uomo attraverso l’ingegneria genetica. Si può affermare che l’ingegneria genetica rappresenta una forma moderna di selezione delle razze. L’uomo ha da sempre operato una selezione artificiale in agricoltura e in zootecnia accoppiando animali o piante della stessa specie, e selezionando tra i discendenti quelli che avevano i caratteri che più interessavano. Questa selezione, rispetto alla natura, rappresenta una forzatura le cui conseguenze negative sono state considerate un semplice inconveniente cui ovviare dall’esterno. Si è fatto uso di antiparassitari o diserbanti, nel caso in cui la pianta selezionata diveniva più debole nei confronti di specifici parassiti o erbe, o nel caso in cui aveva meno capacità di prendere dal terreno il nutrimento (arricchendolo con sostanze esterne). La convinzione alla base di questi comportamenti era che si potesse alterare tutto l’ambiente intorno pur di mantenere la sopravvivenza di piante o animali utili all’uomo. Oggi però siamo andati ben oltre: non si tratta più di selezionare tra tutte le varianti possibili quella che ci interessa, ma di “inventare” le varianti possibili. E così si inserisce in una pianta, il carattere di un batterio che conferisce la resistenza a un fungo, a un insetto, evitando di usare gli insetticidi. Ma si può anche partire da un dato diserbante per renderne la pianta resistente, in modo da poterne usare grandi quantità senza intaccare la pianta interessata. Nel trasferimento di geni da un organismo vivente a un altro non ci sono limiti, se non quello che l’ingegneria genetica non è in grado di operare con precisione: non è possibile prevedere tutte le interazioni con altri geni e con la fisiologia dell’organismo del DNA iniettato che si integra nel genoma del nuovo organismo. Il discorso diventa più complesso per le modifiche all’informazione genetica degli animali, che con logica aberrante si fanno diventare macchine per produrre carne e latte in quantità sempre maggiori e con caratteristiche diverse a seconda delle esigenze del mercato, o addirittura per la produzione di farmaci, ad esempio proteine o altri prodotti rari, come l’ormone della crescita o l’insulina. L’animale non sarà più soltanto un mezzo di produzione, ma un reattore chimico, un macchinario che potrà essere programmato per produrre una cosa o un’altra. Un settore in cui le industrie biotech stanno investendo moltissimo, ritenendola una delle prospettive economiche di maggior interesse per il futuro, è quello dell’uso di animali modificati geneticamente come banca degli organi. Inserendo infatti geni umani negli animali si possono avere organi umanizzati per i trapianti ed allestire una fabbrica di organi di ricambio per gli xenotrapiantati (i trapianti da una specie ad un’altra specie, possibili “umanizzando” organi animali con geni umani).
Luciana Dini
Come cambia la ricerca
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Vantaggi per l’uomo e implicazioni etiche delle biotecnologie La Biotecnologia moderna è destinata a rivoluzionare ampi settori del mondo, la cui portata spazia dalla produzione industriale alla produzione agricola, dalle problematiche ambientali, al mondo della salute. In quest’ultimo settore, i cambiamenti sono senza dubbio i più rilevanti. È mutato il modo di fare ricerca di nuovi farmaci e gli stessi farmaci sono diversi rispetto al passato. Con la biotecnologia, i ricercatori si avvalgono della comprensione dei meccanismi biologici che governano una determinata malattia e delle banche dati genetiche, per individuare molto più rapidamente molecole efficaci per trattare altri disturbi. I nuovi farmaci biotecnologici, inoltre, sono più precisi e più mirati perché basati su una maggiore conoscenza dell’organismo. L’insulina umana prodotta mediante ingegneria genetica è stata il primo farmaco biotecnologico ad essere immesso sul mercato. Tra i nuovi farmaci sviluppati, oltre ai vaccini vi sono i medicinali contro disfunzioni metaboliche a base genetica, trattamenti contro diverse forme di epatite, antitumorali stimolatori delle difese immunitarie in caso di loro abbassamento, e regolatori delle stesse in caso di funzionamento eccessivo. Altre importanti innovazioni sono derivate dalla mappatura del genoma umano su cui si basano nuovi test diagnostici per svelare anomalie genetiche anche durante la vita prenatale. Non dobbiamo dimenticare che oggi vi sono grandi prospettive per l’applicazione della biotecnologia alla soluzione di molti problemi ambientali: controllo dell’inquinamento, eliminazione dei rifiuti tossici, recupero dei metalli dalle scorie minerarie e dai minerali a basso tenore, grazie all’azione di geni utili per la biodegradazione di composti chimici tossici. Molte sono, inoltre, le varietà vegetali modificate con l’ingegneria genetica al fine di migliorarne le qualità nutrizionali, la resistenza alle malattie, la produttività e la tolleranza ai fattori nocivi. La potenzialità della biotecnologia è quindi enorme. Ciò ha sollevato l’esigenza di riflettere sui vincoli e i confini da porre all’applicazione della biotecnologia e ha portato alla nascita di una specifica area di discussione chiamata Bioetica. Con la crescita della biotecnologia in molti settori, si è ritenuto necessario formulare delle norme atte a regolamentare i problemi posti dalle innovazioni scientifiche, in particolare la liceità degli esperimenti. Tutti sembrano concordi nell’accettare la produzione di animali transgenici per sperimentazioni nelle cure di certe malattie, l’utilizzo di materiale genetico per produrre farmaci o vaccini. La raccomandazione del Consiglio d’Europa numero 1046 del 24/09/1986 chiede ai governi di proibire “la creazione di embrioni umani in vitro per scopi di ricerca, la clonazione umana, lo scambio di geni tra uomini e animali”. È utile interrogarsi sui limiti e sulle potenzialità che l’uso delle nuove tecnologie produce per il benessere di tutti i cittadini del mondo, e non solo dei paesi più ricchi, ma anche di quelli poveri, dove Internet è ancora molto lontano e permangono sfruttamento, malattie, povertà. È necessario anteporre la salvaguardia della salute umana e il rispetto dei consumatori, la difesa delle produzioni tipiche e locali, la garanzia che la diffusione delle biotecnologie non penalizzi ulteriormente i paesi poveri, fissando vincoli chiari che vietino l’uso del patrimonio genetico dell’uomo e impieghi eticamente inaccettabili come quelli militari.
L’economia e le biotecnologie Le biotecnologie hanno sostituito le società informatiche nel portafoglio dei titoli tecnologici quotati in borsa. L’ossessione per la proprietà intellettuale portata dalle biotecnologie non ha precedenti nella storia. In passato si considerava legittimo proteggere con brevetti lo sfruttamento commerciale di scoperte tecnologiche che erano costate fatica e denaro all’inventore. Ma nessuno aveva mai messo in discussione che la conoscenza scientifica era un patrimonio comune all’umanità, e che tanto più era condivisa tanto meglio. La comunità degli affari si preoccupava di tutelare gli interessi legati allo sviluppo di tecnologia, senza porre limiti legali alla produzione e distribuzione di conoscenza. Con le biotecnologie tutto cambia. Studiare il DNA è difficile e costoso, e i governi hanno difficoltà a finanziare le ricerche in maniera adeguata alle grandi promesse che il biotech dischiude. Si fanno dunque avanti le compagnie private, che però si aspettano ritorni tali da poter essere garantiti solo se le scoperte fatte nei propri laboratori non saranno di pubblico dominio. Si arriva così ad estremi come quello di Craig Venter che negli anni novanta voleva brevettare il genoma umano per richiedere royalties a chiunque avesse condotto ricerche sui segmen-
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La complessità e l’importanza del tema, impongono a tutti noi che le valutazioni non si limitino all’analisi del rapporto fra costi e benefici economici conseguenti all’impiego delle biotecnologie, ma che considerino i problemi etici, ambientali e sanitari collegati a questa nuova frontiera della ricerca scientifica. Dobbiamo essere coscienti che con la manipolazione genetica la salvaguardia delle tradizioni alimentari, agricole, ambientali, culturali, viene messa radicalmente in discussione. Gli effetti immediati connessi all’immissione nell’ambiente di organismi geneticamente modificati è di difficile individuazione, tuttavia il rischio più concreto è che, sfuggendo dal controllo, questo meccanismo possa produrre una serie di reazioni a catena. Innanzitutto, la perdita della biodiversità, ovvero la scomparsa graduale di piante e colture tradizionali, dovuta al procedimento di controllo sui geni, all’utilizzo intensivo di fitofarmaci. Ciò è un pericolo specialmente in Italia, dove la tutela delle produzioni tipiche e di qualità è un obiettivo imprescindibile se si vuole un futuro forte e sicuro dell’economia agro-alimentare nel nord e nel sud, si pensi all’unicità delle arance siciliane o delle mele trentine. Non vanno inoltre sottovalutati, gli effetti che la commercializzazione di prodotti modificati possono avere sul gusto dei formaggi, dei salumi, delle carni, delle uova, della frutta e verdura; la grande ricchezza e varietà di produzioni agroalimentari locali e storiche hanno infatti determinato negli anni e spesso nei secoli, un quadro di riferimento gustativo che è parte fondamentale del nostro modello di alimentazione che una volta alterato può creare disorientamento sociale. Un’informazione corretta e completa è quindi al primo posto della scala di necessità quando abbiamo a che fare con il commercio di organismi geneticamente modificati. La scienza deve diventare più aperta, più dialettica, più trasparente, più umile, meglio finalizzata e pronta a difendere il patrimonio della biodiversità. Soprattutto mercato, denaro, consumo e tecnologie non devono soffocare la nostra identità umana.
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ti di genoma già sequenziati dalla sua compagnia. O le grandi multinazionali dell’agroindustria, che manipolano leggermente sementi selezionate attraverso i secoli da popolazioni indigene latinoamericane, pretendendo poi di brevettare quelle sequenze genetiche impedendone l’utilizzo persino alle comunità che le hanno ricevute come eredità ancestrale. La principale motivazione del ricercatore sembra essere il dividendo di fine anno della propria compagnia.
La globalizzazione biotecnologica: bugie e mistificazioni dei mass media Affascinati dalle potenzialità delle biotecnologie, ma avendone spesso solo una comprensione semplificata e meccanica, i media trattano l’argomento annunciandone talvolta i risvolti più d’effetto, quali applicazioni impossibili o probabili rischi. Le costanti mistificazioni che troppo spesso inquinano i mezzi di comunicazione di massa sono molto più pericolose delle bugie. Ma se le menzogne possono essere clamorosamente smentite e potenzialmente perseguibili per legge, le mistificazioni invece agiscono in maniera sottile ed impunemente con un micidiale dosaggio fra verità ed omissioni, spesso confondendo i fatti con le opinioni ed i fatti fra loro. I PR (addetti alle pubbliche relazioni) delle Multinazionali, reclutati fra i migliori del mondo, hanno il compito di creare consenso nell’opinione pubblica, anche nascondendo o sopprimendo la verità, o utilizzando in modo scorretto fonti d’informazione che ispirano fiducia e diffondendo informazioni distorte che possono cambiare l’opinione pubblica e favorire l’interesse dell’industria. Le biotecnologie costano bilioni di dollari e per assicurarsi che vengano accettate, l’industria ha investito milioni di dollari utilizzando ogni possibile mezzo per avere successo. Tre strategie principali che si sostengono a vicenda sono state usate contemporaneamente: 1. Assicurarsi il sostegno di scienziati nei campi in relazione con il biotech. E duole dire che questa è stata la parte più facile dal momento che la ricerca in questi campi utilizza tecnologie avanzate e costose, gli scienziati gradiscono ogni forma di supporto anche quella proveniente dalle multinazionali. Queste ultime hanno assunto diversi scienziati di grido come consulenti percependo guadagni extra, mentre altri scienziati, che hanno sviluppato brevetti con il sostegno delle multinazionali del biotech, sono diventati miliardari grazie ai diritti maturati. Questa situazione ha prodotto una concentrazione di potere gerarchica nella società scientifica internazionale: pochi scienziati di punta sono in grado di influenzare in maniera efficace il comportamento di un grande numero di loro colleghi in questioni importanti. Dal momento che pochi hanno osato esprimere le loro critiche, gli addetti alla propaganda hanno potuto dire che la “corrente principale” della scienza sostiene le biotecnologie, lasciando l’impressione che le critiche muovano da poche persone che non sono affatto rappresentative della scienza odierna. Questa situazione ricorda quella di uno stato totalitario dove quelli che sono al potere decidono che cos’è la “verità ufficiale” e l’opposizione è ridotta al silenzio.
Pericolosità della brevettabilità dei genomi “Le persone sono sopravvissute nel terzo mondo perché nonostante la ricchezza che è stata loro sottratta, nonostante l’oro e le terre che sono stati loro sottratti, hanno ancora la biodiversità. Hanno ancora quest’ultima risorsa sotto forma di semi, piante medicinali, foraggio, che ha loro permesso un accesso alla produzione. Ora quest’ultima risorsa dei poveri che sono rimasti deprivati dall’ultimo giro di colonizzazioni viene anch’essa portata via attraverso i brevetti. E i semi che i contadini hanno liberamente conservato, scambiato, usato vengono considerati proprietà delle multinazionali. Si stanno formando, attraverso l’Organizzazione Mondiale del Commercio, nuove forme di proprietà legale come i trattati sulla proprietà intellettuale o brevetti, le quali cercano di impedire ai contadini del terzo mondo di avere libero accesso alle loro stesse sementi, di poter scambiare liberamente le loro stesse sementi. Cosicché tutti i contadini in tutto il mondo comprerebbero i semi ogni anno creando un nuovo mercato per l’industria globale delle sementi.” (Intervista con Vandana Shiva, Motion Magazine - August 14, 1998; Vandana Shiva è fisica, scrittrice, editrice e presidentessa del Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy) La concessione di diritti di proprietà intellettuale su piante, animali e relative risorse genetiche può rappresentare un incentivo formidabile ed allo stesso tempo un passo fondamentale per lo sviluppo di tecnologie dannose per l’ambiente e per
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3. Creare consenso nell’opinione pubblica Una componente importante del marketing dei prodotti biotech è l’attività dei PR mirata ad ottenere consenso nell’opinione pubblica mediante l’applicazione di avanzate conoscenze di psicologia e di manipolazioni delle attitudini e delle credenze. La campagna di informazione viene sostenuta seguendo delle ben precise linee guida che mirano a) ad evitare dibattiti pubblici sulla salute e sul rischio ambientale. La ragione è che ciò potrebbe dare agli oppositori l’occasione per informare sulla salute e sul rischio ambientale; b) a usare le autorità pubbliche come strumenti principali per diffondere il messaggio, il cui supporto potrebbe creare fiducia nei confronti della tecnologia genetica; c) a farsi rappresentare pubblicamente da giornalisti rispettati; d) a fornire ai mezzi di comunicazione di massa materiale e storie con un positivo “tocco umano”, illustrandone solo i lati positivi, e concentrandosi soprattutto sui bisogni umani poiché questi hanno una valenza molto forte sull’opinione pubblica.
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2. Assicurarsi il sostegno delle pubbliche autorità. L’industria ha molto spesso verificata l’efficacia ed utilità di questa strategia. La cooperazione delle autorità pubbliche, che è sempre molto efficace viene assicurata attraverso un’ottima strategia delle pubbliche relazioni. Non va escluso il ruolo dell’enorme potere finanziario delle corporazioni biotech che permette di esercitare una forte pressione sui politici. Il potere acquisito sul mercato in pochi anni dalle industrie biotech sta facendo impallidire quello delle case farmaceutiche.
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la biodiversità, così ponendosi in aperto contrasto con il fine di salvaguardia che è alla base della Convenzione sulla biodiversità. L’ufficio Europeo brevetti (EPO) si sta comportando in modo giuridicamente discutibile. L’EPO a volte sostiene la tesi dell’indipendenza del principio brevettuale secondo una visione puramente tecnica della brevettabilità, dall’altra giudica invece il merito dei singoli brevetti secondo un criterio “cost-benefit” extragiuridico che lascia un enorme margine di discrezionalità e ben si presta alla promozione di determinate finalità politiche. L’attuale legislazione europea sui brevetti genetici è ambigua e non garantisce alcuni diritti fondamentali assicurati da accordi internazionali. La direttiva 98/44/ CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche da una parte dice che “non sono brevettabili le varietà vegetali e le razze animali” (art.4) né il corpo umano o sue parti (art. 5). Poi vanifica sancendo che: “Un elemento isolato dal corpo umano, o diversamente prodotto, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, può costituire un’invenzione brevettabile, anche se la struttura di detto elemento è identica a quella di un elemento naturale” (art. 5/2). “Un materiale biologico che viene isolato dal suo ambiente naturale o viene prodotto tramite un procedimento tecnico può essere oggetto di invenzione anche se preesisteva allo stato naturale” Art. 3/2. “…la protezione attribuita da un brevetto ad un prodotto contenente o consistente in un’informazione genetica si estende a qualsiasi materiale nel quale il prodotto è incorporato e nel quale l’informazione genetica è contenuta e svolge la sua funzione” (art.9) ecc. Queste norme sono alla base della biopirateria legalizzata che di fatto permette a privati di rivendicare l’esclusiva proprietà di forme di vita esistenti che appartengono all’intero genere umano. La biopirateria permessa dai brevetti genetici sta aggravando i problemi economici del terzo mondo. I brevetti genetici oltre a rappresentare una seria minaccia alla biodiversità riducono l’accesso ai benefici sanitari come dimostrato dal caso del Sudafrica, il cui governo è stato citato in giudizio da una multinazionale poiché reo di aver prodotto sul proprio territorio, poiché non poteva sostenerne i costi di importazione, farmaci anti-aids dei quali la suddetta multinazionale deteneva il brevetto è emblematico di questa situazione. Dice la Dott.ssa Vandana Shiva: “L’80% dell’India risolve i propri bisogni sanitari grazie alle piante medicinali che crescono nel cortile di casa, nei campi, nelle foreste e che la gente liberamente raccoglie. Nessuno ha mai dovuto pagare un prezzo per i doni della natura. Oggi ciascuno di quei farmaci è stato brevettato e fra cinque-dieci anni potrebbe facilmente verificarsi una situazione in cui quelle stesse industrie farmaceutiche che hanno creato così gravi danni alla salute pubblica e stanno ora orientandosi verso prodotti salutari sotto forma di farmaci fitoterapici, medicina cinese, aromaterapia indiana, ne proibiranno l’utilizzo. Non hanno bisogno di venire qui e renderlo illegale perché ben prima di arrivare a quel punto si sono già impadroniti delle risorse base, prendono le piante, prendono le riserve, prendono i mercati e lasciano la gente completamente priva di accesso a queste risorse.” (Intervista con Vandana Shiva, Motion Magazine - August 14, 1998) I brevetti genetici sono una seria minaccia alla democrazia perché rafforzano ulteriormente il totalitarismo oligarchico delle multinazionali. Le multinazionali
Le questioni discusse ci riguardano direttamente, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, dal reddito o dal livello di istruzione. Ciascuno di noi deve impegnarsi in prima persona per difendere la propria libertà, la propria salute, il futuro delle generazioni a venire. “Non buttare via il bambino con l’acqua del bagno” come recita una espressione americana. Non intendo demonizzare la scienza o le biotecnologie. Bisogna vigilare affinché l’applicazione delle nuove biotecnologie sia centrata su un criterio di Prudenza, che i benefici della ricerca vengano ripartiti secondo Giustizia, che ci sia Fortezza nel resistere alla logica dell’interesse personale ed immediato e Temperanza nell’armonizzare l’opera dell’uomo con quella del Creatore. Rispetto per la vita e per la verità. Ci troviamo infatti in un “contesto caratterizzato dall’allarmante tendenza a ridurre l’intera vita biologica, compresa quella umana, a mero oggetto di proprietà intellettuale brevettabile e a bene commerciale, e dal rischio di un progressivo cedimento delle strutture pubbliche e giuridiche, predisposte alla regolamentazione della materia, alle pressioni esercitate dall’industria biotecnologia. (Dichiarazione del Comitato Nazionale per la Bioetica del governo italiano 25/2/2000)
Tabelle Tab. I. Le tecnologie che permettono l’utilizzo delle conoscenze biologiche – codificazione del DNA: genomica, farmacogenetica, test genetici, amplificazione, sintesi e sequenziazione del DNA, ingegneria genetica. – Sintesi e sequenziazione di proteine e peptici (i blocchi funzionali), glyco-engineering, proteomica, ormoni e fattori della crescita, recettori delle cellule, comunicazione delle cellule e feromoni. – Ingegneria delle cellule e dei tessuti: cultura delle cellule e dei tessuti, ingegneria dei tessuti, ibridazione, fusione cellulare, vaccini e immunostimulatori, manipolazione embrionale. – Biotecnologie di processo: bioreattori, fermentazione, processi biotecnologici produttivi, estrazione metalli con batteri, biocatalizzatori nella fabbricazione della carta, biodesulfurazione, decontaminazione del suolo e biofiltrazione. – Terapia genetica e vettori virali.
