VALIGIE DI CARTA

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VALIGIE DI CARTA



VALIGIE DI CARTA

A cura di Cinzia Capitanio

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Docenti che hanno contribuito alla realizzazione del libro Alfonsi Michela Bedin Loretta Capitanio Cinzia Carbone Libera Corò Anna Beatrice La Gaipa Elina Tiziana Lazzari Andrea Marino Giovanna Masiero Nadia Mozzi Maria Luisa Piemontese Biagio Razzini Teresa Rigon Maria Giulia Rossato Nadia Verdone Roberta Villanucci Francesca Zoncato Sonia

Giugno 2021

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CON LE ALI AI PIEDI E LA MEMORIA NEL CUORE Le storie di emigrazioni racchiuse in “valigie di carta”, talvolta ingiallite dal tempo, talvolta vivide e attuali, rappresentano ancora oggi destini di uomini e donne in partenza dal suolo natio alla ricerca della propria “fortuna”. “Valigie di carta” da sfogliare, da assaporare. Storie fatte di radici culturali e di rami che protendono verso un futuro nuovo, migliore. Storie di famiglie lasciate, storie di dolori e storie, anche, di nuovi amori! Valigie chiuse da quello spago, filato dalle Parche. Lo stame della vita! Simbolo di ricordi tramandati, di forti legami con la genuinità e la semplicità della vita che fù. Il “filo di Arianna” nel labirinto dell’esistenza umana. L’Emigrante? Un’apolide con le ali ai piedi e la memoria sempre nel cuore. Incoronata D’Ambrosio Dirigente Scolastica I.C. Vicenza 4

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PREMESSA Il progetto “Valigie di carta”, finanziato dalla Regione Veneto nell’ambito dei “Percorsi per lo sviluppo delle competenze in materia di storia e cultura del Veneto”, ha visto la partecipazione di docenti, studenti e studentesse delle classi quarte e quinte della scuola primaria “G.B. Tiepolo” e delle classi terze della scuola secondaria di I° “A. Barolini”. È stato accompagnato, inoltre, da partner preziosi quali: − l’Associazione Vicentini nel Mondo − il Gruppo Pensionati “La Rondine” − il Gruppo Alpini “G. Reolon”. La finalità generale esplicitata nel progetto è: conoscere il fenomeno migratorio che ha caratterizzato la popolazione del Veneto a partire dalla fine dell’800 per comprenderne le caratteristiche e confrontarle con le forme di emigrazione moderne al fine di valorizzare il patrimonio e le produzioni culturali e di promuovere lo sviluppo delle competenze di cittadinanza globale, nell’ottica dell’educazione allo sviluppo sostenibile e degli obiettivi dell’Agenda 2030. Ma cosa vuol dire tutto ciò? Perché parlare di cultura veneta in una scuola multiculturale come il nostro Istituto Comprensivo? Il mondo moderno è sottoposto a un cambiamento tecnologico-scientifico talmente rapido che l’umanità vive il presente in una continua proiezione verso ciò che accadrà nel medio e lungo termine. Immaginiamo la società del futuro e costruiamo modelli basati su prospettive spesso distopiche perché connaturate, purtroppo, da previsioni negative legate alla salute del pianeta Terra e a quella dell’uomo moderno. Un elastico invisibile ci spinge verso un domani che è il riflesso incerto del presente. Bambini e ragazzi sono completamente assorbiti da questo meccanismo da non esserne del tutto consapevoli. 4


È come se fossero continuamente spinti in avanti senza avere il tempo di controllare le orme che hanno lasciato dietro di sé. Proprio per questo la scuola può svolgere un compito che va ben oltre lo studio della storia come disciplina: può aiutare le giovani generazioni a voltarsi indietro per comprendere le proprie radici perché, come ben sanno coloro che amano camminare in montagna, la sicurezza con cui un piede avanza, dipende dalla stabilità di quello che è stato posato in precedenza. Non è necessario allontanarsi troppo per ricercare le proprie radici. È sufficiente, per esempio, partire dalla storia familiare. Nel passato si coltivavano le relazioni con i parenti lontani e vi era il piacere di far conoscere ai giovani tutti gli intrecci nati in seno al proprio albero genealogico. Si conoscevano e ripetevano le storie di chi aveva intrapreso viaggi all’estero alla ricerca di fortuna o che si era distinto per aver vissuto episodi più o meno meritevoli. Se nel mondo nobile vi era la necessità di garantire i privilegi dati dall’appartenere a una determinata discendenza, in quello contadino si manteneva il ricordo delle radici familiari per confermare un’identità culturale. Oggi bambini e ragazzi sanno poco della loro storia o di quella dell’ambiente in cui vivono. La globalizzazione ha aperto i confini del mondo, ma ha reso più indefinita l’identità storicoculturale del popolo italiano con tutte le sue peculiarità legate a dialetti, usanze, tradizioni e feste che caratterizzano le regioni. Questo patrimonio oggi vive ormai solo nei ricordi degli anziani e non possiamo rischiare che vada perduto. Ecco perché la scuola ha la possibilità di diventare un tramite per mantenere viva la conoscenza del passato non solo inteso come studio della storia dell’umanità, ma anche come conservazione della storia locale. Le radici sono indispensabili per comprendere il presente. Scoprire perché molti italiani decisero di intraprendere 5


viaggi oltreoceano (spesso pericolosi e dall’esito incerto) significa, infatti, avere l’opportunità di riflettere sul fenomeno migratorio moderno, sperimentato proprio da molte famiglie degli studenti e delle studentesse che frequentano il nostro istituto. La ricerca delle radici, infine, non è solo uno strumento per leggere gli accadimenti sociali del presente. È un mezzo indispensabile anche per comprendere i progressi del mondo moderno. Indagare su come vivevano uomini e donne di inizio Novecento consente di apprezzare ciò che diamo per scontato: l’acqua che arriva in casa attraverso comodi rubinetti, le abitazioni riscaldate, l’utilità di avere un frigorifero nel quale conservare il cibo o la lavatrice per lavare gli abiti invece che le acque fredde del fiume… Nel ricercare le radici familiari o del territorio in cui vivono, bambini e ragazzi hanno avuto l’opportunità di riflettere su sé stessi e sul mondo che li circonda. Hanno anche scoperto che in quel passato ci sono elementi, nascosti sotto la cenere prodotta dal fuoco della modernità, che varrebbe la pena di riattizzare per un futuro migliore come: il rispetto per gli equilibri della natura, il senso di comunità che sosteneva nei momenti di difficoltà, la speranza nel domani che consentiva di affrontare con coraggio e determinazione le asperità della vita nella consapevolezza che in fondo “el sol se leva par tuti”, il sole sorge per tutti, come ricorda la saggezza popolare veneta (e non solo). I nostri alunni e le nostre alunne hanno compiuto una sorta di viaggio fra passato e presente portando virtualmente con sé delle valigie di carta che, nella loro fragilità, hanno una grande forza simbolica perché accomunano i migranti di ieri e di oggi. Al loro interno, infatti, custodiscono un elemento invisibile agli occhi, ma dal valore inestimabile: il sogno di una vita migliore. Cinzia Capitanio docente referente del progetto “Valigie di carta”

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VITA QUOTIDIANA NEL VENETO DEL PASSATO

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VITA NELLE CAMPAGNE VENETE A INIZIO ‘900 Alcuni alunni della 3B hanno provato a capire come si vivesse agli inizi del 1900 nelle campagne venete, quelle campagne da cui molte famiglie emigravano. Lo hanno fatto attraverso il sito del Museo della civiltà contadina di Grancona, da cui provengono le immagini inserite nei testi. https://www.museograncona.it/it/ Non c’era ancora la produzione dei beni di massa Il giorno 19/01/2021 in classe, abbiamo guardato un filmato del Museo della civiltà contadina di Grancona. Dal filmato sono riuscito a capire come si vivesse in Veneto all’inizio del 1900: le famiglie erano povere, se volevano vivere dovevano lavorare tutto il giorno; non c’era acqua potabile, quindi dovevano, grazie a

macchinari, portarla in superficie e trasportarla; i macchinari, in generale, non erano tecnologici come sono adesso, quindi si doveva fare tutto a mano, lavorare con le proprie mani e con i propri piedi; non c’era la corrente elettrica, quindi si dovevano costruire le lampade a olio o fabbricare lumini di cera. Tutti gli utensili, che servivano per la vita quotidiana, venivano costruiti in casa con materiali naturali, perché non c’era ancora la produzione dei beni di massa e non esisteva ancora la plastica. Non c’era ancora l’industria del tempo libero, e i momenti di allegria e di socialità si svolgevano 9


durante il lavoro, prendendo una piccola pausa e bevendo qualcosa, o parlando mentre si lavorava o alla sera in stalla a filò. Questo era l’unico metodo di divertimento e di socialità che conoscevano le famiglie in Veneto a quei tempi. Alunno della classe terza B – Secondaria Barolini Gli abitanti di questa regione: dei veri guerrieri Ancora dopo la seconda rivoluzione industriale, nel Veneto, la vita dei contadini era molto difficile: nelle loro case non c’erano acqua corrente, elettricità, vestiti confezionati (per questo venivano eseguiti la tessitura e il cucito dalle donne) o orologi. Spesso sulle tavole erano presenti erbe e polenta; per procurarsi questi prodotti, però, bisognava lavorare sodo per molte ore al giorno: veniva usata la trebbia a sangue (chiamata così perché fatta girare a mano per molto tempo) e il mulino per macinare il grano e il frumento. Altri lavori a mano praticati erano il taglio della pietra con le seghe, il bucato fatto dalle donne con l’acqua raccolta dalle fontane, l’allevamento dei bachi da seta, che permetteva alle famiglie di avere denaro liquido. Non lavoravano solo i genitori, ma anche i figli: dopo

essere tornati da scuola andavano nei campi ad aiutare. Durante la giornata si cantavano canzoni e poesie per 10


passare il tempo, ma la vita che conducevano i contadini era troppo pesante e non li appagava. Infatti, molti, trovata una strada di vita più soddisfacente di quella della vita agricola, buttavano via i propri attrezzi da lavoro, come falci, chiodi e martelli, perché si vergognavano di essere vissuti in miseria. Penso che, nonostante le difficoltà che hanno affrontato nel passato, gli abitanti del Veneto siano dei veri guerrieri: ogni giorno, tutto il giorno, per mesi e anni hanno lavorato sodo per un pezzo di pane, per una nuova camicia e per vedere il sorriso sulle labbra dei propri cari. A quei tempi per certi versi si stava meglio di adesso, in campagna c’era sempre tranquillità, nessuna macchina, nessun vicino che gridava nel condominio o altri fastidi. A differenza della società di oggi, le famiglie non vivevano per lavorare, ma lavoravano per vivere, producendo da sole ciò che serviva per soddisfare i bisogni primari, per sopravvivere con il lavoro delle proprie mani e senza mezzi tecnologici. Alunna della classe terza B – Secondaria Barolini

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VITA QUOTIDIANA IN VENETO Una volta in Veneto si viveva più in povertà rispetto ad adesso, per esempio non c’era il bagno, non c’era il riscaldamento. Per lavarsi, visto che il bagno non c’era e con questo neanche l’acqua, bisognava andare in un piccolo pozzo pieno d’acqua (ma l’acqua non era pulitissima era più sporca rispetto ad adesso, perché non c’erano le macchine per pulire l’acqua). Era difficile lavarsi soprattutto in inverno perché faceva freddo. Il letto non era come adesso: comodo, caldo, bello da vedere… ma era brutto, freddo anche se certe persone lo riscaldavano con la mònega e non era neanche così comodo. Solo i più ricchi e fortunati potevano permettersi un letto comodo, bello da vedere, caldo… Io non vorrei non avere il bagno in casa perché mi vergognerei a lavarmi in strada, oppure non avere il riscaldamento, farebbe molto freddo anche con la stufa a legna o con il camino perché non riscalda come il riscaldamento di adesso. Se dovessi vivere nel passato per un giorno e scegliere se essere più fortunata o essere più povera, io sceglierei di essere più povera. Lo so che adesso ti starai chiedendo il perché: adesso te lo spiego subito. Vorrei provare a essere più povera perché vorrei vedere come vivevano loro così riuscirei ad apprezzare cose che adesso non capisco. Mare calmo, classe quarta C – Primaria Tiepolo In Veneto, tanti anni fa, il piatto speciale era la polenta di grano di mais. I poveri scioglievano il grasso del maiale e lo mangiavano con la polenta. I letti erano alti ed erano fatti di legno e il materasso era fatto con le foglie di granoturco. I più fortunati avevano la culla che tenevano vicino al letto invece le persone che non 12


avevano la culla qualche volta prendevano un cassetto e mettevano i neonati dentro lasciandolo aperto. Si lavavano molto poco. Avevano uno scaldaletto e prima di dormire lo mettevano sotto le coperte. Sotto il letto avevano una specie di vaso dove facevano i bisogni e la mattina li buttavano fuori. Quando non avevano l’acqua mandavano i bambini a prenderla ma la strada fino al pozzo era lunga. Cielo azzurro, classe quarta C – Primaria Tiepolo I contadini più “ricchi” erano molto fortunati perché avevano letti imbottiti di piume e avevano il “catino” che era una specie di lavandino con una brocca e un secchio. I poveri avevano letti imbottiti di paglia e arredavano la casa solo il minimo indispensabile. I contadini mangiavano a pranzo, a cena e a colazione la polenta che veniva cucinata con il “calièro” che era un pentolone in rame. Le donne lavavano i panni al fiume o al lago e creavano il sapone con cenere e acqua per ottenere il potassio e solo i panni più delicati venivano stirati con il ferro da stiro che veniva scaldato con le “bronse” cioè le braci. 13


Nelle case non c’era acqua corrente e le donne andavano e prenderla nei pozzi, e si lavavano solo in occasioni speciali (per il matrimonio, visita dal medico...). Nelle case non c’era il riscaldamento e venivano messi sotto alle coperte del letto un telaio di legno che si chiamava “monega” con all’interno le braci. Le pubblicità di una volta per me erano molto strane: erano come dei manifesti per spettacoli o gare di corsa. La pubblicità che mi ha affascinato di più è quella delle “caramelle igieniche”: dicevano che non erano dolci e che ti facevano ritornare in salute. Io non ci credo a questa cosa, anche tu non ci credi? Cedro, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Manifesti e pubblicità in Veneto SilvanaEditoriale

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I veneti una volta non avevano acqua in casa e così mandavano i bambini a prenderla con i secchi. Per lavare i vestiti andavano al lago a lavarli e avevano due paia di vestiti: uno da festa e uno normale. La doccia non la facevano. Prima di andare a dormire mettevano sotto le coperte lo scaldaletto e così il letto si riscaldava e quando andavano a dormire lo mettevano sotto il letto. In camera avevano un secchio d’acqua così al mattino si potevano lavare la faccia. A volte di notte faceva così freddo che l’acqua si ghiacciava e prima di lavarsi dovevano togliere il ghiaccio con un coltello. Sotto il letto mettevano un vasetto e poi se di notte dovevano andare in bagno la cacca o la pipì la facevano lì e di mattina svuotavano il vasetto buttavano tutto fuori. Girasole giallo, classe quarta C – Primaria Tiepolo Una volta in Veneto non c’era molta ricchezza mentre c’era più povertà. Nelle case non c’erano bagni o la TV. Non c’era nemmeno il salotto che abbiamo oggi perché le persone erano povere. Le donne non partorivano in ospedale perché a quei tempi non c’era, ma partorivano in casa con l’aiuto di altre donne. I garage non li aveva nessuno perché non c’erano moto, macchine o altre cose meccaniche, non come oggi. Invece l’acqua la prendevano dai pozzi. I vestiti venivano lavati nei fiumi: venivano presi e messi su una tavoletta di legno poi si insaponava e si sciacquava nell’acqua. In Veneto una volta era difficile vivere, c’era povertà anche se la povera gente cercava di aiutarsi. Oro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Le case una volta erano fatte di pietra. Le strade erano di terra ed erano tanto fangose. Non erano asfaltate come quelle di oggi. In più in casa avevano al massimo tre stanze e il bagno non c’era. Per 15


fare i bisogni, sotto al letto c’era un vaso. Per scaldare il letto, siccome faceva molto freddo, c’era uno scaldaletto. Militare, classe quarta C – Primaria Tiepolo