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Conclusioni
Luciana Dini
Biotech sono economicamente talmente potenti da poter facilmente corrompere le pubbliche istituzioni. Secondo uno studio dell’Università di Harvard citato dall’economista J. Rifkin è già iniziata una discriminazione su base genetica da parte di assicurazioni, agenzia d’adozione, scuole e datori di lavoro in generale. Rifkin sostiene che “Se riduciamo il serbatoio genetico a una proprietà privata che può essere sfruttata commercialmente avremo guerre genetiche nei prossimi secoli, esattamente come guerre ci sono state per il petrolio ed i metalli rari nell’era industriale” (biblioteca digitale di MediaMente, interviste: Jeremy Rifkin).
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Tab. II: Date fondamentali per la biotecnologia 1750 AC I Sumeri fermentano la birra. 500 AC. I cinesi usano la soia come antibiotico per trattare malattie della pelle. 1590 Janssen inventa il microscopio. 1675 Leeuwenhoek scopre i protozoi ed i batteri. 1797 Jenner inietta ad un bambino un vaccino virale per proteggerlo dalla vaiolo. 1830 Vengono scoperte le proteine. 1833 Viene scoperto il nucleo delle cellule. 1855 Pasteur comincia a lavorare il lievito, provando per la prima volta che si tratta di organismi viventi. 1863 Mendel, nel suo studio sui piselli, scopre che le caratteristiche sono state trasmesse dai genitori alla progenie da unità indipendenti, denominate successivamente geni. Le sue osservazioni pongono le fondamenta nel campo della genetica. 1879 Flemming scopre le cromatine, le strutture ad asta all’interno del nucleo delle cellule che successivamente vengono chiamate “cromosomi.” 1888 Waldyer scopre il cromosoma. 1907 È segnalata la prima coltura in vivo delle cellule animali. 1909 Alcuni geni vengono collegati alle malattie ereditari. 1911 Viene scoperto il primo virus che causa il cancro. 1919 La parola “biotecnologia” viene usata per la prima volta da un assistente tecnico agricolo ungherese. 1920 Evans e Long scoprono l’ormone della crescita. 1928 Fleming scopre la penicillina, il primo antibiotico. 1953 Watson e Crick rivelano la struttura tridimensionale del DNA. 1955 Viene isolato per la prima volta un enzima addetto alla sintesi di un acido nucleico 1961 Per la prima volta viene compreso il codice genetico. 1969 Viene per la prima volta sintetizzato in vitro un enzima. 1972 La composizione del DNA degli esseri umani viene scoperto essere per il 99% simile a quelle degli scimpanzé. 1973 Cohen e Boyer effettuano il primo esperimento ricombinante del DNA, usando geni dei batteri. 1977 Batteri geneticamente costruiti vengono utilizzati per sintetizzare la proteina umana della crescita. 1979 Vengono prodotti i primi anticorpi monoclonali. 1982 Humulin, l’insulina umana prodotta dalla Genentech, utilizzando batteri geneticamente modificati, è il primo farmaco biotech che viene approvato dalla FDA per il trattamento del diabete 1984 Viene sviluppata la tecnica dell’impronta genetica del DNA. Viene sviluppato il primo vaccino geneticamente modificato. 1987 Humatrope viene usato per curare la deficienza del fattore di crescita. 1988 Il Congresso USA costituisce un fondo per il progetto del genoma umano allo scopo di tracciare ed ordinare il codice genetico umano. 1989 Epogen della Amgen è approvato per il trattamento dell’anemia collegata a malattie renali. 1993 Betaseron della Chiron è approvato come il primo trattamento per la sclerosi multipla. 1997 Scienziati scozzesi clonano la pecora Dolly, usando il DNA di cellule di pecore adulte. La pelle umana viene prodotta in vitro. 1999 Viene decifrato il codice genetico completo del cromosoma umano. 2001 Viene pubblicata la sequenza del genoma umano, che permette ai ricercatori di tutto il mondo di cominciare a sviluppare nuove cure per malattie finora incurabili.
2007 2010
Tab. III. Applicazioni delle Biotecnologie Red biotechnology (biotecnologia rossa) È il settore applicato ai processi biomedici e farmaceutici. Alcuni esempi sono l’individuazione di organismi in grado di sintetizzare farmaci o antibiotici, oppure lo sviluppo di tecnologie di ingegneria genetica per la cura di patologie. White biotechnology, conosciuta anche come grey biotechnology (biotecnologia bianca e grigia). È la branca che si occupa dei processi biotecnologici di interesse industriale. Ad esempio, la costituzione di microrganismi in grado di produrre sostanze chimiche. Le risorse consumate dai processi industriali di tipo biotecnologico sono notevolmente minori di quelli tradizionali, motivo per cui questo settore è in notevole espansione. Green biotechnology (biotecnologia verde). È il settore applicato ai processi agricoli. Tra le applicazioni, figura la modificazione di organismi per renderli in grado di crescere in determinate condizioni ambientali o nutrizionali. Lo scopo di questo settore è quello di produrre soluzioni agricole aventi un impatto ambientale minore rispetto ai processi agricoli classici. Ad esempio, sono state ingegnerizzate alcune piante in grado di produrre autonomamente pesticidi, eliminandone la necessità di somministrazione esterna, più dispendiosa ed inquinante. Bioinformatica, nota talvolta come biologia computazionale. Si tratta di un settore interdisciplinare che utilizza un approccio informatico per risolvere problematiche di tipo biologico. Gioca un ruolo determinante nelle applicazioni di genomica funzionale, genomica strutturale e proteomica. Ha un ruolo fondamentale anche nello sviluppo di nuovi farmaci (drug discovery). Blue biotechnology (biotecnologia blu), usata per descrivere applicazioni marine ed acquatiche delle biotecnologie. Biorimediazione trattamento, riciclo e bonifica di rifiuti attraverso microrganismi attivi.
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2007
Viene approvato l’Avastin della Genentech, primo farmaco anti-angiogenesi per il trattamento del cancro al colon. Vengono ottenute le prime cellule staminali embrionali senza utilizzare embrioni, risolvendo importanti questioni etiche. Viene depositato presso il US patent & trademark Office il brevetto numero 20070122826, intitolato “Minimal bacteria genome” Craig Venter et al. hanno pubblicato un articolo su Science, in cui annunciano di avere costruito in laboratorio la prima cellula artificiale o cellula sintetica, controllata da un Dna sintetico e in grado di dividersi e moltiplicarsi proprio come qualsiasi altra cellula vivente.
Luciana Dini
2004
Mimmo Pesare Paideia come prassi trasformativa*
Nella breve introduzione del volume Il potere tra dialettica e alienazione, datata “Estate 1982”, Angelo Broccoli usa più volte il termine speranza. Termine che raramente si intravede nel fitto impianto teoretico che costituisce la struttura del testo e che ha sempre caratterizzato la rigorosa scrittura del pedagogista. La speranza a cui Broccoli discretamente richiama, è quella contenuta all’interno di una personalissima dimensione utopica della ricerca scientifica; quella di legittimare una fondazione delle discipline educative che si configuri come lo statuto epistemologico ante litteram delle scienze sociali. Detto altrimenti, il luogo speculativo dell’educazione, intesa nella sua dimensione più olistica e completa, è immaginabile come un vettore che parte dall’utopia per arrivare all’eu-topia; ossia dal luogo dell’inesistenza di un metalinguaggio delle scienze sociali, al buon luogo dialettico, nelle cui pieghe l’educazione si assume il difficile compito di dimostrarne la validità e la fecondità. Tale aspettativa appare tanto più indicativa e sintomatica se si considera il periodo storico in cui il libro esce, caratterizzato da una singolarissima infosfera a cavallo tra l’intenso fervore politico e partecipativo degli anni Settanta e gli albori del cosiddetto riflusso edonistico degli Ottanta. Come dire, mutatis mutandis, la temperie culturale dei “periodi di mezzo” che scandiscono la nostra contemporaneità, va quasi sempre di pari passo a una necessità di ridefinire gli orientamenti metodologici che ne disegnano l’evoluzione e la mappatura concettuale. In questa lettura il messaggio di Broccoli conserva, a distanza di un quarto di secolo, tutta la sua carica di attualità e la lucidità di una ri-semantizzazione delle discipline umanistiche, continuamente verificata e legittimata. Il ruolo dell’educazione, oggi come allora, lontano dalla marginalità di cui i mainstream del consumo culturale, da sempre, la avvolgono, rivela il messaggio di Broccoli: il discorso educativo si offre come dimensione trasversale delle scienze umane e, sistematizzato scientificamente, rappresenta una cartina di tornasole per la demistificazione dei gap sociali. E allora, tra l’impegno della ricerca, la responsabilità politica e i serrati passaggi teoretici della produzione scientifica, irrompe la speranza, “la speranza – scrive Broccoli – che i tempi siano sufficientemente maturi e le delusioni accumulate talmente cocenti, da non permettere a qualcuno il sospetto che esse non rappresentino una specie di divagazione non riferibile (...) ad alcuna disciplina specifica” (Broccoli, B., 1983, Il potere tra dialettica e alienazione, Cosenza, Pellegrini, p. 9).
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Con questa premessa fortemente etica è possibile comprendere ulteriormente in che senso Il potere tra dialettica e alienazione rappresenti, all’interno della produzione di Angelo Broccoli, l’esempio felice e la dimostrazione di come il raffinamento del ruolo dell’intellettuale trascenda l’empireo della speculazione, per costituire la prassi di ogni evoluzione socio-culturale. La ricerca del Grund fondativo che le discipline educative possiedono, in altri termini, costituisce sempre un feedback della prassi storico-sociale. Naturalmente quest’ultimo rappresenta un assunto base del marxismo pedagogico in generale (e in particolare nell’interpretazione italiana di esso, così come si è espresso proprio a partire dai lavori di Broccoli, Manacorda, Santoni Rugiu); tuttavia, nella visione di Broccoli, tale doppio legame che lega la teoria alla prassi, risulta ancora più pregnante nell’idea che l’educazione ne costituisca l’anello di catalizzazione e di realizzazione. Il potere tra dialettica e alienazione si configura perciò come la prosecuzione ideale di saggi quali Ideologia e educazione e Marxismo e educazione, intesa come un approfondimento del tema dell’ideologia, delle sue valenze pedagogiche e degli strumenti dialettici per liberarsi di essa. L’analisi teoretica di Broccoli, attraverso la disamina critica dei nuclei classici hegeliani e del materialismo storico, presenta il potere come il più raffinato prodotto dell’ideologia e insieme il più elaborato e rozzo strumento educativo. Come antidoto a tale inermità dell’improvvisazione pedagogica corrente, Broccoli propone una visione dialettica delle scienze sociali, all’interno della quale l’approccio pedagogico non si configura tout court come una delle possibili manifestazioni disciplinari dei conflitti in corso, ma, al contrario, come una malta che forgia l’uomo “completo” e che invade gli spazi di integrazione dei saperi. Il nucleo centrale attorno al quale Broccoli costruisce le tesi de Il potere tra dialettica e alienazione, è rappresentato dall’idea che, nel pensiero moderno, due elementi si contrappongano frontalmente: i concetti marxiani di prassi e alienazione. Essi sono, di volta in volta, i contenitori semantici all’interno dei quali si sono intesi i rapporti tra uomini e istituzioni e, nello specifico, gli estremi del dissidio dialettico alla base del Grund educativo nella produzione di Broccoli. Prassi e alienazione sono concetti antinomici e tra loro contraddittori: dove c’è alienazione non può esserci prassi e dove c’è prassi non può esserci alienazione, poiché i due concetti si negano l’un l’altro. Diamo concretezza ai due concetti: con il termine prassi, nella lettura hegeliana, intendiamo tutto l’ambito dell’agire pratico umano, non in senso etico, ma in senso poietico. Ovvero l’attività umana in senso lato e, di converso, la libertà di questo agire. L’alienazione indica, invece, un’oggettiva situazione di annullamento dell’uomo dal suo essere più autentico e dalla sua relazione con l’istituzione, che provoca uno stato di miseria spirituale. È a partire dal concetto di prassi, però, che Broccoli delinea la sua personale “sintomatologia dell’attualità” socio-culturale; esso appartiene chiaramente alla reiterata tradizione hegeliano-marxiana: tutta la produzione filosofica di Hegel insiste sul concetto di attività e dunque costituisce un’anticipazione della relativa interpretazione marxiana; tuttavia, quest’ultima, ne radicalizza il portato teoretico, in quanto presuppone, stricto sensu, una sorta di appropriazione della dialettica
Il vettore pedagogico-politico della prassi, detto altrimenti, inerisce la sua capacità di formazione delle conoscenze e le sue potenzialità trasformative che vaccinano dall’alienazione e chiariscono i rapporti tra individui e istituzioni, troppo spesso demandati ad analisi sociologistiche, più che sociologiche. In questo senso la forza del saggio dell’83 si manifesta proprio in una sorta di rivalsa metodologica che, sebbene all’interno di un armamentario dialettico ancora palesemente marxista, contrappone una chiave di lettura meramente umanistica (conoscenza/trasformazione) alle interpretazioni sociali macchiate di un certo determinismo politico. Se la comprensione dei rapporti tra individui e istituzioni – sembra rimarcare Broccoli – è leggibile all’interno della contrapposizione moderna tra alienazione e prassi, tutte le teorie che hanno provato a interpretarne il dissidio, hanno perlopiù posto l’accento sul lato “sociologico” della questione, ossia sul rapporto individuoistituzione, più che su quello del soggetto in quanto tale. Dalla teoria della “rappresentazione collettiva” di Durkheim e del “sistema sociale” di Parson, alla “sociologia comprendente” di Weber e alla teoria dell’adattamento di Merton, il pensiero sociologico si è rivolto esclusivamente a uno studio dei “tipi puri”, per dirla con Weber, e a un approccio che in maniera fondamentale salvasse l’oggettività dei procedimenti e il criterio di “avalutatività” e tutto il suo corredo metodologico. Ma una volta svelato quello che Broccoli definisce il “disincanto degli apparati sociali”, anche la più raffinata analisi sociologica si trova di fronte alla disarmante metafisica dell’ideologia, e l’unico esponente della disciplina che ne ammette tale empasse, è stato proprio Ferrarotti, che in Il potere come relazione e come struttura, ammonisce sul pericolo della nevrosi cospiratoria che mina chi non comprende l’impatto impersonale del potere istituzionale. L’ideologia, dunque, continua a essere, secondo Broccoli, il virus che si ripropone con la pervicacia di un destabilizzatore dello sviluppo socio-culturale. Chiaramente siamo ben lontani dalla definizione classica che Engels diede del fenomeno dell’ideologia, e in questo, lo straordinario progresso compiuto dalle analisi sull’ideologia di Gramsci e di Althusser (solo per citare i più riconoscibili), ha permesso di esplicitarne il concetto in tutta la possibile gamma dei suoi effetti sociali (falsa coscienza, sovrastruttura che determina la struttura, annullamento dei fatti nei valori, scambio dei presupposti, con la fine del procedimento logico, procedimento ipostatizzato, ecc.).
Paideia come prassi trasformativa 141 Mimmo Pesare
hegeliana e, in senso specifico, si fonda sulla eliminazione dell’analogia hegeliana tra alienazione e oggettivazione. Il concetto di prassi, insomma, presuppone una completa appropriazione della dialettica hegeliana (e soprattutto il superamento dell’equazione hegeliana tra alienazione e oggettivazione), ma proprio all’interno del dialogo tra tesi hegeliane e marxiane, Broccoli conclude che il concetto di prassi può essere metodologicamente distinto in due aspetti: 1. la sua funzione logica e gnoseologica: la prassi interessa finanche i processi di conoscenza (in Marx, infatti, essa costituisce l’elemento costitutivo dell’astrazione); 2. la sua attività pratica di trasformazione del mondo; la prassi, in altri termini, rappresenta il grimaldello che sottende tutti i processi materiali-oggettivi di cambiamento della società.
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Ma al di là delle specifiche definizioni tecniche, spesso troppo simbiotiche al linguaggio della filosofia politica, Broccoli rimarca il vero problema che lega l’esito di tutti questi portati storico-critici, al più vasto contenitore dell’educazione, quando scrive che l’ideologia è “a nostro giudizio, la conseguenza dell’affidamento ad altri delle nostre facoltà di conoscenza; essa è la rifrazione di un bisogno attraverso la lente deformata di un altro dal quale facciamo dipendere le nostre possibilità di sopravvivenza.” ma “Se l’ideologia è l’effetto dell’affidamento ad altri delle nostre facoltà di conoscenza, è chiaro che essa è la conseguenza dell’alienazione” (ivi, p. 325-326). L’ideologia è dunque alienazione, ma questa, in senso strutturalista, è Herrschaft, potere, che distoglie (aliena) l’individuo dal suo potenziale gnoseologico. Per Broccoli questo assunto è tanto più comprensibile, quanto più si sottolinea un’altra importantissima contrapposizione dialettica che risulta essenziale a tutta la Modernità: quella esistente tra prassi e comunicazione. Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, aveva tentato di portare a termine l’ardimentosa impresa di unificare i due concetti nello sforzo di legittimare il presente. Ma questo sforzo, nella lettura di Marx, era destinato, in qualche modo, a legittimare l’alienazione, giacché, come scrive Broccoli Se l’alienazione è l’affidamento ad altri, di alcune facoltà proprie dell’individuo, lo strumento essenziale per la riuscita di questo affidamento è la comunicazione, come attrezzatura morale e poi logica di trasmissione a se stesso e poi agli altri di quanto viene elaborato dalla persona o dall’ente al quale ci si è affidati. In questo quadro, la prassi è la riappropriazione (…) di quelle facoltà espropriate e, insieme, la forza psico-fisica che consente l’elaborazione di un progetto. (ivi, p. 102)
In questo senso, il rapporto tra prassi e comunicazione non si presenta così diretto e così comprensibile all’interno di un’ottica, per così dire, “diadica”. Tale rapporto, al contrario, si definisce attraverso l’interpolazione di ulteriori elementi concettuali, tra i quali, appunto, il concetto di comunicazione (per la quale Broccoli usa l’attributo foucaultiano di apparato), che riproduce operativamente i contenuti etici e logici dell’alienazione. Il risultato che ne consegue è, secondo Broccoli, “l’ideologia, come riproduzione di ciò che è” (ivi, p. 110), nel suo strettissimo rapporto strutturale con l’alienazione stessa. Dunque, all’interno dell’alienazione, nella sua dimensione di Spaltung del soggetto, si riverbererebbe la scissione tra teoria e prassi: l’alienazione è un “sistema compiuto” – come Broccoli rimarca in ottica gramsciana – all’interno del quale l’ideologia si propone come il naturale ricongiungimento della frattura creatasi tra teoria e prassi. A parere di chi scrive, il merito più elevato dell’acume ermeneutico di Angelo Broccoli, sta proprio nell’aver legato in maniera imprescindibile, i meccanismi sociali che si inscrivono all’interno della triade ideologia-alienazione-potere, a un processo metodologico di natura fondamentalmente gnoseologica. La grande filiazione sociale delle ideologie, ossia l’alienazione, si esercita come potere depersonalizzato, proprio attraverso la sua capacità di inceppare i normali processi conoscitivi dell’umanità. Del resto, siamo molto vicini alle teorie dell’egemonia gramsciane: l’Herrschaft si produce come forma di alienazione, certo, ma lo scarto
Nel 1983 il Times dedicava la copertina di personaggio dell’anno al personal computer: una provocazione per esprimere quanto imponente e allo stesso tempo nuovo, fosse nei primi anni Ottanta il peso della tecnologia info-comunicativa. L’anno in cui esce Il potere tra dialettica e alienazione, insomma, non appartiene precisamente a un periodo dell’immaginario collettivo in cui l’analisi dei media rappresenta il grosso della riflessione sui cambiamenti sociali, Nonostante ciò, Broccoli, con la sensibilità dell’osservazione che lo caratterizzava, inserisce il concetto di comunicazione nei meccanismi dialettici tra prassi e alienazione, dimostrando come le analisi più attuali sulla società non possano che giovarsi del tessuto più raffinato del materialismo storico. E dimostrando, col senno di poi, come il risultato di questo innesto, sia molto più fruttuoso delle successive osservazioni “mediologiche”, dal sapore puramente denotativo. Alla luce di queste considerazioni, anche la teoria marxiana delle classi sociali viene a essere ripensata. Se infatti l’analisi di Broccoli, partendo da una serrata comparazione del rapporto ideologia-alienazione – attraverso i rodati topoi di Hegel, Marx, Feuerbach e Lukacs – giunge a un nuovo modo di intendere il concetto di potere nella sua dimensione attuale come frammentato e “parcellizzato”, questa frammentazione trova parte della sua spiegazione eziologica in una realtà quotidiana in cui anche le classi sociali tradizionali hanno subito una mutazione. Scrive infatti Broccoli: “In tali condizioni, ogni discorso riguardante l’esistenza o l’inesistenza di una classe sottoposta al potere, diventa un’inutile esercitazione, quando non rivela la volontà preconcetta di dimostrare l’annullamento delle classi e quindi l’obsolescenza delle categorie marxiane. Per riprendere correttamente l’ipotesi di Marx, occorre sottolineare i diversi volti del potere, il suo diverso modo di incidere sulla coscienza dei singoli, le possibilità di cui dispone di riversare sugli altri le proprie insanabili contraddizioni”.
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che il Novecento aggiunge alle analisi del marxismo, sta proprio nella transizione della genesi del potere dai processi di produzione materiale a quelli di produzione immateriale, che, sebbene con le tinte suggestive che caratterizzavano la sua esegesi politica, Debord aveva giustamente derivato dall’interpretazione althusseriana di Marx. E Broccoli insiste su tale alienazione gnoseologica che le subdole forme delle neo-ideologie creano, inserendone gli esiti e le spiegazioni all’interno del concetto chiave di educazione, che pertanto viene legittimamente svecchiato e liberato dalla sua accezione più passatista. La teoria del potere, in altre parole, è comprensibile in tutto il suo impatto sociale, solo quando essa viene analizzata sotto tutti gli aspetti di innesto nella società civile. Dunque la lettura sociologista del potere quale anello intermedio tra istituzioni e individui, ne è solo una rappresentazione parziale. La Herrschaft moderna, insomma, individua la sua fondazione nei filtri che l’ideologia pone alla base della conoscenza e dei mezzi che la conoscenza usa per operare una liberazione sociale e una trasformazione degli individui. In questo l’interpretazione di Broccoli ne palesa l’assoluta attualità, e la costruzione del discorso (che legittima l’esegesi marxista e il suo lessico che, dopo 25 anni appare quasi incrostato di una certa ortodossia seventies), nasconde invece la freschezza di una denuncia mai scongiurata, sempre urgente.
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L’azione aggressiva del potere, spiega insomma Broccoli, non è più manifestata esclusivamente dal volto del capitalista o del proprietario della rendita fondiaria, ma le sue emanazioni vanno ricercate in una polverizzazione di centri, in una foucaultiana dimensione panoptica da apparato, che avvolge da ogni punto la vita dell’individuo e si incista in ogni possibile forma di espressione sociale. Questa polimorfia interpretativa dei processi di cittadinanza è nient’altro che la flessione della dialettica hegeliana sul piano della prassi sociale. Un approccio dialettico, infatti, è l’unica arma di cui il soggetto dispone per smascherare anche le più raffinate e attuali forme di potere che si realizzano attraverso espressioni ideologiche e che portano alle più drammatiche forme di alienazione che l’attualità ci presenta quotidianamente nelle pagine di cronaca dei giornali. È proprio in questo senso che la vexata quaestio del potere tra ideologia e alienazione si offre allo sguardo attento come una questione squisitamente educativa. Note * Testo ampliato e aggiornato di una relazione svolta al Convegno “La prassi infelice” (Giornata di studio in memoria di Angelo Broccoli), organizzato dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi della Calabria il 15/02/2008.
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Nelle pagine finali di Tempo d’estate, ultimo nella trilogia di una vita di provincia, J.M.Coetzee, Nobel per la letteratura 2003, si trova imbrigliato nella ben nota questione dei modelli educativi, su cui si sono cimentate molte generazioni di cultori di scienze umane, e che evidentemente si è venuta complicando e deformando a tal punto da dover ripartire da una necessaria, scolastica, explicatio terminorum. E non è un caso che sia proprio il termine formare che fa riflettere lo scrittore sudafricano, che a un certo punto si interroga sul suo costante rifiuto ad accettare che l’obiettivo dell’educazione debba essere quello di formare qualcuno (“come un ceramista dà forma a un vaso”). E perché lui – protagonista del romanzo inchiesta su se stesso – abbia resistito fin da ragazzo a ogni azione di modellamento. J.M.Coetzee La risposta, offerta più esplicitamente che altrove in Tempo d’estate, è che il nucleo della resistenza a ogni forma di sagomazione implicita o esplicita dei primi imprinting formativi gli sia stato trasmesso a pelle dalla madre olandese, convinta che educare significasse identificare e favorire il talento naturale; le qualità che in ciascuno sono innate e che rendono unico ciascun essere umano. Se il bambino è una pianta (come nella genericità della letteratura pedagogica d’ogni tempo, incline alla simbologia botanica), l’educatore non può che nutrirla e sorvegliarne la crescita, piuttosto che potarne i rami per darle forma, come predicavano i kuyperisti1. La madre di Coetzee, nella sua semplicità, aveva optato decisamente per un’educazione libera da ogni modellistica. Dalla memoria d’infanzia, Coetzee ripesca Montessori e Rudolf Steiner, nomi che non gli significavano niente quando li aveva sentiti da piccolo, ma che gli tornano a mente in età più matura. Le scuole montessoriane mettevano a disposizione dei bambini blocchi di legno per impilarli l’uno sull’altro “finché la torre non crollava”. Blocchi per costruire castelli e plastilina per sagomare le cose, dopo i tanti meccani messi innanzi a tutti i bambini scolarizzati del Novecento, su cui fiorì l’editoria del self made americano negli anni Trenta, con numerose varianti d’uso (il mio piccolo architetto, il
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mio piccolo ingegnere; il mio piccolo scultore, ecc.). Come già Gramsci s’interrogava nelle sue lettere dal carcere su quegli americanismi messi precocemente nelle mani dei bambini per avvezzarli a una manipolazione disciplinatrice, e sul deweysmo di fondo di questi supporti educativi, anche la madre dello scrittore si sarebbe posto non pochi dubbi su quelle sagomazioni precoci delle mani e delle menti bambine, in vista di ottenere un risultato preordinato. Dewey – va ricordato – influenzò la pedagogia americana dalla metà degli anni Venti e giunse fino a noi con la fine del secondo conflitto mondiale. Il suo presupposto filosofico che la libertà vada amministrata attraverso un precoce condizionamento, non trovò resistenza nel vecchio Continente, alla ricerca di modelli educativi adeguati all’età della tecnica. Solo nei movimenti dell’éducation nouvelle si possono rintracciare zone di resistenza attiva a una precoce iniziazione dei bambini alle necessità della produzione, come nelle pratiche del movimento di Tipografia e Scuola in Francia ad opera dei fratelli Freinet, e successivamente in Italia nei movimenti di Cooperazione educativa (Tamagnini, Bruno Ciari e altri fautori di un’educazione democratica). Quei movimenti non furono tuttavia in grado di portare a sintesi critica la dialettica tra libertà e regole, né potevano esserlo in quanto movimenti, ossia esperienze di prassi spesso privi di una teoria. Questa fu pure la ragione di una certa refratterietà, e a volte di una vera e propria ostilità che si trovarono a dover fronteggiare – almeno da noi – all’interno dei grandi partiti di massa del dopoguerra, le cui nomenclature erano costituite da dirigenti di formazione crociano-gentiliana. (Il lettore mi scuserà ma su questo punto rimando a scritti di adolescenzialità accademica, per lo più degli anni Settanta). Gramsci aveva centrato il problema, parlando di un necessario conformismo dinamico da porre alle basi dell’edificio educativo, ossia di una imprescindibile base coercitiva nell’educazione, necessaria a dettare le regole dei comportamenti fondamentali. Ma come tradurre quel principio in una coerente riforma della scuola che del gentilianesimo depurasse la pesante zavorra dell’idealismo rivestito di spiritualismo? Solo dopo, e molto più tardi, si sarebbe potuto far largo, nella ricerca di un nuovo principio educativo, alle risorse di una creatività intesa, gramscianamente, più come traguardo che come base di partenza dell’attività e dell’applicazione. Quell’equivoco non risolto nelle culture pedagogiche libertarie avrebbe poi dato vita al più grande equivoco del Sessantotto su cui i riflettori non si sono mai spenti, e su cui si è ripreso a ragionare ancora di recente (cfr. Perniola, Zoja, Ortoleva)2.
Il frammento senza data Al termine di un frammento “senza data”, che occupa poche pagine finali di questo romanzo-inchiesta su se stesso, Coetzee fa seguire in Tempo d’estate, una nota di lavoro (“da sviluppare”): la sua teoria fatta in casa dell’educazione, le sue radici in: a) Platone e, b) Freud, e i suoi elementi: a) il ruolo del discepolo (lo studente che aspira a essere come il maestro e b) l’idealismo etico (il maestro che si sforza di dimostrarsi all’altezza dello studente, i suoi pericoli: a) le vanità (il maestro compiaciuto che si bea dell’adorazione degli allievi), b) il sesso
La nota da sviluppare Se seguiamo Coetzee nella “nota di lavoro” abbozzata, possiamo inventariare tutti i “modelli” di cui il narratore può disporre per spiegarsi quel lemma abbastanza equivoco attorno a cui si arrovella: il lemma in questione è formazione, oggi ricorrente e imperante, che ha completamente spodestato il termine di educazione, semanticamente più ricco, dialettico, ma non meno problematico, come si è cercato di spiegare. Cerchiamo allora di vedere cosa guadagna e cosa perde una formazione senza educazione, visto che quell’a poco a poco e poi all’improvviso con cui rispondere alla domanda del come si diventa ciò che si è (così almeno nella
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La nota di lavoro “da sviluppare” lascia intravedere un disegno ambizioso: riaprire e rileggere molte pagine della letteratura pedagogica di ogni tempo – da Platone a Freud – per darsi una spiegazione dei limiti non solo di ogni teoria pedagogica, ma di ogni pratica educativa ispirate tanto a teorie modellistiche che a quella stessa Ümbildung che ne proponga il superamento. Col rischio tuttavia di ottenere risultati modesti, se non si ammette che comunque, nelle cose dell’educazione, un metodo assolutamente migliore di un altro non è dato; che l’educazione stessa resta problematica (per i rimandi più generali a una visione dell’uomo e del mondo, come si è detto più sopra); che assai spesso essa si rivela un terreno minato di incertezze e delusioni; che né il russoviano sgomitolarsi da sé, né le più aggressive pedagogie eteronome, impostate su una formazione ab imis, danno poi risultati sicuri; e che è la vita pratica – tutto sommato – a decidere o quanto meno a condizionarci, inclinandoci in una direzione o in un’altra. Nella finzione letteraria di quest’ultimo romanzo, il Coetzee ancora felicemente vivente avanza al Coetzee fittiziamente morto, domande su come sarebbe stata la sua vita adulta se... Se anziché condizionato tutto sommato positivamente da un’educazione fatta in casa, priva di teoria e ricca solo di comune buon senso materno, si fosse trovato per tempo assoggettato in una qualche forma; se qualcuno – una chiesa, la stessa comunità calvinista, i maestri kuyperisti – gli avesse tracciato percorsi, fornito punti fermi; frapposto obblighi al suo libero svolgimento. Tempo d’estate – come si sarà capito – disegna, insieme ai precedenti romanzi Infanzia e Gioventù il trittico di una vita di provincia; complessivamente un Bildungroman sul come si diventa ciò che si è. L’originale stratagemma narrativo prevede una raccoglitrice di memorie, incaricata di cercare testimonianze sullo scrittore defunto. Interroga perciò persone diverse che con lui hanno avuto a che fare nel ristretto cerchio di relazioni che egli ebbe in vita. Il ritratto – anzi l’autoritratto – sarà impietoso: l’uomo che sta dietro il narratore è un inadatto alla vita adulta; e anche lo scrittore è tutto sommato un mediocre: una implacabile autovalutazione del Coetzee vivente sul Coetzee trapassato per necessità di fiction letteraria.
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(il sesso come scorciatoia verso la conoscenza). La sua provata insipienza per le cose del cuore; il transfert per la classe e suoi ripetuti tentativi falliti di gestirla.
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penna di un altro scrittore di tempra, Hemingway), ha molto a che fare con una formazione che ha preso il posto dell’educazione, che in luogo di un’azione esterna e sagomatrice sollecita una paziente attività estrattiva, dialogica, socratica. E la parola, proprio per come lo stesso Coetzee ha impostato la “nota di lavoro” andrebbe data innanzitutto a Platone, o quanto meno al Socrate di Platone, il cui insegnamento si può tradurre nel seguente concetto: nessuna misura pedagogica è legittima se non riesce ad ottenere una libera adesione personale. Non è certo un caso che il protofilosofo si sia sforzato poi di tradurre in sapere la ricerca di un ordine ragionevole dell’attività umana e la stessa attitudine a interrogarsi su di essa, spianando la strada ad altri, dopo di lui, che avrebbero posto quel sapere a servizio di una comunità ordinata secondo ragione. Fin qui insomma emergono tutte le ragioni della semplice ma, a quanto pare, solida genitrice olandese di Coetzee.
La modellistica della Modernità Se l’età classica è stata l’età di una paideia modellata, ossia impostata sull’imitazione dei modelli, è però alla Modernità che vanno rivolte le domande – per noi più decisive – sulle questioni della plasmabilità umana, nell’infanzia come per l’intero arco della vita umana. È nel lungo viaggio della Modernità infatti che l’educazione cerca un metodo e mette a punto forme e tecniche di un insegnamento e un apprendimento istituzionalizzati, estendendo a tutti la possibilità di diventare “migliori” e di praticare l’eccellenza della kalokagathía greca. La formazione, intesa come destinazione dell’uomo ha trovato la sua forma moderna nell’idea di umanità (e di natura umana), messa a dura prova da due circostanze deJ. J. Rousseau cisive: la prima legata alla costituzione politica degli Stati moderni sulle ceneri delle guerre religiose che divamparono nell’Europa cristiana; la seconda affidata al sorgere di una scienza analitica delle cause, che si impose sulla concezione antica e medievale della natura. Poiché la formazione (eruditio), la morale (virtus), la religione (religio) appartengono alla natura umana, il compito della formazione è di far venir fuori ciò che nell’uomo sta rinchiuso. Decisivo in questo senso lo snodo di Comenio. Più decisivo ancora – almeno nel definire i concetti di natura e di formazione – J. J. Rousseau, il quale muovendo dalla constatazione che gli uomini interagiscono sempre tra loro come avversari o concorrenti (e qui egli apriva tutta la problematica contemporanea del riconoscersi), rese esplicita nell’Emilio la portata rivoluzionaria della sua tesi, secondo cui la determinazione naturale dell’uomo è di farsi uomo, dal momento che l’educazione non può essere intesa come mezzo per imporre una forma comunque intesa. E che è semmai vero il contrario, ossia che convenga sempre tenere aperte molte possibilità, in modo da consentire a ciascuno
Lumi e ancora modelli Tra Illuminismo e Romanticismo venne poi affermandosi un umanesimo che si proponeva di raggiungere una completa reciprocità tra cultura ed educazione. Il principio che animò la Bildung tedesca, che via via s’impose nel vecchio Continente, è la tensione del soggetto verso la propria forma: tensione ludico-estetica nella drammaturgia di Schiller (il “sublime come teatro”); consapevolezza della storia e della lingua in Herder, che in Goethe si realizza nella forma del Bildungsroman, ossia nella possibilità di cogliere nel racconto racchiuso in ogni viaggio di formazione ciò che lentamente, e quasi impercettibilmente, ci trasforma lungo il percorso del viaggio. Il tema del viaggio della Modernità o – se si vuole – della Modernità come viaggio dell’anima del vecchio Continente, trova ora nella esperienza narrrativa di Eugenio Scalfari4 picchi di assoluta liricità: un lenimento della mente occidentale, portata da molta saggistica recente sull’orlo di una lettura apocalittica del futuro.
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di collaborare soggettivamente e attivamente alla propria determinazione. Sarà la natura a indicare questa possibilità; solo essa assume il volto di una prassi non normativa. Quello di Rousseau non va tuttavia inteso come un contromodello rispetto alla modellistica di uno stato di natura originario, bensì come un aiuto teorico all’autocreazione, nella quale cultura e natura possano svilupparsi insieme. Il suo fu il manifesto educativo di un prototipo umano che non dipende più dall’opinione, ma trova in se stesso un criterio universale di giudizio. Il ginevrino, che più di ogni altro ha pensato in modo originale la formazione dell’uomo, manca nel catalogo di Coetzee. Eppure avrebbe potuto spiegargli più cose di quante egli non si proponga di ricavarne da Freud e dall’“idealismo etico”. L’esigenza illuministica, ben presente e tuttavia in fase di superamento nell’età romantica, di una libera autodeterminazione degli individui, rese com’è noto necessaria e possibile una nuova definizione del rapporto generazionale. L’intervento pedagogico sulle nuove generazioni si sarebbe configurato come intervento sull’autosvolgimento della libertà (la vita autentica – riflette ora Mancuso3 – è tutta nelle forme della nostra libertà). Il declino delle arti e della morale aveva posto Rousseau innanzi all’esigenza di non abituare i bambini ai costumi disponibili, ma di sviluppare insieme a loro le regole per una convivenza basata su un riconoscimento reciproco, organizzando forme e contenuti dell’apprendimento in modo tale che l’incremento cognitivo potesse dischiudere una capacità di giudizio aperto e autonomo, indirizzato al progresso. Il ginevrino giunse alla conclusione che sappiamo, ossia che le condizioni storiche della società moderna non consentivano un’educazione alla libertà: la società non può illuminarsi su se stessa, e questo scetticismo radicale estese alle pratiche educative. Un problema, il suo, che si acuisce in ogni società che prende consapevolezza della propria crisi.