La vita quotidiana era molto difficile rispetto a oggi perché non avevano il riscaldamento in casa e questo creava già un problema. Però hanno inventato lo scaldaletto: è fatto di legno e con una ciotola all’interno dove c’erano le braci calde. Non avevano l’acqua che usciva dal rubinetto, ma dovevano andare fino il fiume, lago o pozzo con i secchi attaccati a un palo chiamato bigolo, riempirli e poi tornare a casa. Poi c’era il ferro da stiro che è un pezzo di ferro che assomiglia a una fetta di torta, solo che si apre e che ha una maniglia di legno: serviva a stirare gli abiti. Per farlo dovevano aprire il ferro da stiro e mettere all’interno le braci calde. C’era anche la polenta fatta in casa, si faceva con l’acqua e un po’ di farina gialla. Poi la pentola di rame (caliero) veniva appesa sul palo sopra il fuoco ed ecco la polenta era pronta. Scintilla, classe quarta C – Primaria Tiepolo Una volta in Veneto si viveva con poche cose. C’era tanta campagna. Gli uomini andavano a lavorare 16


nei campi, le donne lavavano le lenzuola una volta al mese. Visto che non c’era la televisione ascoltavano la radio. I bambini quando nascevano li battezzavano subito e speravano che non si ammalassero o morissero di broncopolmonite. Per me la vita di una volta deve essere stata molto difficile. Nuvola bianca, classe quarta C – Primaria Tiepolo In Veneto una volta vivevano come i poveri: mangiavano formaggio e polenta, il cibo dei poveri, ed era già molto avere questo cibo. Per prendere l’acqua spesso si faceva tanta strada: si usavano dei secchi e si portavano fino in casa. Questo lavoro di prendere l’acqua lo facevano i bambini e questo mi ha colpito molto. Alieno, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Tanto tempo fa in Veneto, per mangiare di solito si mangiava polenta, la polenta si fa con il calièro. I materassi dei poveri erano riempiti di foglie di granoturco. Per lavarsi dovevano andare al fiume Bacchiglione a 17


prendere l’acqua. Per lavare i vestiti la donna andava al fiume e metteva i vestiti su una tavola di legno e cominciava a lavare. Fare la lìsia significava fare il bucato. Il sapone veniva fabbricato in casa. Con la biancheria di tornava a casa per stenderla: solo i capi più delicati venivano stirati. Gelato alla vaniglia, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Il Veneto di una volta non era come quello di oggi, non c’era elettricità, macchine o altre cose del genere; avevano solo cose artigianali create da loro (in legno o in altri materiali). In inverno avevano la mònega (scaldaletto) perché faceva molto più freddo rispetto a oggi. Data la povertà, solo i più ricchi si permettevano il letto in piume d’oca. Le donne, a quei tempi, andavano al fiume per lavare i vestiti perché non avevano lavatrici e i vestiti si lavavano solo una volta al mese. Le famiglie tempo fa erano anche numerose. Molte vivevano in povertà e non avevano neanche un soldo, perciò emigravano (di solito in America) per trovare lavoro. Alcune persone fortunate lo trovavano, altre in certi casi morivano anche di fame. Solo a pensare a questo mi 18


vengono i brividi. È incredibile quanto sia cambiato il presente dal passato. Noce di cocco, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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Le foto sono state scattate a casa del nonno di un alunno della classe quinta A – Primaria Tiepolo 20


Intervistiamo i nonni per scoprire l’emigrazione e come si viveva in passato “Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone.” John Steinbeck Il “viaggio” è sempre stato considerato al centro della storia dell’uomo e, sin dalla preistoria, ha ricoperto un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo delle civiltà, da quelle più antiche, fino ai nostri giorni. Abbiamo studiato che, anche l’uomo preistorico emigrava per seguire le migrazioni degli animali da cacciare, per cercare nuove terre da coltivare, per costruire nuove città…. Abbiamo anche scoperto che tra il 1820 e il 1914 molti milioni di italiani emigrarono verso nuovi continenti, come: l’Argentina, il Brasile e gli Stati Uniti. Per comprendere meglio questo movimento che ha interessato molta gente di varie parti del mondo e anche veneti, noi bambini di classe 4^B abbiamo intervistato i nostri nonni, che sono la “mente storica” del passato e ricordano bene le cose accadute. 1. Che cosa significa, secondo te, “viaggiare?” La risposta è stata molto chiara e precisa: “Viaggiare” per me significa entrare in contatto con persone diverse con cui dialogare, scambiare opinioni, raccontare la propria storia e ascoltare anche quella degli altri… 2. Che cosa vuol dire, invece, emigrare? “Emigrare” significa lasciare la propria terra in cui si è nati, soprattutto per motivi di lavoro. Devi sapere che questo è quanto è accaduto a molta povera gente, anche veneta come me, emigrata in America e in altri continenti del mondo per cercare lavoro e vivere una vita migliore. Anche oggi ci sono persone che emigrano, anche se in 21


un modo diverso…. infatti, ho visto molte famiglie scappare dalla guerra e questo è ancora più grave. 3. Quindi, anche gli italiani sono emigrati in passato? Ebbene sì, anche gli italiani hanno dovuto lasciare la propria terra e gli affetti e questo è stato un momento molto triste della storia, sono vissute in una situazione di estrema povertà, costrette anche ad essere umiliate, spesso anche solo per il loro abbigliamento… “Che tristezza per noi ascoltare queste condizioni di povertà! Ci rendiamo sempre più conto che vivere nel passato non doveva essere facile, oggi abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno, eppure non riusciamo a dare il giusto valore alle cose, vogliamo sempre di più e non apprezziamo quello che abbiamo”. 4. E i veneti, anche a loro è toccata questa triste sorte? Sì, anche il popolo veneto è emigrato, come tanti altri, in cerca di lavoro. Purtroppo non era facile perché non c’era la possibilità di guadagnare tanto da poter mantenere la famiglia a distanza. Questa gente viveva anche in condizioni molto difficili, a volte senza una casa, per strada e nella povertà più assoluta. 5. Come vivevano i veneti in quel periodo storico? La vita in Veneto agli inizi del ‘900 era molto diversa da questa di oggi… Prima di tutto si lavorava molto nei campi, era un lavoro duro e faticoso sia per gli uomini che per le donne. Le case erano semplici, c’era la stalla e il fienile. In casa non c’era l’acqua, bisognava andare a prenderla nelle vasche di raccolta o nei ruscelli. Per lavarsi si usava la brocca e il catino; ci si faceva il bagno qualche volta e si usava la mestela che era un 22


recipiente alto di legno e conteneva acqua riscaldata sul fuoco. L’arredamento era semplice in camera da letto e i materassi erano riempiti di foglie di granoturco. Per scaldare il letto si usava un contenitore di braci: la fogara. Si consumava molta polenta, era il pasto principale e si mangiava in diversi momenti della giornata. Le donne andavano a lavare i panni lungo le rive dei fiumi, oppure in vasche di acqua. Il sapone (saon) veniva fatto in casa, si impastava cenere e acqua e si otteneva la cenere di potassio che era ottima per eliminare l’unto. Il ferro da stiro (a bronse) non era elettrico, ma conteneva all’interno le braci.

6. Com’era la scuola ai vostri tempi? La scuola di un tempo era molto diversa da quella di oggi… Prima di tutto le aule erano molto spaziose, c’erano tante classi con un numero di trenta alunni o più, divisi 23


tra maschi e femmine. La lavagna non era attaccata al muro, ma posata su un cavalletto, un solo armadio con le ante a battente e la stufa per riscaldarsi. Per scrivere si usavano pennini che si intingevano nei calamai, piccoli fori creati apposta sui banchi, in cui c’era l’inchiostro. Una volta scritta la pagina del quaderno, bisognava mettere un foglio di carta assorbente per asciugare l’inchiostro. Il materiale scolastico era semplice e i bambini che non potevano permetterselo, lo procurava la maestra. Si usavano soltanto due quaderni: uno a righe e uno a quadretti; si studiava con due soli libri e la maestra era unica, insegnava tutte le materie. La scuola era molto dura e i bambini venivano educati con più severità rispetto ad oggi. Ogni maestra possedeva una bacchetta di legno che veniva usata al minimo segno di distrazione, disinteresse, ribellione e indisciplina, di solito colpendo le dita del colpevole. Le marachelle venivano punite mandando il colpevole dietro la lavagna. Si usavano anche “castighi psicologici”, come il famoso “cappello da asino” per gli alunni poco studiosi. La maestra controllava anche l’igiene dei bambini. Gli alunni indossavano un grembiule e questo evitava il confronto tra di loro, cioè tra i più poveri e i più benestanti. Si facevano tanti compiti, si andava a scuola anche di sabato e si facevano gli esami ogni anno. Purtroppo non tutti riuscivano a frequentare la scuola fino alla classe quinta perché diversi provenivano da famiglie povere e non avevano i mezzi di trasporto per andare a scuola. Oggi per noi è difficile pensare tutto questo, perché tutti andiamo a scuola, le classi non sono numerose, gli arredi sono diversi e insegnano più maestre. Alunni e alunne della classe quarta B – scuola primaria Tiepolo

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L’angolo dell’Intervista Dove viveva quando era piccola? Sono nata in centro, a Vicenza. Cosa si ricorda della sua infanzia e dell’adolescenza? Ha dei bei ricordi? Quando ero piccola ricordo soprattutto che non vedevo l’ora di diventare grande. Mi sembrava di non poter vedere tante cose. Ero molto curiosa… avevo voglia di viaggiare, ma non c’erano le possibilità. Mi piaceva esplorare il quartiere dove vivevo e conoscere altre persone. Crescendo amavo ballare. Mi sarebbe piaciuto fare la ballerina o pattinare, ma all’epoca non c’erano molte possibilità. La mamma mi ha comprato i pattini con le cinghiette, ma non avevano i soldi per compare quelli con lo scarponcino che servivano per praticare il pattinaggio come sport. Quali erano i suoi giochi preferiti? Le bambole erano sempre di pezza fatte dalle nonne. Sognavamo con gli occhi aperti le bambole diverse che avevano le bambine più ricche. In famiglia, comunque, si era sempre circondati dall’amore e le cose materiali in fondo non erano importanti. Com’era la scuola? A scuola si usavano l’inchiostro e il pennino. Io ero un po’ pasticciona e mi sporcavo spesso. Alle medie ho cominciato a usare le penne normali… per fortuna! Avevo una cartella con le fibbie ai lati. Si portavano il sussidiario, i quaderni e un astuccio dove c’era poco: la matita, il pennino, il temperamatite e i colori. La maestra teneva una giusta distanza: metteva un po’ di soggezione, ma per questo la rispettavi. Quando andavi a casa e raccontavi che la maestra ti aveva rimproverato, le mamme davano ragione alla maestra.

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Com’era la vita di tutti i giorni? Dopo pranzo io ero fortunata perché abitavo in un grande caseggiato e giocavo in cortile con altri ragazzi e ragazze. I compiti li facevo dopo perché avevo bisogno di sfogarmi. Dietro casa c’erano i campi, perciò si facevano giochi con la palla, con la corda… Si poteva andare in giro liberamente. Le mamme e i papà non avevo paura di lasciarci fuori anche perché i ragazzini più grandi controllavano i più piccoli. La sera mi annoiavo molto. Non c’era niente. C’era solo la radio così la accendevo e mi mettevo a ballare. Ricordo che al primo piano del mio caseggiato, la vicina metteva un tappeto per terra. Mi aveva perfino fatto un tutù e io alla sera ballavo. Gli adulti, seduti sulle sedie in cortile, guardavano il mio spettacolo e poi chiacchieravano fra loro. Spesso per scacciare la noia si andava a trovare i parenti. C’è qualcosa che le manca della vita del passato? Vorrei che oggi ci fossero più momenti di condivisione. Per il resto adesso abbiamo tante cose migliori rispetto al passato. Certo, una volta c’erano meno rivalità e aspetti negativi. Si viveva in modo più semplice. C’era meno ansia e meno competizione. Anche il fatto di non avere la televisione in fondo creava serenità: c’erano meno notizie allarmistiche e quindi si provava meno ansia. Che messaggio vorrebbe lasciare ai bambini e ai ragazzi di oggi? Cercate di rispettare sempre gli adulti che hanno più esperienza e possono dare buoni consigli. Non correte troppo perché il tempo corre velocemente lo stesso. Fate le cose con passione e fatele anche per gli altri. Cercate di essere meno egoisti e di accettare il fatto che non tutti siamo uguali. Milles, Gruppo Pensionati “La Rondine”

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Dove viveva quando era piccolo? Sono nato in città, in piazza Aracoeli a pochi passi dal parco Querini dove ho passato buona parte della mia giovinezza. Della mia infanzia ricordo poche cose, se non un piccolo incidente con il triciclo quando mi sono fatto un largo taglio alla coscia e porto ancora la cicatrice perché era tutto di ferro e pesava molto. Cosa si ricorda della sua infanzia e dell’adolescenza? Ha dei bei ricordi? I ricordi della giovinezza sono indelebili, soprattutto quelli passati dentro al parco Querini dove c’era una casa colonica proprio dove il ponte dell’ospedale congiunge con il parco. In questa fattoria ho avuto un’esperienza indimenticabile aiutando con le mie piccole forze a fare nascere un vitellino. - Dai Antonio, tira! - sento ancora le parole del fattore che mi incitava a farlo uscire dal ventre della mucca. Quali erano i suoi giochi preferiti? Giochi giochi giochi ripeto questa parola per tre volte perché ho giocato moltissimo purtroppo a discapito dello studio, ma era difficile non giocare avendo a disposizione tanti coetanei che arrivavano dalle viuzze vicine. Il calcio era il gioco preferito sul prato a fianco della chiesa: si giocava con innumerevoli ragazzini che arrivavano a tutte le ore. Altri giochi si facevano con i tappi delle bottiglie: facevamo sul ghiaino delle piste e li facevamo correre con un colpetto di dito. C’erano anche le figurine dei giocatori di calcio… si giocava a “testa e corona”; con le palline di terracotta e con la fionda cercavamo di colpire le campane; con il concio tiravamo delle botte per farlo saltare e buttarlo lontano, con la fionda a parco Querini tiravamo sassate a tutto. Si giocava con qualunque cosa anche senza veri giocattoli. Com’era la scuola? Alla scuola elementare di Porta Padova ricordo in modo 28


particolare il maestro: era molto severo e più di qualcuno è passato sotto le sue mani: sberle e silenzio. Aveva il merito, invece, di essere bravissimo a insegnare e ci stimolava molto ad apprendere. Com’era la vita di tutti i giorni? Come detto, la vita di tutti i giorni era improntata sul gioco poi, finite le elementari, c’è stato chi ha continuato la scuola e chi ha cominciato a lavorare: chi a fare aiutante barbiere, chi meccanico di biciclette, chi apprendista orafo. C’è qualcosa che le manca della vita del passato? Della vita del passato manca la vera amicizia direi addirittura la fratellanza e armonia che regnava tra le famiglie vicine. Le porte delle case erano sempre aperte e furti non ce n’erano. Che messaggio vorrebbe lasciare ai bambini e ai ragazzi di oggi? Vorrei che i giovani leggessero i versi di questa poesia di Giacomo Leopardi e li mettessero in pratica:’’ Garzoncello scherzoso, cotesta età fiorita è come un giorno d’allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Godetevi la vostra giovinezza ragazzi e ragazze perché è un periodo meraviglioso. Antonio, Gruppo Pensionati “La Rondine”

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TRADIZIONI ANTICHE FAR FILO’

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D’inverno, grandi e piccoli trascorrevano le serate nel tepore della stalla, riscaldata dal fiato degli animali. L’illuminazione proveniva dal canfìn cioè da una lampada a petrolio. Chi non aveva la stalla, o chi cercava compagnia, andava dal vicino, portandosi eventualmente la sedia. Alcuni partivano da lontano, in gruppi, servendosi di un’unica lanterna. Durante il filò si lavorava. Gli uomini riparavano o costruivano attrezzi, ma anche

zoccoli e sgàlmare. I più preparavano i fasci di stròpe (rami flessibili ottenuti soprattutto dal salice) per confezionare cesti di varie dimensioni. Facevano scope per la stalla e il cortile. Intagliavano il legno per ricavare manici, rastrelli, sedie… ricavavano anche qualche giocattolo per i più piccoli. Le donne cucivano e rattoppavano gli indumenti; sferruzzavano per fare

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scalsaroti (calze). Le giovani ricamavano la dòta (tovaglie, lenzuola, asciugamani da portare in dote al momento delle nozze), cucivano scarpe di pezza per l’estate e facevano bambole di stoffa per le bambine. Le donne più anziane filavano canapa e lana con la mulinèa, un lavoro meccanico che si poteva fare anche con poca luce. I ragazzini davano una mano agli adulti aiutando a dipanare una matassa, sfogliando e sgranando le pannocchie di sorgo (granoturco). I più grandi potevano costruirsi qualcosa per il loro divertimento come trappole, fionde oppure oggetti per giocare e fischiare

come i cuchi (fischietti a forma di animale). Mentre si lavorava si conversava, si parlava di tutto e di tutti: dai pettegolezzi all’insegnamento di norme morali e comportamentali; dalle nozioni di medicina popolare alle conoscenze che riguardavano l’agricoltura e l’allevamento; dai racconti popolari alle lettere degli emigrati… Un vero e proprio patrimonio di cultura popolare. Grande spazio era riservato alla narrazione di storie per piccoli e grandi. Di solito era la nonna o il nonno a raccontare storie di magia dove i protagonisti si chiamavano Piereto, Joanin, Catarinea… per i più piccoli si recitavano storie-filastrocche per divertire. Le storie erano popolate da esseri fantastici e misteriose 33


come le anguane (streghe), il salbanelo (essere dispettoso che arruffava le code dei cavalli e tormentava animali e persone), l’orco, il basilisco (serpe giallo)… Il filò cominciò a sparire quando si diffusero i mezzi di trasporto come le automobili che consentivano maggiori

spostamenti e nuove opportunità di incontro e divertimento. Il colpo di grazia giunse dall’ingresso della televisione nelle case.