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L’idea di Bildung intesa come formazione generale dell’uomo, che con Hegel inizia la sua parabola discendente, verrà poi smarrendosi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, L’età della tecnica impose una forte divisione del lavoro, e la conseguente scomposizione di un’unica Humanitas. Le riforme scolastiche di cui si fecero promotori Humboldt in Germania e Gentile in Italia si incaricarono poi di cristallizzare quella scissione del principio educativo negli ordinamenti scolastici. Marx rimase del tutto isolato nel suo tentativo di contrastare il disegno delle borghesie europee con un progetto di onnilateralità ancorato alla politecnia. E il suo fu l’estremo tentativo di unificare la weberiana società dei due popoli, per estendere all’uomo – a tutti gli uomini – la possibilità di sviluppare tutte le loro facoltà, materiali e spirituali. (Sia detto tra parentesi che nella Germania di Angela Merker si sono di recente sottolineati gli aspetti negativi, anche nella produzione, del sistema “duale” e dell’eccesso di specializzazione nella formazione professionale, inadatta alle esigenze di un mondo che cambia molto velocemente). Una rivincita per niente consolatoria della lungimiranza di Marx su Durkheim.
L’ulteriore L’ ulteriore Una nuova idea di Bildung non poteva ignorare le conseguenze dell’età della tecnica sulla formazione, come si è detto, e venne perciò a collocarsi in un punto di tensione tra le istanze di liberazione del soggetto, che sono anche istanze di negazione, e le altre possibilità, oltre i limiti del noto e del dato. S’impose un percorso riflessivo che puntò decisamente sul valore dell’esperienza trasformativa, e questa riflessione deve molto a Nietzsche, il quale seppe intrattenere con la paideia del passato un dialogo aperto, con l’intenzione di farvi emergere un soggetto della formazione altro e diverso. Il punto di forza del pensiero di Nietzsche F. Nietzsche stava proprio nell’autoformazione. Decostruendo la Bildung dell’ideologia tedesca, che ebbe il suo monumento nella Fenomenologia hegeliana, Nietzsche riaffermò il primato del soggetto nella formazione, liberandolo dalla conformità di un sapere supposto oggettivo (in realtà oggettivante), per farvi emergere la sua unicità (e discontinuità) rispetto a ogni eteronomia. Per farvi emergere l’ulteriore, egli mosse da una critica di quel nichilismo dei valori che caratterizza tutta la tradizione occidentale. Nel suo pensiero la formazione coincide con lo stesso processo corrosivo dei limiti dell’umano: un processo dunque autoformativo che richiede autonomia. Contrapponendosi alla conformazione, l’uomo della tarda modernità vuole oggi aprirsi alla differenza, alla ricerca di percorsi originali e autonomi di costruzione culturale. Da qui il valore della poiesi, non condizionata da vincoli e gerarchie di
L’oltre L’ oltre della Bildung Tra i primi a tenere conto di questa svolta decisiva va segnalato Simmel, che ne rilanciò il richiamo alla vita, al dionisiaco e al tragico che stanno dentro le dinamiche delle forme in continua mutazione. Ma furono soprattutto Adorno e poi Foucault a riprendere la concezione di forma-forza nietzschiana, sviluppando ciascuno una propria visione di autoformazione. In Adorno la forma-forza diventava possibilità di un pensiero divergente, a partire proprio da una critica della modernità. Foucault a sua volta si concentrò sull’intreccio delle ragioni che collocano la vita tanto dentro quanto fuori dalla storia, nel senso che non si dà vita come storia se non attraverso una ricostruzione autoformativa che M. Foucault renda espliciti i modi di costruzione della soggettività, a partire da quel groviglio di segni impressi nel corpo e nei desideri. Per l’epistemologo francese la storia smette di essere qualcosa di lineare ed evolutivo; di conseguenza l’autoformazione diventa una pratica riflessiva capace di operare sui limiti. L’intera ricerca sull’archeologia del sapere si svolge intorno al tema della aletheia-verità, osservata nel rapporto del sé con se stesso, e nella costituzione del sé come soggetto. Sono le pratiche (i comportamenti) a definire le arti dell’esistenza: pratiche ragionate e volontarie, attraverso le quali uomini e donne cercano di trasformarsi nelle proprie singolarità, in una ricerca tendente a fare della propria vita un’opera d’arte singolare (“la vita autentica”) che esprima valori estetici e risponda alla determinazione di inconfondibili stili personali di vita.
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verità, che lavorano per la stabilizzazione dell’esistente, l’ordine e la conciliazionemediazione. L’estetica costruisce forme che non si votano all’equilibrio: formeforza, non forme-armonia. Le forme-forza sono quelle che nascono dall’immaginazione non ancora addomesticata, dalle emozioni, dalle pulsioni vitali, e dal loro investimento simbolico sul reale; sono forze che tonificano la vita emozionale, rafforzano lo sguardo sulle cose; liberano il pensiero che si fa ermeneuta dei segni e dei simboli in cui si raccoglie tutta l’espressività naturale e umana. Questa volontà di potenza svolge una funzione di destrutturazione delle gerarchie che vincolano il soggetto, ma anche di destrutturazione della sua stessa forma, disarticolata dalle sollecitazioni di immagini, simboli, emozioni. Apre, per questa via il soggetto a nuove possibilità, nuovi sviluppi; nuove aurore di senso. Con l’oltre e l’ulteriore l’uomo nietzschiano sceglie la metamorfosi, docile al destino di un “eterno ritorno”. Con Nietzsche insomma possiamo ritenere esaurita la lunga fase della modellizzazione. Il suo pensiero continua ancora a corrodere le pretese dell’universalismo educativo che si presenta sotto nuove vesti (il mercatismo e i suoi nuovi clericalismi).
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Un progetto di Bildung oltre se stessa (Ümbildung) avrebbe goduto di ulteriori, forti impulsi nel pensiero del Novecento. In Heidegger ad esempio, si presenta come teoria del linguaggio-interpretazione; in Wittgenstein come forma di vita. Da Heidegger a Ricoeur la formazione si vincola al tema del comprendere e dell’interpretare; al dialogo e all’ascolto. Una teoria della Bildung trovò inoltre incremento nell’ermeneutica di Gadamer, che la rielabora incrociando tradizione e in-lusio – la propria, personale messa in gioco –, caratterizzandola in senso fortemente creativo. Criticità e dialetticità, insomma, sono i caratteri con cui in ogni tempo si è presentato e si rappresenta per ciascun vivente il problema della forma-forza, quella su cui ciascuno può fare leva nell’organizzare le proprie risposte nei contesti di socialità e di relazione. Ben poveri e deboli perciò, innanzi all’insieme delle questioni che la Ümbildung dinamizza, si presentano oggi non solo le residue eteronomie che puntano sull’educazione come ripetizione e consolidamento dei primi imprinting, ma anche quelle, ancora più recenti, cresciute dentro i processi di globalizzazione, che si ispirano a un drastico funzionalismo economico-sociale, spostando decisamente sul mercato le prerogative di S. Freud orientare la forma umana. Non più educare persone, né cittadini della civitas globale, bensì formare produttori e consumatori flessibili e adattabili ai richiami di un mercato illimitato, refrattario a ogni regolamentazione e in quanto tale – mi sia consentito – libertino. Nella scaletta di lavoro di Coetzee vi sarebbero vuoti da colmare se si vuol dare alla narrativa il tocco della saggistica. Il viaggio della Modernità, come si è potuto vedere, è molto ricco e accidentato, e Freud, dal quale evidentemente Coetzee si attende più risposte di quante sia in grado di offrirne, è solo il passaggio di un percorso molto più interessante, se volessimo spiegarci quell’incapacità di “intensificazione dell’empatia”. La liberazione (guarigione non solo individuale ma collettiva) accetta i suoi limiti; la libertà va esercitata entro ambiti ben definiti. Ci dev’essere insomma un punto di equilibrio tra l’irrazionale dell’inconscio e la razionalità della mente, tra il sé desiderante e un Super-io legiferante. Questo vale tanto per Foucault che per Nietzsche, nomi che mancano nella sua “scaletta” di lavoro. Le domande sulla vanità e sul sesso, inteso come scorciatoia verso la conoscenza, così come quelle sulla “insipienza del cuore”, e il “transfert per la classe e i suoi ripetuti tentativi falliti di gestirla” hanno bisogno di un recupero nell’ordine di un Simbolico, in cui solo Jung potrebbe aiutare lo scrittore sudafricano, spianandogli quella platonica pianura
G. Jung
Infanzie Non è un caso se il Sé infante che emerge nel primo romanzo della trilogia narrativa “scene di vita di provincia” di Coetzee, che ha per titolo Infanzia, è quello di un ragazzo ossessionato dal diventare “normale”. Il piccolo protagonista sembra non avere aspirazioni fuori dall’essere considerato come tutti gli altri. Nutre insomma un forte desiderio di conformismo. Vorrebbe un padre che lo picchiasse e lo trasformasse in un ragazzo “a norma”; ma ammette pure che se suo padre lo percuotesse “lui perderebbe la testa e diventerebbe un ossesso”. Stessa ambiguità nei confronti dei primi maestri: odia le loro verghe e i lividi sui glutei. Ma lui non è stato mai picchiato, e se ne vergogna, dal momento che questo privilegio lo isola dalla comunità dei coetanei, dai giochi comuni. Dietro c’è una madre-roccia su cui lui “si erge”, che se ne sta sullo sfondo per intervenire solo quando lui la chiama. Il suo fardello d’infanzia è che nella situazione di completa adesione a un principio di libera autogestione a cui la madre si ispira e lo spinge, “dipende da lui andare, in un modo o nell’altro, oltre l’infanzia, oltre la famiglia e la scuola”6. Vorrebbe essere “normale”, ma vorrebbe anche che sua madre lo fosse. Perciò “è sempre lì a cercare di capire sua
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C’è una via d’uscita tra il necessario condizionamento che comporta ogni tipo di formazione e l’autonomo libero svolgimento di ogni Sé, senza guide e senza esercizio costrittivo? La formazione di cui si parla non offre risposte alle domande di Coetzee, né ai nostri problemi. Una forte sagomazione iniziale su modelli non porta necessariamente al decondizionamento in età adulta dalle forme ricevute; non porta insomma alla liberazione individuale, se non a costo di forti rotture che si manifestano in forme di ribellione o di dolorose chiusure introversive. Ma neppure il libero e spontaneo sgomitolarsi porta a quella autonomia promessa da illusorie pedagogie fai-da-te. La risposta più convincente resta ancora – almeno per chi scrive – in quella formula del conformismo dinamico gramsciano (travolto anch’esso dal Sessantotto) che mentre esercita una consapevole coercizione sull’apprendimento (tecniche e regole) nel primo imprinting, libera (né prima, né dopo, ma durante, ossia lungo l’intero percorso addestrativo) le energie intellettive dalla soggezione ai modelli. Vi sarebbero considerazioni da sviluppare su questo punto circa le ricadute della confusione pedagogica sulla politica della sinistra storica.
Angelo Semeraro
della verità dove abitano gli archetipi. E dove si possono cercare le tracce di quell’archeostoria impressa nel DNA di un Sapiens senza più déi e senza prossimo5. Nella scaletta di Coetzee non troviamo indicato Nietzsche che prima, ma anche oltre Freud, ha spiegato bene come il disagio, ogni disagio sociale, è radicato nel contrasto perenne tra felicità individuale ed etica pubblica.
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madre”7. Il fatto che questa incarni convinzioni diverse rispetto ai modelli dominanti, lo rende insicuro. Ben presto finirà col convincersi insomma che l’infanzia è un periodo in cui bisogna stringere i denti e resistere8. I protagonisti dei romanzi di Coetzee non vincono mai, e spesso sono in fuga. Nessuna consolazione, nessun conforto. Vivere è una malattia a cui nessuno può sottrarsi. Così è in Gioventù (2002), dove la storia del ragazzino inquieto e pieno di sensi di colpa di Infanzia è diventato un giudizioso studente universitario di matematica che si ritrova in un’Europa intrappolata in una guerra fredda che gli risucchia l’esistenza e gli fa sentire la vita come un gioco in cui si può solo perdere. Stesso clima nei due romanzi Aspettando i barbari (1980), storia di un magistrato che da suddito dell’Impero si trasforma in nemico senza avere mai la certezza di battersi per la causa giusta; così ancora in Età di ferro (1990), la tragedia pubblica e privata del Sudafrica violento degli anni Ottanta attraverso gli occhi di un’insegnante in pensione divenuta suo malgrado testimone di eventi storici violenti, di cui radio e tv non dicono niente; così pure in Disgrace (1999), tradotto in italiano col titolo Vergogna: una storia di disgraziati. A partire dal protagonista, un professore di letteratura di mezza età, e di sua figlia, omosessuale solitaria e ideologica; disgraziate anche le bestie: cani abbandonati sacrificati nell’inceneritore della clinica veterinaria vicina alla fattoria dove il prof. si rifugia. Disgraziata infine la veterinaria che passa le sue giornate a iniettare l’ultimo veleno a quei poveri randagi. Stesso clima in Elisabeth Costello (2003), narratrice di storie che nessuno vuole ascoltare. Romanzo – quest’ultimo – che porta al limite dell’assurdo le compiaciute certezze dell’illuminismo. Lo studente, il magistrato, il professore universitario, l’insegnante, l’affermata narratrice, sono tutte figure combattute tra condizionamento e rivendicazione di una propria autonomia. Che è poi l’eterna questione su cui si sono versati fiumi d’inchiostro e si sono cimentate pedagogie d’ogni tempo. Potremmo rapidamente concludere, che forse l’educazione è solo una questione di diete personalizzate, di un buon dosaggio tra autorità e libertà. Che ogni guida, consapevolmente o meno, non può fare a meno di condizionare, ma che laddove sia stata ben temperata da una scuola o da una ricca esperienza di vita, impara poi da sé a conoscere il momento in cui liberare, lasciando nelle mani di ciascuno la matassa da sgomitolare.
Note 1 Abraham Kuyper fu un teologo, politico e giornalista vissuto tra l’Otto e il Novecento. Influenzò una tendenza conservatrice del neocalvinismo. 2 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009; L. Zoja, La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009; P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, Il Saggiatore, Milano 2009. 3 V. Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. 4 E. Scalfari, Per l’alto mare aperto, Einaudi, Torino 2010. 5 Luigi Zoja, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti & Vitali, Bergamo 2003. 6 J. M. Coetzee, Boyhood, New York 1997, tr. it., Infanzia. Scene di vita di provincia, Einaudi, Torino 2001, p. 14. 7 Ibid., pag. 28. 8 Ibid., pag. 15.
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In questa ricorrente oscillazione tra dilemmi e antinomie, che Coetzee ha senz’altro il merito di segnalarci attraverso pagine di raffinata letteratura, vi sono le ineludibili incertezze di una paideia in continua tensione nella ricerca dei modelli per l’oggi e il domani. In ritardo sull’obiettivo di restituire a ciascuno la titolarità dell’autodeterminazione e i mezzi per raggiungerla. Spogliati del numinoso dei calchi originari (i modelli) – sembra volerci suggerire lo scrittore –, siamo oggi tutti obbligati a spingere lo sguardo oltre le forme date. Nessun timore dunque nell’abbandonare le eteronomie. Una paideia dell’oltre lavora per la speranza.
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Elena Pulcini La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’era globale Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp. 297, € 25,00 La ricca introduzione-premessa a quest’ultimo impegnativo saggio di Elena Pulcini lascia già intravedere l’intero suo percorso originale che punta – e può farlo grazie alla ricchezza degli strumenti storico-analitici di cui dispone – a un superamento di quell’ossessione dell’Io e del Noi (e del Noi e Loro) che rappresenta la vera malattia del nostro tempo: l’emergere da una parte di un individualismo illimitato che produce “atomismo e indifferenza”, e dall’altra di un comunitarismo “endogamico”, produttore a sua volta in aggregazioni “arcaiche e fusionali”. L’A. attribuisce entrambe le patologie a una collusione tra due tipi di fondamentalismo: quello omologante di mercato e della cultura consumistica, e quello tribale dei particolarismi di ogni genere, il cui sintomo estremo è rappresentato dal comunitarismo etnico-religioso. Entrambi costituiscono i prodromi di quella “perversione”del modello prometeico, di cui l’età globale ha accentuato gli aspetti negativi: perdita del limite (lett: confini) e sradicamento da un lato, e hybris di onnipotenza, propria della forma più degenerativa dell’individualismo narcisistico (“un Io decentrato e desiderante, ipertrofico e
vuoto, ancorato al presente ed esposto alla manipolazione”) dall’altro (p. 40). Tre figure di individuo si delineano sullo sfondo dello scenario globale: il consumatore, che si caratterizza per atomismo e indifferenza, lo spettatore, i cui caratteri sono edonismo e conformismo, passività e insicurezza; e il creatore, che ha smarrito la progettualità e il senso dell’agire (“Un Io, apatico e vorace allo stesso tempo, che possiamo riconoscere nell’indifferenza dello spettatore, nel parassitismo del consumatore e nell’onnipotenza solipsistica dell’homo creator”, p. 13). Il primo macroscopico effetto di questo paesaggio della modernità globale è evidentemente l’erosione del legame sociale e tuttavia il forte e diffuso bisogno di comunità, ossia la “valorizzazione” del locale – in senso sia territoriale che simbolico – come risposta al deficit di comunità prodotto dalla società globale. Parlare di un ritorno della comunità è per l’A. fuorviante. Quella che oggi rinasce non è la comunità premoderna, tribale, che resiste alle dinamiche della globalizzazione, ma, al contrario, quella che coesiste con essa. Si tratta perciò di sapere e “poter distinguere gli aspetti legittimi ed emancipativi da quelli patologici” (p. 13 ). L’ampio respiro di questo saggio approda a una assunzione di responsabilità, e di trasformazione creativa al contempo, per contrastare quella paura della “perdita del mondo”, un tema – anzi il tema – andersiano che fa da sfondo a tutto il saggio. “Solo la paura della perdita del mondo può spingerci ad assumere responsabilmente
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il tema della sua conservazione” (p. 160). Una euristica della paura diventa per l’A. la precondizione di un agire eticamente responsabile. Ma un sapere che non genera reazioni, un conoscere senza un sentire non si traduce in azione. La comunicazione, che è sempre un agire-con è una risorsa emotiva rispetto alla potenza produttiva, al Prometeo incatenato dalla tecnica. Eppure gli strumenti di comunicazione di cui disponiamo sembrano più anestetizzarci che indurci a un’agire finalizzato. La vulnerabilità, ossia quell’aspetto paralizzante di inadeguatezza che avvertiamo innanzi a processi di erosione delle libertà personali (libertà dal bisogno, dalla precarietà, dalla disinformazione) può tuttavia diventare una leva per imboccare vie d’uscita positive. Il pensiero critico femminile più maturo lavora in questa direzione (Judith Butler, ad es.). Solo nel riconoscimento della propria vulnerabilità e nella risposta alle difficoltà dell’altro il soggetto produce senso (p. 247). Viene valorizzata nel pensiero femminile di seconda generazione l’esperienza della perdita e della cura in quanto sollecitudine. Un’etica della cura (cfr.Gilligan, Con voce di donna), si carica di una dimensione emotiva, e una volta svincolata dal “materno” care-giving (prestare cura), acquista un respiro più universale che consente di incidere profondamente sulle sorti del mondo, ferito nella umanizzazione per gli effetti omologanti ed estranianti della globalizzazione. Il tema della cura mundi, bello ed originale, a cui l’Autrice dà il giusto rilievo nelle pagine conclusive di questo suo saggio robusto e affascinante, investe anche l’attitudine al prendersi cura (taking care of) più tipicamente maschile (J.Tronto), e carica di cognitività emotiva, empatica, il potere di incidere sulle sorti del mondo. È questa la strada per creare una diversa forma, in contrasto col concetto distruttivo di perdita del mondo. Se l’unica rivoluzione consentita è l’evoluzione, si deve prendere atto della creatività di un pensiero femminile che cerca di integrare l’etica della responsabilità con l’idea di cura ecologica del pianeta, che nelle pagine conclusive del saggio si delinea come una pratica, oltre che un principio morale.
Superfluo sottolineare la ricchezza dei legami che coinvolgono questa caratterizzazione meno astratta e retorica dell’etica della responsabilità, una volta ancorata a una comunicazione tenuta in tensione con gli obiettivi di una paideia trasformativa. Angelo Semeraro
Vito Mancuso La vita autentica Raffaello Cortina, Milano, 2009, pp. 171, € 13,50 Un discorso sull’autenticità della vita “vuole il piede”, esige cioè un fondamento, “così da poter essere sicuri che non crolli una volta esposto alla forza delle obiezioni” (p. 57). L’insegnamento di dare un piede alle cose, che Mancuso ha ricevuto da un padre che di mestiere faceva il muratore, costituisce l’imprinting del saggio, che si propone di delineare i caratteri di una vita autentica, tra i quali, e primo tra ogni altro, egli pone il problema della libertà. Perché innanzitutto va detto – come spiega e argomenta l’A. – “non c’è vita autentica se non c’è libertà”. Ed è su questa che si gioca la vera partita di una vita autenticamente vissuta. E se la vita è tanto più umana quanto più è libera, ossia quanto più il vivere incrementa la libertà, ne consegue che riflettere sull’autenticità della vita significa mettere a tema il buon uso che della libertà sappiamo fare “perché essa risulti buona e non cattiva, vera e non falsa, bella e non brutta” (p. 53). Questa Kalokagathía applicata alla libertà, la orienta alla verità, intesa come bene e giustizia (p. 118). Viene posto dunque implicitamente il tema dell’educabilità della libertà. Un grande e ricorrente motivo, drammatizzatosi nell’arco della Modernità, con la caduta dei Grandi Modelli. Fu un Einstein poco noto a riprendere con vigore, in uno dei suoi scritti, il tema della libertà interiore e della possibilità di educarsi ad essa attraverso l’indipendenza del pensiero dai vincoli dei pregiudizi e dagli stereotipi mentali. Avvertendo che le
è che c’è qualcosa che si può perdere o che si può guadagnare, e quel qualcosa è la psyché, cioè la libertà. Perciò per guadagnare il centro di me stesso mi debbo superare. Il nostro essere-energia va coltivato, speso, investito; è in questo modo che si sviluppano tutte le nostre potenzialità e diventiamo libertà che vuole verità, la quale a sua volta vuole adesione alla realtà. Tutto si tiene, tutto si può tenere, se partiamo dal necessario prerequisito della sincerità con noi stessi. Un farsi dell’uomo si acquista e si conquista solo attraverso una paideia che orienti fin dai primi istituti educativi, all’amore per la verità. La verità (in sé e per sé, aggiungerebbe Hegel), è quella che cerchiamo ogni giorno nell’informazione, nell’amministrazione della giustizia, nelle relazioni personali. L’educazione ci aiuta a coltivare quelle qualità dinamiche, relazionali, della verità, che consentono di collocare sempre il dato di realtà in contesti più larghi di senso e di significati. Perché l’educazione è paideia, ossia essenzialmente cultura, e autoformazione continua. Non si tratta perciò di assumere il significato della verità come dottrina, come dogma assunto per fede, ma di intenderla come processo, frutto del lavoro umano, su di noi e fuori di noi, perché essa è qualcosa che si muove, così come si muove la vita, e raggiunge l’aspirazione sua massima nella giustizia, il bene, la bellezza: la Kalokagathía dei greci, la loro eccellenza. Sono il bene e la giustizia a dare quella felicità profonda che dona la serenità. Si può riconoscere l’uomo che ha reso autentica la propria vita? L’A. risponde positivamente a questa domanda, e spiega che la situazione di autenticità si dà quando tra interiorità ed esteriorità si realizzi una stessa vibrazione di diapason. Quell’uomo dice ciò che pensa, fa ciò in cui crede; sente ciò che manifesta. Quando questa armonia si realizza possiamo star certi di trovarci innanzi a una persona autentica. Vero uomo è perciò colui che trova una ragione più grande e fuori di sé per cui vivere. Una virtù che è la sintesi dell’intera personalità, aggiunge l’A. nelle pagine finali è la speranza, perché ogni uomo è la sua speranza e si può anche definire attraverso l’oggetto del suo sperare. Se la vita è
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scuole possono ostacolare lo sviluppo della libertà interiore esercitando sui giovani influenze autoritarie. Ma cosa vuol dire autentico? Una questione che si soggettivizza per ciascuno, nella ricerca di un “fondamento tutto mio“. Filosofia e teologia si intrecciano e si incontrano qui nell’Autore, senza che nessuna delle due prevarichi l’altra, dovendo ammettere che non vi sono punti fermi in nessuna scienza umana, quelle religiose incluse, che le stesse neuroscienze non riescono a comprendere il livello superiore dell’essere che si manifesta come coscienza, libertà e responsabilità. Si aprono prospettive come si è detto interessanti per una paideia dell’uomo, in quanto l’autenticità (l’eigentlicht heideggeriano) – e il suo contrario (uneigentlicht )– riguardano l’uso della libertà, in primo luogo il controllo della mente e del linguaggio. Il controllo della mente comporta innanzitutto l’aderenza al reale (“inchiodarla” sul reale significa per l’A. aderire al presente, leggerlo per quello che è, senza mentire mai e senza applicarvi categorie improprie). Anche il linguaggio necessita di vigilanza e Mancuso ha buon gioco nel citare testi biblici di grande efficacia, come quelli che si trovano nei Proverbi (Chi sorvegli la bocca preserva la sua vita; la lingua è un fuoco che incendia, ecc.). Utili riflessioni offre l’A., a questo riguardo, sulla menzogna e sull’esuberanza narcisistica, un aspetto dilagante della patologia sociale dei nostri tempi a cui egli dedica pagine di utili approfondimenti. Nell’ultima parte del saggio si spiega il concetto heideggeriano della fedeltà a se stessi; l’aspirazione a vivere dell’“essere-sempremio”. Il concetto di fedeltà a se stessi è qualcosa che suona bene, ma che nel caso di Heidegger, suona male, dal momento che in quella sua “radura dell’essere” (Lichtung) non si insinuò mai il dubbio di servire una causa sbagliata. Una filosofia allergica a ogni valutazione etica – suggerisce l’A. –, annulla se stessa, e la rende falsa, perché incapace di interpretare e, quando è il caso, combattere, per non rimanere succubi della storia. Perché la fedeltà a se stessi richiede anche il saper diffidare di sé: chi si concentra tutto e solo su se stesso è portato ben presto a smarrirsi. Il paradosso
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paragonabile a un viaggio, la speranza è la meta verso la quale si viaggia. “Nessuno sa se ci sarà davvero una pesatura delle anime alla fine de mondo, ma ciascuno è in grado di capire quanto pesa la propria personalità e quella degli altri, e di sentire se chi abbiamo di fronte è in vendita oppure, e per quanto, oppure no” (p. 133). Se la speranza è complessivamente orientata al bene e alla giustizia, essa produce in chi la vive la luce calda e benevola dell’uomo giusto. Saggio godibile, consigliabile a quanti aspirano a una vera eccellenza. Angelo Semeraro
Carlo M. Martini Le ali della libertà. L’uomo in ricerca e la scelta della fede Piemme, Milano, 2009, pp. 109, € 15,00 In una incisiva riflessione che muove dalla Lettera ai Romani, il cardinal Martini ci rammenta il significato della misericordia nel Nuovo Testamento, un tema sentito da S.Paolo, ma di non facile interpretazione. Siamo innanzi a un documento importante per la Chiesa, ricco di tonalità e sfumature che lo rendono ancora attuale anche ai non battezzati e agli agnostici. Concentrandosi su alcuni passaggi, come quello che muove dalla parabola del buon Samaritano, il cardinale ci intrattiene sul significato di un termine desueto alla cultura sociale del nostro tempo. La misericordia può essere intesa in vari modi. In un senso più decisivo, essa è un’offerta non astratta di noi stessi, che investe la corporeità, la concretezza, le nostre scelte e le nostre azioni, oppure, in termini per noi più accessibili, in un sacrificio ragionevole, che non chiede troppo, che non prevarica e non abusa. L’uomo misericordioso difficilmente si incontra in una società altamente competitiva, completamente conquistata dalle economie di mercato. Difficilmente il modello altruistico può attecchire nella modellistica dominante. Misericordia e ac-
coglienza sono parole di cui non siamo più in grado di cogliere il significato. Il miserere del commiserare è la condivisione di un pane con chi ne manchi. Se ci interroghiamo sui nostri sentimenti più profondi, non troviamo più la gratitudine e l’accettazione, bensì l’amarezza e il risentimento. Vi sono persone, afferma Martini, che sono risentite e che mostrano in tutto il loro essere di non avere pace dentro di sé (p. 28). Le sofferenze si concentrano per lo più sulla questione del riconoscimento: sofferenza dell’abbandono, della considerazione; solitudine dell’emarginazione, della perdita del lavoro, o della sua irraggiungibilità. Un’altra parabola su cui l’A. si sofferma in queste raffinate meditazioni è quella dei talenti. In leggero ma essenziale contrasto con le retoriche dell’eccellenza, della genialità produttrice di brevetti, essa ci indica la strada per rendere costruttivo il rapporto io-altri. Osservare negli altri ciò che posseggono, e in noi ciò che ci manca, implica una buona dose di umiltà, un sentimento che non fiorisce più nelle società competitive. L’umiltà è un’attitudine a lasciare che altri, di qualsiasi età e condizione, ci insegnino qualcosa. Una disponibilità a farci avvicinare. Quando cominciamo a prendere realmente coscienza di ciò che siamo, dei nostri pregiudizi e dei nostri limiti, ma anche delle nostre qualità (i doni che possiamo distribuire attorno a noi, le nostre più proprie e specifiche qualità) siamo all’inizio della trasformazione della mente e del cuore. E la linea del cuore è altrettanto e forse più importante, afferma Martini, di quella della mente. I carismi sono diversi, e ciascuno si specializza nel proprio: “chi ha la profezia, chi l’insegnamento, chi l’esortazione. Ciascuno può mettere a frutto il proprio talento”. Il pensare di essere arrivato, non è interessante, sostiene. Più interessante fare di ogni traguardo un nuovo punto di partenza, sia essa una laurea o una cattedra universitaria. Sentire che quel traguardo è stato possibile grazie anche al sostegno di altri che ci hanno stimolato, che ci hanno incoraggiato lungo la corsa, che si sono prodigati e gioito con noi quando abbiamo toccato il nastro d’arrivo. In virtù della sua libertà, insomma, l’uomo resta ancora titolare della libertà a far prevalere la parte
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Marisa Fiumanò L’inconscio è il sociale. Desiderio e godimento nella contemporaneità. Bruno Mondadori, Milano, 2010, pp. 162, € 15,00 Il recente lavoro di Marisa Fiumanò, psicoanalista, saggista e co-fondatrice dell’Associazione Lacaniana Internazionale di Milano, si colloca all’interno di una precisa linea di ricerca che sembra stia diventando il filo rosso delle attuali scienze umane. Come già in altri saggi recensiti negli ultimi fascicoli del Quaderno, L’inconscio è il sociale denuncia l’assoluta centralità di un’analisi della soggettività contemporanea nel suo rapporto col desiderio, col suo appagamento e con le derive narcisistiche e
individualistiche conseguenti al suo inceppamento, i cui sintomi appaiono evidenti tanto nella sfera individuale, quanto in quella collettiva. Il volume di Fiumanò si muove agilmente lungo il percorso clinico tracciato dalla teoria freudiana e ri-semantizzato da Lacan, sebbene l’oggetto della ricerca sia rappresentato da una dimensione talmente strutturale del quotidiano, che l’ambito “clinico” costituisce soltanto una parte di un discorso antropologico in senso allargato. Nucleo centrale è la differenza, spesso poco compresa, tra il desiderio (désir) e il godimento (jouissance). Nella classica teoria lacaniana, come noto, il primo rappresenta la condizione umana fondamentale, caratterizzata dalla vettorialità di una spinta verso un oggetto che per sua natura è perduto, mitico e irraggiungibile (in quanto la sua mancanza è irriducibile al soggetto, alludendo all’originarietà dell’oggetto materno). Il desiderio pertanto è ciò che, semplicemente, spinge a vivere, spinge a produrre relazioni, cultura, civiltà; esso vive dietro il falso movimento verso un suo fantasmatico appagamento, verso il raggiungimento finale dell’oggetto. La jouissance, al contrario, è il godimento (interessante, tuttavia, tutto il percorso lessicale del termine proposto dall’Autrice, che al suo interno fa integrare le cariche semantiche dei concetti di joy, di gaudium, di Genuss e di Befriedigung), nozione flessibile e polisemica, una sorta di unità di misura del campo dell’energia psichica, che può significare sia benessere, che malessere, sia pulsione di vita che di morte ma, comunque, sempre soddisfazione finale e omeostatica. Ebbene, anche in questo lavoro è presente (ineluttabilmente, visti i temi dell’attualità) la lettura althusseriana della teoria di Marx sull’oggetto-merce e il valore di scambio, riattualizzata dalla logica del “Discorso del Capitalista” di Lacan: oggi l’oggetto perduto del desiderio tende a coincidere con l’oggetto di “consumo”. L’oggetto-merce, il corpo-merce, la sostanza-merce, il rapporto umano-merce, vengono così a rappresentare il godimento del soggetto, la jouissance del suo desiderio in panne. Anche qui, l’imperativo della pubblicità è “godi!”; ma
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buona e luminosa del sé oppure quella cattiva, oscura: “se sappiamo guardarci bene dentro, scopriamo che le forze negative del male e quelle positive del far bene sono perennemente in lotta dentro di noi”. Si tratta di non dimenticare però che abbiamo la responsabilità di “scegliere quale delle due parti vogliamo che prevalga: quella oscura, votata all’odio e alla distruzione o quella indirizzata alla creazione, all’affezione”. Fare del bene a chi mi fa del male sembra impossibile con le sole forze umane. In questo senso il comandamento dell’amore è l’ultimo, il definitivo. Ma se questo orizzonte si è fatto più lontano in tempi grevi come i nostri, rendiamoci almeno disponibili – questo è il messaggio del cardinale che non diventò papa – per un’etica del non danneggiamento, che si può tradurre in un invito a non far soffrire nessuno a causa del nostro giudizio. Un libro, una meditazione, altamente consigliabili, come antidoto alle degenerazioni delle nostre vite competitive, che inclinano pericolosamente da tutt’altra parte.
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l’ottenimento di questi oggetti di consumo costituisce una soddisfazione aleatoria, non potendosi sovrapporre all’oscuro oggetto del desiderio dell’individuo. Consumarli, possederli, appropriarsene, non cancella il malessere psichico delle dipendenze, delle apatie, delle sofferenze psichiche che caratterizzano il nostro tempo. Il desiderio va sempre “mancato” e rapportato all’Altro, suggerisce l’autrice, in una dialettica che si ripropone dall’origine della civiltà in una serie di modelli storici eloquenti, come quello di Antigone, che fa del proprio desiderio di morte una questione etica, o della Santa Teresa d’Avila del Bernini, di Bess di Lars Von Trier e di Lol Valerie Stein di Marguerite Duras, personaggi che mettono in campo l’impossibilità di rendere il godimento Altro all’interno del linguaggio. Da questa differenza concettuale, che rappresenta lo sfondo di tutto il saggio, si passa alla trattazione della clinica della jouissance da Freud a Lacan: un fantasma governa la sessualità, quello della messa in scena simbolica del rapporto tra il soggetto e il suo oggetto perduto, nel tentativo perenne di recuperare il godimento che vi si lega. Alla base di questo malpadroneggiabile processo dell’inconscio c’è la voglia insopprimibile di rendere reale das Ding, “la cosa”, ossia quel significante, quell’oggetto primitivo idealizzato e perduto per sempre e perciò strutturalmente insoddisfatto per sua natura. In questo senso vengono proposti una serie di elementi significativi e molto interessanti che rendono ragione di questa dimensione: dalla trattazione connessa al celeberrimo aforisma di Lacan, “Il corpo serve a godere”, alla parafrasi della formula di Charles Melman, secondo la quale “l’inconscio è l’organico”, cioè l’inconscio è il funzionamento degli orifizi fisiologici erotizzati simbolicamente dal soggetto come “luoghi del desiderio”. Tutto ruota attorno a una dimensione simbolica che funge da scenario per il desiderio umano e di cui il godimento rappresenta il ruolo meno centrale, sebbene più complesso. Per tale motivo, spiega Marisa Fiumanò, il desiderio è come la botte delle Danaidi, che, colpevoli di aver ucciso i mariti, furono condannate da Giove a giacere
negli Inferi e a riempire eternamente un recipiente col fondo bucato. E, di converso, il godimento è come l’acqua che scorre via dalla loro botte, impossibile da contenere, da misurare e da estinguere. Come spesso accade per i contraddittori aforismi di Lacan, che l’autrice isola in maniera limpida e godibilissima dalla scrittura spesso criptica del maestro, anche in questo caso la faccenda potrebbe essere riassunta dalla proposizione secondo la quale “la sessualità non è mai del tutto riuscita”. Nel senso che il vettore che lega il soggetto ai suoi oggetti del desiderio rimanda sempre ad altro, galleggiando nelle bolle del linguaggio. Come, per esempio, accade nella sessualità femminile, a cui Lacan dedica il Seminario Ancora (1972-73) e a cui Fiumanò rinvia in un paragrafo nel quale spiega la sottilissima “doppia iscrizione” attraverso la quale la donna mette in atto il suo rapporto col godimento in quanto relazione con l’Altro. E il concetto di Altro, paradigmaticamente, chiude il saggio ma ne dà anche il titolo: se l’inconscio è strutturato come un linguaggio, esso è, fondamentalmente, il “sociale”, cioè è dato dalla somma delle relazioni che ci spingono a desiderare l’altro (minuscolo) come espressione dell’Altro (maiuscolo), cioè da ciò che ci trascende e che ci spinge a vivere. Non Dio, non le ideologie, non un capo carismatico o una legge morale, ma tutto cioè che di queste rappresentazioni è alla base, ovvero lo stesso desiderio verso un oggetto che, miticizzandosi, si trascendentalizza e regge la vita sociale e politica delle società. Il sintomo più evidente del malessere generale che caratterizza tanto le attuali democrazie, quanto le attuali forme di autorità educative e di istituzioni formative, è proprio l’abolizione di questo Altro, cioè della fonte di autorità che, regolando il desiderio, ha da sempre organizzato la vita dell’Occidente. Manca cioè un “no” degli educatori che ponga un limite al godimento e riattivi un desiderio apatico e ormai svogliato: questa è la conclusione pedagogica con la quale si conclude il volume e che costituisce il corollario culturale della disamina clinica dell’autrice. L’inconscio è il sociale è l’esempio della
Mimmo Pesare
Massimo Recalcati L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica Raffaello Cortina, Milano, 2010, pp. 337, € 26,00 L’ultimo volume di Massimo Recalcati reca un sottotitolo che ne renderebbe un’idea fondamentalmente manualistica: “Figure della nuova clinica psicoanalitica”. E sebbene scorrendo l’indice ci si imbatta in una tassonomia delle più significative psicopatologie contemporanee, le quasi quattrocento pagine di L’uomo senza inconscio rappresentano un lucidissimo esempio di come uno psicoanalista possa dare un contributo non solo “clinico” alla saggistica di Kulturkritic, della quale c’è tanto bisogno da parte degli intellettuali del nostro Paese, in questo momento di emergenza politica. Al di là della gradevolezza e leggibilità della scrittura di Recalcati (anche quando usa un linguaggio tecnico) questo testo possiede una idea originale e una teoria che, come si conviene ai grandi pensatori, non rimane ancorata alle angustie delle proprie celle disciplinari, ma si dipana in un percorso intellettuale organico, molto incisivo e spesso anche caustico. Per Recalcati parlare di postmodernità non ha molto senso, oggi. I nostri destini sono legati al concetto di ipermodernità, un’epoca che, nell’iper- ha radicalizzato le contraddizioni e i conflitti irrisolti della Neuzeit. E la cifra peculiare della ipermodernità ha una radice fondamentalmente antropologica: essa è caratterizzata dallo spegnimento del desiderio, dalla sua morte, dall’apatia, dall’indifferenza, dal vuoto. Se i fasti della genesi viennese della psicoanalisi erano, dunque, ravvisabili in una “clinica
dell’amore” (quell’eccesso di amore frustrato rappresentato dalle nevrosi isteriche), il nostro tempo giace neghittoso in una “clinica dell’antiamore”, cioè in una psicopatologia caratterizzata dallo smarrimento di quello che Lacan chiamava “il soggetto del desiderio”. Il soggetto ipermoderno è un soggetto smarrito e gli elementi che corroborano questa dimensione non sono le vaghe supposizioni teoriche che caratterizzano la fiorente produzione editoriale (spesso sociologistica) di istant book e di pamphlet sul tempo che viene. L’impianto teorico di Recalcati, unisce la leggibilità e l’originalità concettuale a un rigore scientifico che rende il volume un opus magnum di questa stagione editoriale. Il perché di questo smarrimento, per Recalcati ha una causa molteplice. Non è possibile per uno psicoanalista cedere al determinismo di processi esclusivamente riducibili alla psiche individuale, come per uno scienziato sociale non è possibile comprendere la società senza far riferimento alle dinamiche emotive del singolo. In questo senso L’uomo senza inconscio si muove su un impianto di “ermeneutica della civiltà” che ha caratterizzato alcuni pilastri del freudismo quali Psicologia della masse e analisi dell’Io. Le sociopatie contemporanee, in altri termini, sono la manifestazione di psicopatologie individuali peculiari del nostro tempo e viceversa, in un continuo chiasmo di rapporti tra il singolo, la società e i media. In realtà Recalcati non parla mai esplicitamente di media e della loro influenza sulla psiche, ma agli occhi dei più attenti questo volume può rappresentare anche un utile strumento per lo svecchiamento delle teorie sulla comunicazione, dopo lo strapotere esercitato per decenni dalla ormai vetusta teoria macluhaniana. Anche questo libro, quasi a consacrare una sorta di leit motiv della saggistica recente, parla di narcisismo, inteso come spirito del tempo ed essenza stessa di una ipermodernità in cui anche le psicopatologie ne sono una metafora: i malesseri e le forme depressive di questo tempo si cristallizzano attorno ai fenomeni delle anoressie e degli attacchi di panico. In tutte le loro sintoma-
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continuità tra psiche individuale e psiche collettiva e, dunque, di come uno psicoanalista non possa che essere engagé, rappresentando un’etica che mette al centro l’uomo e il suo desiderio.