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TRADIZIONI ANTICHE: FAR FILO’ Una volta in Veneto, nelle serate agli inizi del 900, chi abitava in campagna e non aveva la stufa in casa, andava nella propria stalla o in quella del vicino per stare in compagnia. Le stalle erano molto calde perché gli animali: mucche, asini, pecore e cavalli con il loro respiro riscaldavano l’ambiente. Durante questi incontri le persone più anziane raccontavano le loro esperienze e storie avventurose ai più piccoli in attesa venisse l’ora per loro di andare a letto. Le donne si mettevano in cerchio assieme per lavorare la maglia e per creare altri oggetti utili per la gestione della casa, per il lavoro dei mariti o da vendere nel paese più vicino: cesti, bambole di pezza, coperte e calzettoni. In città invece si trascorreva la sera, in alcune famiglie come quella di mio nonno, a fare palle di carta bagnate con le varie riviste e giornali acquistati o trovati in giro. Queste palle una volta asciutte servivano per accendere il fuoco nella stufa il giorno dopo. Il giornale quotidiano “Il mattino di Padova” aveva una carta più ruvida e veniva tagliato in tanti pezzi abbastanza grandi che servivano poi per l’igiene intima. Le persone, per stare al caldo, stavano in cucina dove c’era la stufa e alla sera giocavano a carte, le donne cucivano i vestiti che si erano bucati e preparavano le verdure per il giorno dopo. Mio nonno mi racconta che lui aspettava sempre la mezzanotte prima di andare a letto perché il suo papà, che terminava di lavorare presso una custodia delle biciclette vicino ad un cinema, gli portava a casa sempre un cartoccio di panna montata che prendeva nel bar vicino che chiudeva proprio a mezzanotte quando finivano gli spettacoli. Ai giorni nostri le serate le passiamo in molti modi: in famiglia a guardare dei film in tv, oppure andando al ristorante, al 35


cinema, a passeggiare in centro, a giocare a bowling, in discoteca a ballare o semplicemente a chiacchierare per ore al bar con gli amici. Adesso purtroppo tante di queste cose non le possiamo fare a causa del virus ma spero che presto ritorneremo ad uscire e a rifarle. Malia_2000, quarta A – Primaria Tiepolo

Le abitudini delle persone sono cambiate molto nel corso del tempo. Al giorno d’oggi abbiamo molte più cose materiali che una volta non esistevano, per esempio i PC, gli smartphone, la TV e anche cose più essenziali come il riscaldamento e la corrente. Quando parlo con i miei nonni mi rendo conto delle differenze, mio nonno non aveva il riscaldamento e quando arrivava sera si mettevano tutti intorno al braciere per riscaldarsi prima di andare a letto e lui si addormentava leggendo un libro perchè non aveva la tv. Mia nonna invece guardava il carosello e diceva le preghiere prima di addormentarsi. Erano diversi anche i giochi che facevano, noi abbiamo la playstation loro invece giocavano in gruppo a scalone, saltavano con la corda e leggevano tanti libri. Ascoltando tutto questo mi rendo conto di quanto sono fortunato e sono felice di essere nato in quest’epoca. Alessandro, quarta A – Primaria Tiepolo All’inizio del’900 in Veneto le serate si trascorrevano tutti insieme, magari in una stalla riscaldata dal fiato degli animali. Non c’era tanta luce ma la poca luce che 36


c’era proveniva da una lampada a petrolio che emanava tanto fumo e odore. Le famiglie, per stare insieme si spostavano in casa di vicini portandosi dietro le sedie e il lavoro da fare. Nessuno stava con le mani in mano: adulti e bambini avevano sempre qualcosa da fare. Le donne cucivano e rattoppavano gli indumenti dei componenti della famiglia; le donne più giovani ricamavano la loro dote da portare al momento delle nozze. Gli uomini riparavano o costruivano attrezzi da lavoro. Anche i ragazzini davano una mano agli adulti. Mentre si lavorava si conversava, parlando di tutto e di tutti. I più anziani raccontavano storie ai più piccoli per farli divertire. Tutto questo cambiò quando fu inventata l’energia elettrica e con l’ingresso della televisione nelle case. Anche la diffusione dei mezzi di trasporto: automobili, treni, aerei che consentivano maggiori spostamenti e nuove opportunità di incontro e divertimento, modificò le abitudini delle persone. I miei nonni mi raccontano che quando erano piccoli non avevano in casa il televisore, non esisteva la corrente elettrica. La casa era composta da pochi arredi, avevano l’indispensabile. Per illuminare le stanze usavano le candele, c’era cera dappertutto. Non esistevano tutti i giochi di oggi ma la maggior parte dei loro giochi venivano costruiti artigianalmente dai loro genitori o nonni. Giocavano in strada dove si ritrovavano con tutti gli altri bambini della zona. Non esistevano videogiochi, PC, tablet o altri strumenti tecnologici ma si divertivano lo stesso, forse più di adesso, così mi racconta la nonna. I figli aiutavano i genitori nelle faccende di casa e nel lavoro dei campi. La sera si ritrovavano tutti davanti al focolare a raccontarsi i fatti accaduti durante la giornata. I miei nonni hanno nostalgia di quel periodo. Mi dicono sempre che oggi siamo più isolati, sempre con il cellulare in 37


mano e meno attenti alle relazioni con gli altri. Stellina 560, quarta A – Primaria Tiepolo Nel 900 si trascorrevano le serate nelle stalle a filare la lana o a sgranare le pannocchie. I miei nonni mi hanno raccontato che quando erano piccoli non avendo nessun tipo di gioco passavano le

serate a giocare a nascondino o aiutavano i più grandi a pulire le stalle. Mia nonna aiutava sua mamma e le sue zie a ricamare fazzoletti oppure facevano i gomitoli di lana. Quando era inverno per riscaldarsi andavano nelle stalle in mezzo al fieno, oppure restavano in casa con la stufa a legna chiamata anche stufa economica perché con quella stufa si riscaldavano e cucinavano allo stesso tempo. Adesso, ai nostri tempi, le serate le passiamo al caldo della nostra casa con i riscaldamenti accesi e quando fa tanto caldo stiamo al fresco usando il condizionatore. Passiamo le serate a guardare la televisione, a giocare con i tanti giochi che abbiamo ma anche con la playstation. Oggi i nostri genitori non ci fanno mancare niente, ma sono sicuro che quando loro erano piccoli e anche i miei nonni lo erano non avendo niente si divertivano di più; anche le famiglie erano più unite tra loro. Pat cobra, quarta A – Primaria Tiepolo Nel 1900 i Veneti, nei mesi più freddi, facevano filò. Uomini e donne giovani e anziani compresi i ragazzini si 38


raggruppavano nelle stalle piene di animali. Non c’era la luce, per questo le strade le illuminavano con le lanterne. Il “canfin” era una lampada a petrolio che utilizzavano per illuminare la stalla. Le donne sistemavano i vestiti e con i ferri ne facevano dei nuovi. Le ragazze ricamavano lenzuola, tovaglie, asciugamani che usavano quando si sposavano. Facevano anche giochi per bambini con le stoffe. Gli uomini costruivano e riparavano zoccoli, creavano cesti, scope, attrezzi per lavorare e giocattoli in legno per bambini. I ragazzi si divertivano a costruire fischietti e trappole. La sera tutti insieme riscaldati dal fiato degli animali chiacchieravano, educavano i bambini, raccontavano storie. Dopo tanti anni queste usanze andarono a perdersi perchè nacque la tv, le automobili, le macchine da cucire ecc... Ai giorni d’oggi tutti abbiamo l’informazione tramite la tv, i giornali, i documentari e altro. Per illuminare strade e case si usa l’energia elettrica. Per cucinare usiamo il gas. Per spostarci usiamo le macchine. I giochi per bambini non mancano. “ Tanti anni fa era duro frequentare la mia scuola” - dice mia nonna che viveva in una città di montagna dove si doveva spostare in inverno, in mezzo alla neve e a piedi. Quando era brutto tempo la luce andava via. Si lavorava tanto nei campi per produrre frutta e verdura di ottima qualità, perchè a differenza di oggi che vengono fatte con tante sostanze chimiche allora erano biologiche. Nella sua casa aveva tanti animali: galline, galli, pecore, capre, mucche e cavalli. “ Si faticava tanto” - dice la nonna, ma era tutto sano. Adesso abbiamo i cellulari per chiamare, i computer, i tablet e molto altro per comunicare. Allora usavano le cabine telefoniche per telefonare, le tv erano fatte in bianco e nero , non tutte le famiglie ne possedevano una. La nonna dice che si andava dai vicini per vedere un film. Adesso le tv sono 39


a colori. Ogni famiglia ne ha due o tre addirittura. Usiamo il computer o il telefonino per chattare, invece tanti anni fa si mandavano i saluti tramite cartoline e telegrammi che non erano così veloci, ma era bello lo stesso dice lei. Per me è bello vivere così, invece la nonna mi dice che anche i suoi tempi erano stupendi perchè le persone erano più socievoli, si aiutavano molto di più, ai tempi di oggi non vede questo. Siamo sempre attaccati dietro ai computer, tablet e telefonini e tra poco cambieremo forse anche il modo di scrittura. La nonna pensa che è molto più bello scrivere anche tra noi giovani le parole complete. Charx, quarta A – Primaria Tiepolo D’ inverno grandi e piccoli trascorrevano le serate in un‘ unica stalla a far filò , veniva riscaldata dal fiato degli animali. La luce proveniva da una lampada a petrolio chiamata “canfin“. Chi non aveva la stalla o chi cercava compagnia, andava dal vicino portandosi la sedia. Alcuni che vivevano lontano si portavano la sedia e andavano con il vicino portandosi un’ unica lanterna. Anche quando si faceva filò si lavorava, gli uomini riparavano o costruivano oggetti, i più anziani preparavano i fasci di stròpe, dei rami flessibili ottenuti soprattutto dal salice per confezionare cesti di varie dimensioni. Facevano scope per la stalla e il cortile. Tagliavano il legno per ricavare manici, rastrelli, sedie. Facevano anche qualche giocattolo per i più piccoli. Le donne cucivano e rattoppavano i vestiti, sferruzzavano per fare calze. Si diceva anche che sferruzzavano gli “ scalsaroti“. Le ragazze giovani ricamavano la dote: tovaglie, lenzuola, asciugamani da portare quando si sposavano. Cucivano anche scarpe di pezza per l’ estate e facevano le bambole per le bambine. Le donne più anziane raccontavano le 40


storie di fantasia ai più piccoli narrando di personaggi fantastici come le anguane ( le streghe ), il salbanelo (un essere dispettoso che arruffava le code dei cavalli e tormentava gli animali ma anche le persone),l’ orco, il basilisco (un serpente giallo). Oggi invece , alla sera, dopo aver mangiato ci riposiamo un pò, ci andiamo a lavare, dopo esserci lavati guardiamo un film o leggiamo un bel libro, io invece faccio tutte e due le cose, un giorno guardo un film divertente in russo con mia mamma e un giorno vado a letto, ma non mi metto subito a dormire, mi metto a leggere o a ripassare un compito che si studiava per il giorno dopo. Bluberry_10, quarta A – Primaria Tiepolo I miei nonni e la mia bisnonna vivono in Moldavia. Un giorno ho chiesto loro come trascorrevano le serate nel 1900. Mi hanno raccontato che in quel periodo non c’era la luce, per illuminare usavano le lampade a gas e le candele. Alla sera si riunivano in gruppetti a casa di qualcuno e tessevano i tessuti, cantavano delle canzoni e raccontavano storie. In questo modo il mio bisnonno ha conosciuto la mia bisnonna e si sono sposati. Invece adesso alla sera si guarda la TV, il computer, il telefonino e si giochi con i giochi moderni. Le famiglie vanno a mangiare al ristorante. Secondo me una volta era più bello perché c’era più felicità. Charli 17, quarta A – Primaria Tiepolo Nei primi anni del 1900, nei mesi più freddi i Veneti facevano filò. La sera uomini e donne giovani e meno giovani, ragazzi e bambini si raggruppavano all’interno delle stalle riscaldate dal fiato degli animali. Alcuni facevano parecchia strada illuminandola con delle lanterne e portavano con sé una sedia. La stalla invece veniva illuminata con il canfin, una lampada a petrolio. Gli uomini riparavano e costruivano vari oggetti: sgalmare, zoccoli, fasci di stròpe per creare cesti, scope 41


e alcuni giocattoli per i più piccini. Le donne rammendavano i vestiti e lavoravano a ferri creando gli “scalsaroti“ mentre le più giovani ricamavano lenzuola, tovaglie e asciugamani ricevuti con la dote quando si erano sposate. Inoltre, confezionavano delle bamboline di pezza per le bimbe. I ragazzi aiutavano gli adulti e si divertivano poi a costruire oggetti per i loro divertimenti: fionde, trappole e fischietti a forma di animale, i cuchi. Durante le serate si chiacchierava molto di ogni cosa: dai pettegolezzi alle norme di educazione, da storie di fantasia a racconti tramandati di cui i personaggi descritti avevano nomi come Piereto, Joanin e Catarinea, dalle conoscenze mediche a quelle agricole e sull’allevamento. Purtroppo, con il passare degli anni, queste usanze si sono perse ed è arrivato il progresso: prima le automobili e poi la TV. Oggi invece sono cambiate mote cose: le auto sono diventate il mezzo più utilizzato per gli spostamenti, l’illuminazione è data dall’elettricità e dalle lampadine a led, il riscaldamento è dato dal gas, stufe a pellet e pannelli fotovoltaici. I giocattoli non sono più intagliati nel legno ma fatti con degli stampi e viene utilizzata molta plastica. Pur essendo nata nel 1947, mia nonna conosce e ricorda moto bene le “sgalmare“perché le utilizzava per raggiungere la scuola dovendo attraversare campi e terreni non asfaltati. Mia mamma mi racconta di quando usciva la sera e per farsi andare a prendere da mia nonna, utilizzava un gettone del valore di 200 lire, che oggi sono appena 10 centesimi di euro e la chiamava dal telefono pubblico della cabina telefonica. Oggi ci sono i cellulari. Mia nonna, inoltre, dice che il progresso fa bene da una parte emale da un’altra perché non usiamo più la fantasia sostituita oggi dai giochi sui telefonini. Anche lei ne possiede uno ma con il suo non si può fare niente, solo telefonare e basta. 42


Restiamo a casa e guardiamo un film o una serie tv su Netflix, tutto a colori. Mia nonna invece, quando i suoi genitori, i miei bisnonni, se la sono potuta permettere, guardava la tv in bianco e nero. Ora, la sera prima di andare a dormire chiacchieriamo in chat o in videochiamata tra amici e compagni di classe. A me piace l’Era in cui vivo ma credo che mi sarebbe piaciuto anche vivere in quei tempi perché senza tecnologia avrei fatto molte più cose e mi sarei sicuramente divertito. Frank 2011, quarta A – Primaria Tiepolo

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L’angolo dell’Intervista Dove viveva quando era piccolo? Quando ero piccolo vivevo in città. Cosa si ricorda della sua infanzia e dell’adolescenza? Ha dei bei ricordi? Dell’infanzia ricordo che trovare da mangiare tutti i giorni era un passo avanti. Dell’adolescenza, invece, ho ricordi legati ad una nuova vita anche per via del Piano Marshall (dopo la Seconda Guerra mondiale) e del maggior benessere in Italia. Quali erano i suoi giochi preferiti? Ricordo che si giocava a calcio (naturalmente con il pallone fatto di stracci), a “momola”, con il concio e a “chi ha paura dell’uomo nero?”. Com’era la scuola? La scuola era un punto di riferimento. Il maestro era “il signor maestro” e se prendevi una nota, a casa le prendevi… altro che contestazione. Com’era la vita di tutti i giorni? È vero che anche i bambini e i ragazzi lavoravano? Una volta era di prassi che i bambini a sette/otto anni andassero “a bottega” presso gli artigiani e i negozianti. Ciò aveva un duplice scopo: - Erano sotto controllo mentre i genitori lavoravano - Imparavano un mestiere, un lavoro per il futuro. C’è qualcosa che le manca della vita del passato? Del passato mi mancano i genitori e la lealtà politica che in quei momenti, pur con idee diverse, c’era.