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tologie, questi deliri del corpo costituiscono la simbolizzazione dell’Io ripiegato su di sé, che ha sostituito le psicosi “centrifughe” del Novecento. Come scrive Recalcati “Soggetti spaesati, alla deriva, vuoti, privi di punti di riferimento ideali, ingessati in identificazioni conformistiche, indifferenti, chiusi monadicamente nelle loro nicchie narcisistiche, prigionieri delle loro pratiche di godimento dove l’Altro è assente (…) sbriciolati dalla potenza idolatrica dell’oggetto di godimento offerto illimitatamente dal sistema globale del mercato, sempre a disposizione”. La tanto osannata “fluidità” baumaniana, sembra dire l’autore, citando apertamente Lipovetsky, non genera solo il culto dell’effimero e la gadgetizzazione dell’evenemenziale, di cui si nutrono avidamente le narrazioni sociologiche. Essa genera soprattutto insicurezza e caos e va spiegata, oltre che raccontata. E la spiegazione analitica di Recalcati verte sul concetto lacaniano della “evaporazione del Padre”, la condizione in cui, dissolte tutte le forme di identificazione ideale, si piomba nella contingenza dei legami che espunge la figura simbolica dell’Altro e ne sintomatizza la mancanza su se stessi. Questa dimensione è spiegata dal “quinto mathema” di Lacan, il Discorso del Capitalista, attorno al quale ruota tutta la riflessione di Recalcati. Si tratta di un nuovo imperativo (un nuovo Super-Io sociale malato) della Civiltà ipermoderna: mentre al tempo di Freud il Super-Io imponeva la rinuncia nevrotica e la censura sul desiderio, in opposizione al godimento, oggi “la Legge che orienta il programma ipermoderno della Civiltà eleva sadicamente il godimento a imperativo”. Il godimento in assenza dell’Altro è diventato una obbligazione non più opposta al dovere. Al contrario: i due verbi sono fusi e complementari nella formula della nuova Legge: Devi Godere! Questo è il nucleo patogeno, e le conseguenze investono immancabilmente la società: il godimento narcisistico compulsivo, vacuo e senza oggetto, rende gli individui turbo-consumatori, servomeccanismi di un sistema in cui, per esempio, le spinte a un godimento sempre addizionale portano alla evoluzione di processi chimici e tecnologici sempre più raffinati, perché il piacere possa
essere consumato autarchicamente, come è possibile vedere nelle alienazioni delle nuove droghe e dei nuovi social network. All’interno di questa dimensione attecchisce quella “apatia frivola” che rende possibili le “identificazioni solide” dei sistemi di produzione-consumo e del ritorno degli assolutismi che caratterizza l’intorpidimento della vigilanza civica ipermoderna. L’inconscio, insomma, non è un dato metastorico, ontologico, ma piuttosto una entità foucaultianamente “etica”. Questo significa che l’inconscio non è dato una volta per sempre, ma può perire, eclissarsi. Ed è quanto si teme stia accadendo nella ipermodernità, dove solo il ritorno al desiderio e alla cultura del desiderio (ma anche al desiderio di cultura) potrebbe invertire la rotta di un narcisismo sempre più dilagante e autistico. E chi si appropria del nostro desiderio, può governare le nostre vite. Un libro per pensare, oltre che per studiare. Mimmo Pesare
Mauro Mancia Narcisismo. Il presente deformato allo specchio Bollati Boringhieri, Milano, 2010, pp. 120. € 13,00. Questo volume chiude una ideale trilogia di recensioni a saggi usciti negli ultimi mesi (dopo Recalcati e Fiumanò). Si tratta di tre lavori che hanno in comune una interpretazione dei fenomeni sociali a partire da un’analisi di natura psicodinamica, ma con implicazioni pedagogiche, cliniche e storico-culturali. Si va delineando, pare, una linea di ricerca che rende evidente una sorta di diminutio che le teorie sociologiche – che tanto monopolio scientifico avevano preteso negli anni Novanta – accusano oggi rispetto alle spiegazioni sul rapporto tra mente e media. Il fatto che si tratti di tre psicoanalisti (lacaniani i primi due, freudiano classico
anni Venti agli anni Quaranta; al rapporto tra narcisismo e rêverie e alla scoperta delle aree non simboliche di Bion (1962), ai concetti di “stima di sé” di Loewenstein (1964), di “ferita narcisistica” di Kohut (1978), di “madre morta” di Green (1980), di “stile di vita narcisistico” di Rosenfeld (1987), di “buco nero” di Britton (1989). Ma soprattutto il panorama post-freudiano è dedicato a due grandi teorie: quella degli oggetti-Sé di Kohut (1978-84) e quella del narcisismo normale e patologico di Kernberg (1984). Ma, dopo questo doveroso excursus teorico della nozione clinica di narcisismo, la parte più stimolante del volume di Mancia (e quella che lo iscrive di diritto nella ideale trilogia di cui si è parlato) è il terzo capitolo, Individuo, società e cultura narcisistica. Scrive significativamente l’autore “l’ipotesi alla base di questo capitolo è che una società non può che essere il risultato dell’organizzazione dominante della personalità dei suoi componenti e che un cambiamento nell’ecologia della mente, simile a quello cui stiamo assistendo in questi anni, con un aumento dei disturbi narcisistici della personalità, è l’espressione di un cambiamento storico che ha le sue radici nella società, intesa in tutte le sue componenti macro- e micro-strutturali” (p. 81). L’idea di Mancia è che esista una trasmissione culturale diretta che parte dalla famiglia e dalle sue relazioni e costituisce una cinghia di trasmissione di modelli affettivi e culturali, da una generazione all’altra. Ma tale trasmissione permane, successivamente, nel contatto coi modelli culturali dominanti durante l’adolescenza e la prima giovinezza, che regolano la personalità dell’individuo in maniera definitiva. All’interno di questa dimensione si gioca gran parte del destino mentale dell’uomo e delle società. Il problema, dunque, è di carattere pedagogico, oltre che psicologico: sarà l’equipaggiamento emotivo del bambino e dell’adolescente, insieme all’aiuto che sapranno offrirgli le figure di attaccamento primario, quelle di formazione e le tecnologie di apprendimento e relazione (tra le quali anche i media digitali), che gli permetterà di “trasformare” le frustrazioni e crescere emotivamente e culturalmente
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quest’ultimo), non costituisce una pregiudiziale per inferire una visione tipicamente disciplinare. In tutti i casi, infatti, ciò a cui si fa riferimento sono gli scritti più antropologici e di Kulturkritic dei maestri di tale disciplina; scritti che mostrano una attualità e una freschezza molto più utile di tante osservazioni vacue su un presunto percorso della società di massa postulato dalle, sempre meno robuste, teorie sociologiche degli ultimissimi anni. In questo caso si tratta della pubblicazione di un lavoro inedito di Mauro Mancia (1929-2007), geniale allievo di Cesare Musatti e voce originale e fertile della ricerca psicoanalitica italiana, che, tra i primi, ha cercato di coniugare alle più recenti teorie anglosassoni delle neuroscienze. Il titolo, di per sé, è già esplicativo: il narcisismo e la sua genealogia concettuale viene pensato come il fenomeno psichico caratterizzante l’attualità sociale. Del resto, è una traccia che fa capolino già da un po’, negli ultimi numeri del Quaderno, e che in questo agile saggio si struttura in maniera sintetica ma organica ed esauriente, dando conto del percorso storico di questo concetto che va progressivamente staccandosi dalla sua accezione popolare per proporsi come una delle nuove parole chiave della contemporaneità e del rapporto tra individuo, società e nuovi media 2.0. Il punto di partenza di Mancia è la teoria freudiana del narcisismo, detta “pulsionale” e analizzata lungo le tre fasi fondamentali della sua elaborazione: la prima, che comprende le opere Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (1920) e Il caso clinico del presidente Schreber (1910); la seconda, in cui Freud studia l’energia libidica nei saggi Introduzione al narcisismo (1914), Pulsioni e loro destini (1915), L’inconscio (1915) e Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917); e infine la terza fase dedicata alla teoria degli istinti, negli scritti Al di là del principio di piacere (1920) e L’Io e l’Es (1922). Dalla dualità del concetto di narcisismo (primario e secondario), postulata da Freud, Mancia passa in rassegna, diacronicamente, l’evoluzione clinica del termine dopo la lezione del fondatore della disciplina: si passa allora agli studi di Federn e della Klein, dagli
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senza ansie persecutorie o depressive, tipiche delle sindromi narcisistiche. Il rapporto, dunque, è biunivoco: viviamo in una società ossessionata dall’apparire, brulicante di Narcisi persi nella propria immagine riflessa e che i nuovi social network, gioco-forza, radicalizzano. La conseguenza è una trasmissione culturale che moltiplica i falsi Sé, concetto winnicottiano e kohutiano che Mancia isola come cifra caratterizzante il nostro tempo e le relazioni sociali attuali. In conseguenza di questo, l’autore denuncia il fenomeno del narcisismo come cultura mortifera che attecchisce naturalmente nel ruolo di sindrome antropologica della contemporaneità, facilitata da una apatia culturale e da una nuova etica del “come se”, egoistica e declinata a reparti stagni sulla propria immagine. In tal senso le discipline sociali non possono che prendersi carico di una ricerca che porti sulle sue spalle la responsabilità intellettuale dell’educazione, oltre che le raffinatezze dell’elaborazione teorica. Sembra, pertanto urgente (pare suggerire Mancia) la decodifica di un progressivo rapporto metodologico e di ricerca tra lo statuto epistemologico di un nuovo comparto delle scienze umane che potremo definire psicopedagogico e l’analisi della società di massa e del rapporto tra individuo, formazione e media, che prenda le mosse e l’armamentario teorico da tale statuto. Mimmo Pesare
Anton Semënovič Makarenko Poema pedagogico (a cura di Nicola Siciliani De Cumis) Edizioni Albatros, Roma, 2009 pp. 562, € 25,00 A settantadue anni di distanza dalla prima pubblicazione in volume unico (1937), e a trentatre dall’ultima edizione italiana (Editori Riuniti, 1976), l’Editore Albatros di Roma esce con una nuova edizione di uno
dei classici più letti e più tradotti nel mondo: il Poema pedagogico di Anton S. Makarenko. Si tratta di una ricchissima edizione (con saggi di Tatjana Korablëva, Emiliano Mettini, Agostino Bagnato, Franco Ferrarotti, Vincenzo Orsomarso, Marco Rossi Doria, Antonio Santoni Rugiu e appendice di Lucio Lombardo Radice) curata da Nicola Siciliani De Cumis e frutto della lunga attività didattica e di ricerca del Dipartimento di Ricerche Storico Filosofiche e Pedagogiche dell’Università La Sapienza di Roma. Poema pedagogico è il romanzo per antonomasia della besprizornye (infanzia senza tutela) nell’Unione Sovietica degli anni Venti e Trenta e rappresenta il massimo esempio della teoria pedagogica makarenkiana, delle sue idee sul collettivo e sulla disciplina e della filosofia dell’essere umano come prodotto sociale e come “uomo nuovo”. Il nome di Makarenko è da sempre associato al concetto leninista di collettivo (in questo caso, all’interno dell’esperienza quotidiana della Colonia Gor’kji). Capolavoro del realismo socialista, ma calato in uno scenario di coralità all’interno del quale ognuno contribuisce a delineare la multidimensionalità del collettivo, nel best seller di Makarenko l’importanza del prefisso co-, rappresenta l’essenza stessa dell’educazione e il nocciolo dell’ideologia gorkiana, secondo la quale “un uomo solo, per quanto grande, è pur sempre solo”. Ma tra collettivo e singolo il rapporto è dialettico, non vi è strapotere del primo sul secondo: piuttosto i due concetti sono reciprocamente intersecati nella scala cromatica complessiva dell’uomo nuovo. L’importanza di una rilettura del pensiero pedagogico di Makarenko, oltre che per i più immediati motivi di ordine strettamente disciplinare (che del resto vengono attualizzati da un approccio “multitasking” in nuce del pedagogista russo), evidentemente rivestono un profondo interesse di storia della cultura. Il pensiero di Makarenko, infatti, pur basandosi sulla ideologia marxista-leninista presente in Unione Sovietica dopo il 1917, detiene una forza propulsiva che tocca i problemi più attuali della filosofia dell’educazione e del rapporto di questa con la prassi socio-politica contemporanea.