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Che messaggio vorrebbe lasciare ai bambini e ai ragazzi di oggi? Godetevi questa libertà che i vostri bisnonni e nonni hanno conquistato. Non cadete nella trappola della superficialità e del “tutto dovuto”. Portate rispetto ai vostri insegnanti e ricordatevi che gli italiani sono un grande popolo. Roberto, Gruppo Alpini “G. Reolon”

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Dove viveva quando era piccolo/a? In campagna, in collina, in città…? Da bambina ho vissuto in città, in un grande caseggiato dove c’erano tante famiglie e tanti bambini per giocare. Cosa si ricorda della sua infanzia e dell’adolescenza? Ha dei bei ricordi? Mi ricordo i giochi, le canzoni, l’asilo… Ho fatto la prima elementare in città solo per un mese. Poi ci hanno sfollato per via dei bombardamenti e ci siamo trasferiti ad Altavilla. Il posto era meraviglioso, fra colline e campagna, ma la casa proprio no. Era uno stanzone in passato usato come magazzino. Di fianco c’era un porcile con lo scarico sotto alla finestra. Lo stanzone in cui vivevamo era nero di fuliggine e fumo di candele. A quel tempo non era ancora arrivata la corrente elettrica nei paraggi. Il gabinetto era fuori, su una specie di catafalco di legno. Per sedere era provvisto di un palo sorretto ai lati da altri due. Fui iscritta in prima elementare, ma la scuola era lontana. Io e le mie amichette arrivavamo spesso in ritardo anche perché giocavamo e chiacchieravamo lungo il percorso. Non avevamo molti libri da portare, ma un problema erano le sgalmare perché i chiodi spuntavano sotto la suola e ci ferivano i piedi. Frequentai la seconda, ma pochi giorni della terza perché c’era la guerra. Ricordo che un giorno ero sulla strada con mia sorella. Giunsero degli aerei in picchiata e ci piovvero addosso dei proiettili. Due ragazzini che erano con noi ci spinsero nel fosso (che era asciutto) coprendoci con i loro corpi. Quando mio padre venne a cercarci provai a dirgli qualcosa ma la voce non usciva e, per lo spavento, rimasi muta per qualche ora. Ricordo la paura vissuta in altri momenti della guerra. I bombardamenti erano continui: dalla finestra della stalla che dava verso Vicenza, vidi le fiamme e il riverbero che accese il cielo quando bruciò la Basilica. 46


Un giorno, nel 1946, mentre ero a scuola, la mamma entrò nell’aula, parlò con la maestra e mi invitò a seguirla. La guerra era finita e papà aveva trovato due stanze a San Bortolo nel centro di Vicenza. In confronto all’abitazione di prima mi sembrò una reggia: c’erano le tendine sui vetri, un piccolo gabinetto con lo sciacquone… roba da ricchi insomma! L’entusiasmo scemò quando iniziò a piovere e l’acqua cominciò a entrare dal tetto così papà fu costretto a fare dei buchi sul pavimento per farla defluire nello scantinato. Ci volle un po’ prima di riuscire a trovare un’altra abitazione. Dopo la quinta elementare, a undici anni e mezzo, sono andata a lavorare. C’era un amico di famiglia che aveva una sartoria da uomo. Sono andata lì a fare la “servetta” cioè a occuparmi dei lavori domestici. Dovevo fare le pulizie e portare in giro i vestiti. Per me questa era un’avventura: non c’erano campanelli con i nomi, non c’erano luci, c’erano tante macerie. Venivo dalla campagna e non conoscevo le strade, perciò me ne sono capitate tante di disavventure. Una volta il sarto mi ha chiesto di portare dei vestiti vicino allo stadio. Non sapevo dove fosse così mi ha spiegato che si trovava vicino a un museo. L’unico museo che conoscevo era quello del Risorgimento, dopo la chiesa di Monte Berico. - Fin là in cima devo andare? – chiesi. - Certo! – mi rispose senza capire che avevo frainteso le sue spiegazioni. Percorsi tutta la salita fino a Monte Berico con il mio carico di vestiti. Guardando il panorama dall’alto vidi un grande campo da calcio. Fermai un passante e gli chiesi: - Ma quello è lo stadio? Fu lui a spiegarmi che avevo decisamente sbagliato strada. Quella sera rientrai molto tardi. Al pomeriggio andavo a fare semplici lavori di sartoria. 47


Quando tornavo a casa, giocavo sul marciapiede con i miei coetanei. Era molto diverso rispetto ad adesso: molte case erano ridotte a macerie. Sulle macerie si giocava a cercare i tesori: piastrelle, vetri colorati… Sono rimasta a lavorare per due anni dal sarto, poi sono andata da una magliaia. Nel 1951 sono stata assunta in fabbrica: avevo quattordici anni. Quali erano i suoi giochi preferiti? Si giocava ai quattro cantoni, a prendersi, a nascondino, nascondino, “sciafeta”. Si giocava con gli “ossi del persego”: era un gioco di abilità in cui si buttavano in alto gli ossi per poi riprenderli. I maschi giocavano con il “concio”: per giocare si utilizzano un pezzetto di legno (chiamato appunto “concio” o lippa) lungo circa 12 cm e appuntito alle estremità) e una sorta di mazza per battere (“manego”) lunga circa 40 cm. I vicini di casa lo requisivano perché avevano paura che giocando rompessero i vetri, ma mio papà ne faceva subito un altro perché ci teneva ai bambini. Mio papà aveva costruito anche una moto con le scatole del tonno. C’era una lamella che faceva rumore simulando quello del motore. I bambini più piccoli potevano salirci e percorrere la discesa. Ad Altavilla il papà nel tempo libero aveva fatto perfino una nave di materiale riciclato (scatole di alluminio). Un giorno ci ha chiesto: - La gavio vista la nave? Ci raccontò di averla messa nel fiume Astichello e che, passando per il tubo dell’acqua, era finita nella vasca che avevamo in giardino. Noi eravamo così ingenui che gli credemmo. Il gioco più bello alla sera era quello di giocare con la scatola dei chiodi del papà perché dentro trovavamo molti oggetti: viti, bulloni…

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Com’era la scuola? La scuola era diversa da quella di oggi. All’inizio andavo a scuola con una borsetta intrecciata di paglia. Qualche anno dopo avevo una cartella di cartone lavorato in similpelle (poi ho scoperto che quel materiale si chiama “dermoide”). Aveva un odore particolare. Quando sono andata a lavorare da Olivotto ho sentito l’odore e all’improvviso mi è sembrato di essere tornata a scuola. C’è qualcosa che le manca della vita del passato? Mi piace rivedere il passato attraverso le fotografie, i filmini… Mi piace anche scrivere alcune storie della mia vita senza malinconia, solo con un po’ nostalgia. So che il passato non si può ripetere. Quello che mi manca tanto è viaggiare: nella vita ho visto tante meraviglie, ho viaggiato per il mondo. Adesso posso farlo con i documentari. Che messaggio vorrebbe lasciare ai bambini e ai ragazzi di oggi? Bambini e ragazzi, cercate di godere delle piccole cose che succedono. Guardate alla bellezza perché è brutto vedere il vandalismo. Cercate di essere persone che godono delle piccole cose e delle amicizie. Marisa, Gruppo Pensionati “La Rondine”

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LA SCUOLA

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LA SCUOLA NEL VENETO DEL PASSATO E NEI PAESI DI ORIGINE Mia nonna è nata a Pianezze di Arcugnano, tanti anni fa. Per andare a scuola percorreva a piedi diversi chilometri, con il freddo e con il caldo, con la pioggia e con la neve. La nonna e i suoi fratelli andavano vestiti con gonna, pantaloni e calze di cotone: per sorreggerle utilizzavano una specie di bustino elastico, altrimenti scendevano. Come scarpe usavano gli zoccoli di legno. Il papà della nonna, mio bisnonno, sotto agli zoccoli metteva della gomma inchiodata al legno così non si consumava. Una volta, per andare a scuola, si usava il grembiule nero con il colletto bianco e il nastro rosa per le femmine, celeste per i maschi. Le cartelle erano di cartone e come libri usavano il sussidiario e un libro di lettura. I quaderni erano piccoli, non esisteva il quadernone come adesso. Per scrivere usavano la cannuccia con il pennino e l’inchiostro. Nell’astuccio c’erano la gomma, la matita, sei colori, il temperino e niente di più. Ma la nonna, quando tornava a casa, era sempre felice. Aveva tre fratelli: due grandi e uno più giovane di un anno che aiutava sempre. La nonna dice che siamo fortunati perché abbiamo tutto mentre loro non avevano di che mangiare. Delle volte andavano a letto senza la cena oppure mangiavano la polenta con un po’ di zucchero. Ci dice sempre che se dovessimo tornare indietro negli anni, non riusciremmo ad adattarci a quel tipo di vita perché siamo cresciuti nella bambagia. Momo 2011, classe quarta C – Primaria Tiepolo Le scuole in Veneto non erano come quelle di oggi, ma erano molto diverse. Quando si doveva andare a scuola i bambini indossavano degli zoccoli di legno poi quando arrivavano a scuola si toglievano gli zoccoli ed entravano. Il maestro nella sua cattedra teneva sempre una specie di bacchetta che usava per picchiare i bambini. A volte i 53


maestri mettevano in testa un cappello da asino ai bambini e li mettevano dietro alla lavagna. A volte li facevano inginocchiare sopra ai fagioli o ai ceci. I bambini ogni mattina dovevano portare della legna per stare al caldo. Mia nonna mi ha detto che in Macedonia i libri li portava dentro un sacchetto e se si strappava, li doveva tenere in mano. Io, quando andavo a scuola in Macedonia, mi divertivo: il maestro non ci faceva scrivere tanto, a volte facevamo anche dei giochi per imparare. Girasole giallo, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Le scuole oggi sono cambiate, un tempo erano molto severe. I banchi erano rigidi e scomodi, erano inclinati per facilitare la scrittura agli alunni. Non c’erano le penne con la cartuccia quindi per scrivere usavano una penna simile a quella stilografica: la intingevano nel calamaio pieno di inchiostro. Inoltre, sul banco c’era anche una rientranza per appoggiare la penna dopo aver scritto. I bambini erano divisi in classi sociali diverse: i ricchi (contadini, allevatori, artigiani...) e i poveri; i ricchi si permettevano regali da fare al maestro e venivano puniti di meno invece per i poveri era il contrario... Se sbagliavi a scrivere, rispondevi al maestro o non gli portavi rispetto, venivi frustato sul palmo della mano con una bacchetta pieghevole: ovviamente spesso le punizioni erano diverse per ogni classe sociale. La 54


scuola elementare durava fino ai 12 anni, infatti c’era anche la sesta elementare; in seguito, c’era la secondaria che solo i più ricchi si permettevano, il liceo e l’università. A quei tempi essere istruiti voleva dire avere una classe sociale più alta rispetto agli analfabeti, potevi lavorare e addirittura diventare importante; non come oggi che a scuola ci andiamo per obbligo! Ora le maestre sono più gentili, ma ciò non vuol dire che non bisogna più portare rispetto! Questo modo di istruire era molto simile in Macedonia: avevano anche loro una bacchetta e le regole erano le stesse come in Italia. Ora per fortuna la maggior parte del mondo non usa più questo modo di insegnare anche se ci sono ancora Paesi che lo usano. Noce di cocco, classe quarta C – Primaria Tiepolo

In Veneto, cento anni fa, i maestri erano molto severi con i propri alunni: se sbagliavano qualcosa, facevano stendere i palmi e con una frusta li picchiavano oppure facevano indossare un cappello a forma di asino e li facevano stare in ginocchio tutta la mattina. I banchi erano inclinati. Si poteva studiare fino a dodici anni. La scuola di oggi è molto diversa da quella di una volta perché le maestre non sono severe con i propri alunni, non danno punizioni come quelle di una volta, al massimo ti danno una nota. Ora per forza devi studiare fino sedici anni e poi puoi decidere se continuare o no. 55


In Romania la scuola era un po’ come quella in Veneto cento anni fa perché se uno della classe sbagliava, tutti gli alunni venivano picchiati perché la loro classe era unita. Cielo azzurro, classe quarta C – Primaria Tiepolo

La scuola nel 1910 era diversa da quella di oggi. Per esempio, nel 1910 se arrivavi in ritardo, ti davano una bastonata sulle mani o se facevi il monello ti facevano mettere un cappello da asino e dovevi inginocchiarti sui ceci o sassi. C’erano più maestri che maestre. È diversa da quella di oggi perché se una maestra dà un colpo di bastone sulle mani di un alunno viene arresta o se per punizione ti fa inginocchiare sui sassi o ceci viene comunque arrestata. Semmai per punizione ti dà la nota. Leonessa, classe quarta C – Primaria Tiepolo La scuola che frequentava il mio papà era molto piccola ed era composta da solo cinque classi molto ampie che avevano il riscaldamento come quello di oggi. C’era solo una maestra che insegnava tutte le materie. Nelle aule non c’erano bambini stranieri, non si studiava la lingua straniera e tutti i maschi erano vestiti in un modo e le bambine in un altro. Avevano la lavagna staccata dal muro dove dietro si 56


mettevano in punizione gli alunni e non esisteva un’aula di informatica. Come forma di rispetto si dava del “lei” alla maestra e si poteva essere bocciati (papà si ricorda di almeno cinque compagni bocciati!). La mia scuola ha più di cinque aule, è molto grande, ci sono più maestre che insegnano materie differenti. Nella nostra scuola ci sono parecchi stranieri, si studia l’inglese, c’è l’aula di informatica, ci si veste come si vuole e non si dà più del “lei” all’insegnante. Cedro, classe quarta C – Primaria Tiepolo

La scuola ai tempi dei miei nonni era un edificio scolastico come adesso solo che era un po’ più vecchia. C’era la bacchetta per picchiare i bambini quando non facevano i compiti o parlavano durante la lezione; non c’erano le penne e calamaio ma c’erano le penne biro nere o blu. I banchi erano come adesso solo che erano di legno con la sedia di legno. Facevano la merenda e li facevano uscire. Mangiavano quello che davano le loro mamme. A scuola stavano dalle 8:30 fino alle 12:30. Le materie non erano tante facevano soltanto: italiano, matematica, geografia, storia, scienze, educazione fisica. C’era solo una maestra per tutte le materie ed era molto severa. La scuola non aveva nomi tranne edificio scolastico perché c’era una scuola per tutto il paese. 57


Mia nonna ha sempre fatto tutti i compiti, ma c’era anche qualcuno che non faceva i compiti e veniva preso a bacchettate e mandato fuori dalla porta. Mare calmo, classe quarta C – Primaria Tiepolo

La scuola in Veneto tempo fa era molto diversa da quella di oggi. Spesso i bambini e bambine al posto di studiare aiutavano nei campi e infatti non avevano tempo per andare a scuola. Tempo fa i maestri e le maestre erano molto più cattivi e se mancavi di rispetto a qualcuno di loro o se non seguivi la lezione ti prendevi una punizione grave. Spesso tiravano schiaffi o usavano la bacchetta per colpire le mani dei ragazzini. Quando tornavi a casa e dicevi che avevi mancato di rispetto al maestro, le prendevi anche dai genitori perché era maleducazione. Se avevi fortuna ti capitava il maestro buono che comunque dovevi rispettare, ma se avevi la sfortuna ti capitava quello cattivo. Le classi spesso erano divise. In una classe c’erano solo maschi e nell’altra c’erano solo femmine. Possiamo dire che le ragazze erano più educate mentre nella classe dei maschi a volte c’erano problemi. In ogni classe i ragazzi erano di diversa età. C’erano quelli più grandi e quelli più piccoli. Rispetto a oggi, dove usiamo delle sedie abbastanza comode, tempo fa banchi e sedie erano molto scomodi perché erano duri. Sul banco c’era un buco nel quale 58


andava inserito l’inchiostro per il pennino con il quale si scriveva. La scuola di oggi è molto più bella e interessante. Oro, classe quarta C – Primaria Tiepolo La scuola di 100 anni fa e quella di oggi sono molto diverse: non perché non fosse colorata, ma perché non c’era la tecnologia. C’era solo un maestro, le maestre erano pochissime ed erano tutti severi. E poi mettevano in punizione, a volte picchiavano o mettevano dietro la lavagna con un cappello d’asino. I banchi erano attaccati a una panca di legno. I banchi erano un po’ piegati; non c’erano le penne ma usavano un bastoncino e lo immergevano nell’inchiostro, veniva messo in un contenitore e, se cadeva, venivano picchiati. Leone, classe quarta C – Primaria Tiepolo

La scuola era diversa una volta rispetto a oggi. In Albania i professori erano molto autoritari e non si rivolgeva la parola, non si andava a casa a dire di essere rimproverato dal professore perché venivi rimproverato dai propri genitori più che dal professore e a volte ti veniva dato anche qualche schiaffo. La scuola di una volta era diversa perché si chiedeva tanto dal proprio alunno, i professori non mettevano note ma c’era una tirata d’orecchie per ciò che non avevi fatto oppure per ciò che avevi sbagliato e non potevi 59


andare a casa a lamentarti perché era peggio. Una volta non c’era soltanto la scuola, ma dopo la scuola si aiutava la propria famiglia quindi il pomeriggio si lavorava e si studiava. Una volta con la febbre si andava a scuola e non come oggi. Una volta per raggiungere la scuola si facevano diversi chilometri sotto qualsiasi evento meteorologico. La scuola di una volta per me era molto meglio di questa di oggi: il professore era una figura molto importante anche quando era fuori dall’orario scolastico e ancora oggi quando si incontra per strada lui o lei è sempre il professore. Alieno, classe quarta C – Primaria Tiepolo Una volta c’erano più maestri che maestre. In classe c’erano almeno 47 bambini e avevano il grembiule: quello dei maschi era nero con il fiocco blu grande, le femmine avevano il grembiule bianco con il fiocco rosa. I bambini, se non si comportavano bene, andavano in castigo dietro la lavagna. Si andava a scuola solo alla mattina compreso il sabato, non c’erano lingue straniere e alle medie solo una lingua straniera: inglese, francese o tedesco. La mamma si ricorda che in seconda media il latino era obbligatorio. Oggi è cambiato: ci sono lingue straniere, ci sono più materie e gli alunni non prendono le frustate, facciamo la mensa, non usiamo il grembiule e i maschi e le femmine sono insieme. Nuvola bianca, classe quarta C – Primaria Tiepolo La scuola nel Veneto era diversa. Una classe era composta da 47 alunni di età diverse. La maestra o il maestro erano duri e avevano una pedana e poi sopra avevano la sedia, la cattedra e il bastone. Avevano la pedana per vedere cosa facevano gli alunni 60


e il maestro o maestra si sentivano più importanti. I banchi avevano uno spazio dritto con un buco dove erano tenuti i barattoli di inchiostro. Le sedie erano due come i banchi, erano attaccate e scomode. Alla mattina, se i bambini avevano i calzini bagnati li mettevano ad asciugare sopra la stufa. Gli alunni dovevano portare un ciocco di legno: se non lo portavano rimanevano al freddo. Se gli alunni non facevano i bravi il maestro o la maestra davano bastonate ai palmi delle mani. Flip-tre, classe quarta C – Primaria Tiepolo

La scuola dove andava mio nonno, in Montenegro, era abbastanza grande. Avevano due classi prime, due classi seconde, due classi terze e due classi quarte. In una classe in totale c’erano 35-40 alunni. In due si sedevano su una panchina attaccata al banco. Avevano la lavagna con dei pali con i quali potevano muoverla. Non avevano gli zaini, ma avevano borse fatte a mano con la lana. Un quaderno lo usavano in classe per fare gli esercizi, l’altro quaderno lo usavano per fare i compiti. Un maestro insegnava tutte le materie e faceva da maestro a una classe per quattro anni. Sulle panchine attaccate al banco ci stavano due alunni, per il maestro c’era il banco e la sedia di legno come quella degli alunni. 61


Ogni mattina il maestro decideva chi faceva da capoclasse che aveva il dovere di: 1. Pulire ogni volta la lavagna. 2. Se succedeva qualcosa il maestro chiedeva al capoclasse chi era stato e cosa era successo. Il maestro assegnava a 2-3 bambini di portare qualche ciocco di legno. Mia nonna andava a scuola in groppa a un cavallo con i suoi fratelli accompagnati dal loro papà perché la scuola era lontana. Nella scuola dove andava mia nonna c’erano pochi bambini, in una classe insegnava un unico maestro. In un’aula c’erano la prima, la seconda, la terza e la quarta Per esempio: la prima era composta 4-5 bambini, la seconda era composta da 5-6 alunni, la terza era composta da 6-7 alunni e la quarta era composta da 6-7 alunni. C’era solo un bidello che puliva la neve, puliva la scuola, suonava la campanella quando ogni lezione finiva e distribuiva la merenda. Per merenda si dava pane e qualcosa da spalmare. Scintilla, classe quarta C – Primaria Tiepolo Nelle scuole del passato c’erano dei maestri molto severi con i bambini perché se non facevano i compiti o se rispondevano male il maestro prendeva un bastone lungo e li bastonava sulle mani. Alcuni bambini avevano la possibilità di andare a scuola e altri no perché se erano poveri contadini dovevano aiutare in casa. I banchi erano inclinati, c’erano anche due buchetti sul banco che servivano per inserire l’inchiostro nel quale intingevano per scrivere. Se un bambino era distratto il maestro lo obbligava a mettersi un cappello d’asino e andare dietro la lavagna oppure a inginocchiarsi su dei sassolini o su dei semini. Nell’aula c’era una stufetta e i bambini dovevano portare ogni mattina un ciocco di legno per tenerla accesa. Le scuole del Veneto e quelle di oggi sono cambiate 62


moltissimo. Adesso non usiamo più i banchi e le sedie di quel tempo, ma usiamo banchi dritti e sedie più comode. I maestri non usano più i bastoni per picchiare i bambini e neppure il metodo del cappello d’asino. Motore rombante, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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LA SCUOLA La scuola dei primi decenni del ‘900 era molto diversa da quella di oggi. A scuola ci potevano andare solo i bambini delle famiglie più ricche o nelle famiglie numerose solo il primogenito. Nelle famiglie degli operai e dei contadini i figli iniziavano a lavorare fin da piccoli e contribuivano a mantenere la famiglia, tempo e soldi per la scuola non ce n’erano. Questa situazione comportava un diffuso analfabetismo. I maestri erano spesso persone molto severe e pretendevano molto dai loro alunni. Quando qualche scolaro parlava senza permesso o non faceva i compiti o dimenticava il libro veniva punito con delle bacchettate sulle mani o messo dietro alla lavagna in ginocchio sopra dei sassi o delle noci. Il maestro, a volte, si recava presso la famiglia dello scolaro punito e avvisava i genitori che a loro volta picchiavano il figlio. Mio nonno che andava a scuola nel 1950 mi racconta che alla scuola primaria aveva come insegnanti delle suore severe che lo punivano mettendolo in castigo in un angolo in piedi per tanto tempo finché le ginocchia gli facevano male. In questo periodo la scuola insegnava solo alcune materie: italiano, matematica e un po’ di scienze e geografia perché l’importante era saper leggere, scrivere e contare. La scuola, al giorno d’ oggi, è aperta a tutti ed è anche obbligatoria fino ai 16 anni perciò’, non è più come una volta. I genitori sono obbligati a mandare a scuola i loro figli qualsiasi sia la loro condizione sociale, in caso di famiglie in difficoltà la scuola stessa interviene per aiutarli. Questa legge ha permesso di ridurre moltissimo l’analfabetismo in Italia. I maestri delle scuole d’ oggi sono persone severe ma disponibili all’ ascolto e attenti alle necessità e difficoltà di noi alunni. Quando uno scolaro non si comporta bene o non svolge il suo lavoro viene ripreso dalle maestre e se il problema è grave può avere una nota sul registro affinché i genitori possano vederla. A scuola vengono insegnate molte materie e si fanno molte attività: 64


italiano, matematica, storia, geografia, scienze, musica, arte, inglese, religione, motoria, laboratorio, biblioteca e gite scolastiche. Questo nuovo modo di fare scuola e di insegnare permette a noi ragazzi di capire quelle che sono le nostre potenzialità, le materie che più ci piacciono, ci fa scoprire le nostre attitudini così, in futuro, potremo scegliere meglio cosa fare da grandi. Malia_2000, quarta A – Primaria Tiepolo La scuola di una volta non era bella, divertente e piacevole come quella di oggi. Ci sono tantissime differenze tra la scuola di una volta e quella di oggi. Anche se c’era l’obbligo di andare a scuola, molti bambini e ragazzi non andavano a scuola perché le loro braccia servivano per aiutare i genitori nei campi. Questo succedeva ai figli delle famiglie più povere che spesso, erano costretti ad abbandonare gli studi per aiutare e supportare i genitori economicamente. La scuola di un tempo era formata da una sola classe in cui si ritrovavano bambini di età diverse. La classe di oggi, invece, è formata da bambini della stessa età e divisi per cicli scolastici. Anche gli insegnanti avevano un approccio didattico diverso rispetto ad oggi. L’insegnante, un tempo, aveva una bacchetta in mano con la quale bacchettava i bambini che non erano attenti oppure che non rispettavano le regole. Anche le punizioni che venivano date agli alunni erano diverse rispetto a quelle di oggi: quando un alunno si comportava male veniva messo in castigo dietro la lavagna oppure in ginocchio sopra i ceci. La cattedra dell’insegnante era posta sopra a una pedana distaccata dal resto della classe. Gli insegnanti di oggi sono molto comprensivi e pazienti con i propri alunni. Le maestre sono sempre con noi e vicino a noi soprattutto nei momenti di difficoltà. Gli insegnanti amano più il dialogo con i propri alunni che le punizioni. Ci insegnano ad amare molto noi stessi, i nostri compagni e ad avere rispetto per gli altri. Anche il materiale didattico era molto diverso da quello che 65


utilizziamo oggi: un tempo, per scrivere, i bambini utilizzavano un pennino che immergevano nell’inchiostro; il materiale didattico era quasi tutto in legno. Oggi per scrivere utilizziamo penne leggere e maneggevoli che ci aiutano a scrivere meglio. Il materiale di scuola è molto vario, dai quadernoni rivestiti con copertine colorate, ai libri, agli astucci e ai colori. Oggi l’istruzione ha un ruolo importante nelle famiglie. Oggi imparare è molto più divertente e piacevole. Stellina 560, quarta A – Primaria Tiepolo Oggi voglio raccontare com’era una volta la scuola. Mia nonna ha sessantasei anni e quando frequentava la scuola primaria si chiamava scuola elementare. Era la scuola comunale di un piccolo paese, Dueville. Ogni mattina gli alunni della classe di mia nonna dovevano andare a prendere la maestra alla fermata dell’autobus e insieme raggiungevano la scuola. Le giornate di scuola cominciavano con gli alunni che entravano in classe tutti in fila, dovevano fare il segno della croce e mettersi seduti immobili a guardare la maestra che sulla cattedra apriva un pacchetto con dentro tre Kraffen, era una signora molto, molto grossa e gli alunni dovevano aspettare che lei finisse di mangiare prima di iniziare la lezione. Mia nonna si ricorda bene che i bambini non avevano neanche la merenda per loro. La classe era formata da venticinque, trenta bambini; i banchi erano in formica; gli alunni indossavano tutti il grembiule nero, i maschi portavano un fiocco azzurro e le femmine un fiocco rosa. Le ore di scuola erano cinque, dalle otto alle tredici, con quindici minuti di ricreazione in giardino. I bambini avevano le cartelle rettangolari che assomigliavano a delle valigette e a scuola portavano il libro di lettura, il sussidiario, l’alfabetario, quattro quaderni e un astuccio con pochi colori. Avevano una maestra per tutte le materie, molto severa e dalla mano facile, infatti li metteva in castigo dietro la lavagna in piedi per tutta la mattina senza poter neanche andare in bagno. Dalla classe terza inizia66


vano a scrivere con penna e calamaio fino alla quinta. Le scuole medie non erano obbligatorie e ci si poteva ritirare per andare a lavorare già all’età di undici anni. La nonna mi racconta che c’erano dei giorni che non vedevano l’ora di tornare a casa per essere più tranquilli e avere meno paura. Alessandro, quarta A – Primaria Tiepolo Nei primi anni del ‘900 sicuramente la scuola non era bella come oggi. Alcuni bambini potevano frequentare la scuola, ma molti di questi la frequentavano poco, essendo obbligati ad aiutare la propria famiglia, a lavorare nei campi e dovendo spesso rinunciare allo studio. Le classi erano composte da studenti di età diverse, i banchi erano molto grandi e ci stavano due alunni, la lavagna era posizionata su una specie di cavalletto e quindi mobile e la cattedra era sopra una pedana rialzata forse per dare maggiore importanza all’insegnante; per scrivere veniva usato il pennino e l’inchiostro, c’era poco materiale didattico ed era fatto soprattutto di legno. Sulla cattedra l’insegnante teneva una bacchetta molto lunga che utilizzava per indicare le regioni sulla carta geografica ma qualche volta la usava sulle mani dei bambini che non stavano attenti o disturbavano. Venivano anche puniti facendogli indossare il cappello da asino o messi dietro la lavagna in castigo o ancora, fatti inginocchiare su sassolini, ceci o bucce di noci. I bambini più fortunati avevano delle cartelle di pelle mentre gli altri tenevano assieme i libri con degli elastici. A quel tempo per riscaldare la classe si usavano le stufe a legna e ai bambini veniva chiesto di portarne con sé da casa per tenerla accesa durante le ore di lezione. Qualche tempo dopo le cose sono un po’ cambiate. Mia nonna e sua sorella, che sono nate a metà del ‘900, raggiungevano a piedi la scuola e dovendo percorrere una strada non asfaltata e spesso infangata, usavano degli scarponcini. Non potendo cambiarsi le scarpe, inizialmente venivano prese in giro dalla loro 67