appartenenza a quella parte del mondo che aspira alla giustizia, che è la cosa decisiva.” Questa tensione è forse il filo rosso che lega il Poema pedagogico a opere successive di Makarenko come Il libro per i genitori e Bandiere sulle torri: la linea etica verso il “bene comune”, che non si esplica attraverso una informe massa educata secondo un principio collettivo, ma, molto più carsicamente, attraverso una costruzione di prospettiva sociale che valorizza le individualità. In questo senso il Poema costituisce una grande narrazione “eroica” del processo educativo nella sua forma più curativa della tutela dei deboli e degli esclusi. Tema filosofico di grande empirismo, quasi deweyano, che oggi torna carico di una freschezza disarmante, all’interno di un panorama culturale in cui il concetto di libertà, non solo ha fagocitato quello di uguaglianza, ma, soprattutto, si è destrutturato autocraticamente in una strana forma di individualismo e di allergia alle leggi fondamentali dei diritti umani. Mimmo Pesare
Charo Lacalle El discurso televisivo sobre la inmigración Ediciones Omega, Barcelona, 2008, pp. 147, € 39,00 Il lavoro di Charo Lacalle, cattedratica di giornalismo presso la Facoltà di Scienze della comunicazione della UAB (Università Autonoma di Barcellona), ha un respiro molto ampio, adatto alla consistenza della questione di cui si occupa: la rappresentazione audiovisiva dei migranti e degli stranieri nei palinsesti della fiction spagnola. Lacalle affronta la relazione media-immigrato a partire da una certezza, presente fin dall’introduzione: ogni giorno, una media di 444 minuti di fiction viene trasmessa dalle televisioni generaliste spagnole. Un flusso imponente, di cui una parte cre-
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In una metodologia autobiografica dell’analisi makarenkiana, infatti, i nodi teorici trattati toccano tutti i momenti della illimitata fiducia nell’educabilità umana: dall’infanzia abbandonata nell’esperienza del collettivo e dell’organizzazione della Colonia Gor’kji, alla teoria della “disciplina cosciente” nella pedagogia familiare; dal lavoro come dimensione formativa, alla “cultura della diversità” nelle storie quotidiane dei diversamente abili; dal dialogo internazionale tra i sistemi di istruzione e il cooperativismo didattico, alle prime interpretazioni sul metodo anti-pedagogico di Makaranko; dai temi più sociologici sulla devianza infantile, a quelli psicodinamici sulla valenza del sogno; solo per citarne alcuni. Poema pedagogico, in questo senso, costituisce uno scrigno di spunti e di analisi che, come osserva Franco Ferrarotti nell’introduzione, non rappresentano una pura e semplice enunciazione della dottrina in cui si elargisce un insegnamento dall’alto al basso (secondo un paradigma autoritario), ma, al contrario, “il processo educativo viene dipanandosi nella sua complessa trama come un romanzo giallo”. Un romanzo di formazione ma di attitudine fortemente critica. Nel difficile quotidiano sovietico tinteggiato da Makarenko, i “colonisti” non fuggono: nessuna idealizzazione rousseauiana di un beato stato di natura; piuttosto una dimensione conciliativa, eutopica tra la Gemeinschaft e la Gesellschaft, al di là (come lo stesso Makarenko rincara) della “pura pedagogia”. Si tratta, probabilmente di quella dimensione ancestrale legata all’ermeneutica del termine greco paideia, che Platone, nel mito della caverna definisce come “periagoghé òles tes psykés”, e che Heidegger traduce con “guida dell’intera essenza dell’uomo a un mutamento di direzione”. E in questa guida, e in questo mutamento, il vettore educativo individuale costituisce un grimaldello etico per la costruzione del bene comune, topos di rinnovata attualità nel preoccupante tempo del suo tramonto politico, sociale, istituzionale. Come si legge significativamente nel capitolo del Poema dedicato al Komsomol, “si, la pedagogia è cosa importante, ma c’è una
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scente presenta situazioni e personaggi che coinvolgono la dimensione dello straniero, dell’immigrato, dell’altro. Basandosi su una bibliografia aperta, orientata prevalentemente sulle teorie e sulle ricerche qualitative dei Cultural Studies, Lacalle individua e comunica gli spunti e le riflessioni di un gran numero di saggisti, tra cui – più volte citati – gli italiani Alessandro Dal Lago e Omar Calabrese. L’estro della docente spagnola la porta a elaborare un’analisi e una narrazione di tipo socio-semiotico, che accetta l’influenza perdurante di Simmel per via del suo saggio sullo straniero (1908) e che conduce all’assimilazione di straniero e di migrante nel concetto unico di altro; che consente, a sua volta, di operare attraverso un discorso sulle identità, decostruite o ricostruite dai media. Il mondo delle news presenta solitamente l’immigrato come un pericolo sociale: i riferimenti identitari sono generici, e l’asse discorsivo è l’allarme sociale. Etichette ulteriori vengono applicate dai media alle persone coinvolte in fatti comunicabili attraverso il frame dell’immigrazione: la rappresentazione giornalistica dell’immigrato è sempre ricolma di ogni genere di pregiudizi. Accade lo stesso anche nella narrazione della fiction? In realtà, attraverso un minuzioso lavoro di analisi socio-semiotica applicato a un numero esaustivo di prodotti audiovisivi, Charo Lacalle rende conto di una certa evoluzione narrativa, che a sua volta rimanda a una discussione e trasformazione di stereotipi. Nella prima parte del decennio inaugurale del XXI secolo la fiction tv presenta lo straniero/migrante come protagonista di vicende oscure e prevalentemente criminali: d’altronde anche le serie poliziesche rappresentano le forze dell’ordine impegnate a distinguere, con un atteggiamento spesso paternalistico, tra immigrati volutamente non integrati (pronti per l’economia marginale e criminale) e immigrati solo “irregolari”, per esempio non in possesso di permesso di soggiorno ma desiderosi di mettersi in regola. Vi è un certo equilibrio, nota Lacalle nelle serie spagnole pertinenti, tra immigrati/ devianti e immigrati/vittime, equilibrio che consente a volte narrazioni decisamente “forti” sulle drammatiche condizioni di vita
dei lavoratori irregolari, sempre soggetti ai rischi della precarietà quotidiana, agli incidenti sul lavoro e a una grande solitudine esistenziale. Negli ultimi anni, tuttavia, molte fiction si sono aperte a una visione più positiva e “stabilizzante” dello straniero/migrante, in coincidenza con una più vasta presa d’atto della non transitorietà della presenza degli immigrati in Spagna. Esaminando attraverso le opposizioni del quadrato semiotico la rappresentazione televisiva delle figure dei migranti, Lacalle osserva una progressiva ricollocazione della precedente relazione “paura-repulsione” verso una coppia integrata di “simpatia-empatia”, in coincidenza con la proposta di figure migranti sempre più accentuatamente integrate, capaci di meritarsi anche ruoli di primo piano nelle tele-serie. Si passa così da una triangolazione “esclusione-ghettizzazione-ammissione” a una nuova terna di temi e relazioni: “assimilazione-integrazione-identificazione”. Ciò consente ai personaggi stranieri/ migranti di muoversi nelle fiction potendo generare contatti sociali nella sfera familiare, professionale e amicale. Le tinte forti e fosche lasciano così il posto a un racconto più lieve, dove, seppure con un istinto narrativo ancora orientato all’esotico, trova spazio una forma progressivamente sempre più comune di messa in scena dell’identità e dell’alterità migrante. Mondo dentro il nostro mondo. Stefano Cristante
Gianfranco Marrone L’invenzione del testo. Una nuova critica della cultura Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 218, € 22,00 “Inventare” vuol dire creare qualcosa che prima non esisteva (si pensi all’invenzione della ruota o della stampa), ma vuol dire anche ritrovare cose che si erano perdute oppure ci sono ma bisogna organizzarle per
dell’interno della procedura di modellazione che la genera: la socialità non è ad essa estrinseca. Non c’è la semiosi umana (antroposemiosi) e, staccata, la società; c’è invece la semiosi che si palesa come rete di rapporti di produzione e riproduzione sociale attraverso la capacità di formazione, intreccio o di testualizzazione dell’umano. Testualizzare equivale a semiotizzare; fare semiotica equivale ad analizzare testi e pratiche testuali: una semiotica del testo dove ‘del testo’ è un genitivo soggettivo che dice di una semiotica che nasce e cresce nella e sulla testualizzazione. “Al di fuori del testo non c’è salvezza” (Greimas) poiché è l’unico punto di ancoraggio e di partenza per la scienza dei segni. Con Derrida si può dire “il n’y a pas de hors-texte”, da non intendersi come il desiderio di rifarsi alla tradizione dell’Ermeneutica, che pone i Testi come origine e fine di ogni orizzonte di pensiero, né come rivendicazione di una chiusura nell’universo del verbale prescindendo da ogni ricorso a referenti ad esso esterni. L’affermazione derridiana – avverte Marrone – non va tradotta con “non c’è niente fuori del testo”, bensì con “non c’è un fuori-testo”, poiché “uscendo da un testo se ne ritrova un altro, e poi un altro ancora, e così all’infinito: non esiste altra natura della significazione umana e sociale che non prenda la forma di un testo” (p. 26). Cade la dicotomia tra testo e contesto: anche il contesto ha valenza semiotica; ciò che è testo e ciò che è contesto non può essere stabilito a priori ma solo in relazione a un percorso enunciativo. Qualsiasi situazione è anche un testo, un intreccio di forme e sostanze dell’espressione e di forme e sostanze del contenuto. Il contesto è l’intorno di una determinata porzione del reticolo segnico, cioè del testo, ritagliata da un interprete all’interno di un interpretante, il che dice che il testo è un costrutto e una “struttura culturale”, per usare le parole di Marrone (p. 25) di cui si può dispiegare il sistema di costruzione, cosa c’è in esso e cosa al di là di esso. Si viene delineando una sociosemiotica che non si limita a offrire i propri modelli d’indagine alle scienze sociali ma che si propone quale ricostruzione delle “con-
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sapere dove trovarle (ad es.: fare l’inventario). “Inventare un testo” quindi vuol dire ritrovarlo e costruirlo. Su questo doppio livello del ritrovamento e della costruzione si muove il libro di Marrone: ritrovamento (e riattraversamento) della problematica sul testo nella ricerca semiotica contemporanea (partendo da Hjelmslev e passando per Barthes, Greimas, Ricoeur, Derrida, Floch, Lévi-Strauss, Lotman, Eco, Rastier) e costruzione di una pertinenza teorica della testualità su cui basare “una nuova forma di critica della cultura” (p. VI), ovvero una nuova critica semiotica e una semiotica critica. Questo libro – dice il suo autore – “intende sperare in una doppia rinascita: della semiotica come disciplina sociale e del sociale; della critica della cultura come desiderio di una comprensione delle cose che passi per una preliminare, rigorosa spiegazione” (p. VII). Si tratta di uscire dall’autoritarismo del testo come garante di un significato univoco, racchiuso nella materia scrittoria, facendo venire meno il primato assoluto della lingua verbale e superando il mero filologismo. Le nuove istanze della cultura mediatica contemporanea, la pervasività della comunicazione-merce, le nuove acquisizioni epistemologiche della stessa semiotica (studio della percezione, della corporeità) richiedono una nozione di testo più flessibile, aperta, non autoriale. La sociosemiotica diventa semiotica del testo: due facce della stessa medaglia, una doppia natura che esprime la peculiarità della scienza dei segni. Non c’è da un lato la semiotica e dall’altro la società e la testualità. La semiotica è sociale in quanto risultato del lavoro di costruzione e decostruzione, di formazione e metaformazione che caratterizza l’animale umano, l’unico capace di produrre segni di segni con cui descrivere la semiosi (metasemiosi) e di costruire consapevolmente sistemi segnici o meglio simbolici, qual è anzitutto la società, in cui si esprime la peculiarità del suo modo vivere. L’uomo esercita ed esplica questa sua capacità semiotica nella società e nelle condizioni che questa gli impone. La sociosemiotica pertanto non è una semiotica applicata ma il fondamento stesso della semiotica in quanto metasemiosi. La semiotica guadagna il sociale
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dizioni di possibilità della società come oggetto di conoscenza scientifica” (p. 33). Una (socio)semiotica critica non solo in senso kantiano ma anche nel senso marxiano di analisi della produzione, manipolazione, interpretazione della comunicazione. Il senso che nei testi prende forma non è un dato empirico bensì il manifestato di una configurazione socio-culturale di cui occorre individuare le condizioni di funzionamento. Marrone riporta l’esempio della ricerca di Jean-Marie Floch, uno dei primi studiosi di semiotica del marketing, il quale, piuttosto che occuparsi genericamente dei modi in cui la pubblicità cerca di persuadere i consumatori ad acquistare determinati prodotti, “ricostruisce a monte il sistema delle scelte di consumo che si trovano rappresentate nei testi pubblicitari”. Emerge che il consumatore sceglie un prodotto proiettando su di esso una propria visione del mondo e determinati valori. Nel campo degli studi linguistici comunemente intesi è con Hjelmslev che sorge la nozione di testo come forma di comunicazione verbale e non verbale. Il testo, per Hjelmslev, è la realizzazione del sistema, ciò a partire da cui inizia il lavoro d’indagine, a prescindere dalla sostanza espressiva assunta da tale realizzazione” (pp. 16-17). Ci preme sottolineare che la glossematica hjelmsleviana non supporta una visione testualista in senso forte, vetero-testualista e riduzionista, anzi, concependo il testo come un processo sintagmatico illimitato, varca i limiti della testualità tradizionale e consente di volgere lo sguardo verso il continuum testuale della semiobiosfera. Un oggetto o un testo, dice la semiotica glossematica, può essere studiato scientificamente soltanto attraverso la descrizione delle sue funzioni con altri oggetti o testi: da un lato attraverso la descrizione delle sue funzioni interne, delle funzioni tra le sue componenti, dall’altro attraverso il suo inserimento in un complesso funzionale più ampio, descrivendone le funzioni con altri oggetti (testi) esterni. Comprendere un testo vuol dire comprenderne le relazioni e le correlazioni interne ed esterne. Non si cerca l’essenza del testo e cade l’illusione di considerarlo come mero dato empirico, precostituito.
Coerentemente con la tradizione di ricerca della semiotica strutturale entro cui si colloca, questo tipo di sociosemiotica supera ogni ontologismo del testo. Tutto è negoziabile, a iniziare dai confini del testo. La negoziazione è costitutiva perché la fondamentale caratteristica della testualità, e in essa della semiosi in generale, è quella della “presupposizione reciproca di due piani, espressione e contenuto, ognuno dei quali dotato di una materia (relativamente non pertinente) e di una forma (invece costitutiva). A fondare il testo è la solidarietà di base fra una forma dell’espressione e una forma del contenuto” (p. 72). Prevale il modus, la forma: non si progetta una casa ma un modo di abitarla, così come un paio di occhiali è un modo di mostrare/ nascondere il viso. Su questi temi insiste Marrone nei capitoli del suo libro dedicati alle tecnologie dello sguardo, al discorso di oggetti come lo sbattitore, ai modelli discorsivi dell’esperienza delle sostanze stupefacenti, all’analisi semioestetica del testo giornalistico, prendendo in considerazione la programmazione telegiornalistica italiana (Studio Aperto, Tg1, Tg2, Tg3, Tg4, Tg5) di prima serata dal 31 agosto al 2 settembre 2001. Un testo non è semplicemente un libro (questa è solo una sua forma materiale), “ma ciò che emerge quando lo si legge” (p. 73): una forma di contenuto, interdipendente con una forma espressiva, che dice della possibilità di “navigare” al di fuori del testo presente, creando link con altri testi assenti, di intraprendere viaggi testuali o avviare nuove costruzioni semiotiche. Cosimo Caputo
Piero Dorfles Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura Garzanti, Milano, 2010, pp. 207, € 18,60 Se, ogni notte, qualcuno si introducesse in casa nostra e ci inoculasse dosi progressiva-
atteggiamenti e le coscienze degli italiani attraverso tre generazioni. Il secondo, antico quanto un dinosauro, ha a che fare con le emozioni e con le parole attraverso le quali esse prendono forma divenendo monito, disapprovazione, ribellione, esortazione; parole che scuotono le coscienze e curano dall’alienazione sociale, dall’indifferenza e dal conformismo, parole drammatiche che riflettono la fragilità dell’uomo, ma che, allo stesso tempo, lo spronano a riappropriarsi – seppur con sofferenza – della propria vita. Un dinosauro terapeuta? Certamente un educatore alla riscossa, uno di quelli che oggi è sempre più raro incontrare! Un maestro che sia, fondamentalmente, ancora in grado di insegnare la lingua italiana ai suoi alunni. Ma che allo stesso modo sia in grado di infondere il senso, il significato e il valore della cultura nello sviluppo socioeducativo dei bambini, degli adolescenti, dei giovani. Un maestro che sappia ribellarsi e combattere la clientela, le meschine insicurezze di quei genitori che crescono i loro pargoli a raccomandazioni, favori e regalucci. Maestri che sappiano riappropriarsi del loro ruolo e della loro funzione formativa all’interno del sistema Istruzione. Maestri che sappiano insegnare l’indignazione quando di fronte alle sciagurate azioni di riforma ministeriale si preferisce risparmiare sulla cultura, condannandoci a un futuro di mediocrità e false libertà. Lontano, dunque, da ogni possibile interpretazione reazionaria che l’idea di un millenario lucertolone potrebbe popolarmente suggerirci, il nostro dinosauro è tutt’altro che un conservatore. La sua generazione, sicuramente, non si è formata nutrendosi di tecnologia, smanettando in internet e socializzando tra i vari social network presenti in rete, ma non ha, con ugual sicurezza, nemmeno partecipato al declino della cultura, alla dissoluzione dei valori e dei principi politici, sociali, relazionali che un tempo costituivano la base sicura dell’uomo della modernità. Ma cosa è accaduto? Di certo, la complessità della crisi culturale e insieme sociale, politica, economica e psicologica che oggi viviamo, non è riconducibile a una causa unica e ben definita. Essa ne ha tante e, soprattutto, è il risultato di un processo fatto
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mente più massicce di veleno, probabilmente, al nostro risveglio, non avendo alcuna consapevolezza di quanto accadutoci la notte precedente ed avendo sviluppato una certa insensibilità al farmaco, non saremmo in grado non solo di riconoscere in noi i sintomi di una possibile intossicazione, ma ancor più di distinguere il reale dallo stato di costante allucinazione procurato. Se, però, scoprissimo l’accaduto, saremmo assaliti da un’angoscia tremenda mentre terribili domande ossessionerebbero i nostri pensieri: “ho ancora coscienza di me e del mondo che vivo”? “chi è l’estraneo che ogni notte, senza che io me ne accorga, s’impadronisce dolcemente della mia libertà”? Ma soprattutto: “esisterà un antidoto che mi possa salvare restituendomi alla realtà? E sarò ancora in tempo per assumerlo”? Senza dubbio, si tratterebbe di una scoperta terrificante, ma chi sarebbe disposto a rinunciare alla verità su di sé? Probabilmente nessuno, se il rischio fosse quello di vivere una non-vita. Ebbene, è proprio contro questo rischio che Piero Dorfles cerca di ammonirci diffondendo tra le pagine del suo ultimo libro Il ritorno del Dinosauro. Una difesa della cultura, l’antidoto contro quell’involuzione culturale che come un veleno ci mitridatizza verso una condizione di inerzia e apatia esistenziale. Prima ancora che giornalista e critico letterario, in questo libro Piero Dorfles è un maestro, un mentore figlio del dopoguerra, tempo in cui l’educazione e la formazione intellettuale erano ancora considerate la prima e fondamentale condizione per lo sviluppo e la maturazione di un uomo libero, autonomo e indipendente, capace di decidere di sé senza costrizioni, padrone dei propri pensieri, consapevole delle proprie azioni, geloso della propria libertà. Un uomo d’altri tempi, dunque: un dinosauro. Ed è con esso che Piero Dorfles ha deciso di farci interloquire. Per due motivi: uno più storiografico e l’altro di metodo. Il primo dà valore e significato alla sua funzione di intellettuale e critico dei processi culturali, alla saggezza e alla competenza con le quali analizza e decostruisce i sistemi, le istituzioni, le politiche e i fatti che hanno caratterizzato e influenzato i costumi, gli
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di contraddizioni, di classi dirigenti inette, prive di una benché minima sensibilità etica, di cittadini inconsapevoli, probabilmente, ben rappresentati dai suoi governanti, di un voto di maggioranza determinato più dalla speranza di acquisizione di utili che da una adesione ideologica al partito, di un dibattito politico quasi completamente trasformato in dibattito economico a scapito di una progettazione sociale che realizzi e attivi azioni e pratiche finalizzate alla creazione, al potenziamento e alla salvaguardia della serenità e del benessere psicologico dei cittadini, di un pensiero politico che pratichi l’equa distribuzione delle opportunità, di una informazione che si riappropri della sua funzione sociale, di una stampa che la smetta di vendere e svendere emozioni e di una radio e di una tv programmate per avere audience. Basta, con una informazione fatta di notizie superficiali che parlano di animali, moda, cibo e vacanze, basta con i palinsesti e le trasmissioni televisive che discutono di pettegolezzi e banalità imbastite da qualunquisti senza né arte né parte. Il dinosauro non ne può più! E con esso tutti coloro che si sentono deprivati, prigionieri, ricattati, non ascoltati e non rispettati ma lucidi, consapevoli, disposti a guardare in faccia le storture della realtà, a non accettare più nulla senza prima averne compreso il perché, a non essere indifferenti, a ribellarsi, a contestare seguendo le orme del dinosauro, grandi e profonde, visibili e rassicuranti, tracce di un percorso che porta al futuro. Seguiamole: forse sperare potrà essere ancora possibile! Stefania De Donatis
Agata Piromallo Gambardella La comunicazione tra incanto e disincanto Franco Angeli, Milano, 2009, pp. 117, € 15,00 “Senza incanto non c’è luogo, ma senza il disincanto della regola si andrebbe alla
deriva”. Così ha esordito Marco De Marco, direttore del Corriere del Mezzogiorno, intervenuto Il 29 ottobre 2009 all’Istituto degli Studi Filosofici di Napoli durante la presentazione dell’ultimo libro di Agata Piromallo Gambardella. La regola, invocata dall’autrice, è l’equilibrio tra incanto e disincanto e coincide con il senso di responsabilità che, solo, può garantire un equilibrio stabile. Il mondo dell’informazione è incendiato: l’informazione è ovunque; la concorrenza giornalistica tiene viva la passione ma senza una norma si prospetta una totale deregulation. Lucio d’Alessandro ha a sua volta sottolineato come il libro della Piromallo sia un testo generazionale, a tratti profetico, che racconta come la generazione passata abbia dovuto gestire lo stupore, l’incanto infinito dei media in rapida evoluzione; un libro che rivela una certa nostalgia, un afflato religioso, una tensione verso l’alto. Agata Piromallo esprime una grande sensibilità per la dimensione umana e sovraindividuale e una forte preoccupazione pedagogica, un approccio costante alla regola che si dipana attraverso la prudenza e la ricerca. Nel commentare il testo, Aldo Trione ha parlato di “un’indagine legata alla fenomenologia della postmodernità”, segnata dal soggettivismo, dalla caduta di molti schemi universalistici e da un edonismo legato ad un approccio disinvolto all’eticità. Il libro insomma si configura come una sorta di “diario fenomenologico” legato al connubio inscindibile tra comunicazione e pensiero ed è uno studio sorretto da una tensione etica. La Piromallo è interessata alla “dimensione ontologica della costruzione immaginaria” e si pone all’interno dei registri in cui si confrontano l’io e il tu, dove, nel segno della comunità, si determinano procedure, modelli, strategie. La studiosa parla dell’idea estetica tout court, come una sorta di rimodulazione del processo comunicativo che va a risignificarsi nei suoi modelli e nelle sue intenzioni. Non c’è però estetica senza etica: le grandi opzioni etiche si ripropongono perché senza di esse la comunicazione non ha senso. Bianca Maria D’Ippolito ha voluto ricordare quanto scrive Leopardi nello Zibaldone, ovvero che gli uomini non vogliono
incontrollata di significazione. Nella civiltà dell’immagine lo spazio pubblico re- incantato non è più il luogo di elaborazione di regole. Il virtuale reinventa il luogo dove l’etica del discorso può di nuovo inscriversi. La riscoperta della parola scritta legata ai nuovi media tende alla rifondazione di un nuovo spazio pubblico e di un nuovo teatro della memoria condivisa. Su questo inedito scenario si può passare dall’incanto della follia al disincanto della ragione, si può riconsiderare il senso del limite e il ritorno della regola come una frenata che eviti una caduta libera verso il mare infinito delle scelte. L’unica strada per non smarrire il senso è dunque quella di scoprire l’incanto delle cose che ci circondano. Diana Salzano
«Alfabeta» 2 Numero 1, luglio/agosto 2010, Editore GeMS (Gruppo editoriale Mauri Spagnol), Milano, pp. 48, € 5,00. Apologia dei grilli parlanti: così si sarebbe dovuto intitolare l’articolo con cui Umberto Eco apre il primo numero della nuova serie di “Alfabeta”. I grilli parlanti in questione sono, ça va sans dire, gli intellettuali, come del resto anticipato dal provocatorio titolo generale del numero: “Intellettuali senza”, citazione di una fortunata seria di interventi che impegnò vari numeri della serie “storica” della rivista (1979-1988). L’insulto implicito in quel titolo – con la sua non velata allusione alla mancanza di attributi – nasceva da una duplice presa d’atto: da un lato, si denunciava la filosofia del “si salvi chi può” che ispirava le scelte di molti (ex) intellettuali di sinistra, impegnati a trovare una ricollocazione di fronte al rifluire dei movimenti che avevano agitato il decennio 1968-1977; dall’altro lato, si puntava il dito contro il colpevole silenzio della categoria di fronte all’arresto (avvenuto il 7 aprile del 1979) di un gruppo di intellettuali dell’Autonomia Operaia, accusati di complicità nel seque-
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conoscere ma sentire infinitamente. Tema fondamentale del libro della Piromallo è, appunto, secondo la filosofa, un’indagine intorno al sentire. Nella dimensione strutturale del testo emerge un rinvio costante dal desiderio al sentire e dal sentire al desiderio. L’indagine sul sentire e sulla sua natura è collocata tra immagine e parola. La parola è alata, è continuo dubbio e costante circolazione; si rivolge ad altro ed implica una lontananza che deve essere colmata. L’immagine invece è una struttura duplice, enigmatica, che rinvia a ciò che è immaginato e, allo stesso tempo, trattiene presso di sé perché è calda, piena di sentire. C’è un rapporto di scambio tra immagine e parola ma anche di contraddittorietà. L’immagine tende a riassorbire la parola che rinvia invece costantemente ad un’altra parola in un allargarsi continuo del ciclo. Nella società mediatica l’immagine assume connotati inquietanti che, sotto un certo profilo, sembrano assicurare la felicità perché l’immagine è carnale, ha un peso, un corpo, un sentire. Questo essere di carne pone però il pericolo di essere riassorbiti in qualcosa che non ha più intenzionalità. La perdita dell’intenzionalità è il richiudersi nella corporeità dell’immagine e perdere la comunicazione. Nel libro della Piromallo l’eros è inteso come rapporto con l’altro che non si configura mai come appropriazione. L’ethos, invece, è uno spirito che la comunicazione deve sempre invocare di fronte al pericolo della perdita di soggettività che si presenta quando l’immagine diventa autoreferenziale, istaura un finto rapporto, ingoia la realtà. Marino Niola ha infine sottolineato come l’esplosione contemporanea della comunicazione è figlia di un’accelerazione dei dispositivi di scambio comunicativo e di produzione di immagini che determinano un nuovo reincanto del mondo che segue il disincanto della modernità, caratterizzata dal dominio della tecnica e della ragione. Il reincanto mediatico digitale è legato a quell’estetizzazione diffusa che accomuna i media e l’arte, rendendo comunicante l’arte e bella la comunicazione, assoggettando entrambe ad un medesimo format che produce una moltiplicazione proliferante e
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stro e nell’omicidio di Aldo Moro (accusa rivelatasi priva di ogni fondamento). Fra le vittime di quell’operazione giudiziaria c’era il poeta Nanni Balestrini, storico esponente del Gruppo 63, costretto a rinunciare alla direzione di Alfabeta e a rifugiarsi a Parigi per sfuggire all’arresto. Per il racconto di come gli altri membri del comitato di direzione (Umberto Eco, Maria Corti, Antonio Porta, Paolo Volponi, Francesco Leonetti, Pier Aldo Rovatti, Mario Spinella, Omar Calabrese, Maurizio Ferraris e chi scrive) si organizzarono per svolgere collegialmente il ruolo di Balestrini, rinvio al mio articolo sul primo numero della nuova serie, mentre qui preferisco concentrare l’attenzione sulle ragioni della riproposizione di quel titolo a vent’anni di distanza. Torniamo dunque all’articolo di Eco che, adottando la forma (cara alla vocazione “enciclopedica” dell’autore) di una successione di voci di alfabeto, tenta di rispondere a due domande di fondo: chi sono gli intellettuali e perché la destra li odia. Semplificando radicalmente, le risposte di Eco ai due quesiti sono: 1) gli intellettuali (senza ulteriori, fuorvianti caratterizzazioni associate ad aggettivi quali organici, impegnati, ecc.) sono quei soggetti dotati di talento creativo e competenze tecniche sufficienti a mettere in pratica tale talento (scienziati, filosofi, ricercatori sociali, letterati, artisti, ecc.) che esercitano la propria capacità critica (che fanno cioè i grilli parlanti) anche sui temi etici e politici della vita pubblica, senza lasciarsi confinare nell’orticello delle proprie competenze specifiche; 2) questa vocazione non ha connotati ideologici (esistono intellettuali di sinistra e di destra), ma suscita prevalentemente, benché non esclusivamente, l’odio della destra, perché il rifiuto di riconoscere limiti “tecnici” alla propria intelligenza critica implica il rifiuto del principio di autorità su cui la destra fonda i propri valori. Il miracolo della “vecchia” Alfabeta fu quello di svelare che negli anni Ottanta, in barba al riflusso, di intellettuali (nell’accezione appena evocata del termine) ne esistevano ancora molti: basti pensare che la rivista – assai poco disposta a sacrificare la complessità di problemi e linguaggi alle esigenze di mercato – riuscì a vendere a lungo fra le dieci e le quindicimila copie.