maestra, ma il mio bisnonno, con la divisa da questore, una volta, si presentò all’insegnante chiedendole di non deridere più le sue figlie e la volete sapere una cosa? Non accadde mai più! Le aule erano molto grandi e non erano miste come oggi, o tutti maschi o tutte femmine. I banchi erano sempre a due posti e per scrivere anche mia nonna utilizzava il pennino e l’inchiostro che doveva cambiare quando si spuntava la punta. Almeno per tutto il primo anno non si imparava a scrivere ma si facevano aste, quadratini e cerchietti colorati. L’insegnante era una sola e veniva trattata col massimo rispetto. Oggi diciamo “Ciao Maestra”, quando una volta tutti in piedi come soldatini, grembiule uguale per tutti, appena entrava l’insegnante, in coro si esclamava: ” Buongiorno Signora Maestra”. Oggi i banchi sono monoposto, a volte vicini due a due, altre volte disposti a ferro di cavallo; in questo periodo di pandemia però siamo tutti distanziati. Non c’è più la lavagna mobile, essa è stata sostituita da quella appesa al muro e dalla LIM che è una lavagna elettronica. Non usiamo più il pennino e l’inchiostro bensì penne a biro, matite colorate e pennarelli. Non ho mai visto bacchette lunghe sulla cattedra ma se non ci comportiamo bene le nostre maestre ci puniscono mandandoci fuori dall’aula o mettendoci una nota da far firmare ai genitori… Si salvi chi può! Frank 2011, quarta A – Primaria Tiepolo La scuola di oggi è diversa dalla scuola di tanti anni fa. La scuola si affermò solo nell’ottocento, da allora ha subito molte modifiche, prima le classi erano separate cioè i maschi venivano divisi dalle femmine. Poi gli anni dopo hanno mischiato i maschi con le femmine. Gli alunni delle classi erano numerosi non come oggi, non si usavano le penne ma un inchiostro messo nelle boccette di vetro. La nonna mi racconta che quando scriveva e si sporcava le mani con quell’inchiostro era molto difficile pulirle. Nelle aule non c’era il riscaldamento 68


che c’è oggi, per riscaldare si usava una stufa. Quando mia nonna andava a scuola, erano obbligatori almeno quattro anni di scuola, mentre mia mamma mi racconta che oggi in Albania sono obbligatori nove anni. In Italia la scuola è obbligatoria fino alle superiori. Questo è molto utile secondo me perché ti permette di prendere un diploma che poi ti farà trovare un lavoro più facilmente. Una volta anche le famiglie erano più numerose, avevano tanti figli e il problema era che la scuola costava, invece adesso ogni famiglia ha pochi figli e tutti possono studiare. Le scuole tanti anni fa erano poche e quelle poche erano molto lontane dalle abitazioni. La nonna per andare a scuola doveva camminare a piedi tante ore sotto la pioggia o la neve per andare e tornare. Mi racconta sempre che aveva tanta voglia di studiare e che appena arrivava nel cortile della scuola la stanchezza svaniva. A differenza di oggi c’era un gran rispetto per i maestri, loro erano molto autoritari, quando gli alunni sbagliavano o si comportavano male davano delle punizioni. Oggi, purtroppo, la scuola viene vissuta diversamente da alunni e genitori. Noi bambini oggi non siamo molto disciplinati, spesso manchiamo di rispetto a compagni e a maestri. La nonna pensa che molto dipende dall’educazione che i genitori danno ai propri figli. A mio parere i ragazzi sono diventati menefreghisti e maleducati e io mi chiedo: “Il rispetto dove andrà a finire?”. Un tempo le maestre avevano solo pochi libri per insegnare, ora usano tanti strumenti tecnologici: computer, tablet, LIM e ci mostrano tanti video, la scuola è diventata innovativa. Anche la nonna dice che per chi ha voglia di studiare è molto più facile adesso. Anche io maestra sono contenta di andare a scuola adesso perché nel mio quartiere ci sono tre scuole e sono tutte vicino casa, dobbiamo solo imparare a portare più rispetto ai maestri, ai compagni e alle persone anziane. VIVA LA SCUOLA E LE MAESTRE! Charx, quarta A – Primaria Tiepolo

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Com’era la scuola di una volta? Gli alunni entravano in fila silenziosamente e si sedevano nei banchi. Ognuno indossava un grembiule nero, a volte bianco per le femmine, con un colletto rigido bianco ed un fiocco blu: questo abbigliamento serviva come una divisa ed il nero della stoffa serviva per camuffare le macchie di inchiostro. Com’è la scuola di oggi? Secondo me la scuola di oggi è migliore rispetto a quella del passato. Adesso i ragazzi sono sicuramente più motivati ad apprendere, poiché le lezioni sono meno noiose e più diversificate. Inoltre c’è maggiore dialogo fra alunni e insegnanti, infatti ci si può esprimere più liberamente e ci si sente più compresi e valorizzati. I nostri nonni raccontano spesso che le loro maestre usavano una strategia molto particolare per punire gli alunni più discoli: bacchettate sulle mani e in ginocchio dietro la lavagna! Gli alunni temevano l’insegnante, quindi erano tutti puntuali, educati e precisi come dei soldatini. La scuola di oggi è ben diversa, come anche l’educazione che i ragazzi ricevono a casa dai loro genitori. Oggi, in alcuni casi, non esiste ordine, puntualità, ma soprattutto rispetto. Come apprendiamo quotidianamente dai TG, ai ragazzi che non rispettano le regole scolastiche spesso non succede nulla e, purtroppo, alcuni alunni si sentono via via sempre più forti e autorizzati a prendere il sopravvento sui professori. Quello che succedeva all’interno della classe era nel potere dell’insegnante, per il quale niente era discutibile. Non c’era nessuna possibilità di replica da parte delle famiglie che non potevano assolutamente entrare in nessuna questione, anzi, di solito, i genitori dicevano che la maestra aveva sempre ragione e non si discuteva, si ubbidiva e basta. Il rapporto tra gli insegnanti e gli alunni era freddo e distaccato, esistevano le punizioni che erano soprattutto corporali. Non esisteva il tempo pieno e l’insegnante era uno solo. In quegli anni, inoltre, il grembiule era obbligatorio per tutti. Mario 65, quarta A – Primaria Tiepolo 70


Una volta la scuola era molto diversa dalla scuola di adesso. I miei nonni mi hanno raccontato che le aule erano molto ordinate, i banchi erano in legno e a due posti. C’era una grande cattedra rialzata per l’unica maestra che avevano e al muro erano appese le lettere dell’alfabeto e le carte geografiche. Poi c’era una grande lavagna nera e un pallottoliere per contare. Le classi erano molto numerose, l’insegnante era molto severo per far mantenere un buon comportamento poteva usare le bacchette sulle dita, oppure far mettere gli alunni in ginocchio sopra ai legumi secchi. Ogni mattina l’insegnante controllava la pulizia del viso, delle mani e delle unghie perché a quei tempi era molto diffusa la scabbia e i pidocchi. Le materie che studiavano erano quasi simili a quelle di oggi, gli alunni andavano a scuola con una cartella di cartone, una matita, un quaderno a righe e uno a quadretti. La scuola di oggi invece è molto diversa. Le aule sono più piccole, i banchi sono a un posto ,oltre alla lavagna abbiamo una LIM, una lavagna digitale. Andiamo a scuola con zaini in spalla o a trolley ,abbiamo molti libri e quaderni, un astuccio con molti colori, matite e penne. Abbiamo quattro maestre e possiamo vestirci come vogliamo. Una volta c’era molto rispetto per il maestro, si salutava sempre sia all’ arrivo che quando si andava via con buongiorno e buonasera. Adesso queste cose mancano. Pat cobra, quarta A – Primaria Tiepolo Tanto tempo fa le scuole non erano obbligatorie, in realtà bambini e ragazzi imparavano a malapena a leggere e a scrivere. Nelle famiglie contadine le loro braccia servivano nei campi perciò dovevano rinunciare alla scuola con dei genitori analfabeti. La scuola di un tempo aveva un’aula con dei ragazzi o bambini che avevano diversi anni. I più grandi stavano in fondo e i più piccoli davanti, il maestro per controllare tutti faceva dei gruppi, dava il compito e girava la classe per vedere se lo stavano facendo. I banchi erano da due, quelli più 71


piccoli avevano un banco per loro, quelli medi avevano un banco medio e gli ultimi avevano un banco grande. Tutti gli oggetti che avevano a scuola erano di legno, il foro che c’ era sui banchi serviva per mettere l’ inchiostro, per scrivere usavano un pennellino. La cattedra era messa sopra a una pedana perché i bambini dessero ascolto al maestro. Con la bacchetta il maestro indicava i punti cardinali sulla cartina geografica ma la usava anche per dare una bacchettata sulle mani dei bambini o ragazzi monelli. Nella scuola erano frequenti punizioni come quella di far indossare il cappello d’ asino o farli mettere dietro alla lavagna , mettersi in ginocchio su ceci o semi di mais o anche sulle noci spaccate. I bambini più fortunati avevano uno zaino in pelle invece altri bambini portavano i libri in mano legati con un spago o con una cintura. Per riscaldare l’ aula usavano una stufa, spesso gli studenti dovevano portare del legname per farla restare accesa. Oggi, invece, gli insegnanti non danno più le bacchettate agli alunni sulle mani. Secondo me i bambini prima capivano i loro sbagli ma adesso alcuni non ascoltano tanto le maestre, fanno tutto quello che vogliono prendendo altri bambini in giro, invece secondo me quando qualcuno veniva preso in giro la maestra dava una bacchettata sulle mani del bambino e lui capiva l’ errore che aveva fatto. Bluberry_10, quarta A – Primaria Tiepolo La scuola di un tempo era molto diversa da quella di oggi. Alcuni bambini rinunciavano all’istruzione per andare ad aiutare le loro famiglie nei campi, ed è per questo che alcuni adulti sono analfabeti. La classe rispetto a oggi era molto diversa, come la lavagna non era attaccata al muro, ma girevole cioè che si poteva girare. I banchi erano uno più grande dell’altro, per i bambini di bassa e media altezza. Un tempo non scrivevano con penne o matite ma con l’inchiostro e un pennino che intingevano per poi scriverci. Il materiale 72


didattico era poco e fatto di legno. La cattedra era posta su una pedana. Gli insegnanti avevano anche una bacchetta per indicare sulla carta geografica o nella lavagna o per colpire le mani dei bambini quando non facevano i compiti, arrivavano in ritardo, ecc... Le punizioni date erano molto brutte, come far inginocchiare il bambino su pezzi di sassi o ceci, oppure indossare un cappello da asino e andare dietro la lavagna. L’aula era riscaldata da una stufa, che si ricaricava con pezzi di legno. Mentre oggi la lavagna è attaccata al muro e c’è anche la LIM, i banchi sono tutti uguali tranne alcuni più alti; al posto delle stufe ci sono i termosifoni e al posto delle bruttissime punizioni ci danno le note oppure ci rimproverano. Orso 10, quarta A – Primaria Tiepolo La scuola tanto tempo fa era diversa rispetto a quella di oggi. Le aule erano molto più spaziose, le classi erano molto numerose, formate da quarantadue alunni o forse più, i maschi erano divisi dalle femmine. La lavagna non era fissata al muro com’ è oggi, ma poggiata su un cavalletto. Le penne erano diverse, c’erano delle piccole ciotole che contenevano l’inchiostro e con un pennino si intingeva nel calamaio. Il materiale scolastico era molto semplice e poco costoso, i bambini fortunati avevano la borsetta di pelle, molti portavano i libri con un elastico. La maestra con la sua bacchetta indicava i punti nella carta geografica o dava le bacchettate sulle mani degli alunni distratti. In ogni classe c’era una stufa e le maestre chiedevano agli alunni di portare dei pezzi di legno per riscaldare l’aula. La scuola dove andiamo adesso, invece, è molto diversa, c’è la LIM, un computer e un collegamento a internet che ci permette di vedere dei video interessanti o cercare delle informazioni sul web. Le classi non sono numerose come una volta. Penso che gli alunni sono diversi, prima erano più disciplinati, più rispettosi degli altri, adesso invece sono più monelli, non sono molto attenti alle lezioni quando 73


la maestra spiega o interroga. Charli 17, quarta A – Primaria Tiepolo Una volta nelle famiglie contadine le braccia dei bambini servivano nei campi, perciò era normale rinunciare all’istruzione in un mondo dove anche gli adulti erano analfabeti. Quello che è certo è che la scuola era molto diversa da quella di oggi. Innanzitutto in un’unica aula, soprattutto nelle scuole dei piccoli paesi e delle contrade, c‘erano studenti di età diverse. Inoltre molto diversi erano gli arredi. Il foro sul banco serviva per contenere l’inchiostro nel quale si intingeva il pennino per scrivere; invece oggi si usano penne cancellabili o indelebili. Il materiale didattico era poco ed era fatto di legno. La cattedra era posta sopra una pedana, oggi invece è messa nell’angolo dell’aula. Con una bacchetta di legno l’insegnante indicava la cartina geografica oppure colpiva le mani degli studenti distratti. Erano frequenti punizioni come quella di fare indossare un cappello da asino, di mettere l’alunno in castigo dietro alla lavagna o di costringerlo a restare a lungo inginocchiato su una superficie ricoperta di sassolini o ceci. Pochi bambini avevano una cartella in pelle, altri portavano i libri in mano legandoli con un elastico, oggi usiamo zaini trolley o in spalla. L’aula era riscaldata da una stufa, spesso agli alunni era chiesto di portare da casa ciocchi di legno da ardere nella stufa. Pix 27, quarta A – Primaria Tiepolo

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Alunni classe quarta B - Primaria Tiepolo

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LA SCUOLA DI IERI E DI OGGI Ci sono tante differenze tra la scuola di oggi e quella del 1900. Ad esempio, in un’unica classe una volta c’erano bambini di diverse età, invece oggi siamo in più classi in base all’età, infatti nella mia classe abbiamo tutti tra i dieci e gli undici anni, quindi i bambini sono dello stesso anno. C’erano banchi di legno con le sedie in un’unica struttura, ora invece i banchi e le sedie sono divisi e con la struttura di ferro. Nei banchi c’erano i fori per l’inchiostro dove intingevano il pennino per scrivere, oggi usiamo la penna biro, quando finisce l’inchiostro, basta buttarla e prenderne un’altra. Sì, insomma, secondo me siamo più fortunati rispetto ad una volta quando non avevano tanto cibo e vestiti. Allora a scuola, avevano solo due quaderni: uno a righe (per italiano) e uno a quadri (per matematica) e i maestri erano molto severi. Se si arrabbiavano con gli alunni li picchiavano sulle mani con una bacchetta flessibile che lasciava loro segni rossi doloranti. C’erano diverse punizioni, come fargli indossare un cappello da asino per umiliarli, oppure li mettevano dietro la lavagna o in ginocchio su sassolini o ceci, non per qualche minuto, ma per mezz’ora, un’ora o di più. C’erano bambini più ricchi che erano generalmente i preferiti del maestro, avevano una cartella di pelle dove mettevano dentro i libri. I bambini più poveri, invece, che erano presi più di mira, legavano i libri con degli elastici (cinghie). Per non sporcare il quaderno d’inchiostro usavano, dopo aver scritto, una carta assorbente per asciugare l’inchiostro in eccesso. Oggi usiamo i correttori. Purtroppo in classe non avevano i termosifoni, ma avevano una stufetta e i maestri chiedevano agli alunni di portare qualche “ciocco “di legna da bruciare. C’era la lavagna in ardesia sopra un cavalletto dove i 76


maestri scrivevano. Rispetto ad oggi, c’era molto analfabetismo, infatti, c’era una scuola serale per i più grandi e per i più piccoli. Secondo me però, anche loro erano fortunati perché non c’era la tecnologia di oggi (che per certi versi è un bene), così i bambini potevano giocare fuori all’aperto senza preoccuparsi dei telefoni, dei tablet... Cometa, quinta B – Primaria Tiepolo

La scuola di ieri e quella di oggi sono molto diverse. Prima di tutto ora gli alunni hanno molto meno rispetto di prima verso l’adulto, non si permettevano di parlare se il maestro non gliel’avesse detto altrimenti avrebbero subito una punizione molto severa. In confronto a noi non avevano molte cose ed erano quasi tutte di legno. Per scrivere utilizzavano il pennino e l’inchiostro. L’inchiostro veniva messo in un foro sul banco, poi intingevano il pennino, lo sgocciolavano e dopo scrivevano. In classe per riscaldarsi utilizzavano la stufa, per questo l’insegnante chiedeva agli alunni di portare dei ciocchi di legno. Gli alunni non potevano entrare in classe con le scarpe sporche altrimenti avrebbero subito 77


una punizione molto amara. I più fortunati mettevano i libri in una cartella di pelle, invece, quelli meno fortunati tenevano i libri in mano legandoli con un elastico. La lavagna era in ardesia e la cattedra era posta sopra una pedana e sopra la cattedra c’era una bacchetta di legno che serviva a mostrare i punti nella carta geografica, ma anche a punire gli alunni. C’erano diversi tipi di punizione: far mettere all’alunno un cappello da asino, costringerlo a stare dietro la lavagna, mettersi in ginocchio su una superficie ricoperta di ceci o di sassolini, oppure picchiarlo sulle mai con la bacchetta. Nell’aula c’erano alunni di diversa età, spesso venivano divisi in due gruppi. L’approccio tra gli alunni e il maestro non era come adesso. Sinceramente preferisco la scuola d’oggi, ma una cosa che mi piace della scuola di ieri sono i banchi. Invece oggi quasi tutte le cose sono diverse, anziché usare la lavagna in ardesia c’è la Lim, i banchi e le sedie non sono attaccate, gli oggetti non sono tutti di legno. Le maestre non possono né picchiare né offendere gli alunni, ci sono gli zaini con le immagini di tanti tipi di cartoni animati, ci sono le aule d’informatica, ci sono molte classi e ognuna ha alunni di età uguale. Si vede che la scuola si è evoluta molto! Nettuno, quinta B – Primaria Tiepolo Nelle Filippine la scuola elementare che ha frequentato mia madre durava e dura ancora oggi sette anni. Fin dal primo anno i bambini devono apprendere una sola lingua, in quanto nelle Filippine si parlano più di 170 lingue diverse tra ufficiali e dialetti. La scuola si frequenta dall’età di cinque anni fino ai dodici, dalla K1 alla K6. K è l’abbreviazione di Kindergarten e si riferisce all’anno scolastico o alla classe… Siccome nelle Filippine il clima è sempre caldo, in ogni aula c’è un ventilatore. Zaniere, quinta B – Primaria Tiepolo Mio papà ha frequentato la scuola elementare in Albania, 78


erano gli anni 80, durante il regime comunista. All’interno della classe i banchi non erano come oggi, ma sedia e banco erano uniti. C’erano tanti cartelloni con l’alfabeto e tante mappe di città diverse. Per riscaldarsi c’era una stufa a legna. Per scrivere non avevano le penne come oggi ma usavano il pennino e una boccetta per l’inchiostro chiamata calamaio. C’erano tante regole da seguire, come indossare un’uniforme di colore nero con il colletto bianco e un fazzoletto rosso a triangolo che simbolizzava il comunismo. Plutone, quinta B – Primaria Tiepolo

La scuola che ha frequentato mia mamma in Ghana era molto diversa da quella di adesso. Per andare a scuola indossavano una divisa di colore azzurro, con il colletto bianco, una cintura e calzini bianchi. Gli alunni erano almeno 40 in una sola classe. Gli insegnanti erano molto severi, quando si entrava in classe si cantava l’inno e se non lo facevi venivi punito. In classe non c’era nessuno strumento tecnologico e quasi tutte le cose erano di legno. La scuola iniziava alle sei di mattina e finiva alle 79


due del pomeriggio. La scuola era molto difficile e se sbagliavi a scrivere o a rispondere venivi punito. Nettuno, quinta B – Primaria Tiepolo Mia mamma ha iniziato la scuola all’età di sette anni, perché in Croazia si inizia un anno dopo rispetto all’Italia… Una cosa che mi ha incuriosito è il fatto che in Croazia, oltre alle altre materie, mia mamma ha studiato teatro. In terza elementare si è trasferita qui a Vicenza a causa della guerra nei Balcani… Non si studiavano le lingue come l’inglese a quel tempo. In classe erano circa quindici. In quinta elementare ha fatto gli esami di fine anno, che ora noi non abbiamo più. A Vicenza, secondo lei, la scuola era più semplice di quella croata. Venere, quinta B – Primaria Tiepolo In Serbia, nella scuola di mia mamma, i bambini della sua classe erano tutti della stessa età ed erano in ventotto. I banchi e le sedie erano in legno ed erano uniti. Mia mamma usava già la penna biro. Il Maestro aveva una bacchetta con la quale colpiva le mani dei bambini distratti. Come punizione si usava anche mettere il bambino in un angolo o tirargli i capelli. Marte, quinta B – Primaria Tiepolo In Spagna, nella scuola elementare che ha frequentato mia mamma, non si studiava l’inglese né tutte le materie di adesso. Iniziava alle 9 e finiva alle 12:30, pranzava a casa e poi ritornava a scuola alle 15:30 fino alle 17:00. Lupo, quinta B – Primaria Tiepolo In Algeria, quando mia mamma frequentava la scuola elementare, il maestro aveva una bacchetta o un righello 80


per punire i disobbedienti, oppure li costringeva a rimanere a scuola oltre l’orario in piedi su una gamba sola e con le mani sulla testa. Vampi, quinta B – Primaria Tiepolo In Pakistan, nella scuola che ha frequentato mia mamma, al posto dei banchi c’erano i tappeti, usavano il ”Takhti qalam e dawaat”, una tavoletta di legno su cui scrivere con un pennino in legno (Wooden dawat). Maserati, quinta B – Primaria Tiepolo

In Romania, la scuola elementare quando la frequentava mia mamma, negli anni 80 e 90 era molto rigida con regole ben precise e punizioni severe, ad esempio i ragazzi venivano messi con le ginocchia nude su dei gusci di noci, oppure in piedi in un angolo della classe o peggio ricevevano dei colpi sulla mano con un righello di legno. Gli alunni indossavano un’uniforme come da regolamento scolastico. Il calamaio era personale. I banchi erano di legno e per scaldarsi si utilizzava una stufa per la quale veniva chiesto agli alunni di portare carbone o legno. L’adulto doveva essere rispettato e agli 81


insegnanti e ai genitori si dava del ”lei”. Graxi, quinta B – Primaria Tiepolo Quando mia madre frequentava le elementari, l’edificio della scuola era condiviso con le medie che iniziavano dopo mezzogiorno nella stessa aula delle elementari. I voti erano da 4 a 10. I bagni erano fuori dalla scuola. Giove, quinta B – Primaria Tiepolo In Moldavia, la scuola di mia mamma era grande. Non c’era la tecnologia di oggi e gli alunni dovevano studiare di più. Il banco era di legno e unito alla sedia. In ogni banco c’erano seduti due bambini… Non c’era la mensa perché si stava a scuola fino alle 14:00. Ogni lezione durava 45 minuti e tra le lezioni c’era una pausa di 10 minuti. Durante l’ora di tecnologia, gli alunni andavano fuori per fare dei lavori intorno all’istituito, come raccogliere le foglie o piantare fiori e mia mamma era felice di fare questi lavori per la scuola. Pandex, quinta B – Primaria Tiepolo Quando mia madre frequentava la scuola elementare, a quel tempo si chiamava n°1. Era molto grande e c’era un’aula per ogni materia. Il primo giorno di scuola era il 1° settembre e quel giorno ogni bambino portava dei fiori per la maestra. Le aule erano dotate del materiale didattico adatto alla materia. Gli insegnanti erano severi, e quando un alunno combinava qualcosa, doveva pulire l’aula o veniva cacciato fuori. Alfredo, quinta B – Primaria Tiepolo Nel 1993, quando frequentava mio padre, a scuola si andava a sette anni. I banchi erano di un metro e mezzo, un poco in pendenza e ci si stava in due. In una classe c’erano ventinove bambini. La lavagna era attaccata al 82


muro ed era lunga tre metri. La cattedra era come un tavolo normale pieno di libri e con un “catalogo” per le note e il foglio per l’appello. C’era fino alla 12^ classe. Nuvola, quinta B – Primaria Tiepolo

In Nigeria, la scuola che frequentava mio padre era molto grande, con tante classi ed era recintata. Era molto diversa rispetto ad oggi. Portavano tre libri e indossavano tutti una divisa. Leone, quinta B – Primaria Tiepolo Mio padre ha frequentato la scuola elementare privatamente, con le suore che svolgevano la funzione di maestre. Per scrivere usavano le penne bic. Avevano libri e quaderni, ma meno rispetto a oggi. C’erano le punizioni, come saltare la ricreazione, bacchettate sulle nocche delle mani, asciugare lo posate della mensa o faccia al muro dietro la lavagna. Indossavano i grembiuli blu tutti uguali. Prima di pranzo si pregava. Viola, quinta B – Primaria Tiepolo

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La scuola elementare che ha frequentato mia mamma era piccola e vicinissima a casa sua. Prima di andare a scuola andava a prendersi un panino dal panettiere, che era l’unico del paese. La scuola iniziava alle 8:30 ma lei andava prima per giocare in giardino a scalone, elastico, ecc… La maestra le insegnava tante cose belle e ai suoi alunni faceva fare esperimenti di scienze, teatro, canto e altro… Purtroppo la scuola è stata chiusa a causa della mancanza di bambini, ma adesso è una scuola per disabili. Cometa, quinta B – Primaria Tiepolo

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TESTIMONIANZE DAL PASSATO DI SCUOLE IN VENETO MA ANCHE DI ALTRI PAESI Storia di AM Sono nata nel 1940 e nel 1946 ho iniziato la prima elementare. Ero una bambina buona e ubbidiente e non ricordo di avere ricevuto delle punizioni. Chi, però, non sapeva la lezione veniva mandato dietro la lavagna, che non era appesa al muro, ma di lato alla cattedra. I banchi erano di legno ed erano per due bambini e davanti c’era un foro dove era infilato il bicchierino con l’inchiostro in cui intingevamo il pennino per scrivere sul quaderno. Dovevamo stare attenti a non caricare troppo il pennino, altrimenti facevamo le macchie di inchiostro sulla pagina. Per asciugare le pagine appena scritte usavamo le carte assorbenti. Imparavamo molte poesie e le tabelline e i verbi, che recitavamo in coro. Andavamo a scuola solo alla mattina, dal lunedì al sabato e l’ultima mezz’ora della settimana la maestra ci leggeva un libro a puntate. Non andavo a scuola molto volentieri perché la maestra umiliava i bambini con poca memoria e lodava i più bravi. La mia compagna di banco non aveva molta memoria, però io le volevo un bene dell’anima e stavo molto male se la umiliavano o la rimproveravano. Nella scuola della mia amica Luciana la maestra era molto severa: a chi non rispondeva bene dava pesanti schiaffi. Dove dava gli schiaffi? Sulla faccia! OW, quinta C - Primaria Tiepolo

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La scuola della nonna La scuola di mia nonna non era come le nostre. La nonna era in una classe molto numerosa. C’erano anche dei ripetenti, cioè dei ragazzi bocciati, che avevano anche tre o quattro anni più di lei. A scuola portava il grembiule. Lei era fortunata perché portava le scarpe dei suoi fratelli più grandi, ma molti suoi compagni venivano a scuola con degli zoccoli chiamati “sgalmare”. A scuola aveva solo due quaderni e due libri. Sui quaderni si scriveva con il pennino e l’inchiostro. Se sbagliavi, il maestro o la maestra ti picchiava con la bacchetta sulle dita. Lei però dice che non le ha mai prese perché in calligrafia aveva dieci. Calligrafia era proprio una materia dove ti mettevano il voto, come italiano o matematica. La cosa che mi ha colpito di più è che mi ha raccontato che a scuola non c’era il riscaldamento, ma una stufa. Ogni bambino doveva portare un po’ di legna per scaldarsi, altrimenti si rimaneva al freddo. A volte la stufa faceva fumo e tossivano tutti. Mia nonna ha frequentato solo fino alla quinta elementare, a dieci anni è andata a lavorare come ricamatrice. Anche se a lei piaceva tantissimo andare a scuola e le sarebbe piaciuto fare l’infermiera. Abu123, quinta C - Primaria Tiepolo La nonna mi ha raccontato che quando andava a scuola le classi erano o di sole femmine o di soli maschi. Lei aveva il grembiule bianco e il fiocco azzurro che si snodava sempre. Per scrivere usava un pennino e il calamaio, per non fare sbavature con l’inchiostro usavano la carta assorbente. I banchi erano singoli, di un materiale chiamato formica. C’era un unico libro per tutte le materie. La nonna mi ha detto che alle elementari non c’erano punizioni, ma all’asilo, se avevi le unghie sporche, ti prendevi una bacchettata. #GFI, quinta C - Primaria Tiepolo 86


Il mio papà mi ha raccontato che le scuole nel suo Paese, il Pakistan, erano molto severe. C’erano regole precise e se non le rispettavi avevi sempre una punizione. Se non facevi i compiti dovevi prendere le bacchettate oppure “diventare” un gallo: dovevi accovacciarti, passare le braccia sotto le ginocchia e prenderti le orecchie con le mani. In questo stato ti dovevano vedere tutti. Se non usavi bene la sedie ed eri seduto male, te la toglievano e stavi tutto il giorno in piedi. Se sbagliavi a scrivere le parole, ti urlavano in faccia. Se non portavi il materiale dovevi stare in piedi in un angolo fermo e se ti muovevi ti davano una bacchettata. A volte, se non lavoravi bene ti facevano pulire l’aula. Abdu87, quinta C - Primaria Tiepolo Mia mamma è nata in Marocco nel 1971 e ha iniziato la scuola quando aveva sette anni. In quel periodo non c’erano delle scuole materne al suo paese. Questo vuol dire che mia mamma è entrata direttamente in prima elementare. La scuola funzionava dalle 8 alle 17. C’era molto da studiare: matematica, scrittura, scienze e anche francese. In quel periodo i maestri davano delle bacchettate, ma per fortuna mia mamma non le ha prese mai né a casa né a scuola. Lei si è diplomata in lettere moderne ed è stata bocciata solo due volte. Ak3rem5, quinta C - Primaria Tiepolo Nella scuola di mia mamma, in Pakistan, erano molto, molto cattivi. Mi ha raccontato: «Ci bastonavano per qualsiasi motivo. Quando arrivavamo in ritardo ci bastonavano. Quando prendevamo brutti voti ci bastonavano. Quando non 87


facevamo i compiti ci bastonavano oppure ci facevano fare “la gallina”: piegati sulle ginocchia, con le mani sulle orecchie, ci facevano girare per tutta la classe messi così. Anche noi per scrivere usavamo una penna come quella che vi ha mostrato la maestro (pennino). All’inizio era difficile da usare, ma poi si faceva l’abitudine. Anche perché, se sbagliavi…ti bastonavano». Maanohillystar, quinta C - Primaria Tiepolo

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L’angolo dell’Intervista Dove viveva quando era piccola? Quando ero piccola vivevo nella prima periferia della città. Cosa si ricorda della sua infanzia e dell’adolescenza? Ha dei bei ricordi? Ricordo che si andava a scuola a Porta Padova a piedi, da soli o con qualche coetaneo. Non c’erano pericoli, non c’era traffico. Avevo una semplice cartella che si portava a mano. L’astuccio era di legno e aveva un’apertura che scorreva. Dentro c’erano la penna con i pennini dorati e argentati. Il banco era in legno e c’era il posto per metterci il calamaio: la bidella arrivava con una brocca per riempirlo con l’inchiostro. I bambini indossavano i grembiuli bianchi con il fiocco. Ha avuto due maestre: una in prima elementare, una dalla seconda alla quinta. Incutevano un po’ di timore, ma le ricordo con affetto. C’era un grande rispetto per la maestra. Ricordo che al mattino, prima di cominciare la lezione, si recitava insieme una preghiera. Non tutti gli alunni vivevano in città dalla città, alcuni venivano da fuori e vivevano nelle fattorie in periferia. Erano più poveri. A scuola c’era la refezione: era una specie di mensa, nel seminterrato, dove davano il cibo a questi bambini mentre gli altri andavano a casa a mangiare. Quando qualcuno di loro era assente, uno dei compagni di classe poteva andare giù a mangiare al posto loro. Quali erano i suoi giochi preferiti? Giocavo tantissimo a fingere di essere una maestra. Mi inventavo di avere la classe. Ricordo che facevo l’appello con bambini immaginari: scrivevo anche i nomi in un foglio. Probabilmente la scuola mi aveva trasmesso un piacere che non ho dimenticato visto che poi sono diventata una maestra per davvero. 89