Merito di un rigore etico e intellettuale al limite dello snobismo; merito anche e soprattutto di un costante rifiuto dell’accademismo e del conformismo ideologico (massima apertura e libertà di confronto, spesso ai limiti della rissa); doti che le consentirono di esercitare un ruolo indiscutibilmente egemonico sulla cultura di sinistra del decennio. Vent’anni dopo il senso di quegli “intellettuali senza” rischia di subire un rovesciamento, al punto che varrebbe la pena di invertire i termini titolando “senza intellettuali”. In molti articoli del primo numero della nuova serie (penso, fra gli altri, a quelli firmati da Andrea Cortellessa, Andrea Inglese e da chi scrive) emerge infatti la consapevolezza di dover fare i conti con la radicale trasformazione dello statuto e del ruolo (fino alla quasi neutralizzazione) della categoria, provocata dai processi di scolarizzazione di massa, dalla mutazione dell’industria culturale e dalla transizione a un modo di produzione “informazionale”, fondato sullo sfruttamento della creatività dei lavoratori della conoscenza. Come si riconfigura il ruolo di coscienza critica nel nuovo contesto? Esiste ancora la possibilità di trasformare in egemonia culturale i saperi dispersi nei mille rivoli dei nuovi specialismi produttivi? È possibile colmare l’enorme gap linguistico/espressivo che si è aperto fra le generazioni? La possibilità di un secondo miracolo targato Alfabeta dipende dalla possibilità – tutta da verificare – di rispondere positivamente a questi interrogativi. Carlo Formenti
Autori
Pietro Clemente è Professore di Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze ed è Presidente della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro dei comitati scientifici di riviste e di fondazioni museali di ambito antropologico. Tra le pubblicazioni più recenti: La comparazione, la guerra, la differenza, in P.Clemente, C.Grottanelli, Comparativa/mente, Firenze, SEID, 2009, pp. XV-XXXV, I fiumi, la sete, il pianeta. L’acqua degli antropologi in G. Resti, a cura di, Ombrone, un fiume tra due terre, Pisa, pacini, 2009, pp. 177-186, La smemoratezza del moderno in L. Ronzon, a cura di, Manifattura Tabacchi /Milano, Milano, Fondazione Museo della scienza e della tecnologia, 2009, pp. 14-40, Prossimità nella distanza, in (a cura di D. Jalla) Héritage(s). Formazione e trasmissione del patrimonio culturale valdese, Torino, Claudiana, 2009, pp. 297-307. pietro.clemente@unifi.it Fabio Dei è professore associato di Antropologia Culturale presso l’Università di Pisa. Si è occupato di storia ed epistemologia degli studi antropologici, pubblicando fra l’altro Ragione e forme di vita (con A. Simonicca, Milano 1990), La discesa agli inferi. J.G. Frazer e la cultura del Novecento (Lecce, 1998). Conduce ricerche sulla memoria della violenza di massa nel Novecento (Antropologia della violenza, Roma 2005; Poetiche e politiche del ricordo, con P. Clemente, Roma 2005) e sui rapporti tra cultura popolare e cultura di massa (Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Roma 2002; Culture del dono, con M. Aria, Roma 2008) f.dei@stm.unipi.it Duccio Demetrio è professore ordinario di Filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’Università degli studi di Milano-Bicocca, fondatore della rivista Adultità (ed A.Guerini). È autore di studi e saggi dedicati all’educazione degli adulti in una prospettiva prevalentemente filosofica e narratologica. duccio.demetrio@unimib.it Luciana Dini è professore ordinario di Anatomia Comparata e Citologia nell’Università del Salento. È referee di numerose riviste scientifiche nazionali ed internazionali. È autrice di tre libri di testo “Tecniche microscopiche per lo studio degli alimenti” Manni editore; Citologia ed Istologia Idelson-Gnocchi Editore; Biologia dello Sviluppo McGrowHill Editore. Ha ricevuto il premio della “ Società Nazionale di Scienze Lettere ed Arti” in Napoli in Biologia Cellulare (1987). Ha ricevuto la Laurea ad honorem in Medicina dalla Medical
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State University of Yerevan, Armenia, (2005). Le sono state conferite due medaglie d’oro della University of Yerevan, Armenia (2003 e 2005). È stata inserita nel: “Who’sWho in Science and Engineering” 2003-2007; “2000 outstanding scientists of the 21st century”. luciana.dini@unisalento.it
Silvia Gravili è professore a contratto di Economia Aziendale nel corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università del Salento. Si occupa di marketing e comunicazione per il settore business to business negli Stati Uniti e ha collaborato con l’Ufficio Comunicazione e Knowledge Management dell’IFC - CNR di Lecce. Lavora come consulente di comunicazione per enti pubblici, privati e del terzo settore ed è responsabile del settore Marketing e comunicazione d’impresa per la Granosalis - Core communication di Lecce. Recentemente si è occupata di comunicazione di crisi per il portale Macitynet (2010) di comunicazione d’impresa. Tra le sue ultime pubblicazioni: La comunicazione d’impresa come racconto autobiografico, in “Quaderno di Comunicazione” 2009, n.10) silviagravili@gmail.com
Eugenio Imbriani è professore di Antropologia culturale all’Università del Salento, Facoltà di Scienze sociali, politiche, del territorio; ha prodotto numerosi volumi e saggi, i suoi interessi scientifici riguardano particolarmente la cultura popolare, la scrittura etnografica (degli studiosi e degli autori semicolti), le pratiche di costituzione dei patrimoni culturali tra narrazione, memoria, oblio. Tra le pubblicazioni più recenti: La sarta di Proust. Antropologia e confezioni, Bari, Edizioni di Pagina, 2008; Le identità albanesi, a cura di P. Fumarola, E. Imbriani, Nardò, Besa, 2008; La lotta e la miseria, in Archivio Ernesto de Martino, Lettere di contadini lucani alla Camera del Lavoro 1950-1951, a cura di Clara Gallini, Calimera, Kurumuny, 2008, pp. 17-27; Sul “Carnevaletto” delle donne, in Il Carnevale e il Mediterraneo. Atti del convegno internazionale di studio. Putignano 19-21 febbraio 2009, a cura di Pietro Sisto e Piero Totano, Progedit, Bari, 2010, pp. 101-109; Una strana avventura l’etnografia, in “Revista Europeia de Etnografia da Educação”, Ethnography and Scientificity, n. 7-8, 2009-2010, pp. 359-366. eugenio.imbriani@unisalento.it eimbriani@libero.it
Charo Lacalle es catedrática de la Facultad de Ciencias de la Comunicación de la Universidad Autónoma de Barcelona (UAB). Codirige el Màster de Investigación “Innovación y Calidad Televisivas” (realizado conjuntamente por la UAB, la Universidad Universidad Pompeu Fabra y la Televisión de Catalunya, y coordina el equipo español de OBITEL (Observatorio de la Ficción Iberomericana). Ha impartido cursos y seminarios en numerosas universidades europeas y latinoamericanas. Especialista en análisis audiovisual, entre otras muchas publicaciones es autora de El discurso televisivo de la inmigración (Gedisa), Los formatos de la televisión (Gedisa) y Terciopelo azul. Estudio crítico (Paidós). Rosario.Lacalle@uab.cat
Daniele Lamuraglia è scrittore e regista. Direttore artistico del Teatro del Legame, ha realizzato spettacoli di contenuto civile ed impatto visivo, collaborando con Antonio Tabucchi per Cristo Gitano (2002); con Alessandro Serpieri per Shakespeare Messages System (2003), un’opera di video-teatro che mette a confronto i messaggeri d’amore di Shakespeare con quelli delle nuove tecnologie (sms, chat, blog); con Angela Torriani Evangelisti in opere di teatro-danza per La maschera è stanca di Antonio Tabucchi e Il Diritto del Sogno, dove si reinterpreta La vita è sogno di Calderon De La Barca in relazione alla Convenzione dei
Franco Martina è professore ordinario di Filosofia nei licei e collaboratore della rivista “Belfagor”. Tra le sue pubblicazioni: Il fascino di Medusa. Per una storia degli intellettuali salentini tra cultura e politica, (1987) e numerosi saggi e interventi in volumi collettanei. Collabora con “Belfagor”. francomartinaf@libero.it
Angelo Nestore è laureato in Traduzione e Interpretazione nell’Università di Forlì. Ha in corso un dottorato di ricerca in Traduzione e studi di genere nell’Università di Malaga. Nel 2010 ha conseguito il secondo livello di cinese. Nel 2008 ha conseguito la Certificazione linguistica europea superiore spagnola DELE Superior. Nel 2004 la Certificazione linguistica europea superiore di inglese Proficiency (C2). dioniso.86@hotmail.it
Mimmo Pesare è Dottore di Ricerca in Etica e Antropologia e Assegnista in Pedagogia sociale della comunicazione presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell’Università del Salento, dove svolge la sua attività di ricerca e di didattica, all’interno del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione (Facoltà di Lettere e Filosofia). Si occupa e ha scritto di filosofia dell’educazione e del rapporto tra la filosofia contemporanea, la mediaeducation e le discipline psicodinamiche. La sua ultima monografia è Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico (Mimesis, Milano, 2010). È co-fondatore della rivista Krill-Quadrimestrale sull’immaginario. pesary@libero.it Alessio Rotisciani ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Teoria e Ricerca Sociale presso l’Università del Salento. Si è occupato di storia contemporanea (La memoria di mio nonno, un contadino antifascista, “Nuovi Argomenti”, n. 19, Milano, Mondadori, 2002), linguaggio cinematografico (Fight Club: un doppio come scacco alla società dei consumi, “Nuovi Argomenti”, 2001, n. 13), semiotica del testo e media education (“I molti volti della media education”, in I. Cortoni, a cura di, A scuola di comunicazione, Roma, Nuova Cultura, 2006). Attualmente collabora con “Comunicazionepuntodoc”, Rivista del Dottorato in Scienze della Comunicazione della “Sapienza” Università di Roma e sta approfondendo il tema del rapporto tra adolescenti e nuove forme di comunicazione in rete (Network Meridiani. Internet e instant messaging nella vita degli adolescenti salentini, Roma, Carocci, 2010). alessio.rotisciani@gmail.com
Diana Salzano è professore associato in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. Insegna “Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa” presso il corso di laurea in Scienze della comunicazione e “Sociologia dell’industria culturale” presso il corso di laurea in Lettere (Editoria e pubblicistica) dell’Università di Salerno dove dirige l’Osservatorio “Violenza Media Minori”. È docente e membro del comitato organizzativo del Master di “Media Education: Progettazione e gestione della conoscenza” dell’Università Suor
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Diritti dell’Infanzia dell’ONU. Ha realizzato due film: Firenze 17 luglio 1944 (2002) e Il piccolo grande senso del dovere (2010). Ha pubblicato “Il Libro di Cristo Gitano” (Pagnini editore 2005) con la prefazione di Antonio Tabucchi, e “I 100 geni che hanno cambiato il mondo” (Mondadori 2010) con le illustrazioni di Marco Serpieri. lamuraglia.daniele@gmail.com
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Orsola Benincasa e dell’I.P. E (Istituto per attività di ricerca) di Napoli. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Violenza, Media e Minori” in Sanguanini B. (a cura di), Comunicazione e partecipazione. Sociologia per la persona nella “Società-Display”, Quiedit, Verona 2010; “Le coordinate del sé nella geografia dei media”, in Dire di sé, Quaderno di comunicazione, n.10, Mimesis, Sesto San Giovanni 2009; “La poetica dell’esplorazione: giovani surfers nel mare della rete”, in Ammaturo N. (a cura di), I consumi culturali dei giovani, C.E.I.M. Editrice, Mercato San Severino 2008; Etnografie della rete. Pratiche comunicative tra on line e off line, Franco Angeli, Milano 2008. diana_salzano@yahoo.it
Angelo Semeraro è professore ordinario di Pedagogia della comunicazione nell’ateneo salentino. Ha insegnato a Siena, Napoli Orientale e Bari. È autore di numerosi saggi, tra i quali – negli ultimi anni, Lo stupore dell’Altro, Palomar, Bari 2004; Omero a Baghdad. Miti di riconoscimento, Meltemi, Roma 2005. (Premio internazionale di Pedagogia “Raffaele Laporta” 2006); Del sensibile e dell’Immaginale, Icaro, Lecce 2006; Pedagogia e comunicazione. Paradigmi e intersezioni, Carocci, Roma 2007; Hypomnémata, Besa, Nardò 2009. semerang@alice.it
Lelio Semeraro è copywriter e giornalista free-lance. Collabora con agenzie pubblicitarie milanesi. Finalista al concorso di letteratura Subway 2010 con Fuori dal Tavolo e nel premio letterario Arturo Loria 2005 con Omar al prestito. Tra le sue pubblicazioni: Persa in Partenza, vedi alla voce pubblicità in “Krill”, n.1, 2009; La rivoluzione creativa in QC, Meltemi, 2007; Far sorridere la principessa, “Indice dei libri del mese”, marzo 2006. 50000neuroni@gmail.com Luigi Zoja ha lavorato in clinica a Zurigo, poi privatamente a Milano, a New York e ora nuovamente a Milano come psicoanalista. Presidente del CIPA (Centro Italiano di Psicologia Analitica) dal 1984 al ‘93. Dal 1998 al 2001 presidente della IAAP (International Association for Analytical Psychology), l’Associazione che raggruppa gli analisti junghiani nel mondo, poi Presidente del Comitato Etico Internazionale della stessa. Già docente presso il C.G. Jung Institut di Zurigo e presso l’Università dell’Insubria. Pubblicazioni di libri e articoli in 14 lingue. Due suoi testi hanno vinto il Gradiva Award negli Stati Uniti. Testi in italiano: Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza, Cortina, Milano 1985 e 2003; Coltivare l’anima, Moretti&Vitali, Bergamo 1999; Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2000; (a cura di) L’incubo globale. Prospettive junghiane sull’11 settembre, Moretti&Vitali, Bergamo 2002; Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti&Vitali, Bergamo 2003; Giustizia e Bellezza, Bollati Boringhieri, Torino 2007; La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009; Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza, Bollati Boringhieri, Torino 2009. luigizoja@fastwebnet.it
Note __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ __________________________________________________________________
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