Spesso giocavo in strada e in cortile con gli altri bambini. Giocavamo allo scalone. Non avevo tanti giocattoli. Ricordo solo una bambola che per me era davvero importante. Com’era la vita di tutti i giorni? Eravamo quattro fratelli e io sono la più piccola. Mia sorella, visto che era grande, dava una mano alla mamma. Ricordo che sono sempre stata amante dei gatti e accudivo i gattini. C’è qualcosa che le manca della vita del passato? Del passato mi mancano la giovinezza e la presenza delle persone che se ne sono andate. Mi manca anche la spensieratezza di quegli anni. Era un altro modo di vivere: c’era più libertà, senza pericoli. I bambini erano più liberi di quelli di oggi. Che messaggio vorrebbe lasciare ai bambini e ai ragazzi di oggi? Cercate di ascoltare i consigli degli insegnanti e dei genitori. Non fatevi fuorviare da amicizie che possono portare fuori strada. Cercate di leggere perché è fondamentale. Fatevi regalare dei libri e non restate sempre davanti alla televisione, al cellulare, all’iPod… Vanna, Gruppo Pensionati “La Rondine”

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I GIOCHI

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I GIOCHI DI IERI, DI OGGI E DEL MIO PAESE I miei genitori, nelle Filippine, giocavano a “Mancala”, un gioco da tavolo molto diffuso. Il gioco utilizza un tavoliere di legno con delle caselle, delle quali due agli estremi sono più grandi e si chiamano” granai”. Ogni casella contiene 4 semi, il primo giocatore sceglie una casella nella fila più vicina a lui, prende tutti i semi presenti nella casella e li distribuisce nelle caselle successive, compreso il proprio granaio. Se al termine della mossa, si trova in una casella con almeno due semi, continua, altrimenti tocca al secondo giocatore. Vince chi ha il maggior numero di semi. Io, invece gioco con i Lego, i Puzzle e le macchinine. Gioco anche con giochi on line. Zaniere, quinta B – Primaria Tiepolo

Ho chiesto ai miei genitori circa i loro giochi d’infanzia in Albania, i più facili e soprattutto quelli che facevano all’aria aperta, fra questi: Zingla, il gioco dei due bastoni. Serviva un bastone lungo e uno più piccolo a punta. Il gioco consisteva nel maneggiare il più possibile il bastoncino piccolo con il grande, cercando di farlo andare il più lontano possibile dall’ avversario.Io, invece 93


gioco molto con i puzzle perché servono molto ad allenare la mente e giochi on line che scarico con lo smartphone. Plutone, quinta B – Primaria Tiepolo

In Ghana, i giochi che facevano i miei genitori quando erano piccoli erano pochi. Giocavano a campana, scrivendo per terra dei numeri e lanciando dei sassolini. C’era un gioco chiamato “Ampe”, per farlo bastavano due o più giocatori che saltano e contemporaneamente battono le mani spingendo un piede in avanti, bisognava indovinare quale piede avrebbero alzato gli altri giocatori… Un altro gioco è il “Ludo”, un gioco da tavolo durante il quale vengono lanciati i dadi e ci si sposta di tante pedine in base al numero che danno i dadi. Altro gioco è “Owari” con caselle e sassolini. I loro giochi erano pochi, ma si divertivano lo stesso. Io, invece gioco con il telefono ai videogames, con i puzzle, i pattini, suono l’ukulele e gioco con la playstation… Nettuno, quinta B – Primaria Tiepolo In Croazia, mia mamma giocava spesso fuori casa, a nascondino, con la corda, con la bici e con le bambole. I miei nonni, giocavano a un due tre stella, nascondino, 94


giro giro tondo. Mio papà non aveva giochi, perciò se li costruiva con il legno, come l’arco e le frecce. Io, da piccolo, ho giocato con i cubi di legno, con le scatole e a nascondino, in seguito ho utilizzato i Lego grandi, le macchinine e i peluche. Adesso gioco con i videogiochi e le carte Pokemon. Venere, quinta B – Primaria Tiepolo In Serbia, i miei genitori, quando erano piccoli giocavano a nascondino e a indovinare nomi di cose o altro da una lettera. I miei nonni materni giocavano a calciare una pallina dentro riquadri disegnati per terra con il gesso, altro gioco era quello dell’elastico. Io, invece gioco con il telefono, con il computer, con altri strumenti elettronici, ma anche a nascondino. Marte, quinta B – Primaria Tiepolo

In Pakistan, i miei genitori, giocavano come oggi con la palla, ma fatta di spugna. Giocavano anche a “Ludo”, un gioco da tavolo per il quale si utilizzava una tavoletta, al gioco delle campane, a nascondino o a calcio. Io gioco al parco a nascondino, a prendino, a calcio o a palla avvelenata. A casa gioco con il mio fratello minore, con il telefono. Maserati, quinta B – Primaria Tiepolo 95


In Moldavia, i miei nonni giocavano a calcio con una palla di stoffa, a nascondino a prendino e con la corda. Mia mamma, invece, giocava con le bambole e la corda. Io gioco a calcio nel parco, a prendino, con lo skateboard e con il telefono. Pandex, quinta B – Primaria Tiepolo

In Italia, quando mio padre era piccolo, non c’erano ancora i videogiochi, quindi giocava sempre all’aperto. Alcune volte giocava a saltare la corda con i suoi amici, altre a nascondino o a scalone. Io gioco tanto con lo skateboard, con la bici, con il telefono o il computer. Preferisco lo skateboard perché posso fare i trick che con la bici, invece, non posso fare. Lupo, quinta B – Primaria Tiepolo In Moldavia, mio padre quando era piccolo, giocava con il “samacat”, un monopattino a forma di triangolo con una ruota davanti e due dietro, era fatto con il legno e veniva costruito in casa. Giocava anche con “il telefono senza filo”, chiamato “telefono rotto”. Mia mamma giocava al gioco dell’elastico o a nascondino. Io adesso, anche se posso permettermi tante cose, 96


gioco con i miei fratelli a nascondino, a prendino o guardo per un’ora il telefono con cui gioco a “Toca life world” e a “Tik Tok” Nuvola, quinta B – Primaria Tiepolo Mia mamma, in Algeria, quando era piccola giocava a “maialino al centro”, durante il quale uno stava al centro di un gruppo e gli altri si lanciavano una palla, se la persona al centro toccava la palla, faceva a cambio con chi l’aveva lanciata. Oppure, giocava a nascondino, a saltare la corda, costruiva bambole di legno o di stoffa, con l’altalena legata ad un albero, a campana, facendo una buca che si doveva centrare con delle palline, o con un bastone utilizzato per colpire una tavoletta che faceva roteare in aria. Io, invece gioco con il telefono a “Minecraft”, con le bambole, con i pattini, con la bici, oppure con la palla. Vampi, quinta B – Primaria Tiepolo

Quando i miei genitori erano piccoli, in Romania, giocavano a nascondino, al gioco dell’elastico, al quale giocavano per lo più le bambine, oppure facendo saltare in aria un bastone con un altro più grande. 97


I miei nonni giocavano al gioco dei bottoni o a quello della bandiera. Oggi io gioco molto con il telefono. Giove, quinta B – Primaria Tiepolo

In Pakistan, una volta, i giochi erano molto diversi da oggi. I miei nonni da bambini, non giocavano molto perché lavoravano, ma quando lo facevano, perlopiù giocavano a “Jassu panju”, un gioco che si faceva in gruppo con le mani, oppure a “Gaji cira”, tris in italiano. I miei genitori invece giocavano a nascondino o a moscacieca. Io gioco a calcio o con il telefono. Holly, quinta B – Primaria Tiepolo Mio padre, quando era piccolo non aveva tanti giocattoli, in casa giocava con i lego, spesso usciva con i suoi amici con la bici e andava a esplorare posti abbandonati. Mio nonno invece, nel dopoguerra, come tutti i bambini di quel periodo che avevano i ricordi brutti della guerra, giocava spesso a nazisti contro americani o ai cowboy contro gli indiani. Io oggi utilizzo la tecnologia per giocare, mi piace la playstation con la quale gioco a “Fortnite”. Mi piace 98


molto lo sport, ma dallo scorso anno a causa del Covid ho dovuto smettere di praticarlo, per non annoiarmi mia alleno a casa con la pallina e la racchetta da ping-pong. Alfredo, quinta B – Primaria Tiepolo In Romania, i miei nonni non hanno mai avuto dei giochi veri e propri, tranne la palla, ma se li inventavano usando la loro creatività, con pezzi di carta, di legno o sassi. Mia mamma aveva una bambola di pezza di nome Jesica, prima ancora usava la piccola tuta di suo fratello riempita di stracci. Oppure giocava a fingere di vendere prodotti alimentari utilizzando sassi o rametti come prodotti e foglietti di carta con scritto il valore come soldi. Io gioco a “Minecraft” e “Rocket leage”, due giochi on line multiplayer, con i quali gioco con i miei amici a distanza. Graxi, quinta B – Primaria Tiepolo

Quando il mio papà era piccolo, con i suoi amici giocava spesso a pallone in Piazza delle Erbe, dove sua mamma aveva un negozio di bottoni. Andava in bici e costruiva dei percorsi con le cassette della frutta che i commercianti delle bancarelle lasciavano in strada. A casa giocava con 99


le macchinine e ogni tanto andava al Bar Borsa a giocare ai videogames. Mia mamma, che abitava in collina, andava con i suoi amici in bicicletta in giro per il paese, giocava a pallavolo, a salta la corda, a scalone, a elastico, con la Barbie o suonava la chitarra. Mia nonna materna quando era piccola, giocava a nascondino, girotondo, prendino, cavallina, oppure giocava con le bambole di pezza. Io, oltre a fare alcuni giochi dei miei genitori e dei miei nonni, gioco anche a Nintendo Switch, oppure con degli antistress e a volte vado in bicicletta o al parco. Cometa, quinta B – Primaria Tiepolo

Mia madre, quando era piccola, giocava con i suoi aminici e i suoi cugini nel cortile del condominio, a nascondino, un due tre stella, con i pattini, oppure preparavano dei dolci in un box con una cucina e facevano dei pic-nic. Organizzavano spettacoli di teatro con l’aiuto di alcune mamme che sapevano cucire loro i costumi. Quando erano bambini, i miei nonni si divertivano spingendo con un bastoncino vecchie ruote di bicicletta, oppure costruendo un carrettino detto “trainino”. C’era anche il gioco delle figurine, durante il quale venivano lanciate delle piastrine di metallo e chi si avvicinava di più alla prima piastrina vinceva delle figurine. Noi bambini di oggi, usiamo la tecnologia, ovviamente con 100


moderazione. Le bambine usano le bambole, le casette, i trucchi, e gli attrezzi come le clavette o il cerchio. I bambini invece, le macchine elettriche, la playstation o giocano a calcetto o con le figurine. Viola, quinta B – Primaria Tiepolo I miei genitori, quando erano piccoli, si accontentavano di giocare con poco e con quello che c’era. Il mio papà, quando finiva di aiutare i suoi genitori nel lavoro, si ritrovava nel cortile di casa con i suoi cugini e gli amici per giocare a nascondino, a saltare l’elastico e al gioco della cavallina. Mia mamma invece, stava a casa con sua nonna, che aveva una grande corte dove i bambini si riunivano per giocare a nascondino, un due tre stella o a scalone. Io adesso, gioco con il telefono, con la playstation o a palla in giardino. Mercurio, quinta B – Primaria Tiepolo

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Alunni classe quinta A - Primaria Tiepolo 102


I GIOCHI DI UNA VOLTA I giochi di una volta erano soprattutto giochi fisici. Mi ha raccontato mia mamma che giocava ad elastico. Un altro gioco, che facciamo anche noi era “Un, due, tre… stella”. Un giocatore si metteva al muro e glia altri camminavano. Quando il primo si girava tutti dovevano essere fermi sennò avevano perso. Poi si giocava anche a “Un, due, tre… scignina” dove un bambino si appoggiava al muro e doveva reggere sulle spalle il peso di tutti e il primo che cadeva aveva perso. Emanieland18, quinta C – Primaria Tiepolo

Mia mamma giocava a prendino, consisteva che un giocatore doveva toccare glia altri e non dovevano farsi prendere. Un altro gioco era nascondino: si giocava massimo in dieci. Un bambino doveva contare fino a trenta, con il viso verso il muro ed a occhi chiusi e gli occhi chiusi e gli altri giocatori si nascondevano. Il primo giocatore scovato doveva contare nel turno dopo, ma l’ultimo poteva salvare tutti gli altri e il giocatore che aveva contato di doveva ritrovare tutti di nuovo. Giocavano anche a Campana: con un gesso si scriveva per terra i numeri fino a dieci, dentro a dei quadrati. Si 103


lanciava un sasso su un numero e si doveva raccogliere saltellando. Giocavano molto ad elastico. Si giocava in tre o più. Due tenevano fermo l’elastico e uno saltava a volte dentro e fuori, a volte sopra l’elastico. Se mancava qualcuno si sostituiva con una sedia. Era un gioco giocato soprattutto dalle ragazze. In alcuni posti si chiamava “molla” e i bambini tenevano l’elastico prima con le gambe e poi con le braccia. Quando giocavano a casa usavano bambolotti chiamati “Ciccio Bello” o con la Barbie, siccome non aveva la possibilità di comprare la casa della Barbie, mia mamma usava le scatole delle scarpe e ogni scatola era una stanza. Spesso giocava al nonno con le carte, ma quando era più grande. Franci4900, quinta C – Primaria Tiepolo

I miei genitori giocavano con le biglie era molto divertente. Erano molto colorate e i miei genitori le chiamavano bi. Giocavano a nascondino con i bambini del quartiere cachecash. 104


Giocavano a mosca cieca, con la corda, a prendino, a campana…erano sempre fuori in strada a giocare! Superqueensab, quinta C – Primaria Tiepolo

Nel 1979, quando mia mamma aveva 10 anni i bambini giocavano quasi sempre all’aperto, nei cortili delle case o nei giardini pubblici. Si giocava a nascondino, acchiapparella, si andava con i pattini e le biciclette, si giocava a pallone (palla-avvelenata, calcio...). Non c’erano i computer nè i videogiochi, e quando capitava di stare a casa si giocava a monopoli e a carte. Le bambine giocavano soprattutto con le bambole mentre i maschi con le macchinette e le pistole. Mia mamma mi racconta che a quel tempo era molto raro che i maschi facessero i giochi delle bambine e viceversa. Mia mamma mi ha raccontato anche che a quel tempo i bambini avevano molti meno giochi di adesso Totem2000, quinta C – Primaria Tiepolo 105


Da piccola mia mamma giocava più fuori casa che a casa. Con i suoi amici giocavano con le bambole di legno, a nascondino, a “mamma casetta” a “frosolone” (un gioco con le pietre), a fare le corse con i suoi amici. A volte giocavano pure a fare i cuochi: ognuno portava qualcosa da preparare e poi se lo mangiavano. Anonimo, quinta C – Primaria Tiepolo

La nonna mi ha raccontato che da piccola non aveva tanto tempo per giocare. In casa bisognava sempre dare una mano perché erano in tanti fratelli e assieme vivevano anche gli zii che non si erano sposati. Con i fratelli giocava a “sassetti”, si cercavano delle pietre belle e poi si lanciavano vicino al muro, quello che andava più vicino vinceva tutte le pietre. Bambole in casa non ce n’erano: costruivano delle bamboline con degli stracci vecchi. Anche la palla per giocare era fatta da ritagli di stoffa o vecchi stracci. Lei giocava spesso con i suoi fratelli maschi, li seguiva quando andavano nei colli a giocare con la cerbottana 106


per sparare proiettili di carta e con la fionda. La fionda era il gioco preferito del nonno e ne ha regatata una anche a me. Il gioco preferito della nonna però, non era un vero e proprio gioco, era un lavoro! Le piaceva portare a spasso le galline, raccogliere le uova, pulire i conigli… gli animali erano la sua passione! JJpro, quinta C – Primaria Tiepolo

Il mio papà mi ha detto che da piccolo giocava ai giochi con gli amici, per strada: nascondino e prendino. Giocava con la fionda a colpire gli uccelli o a colpire le porte delle case con i sassi. Il gioco preferito da fare assieme era cricket: è lo sport nazionale del mio paese, il Pakistan. Giocava anche a costruire gli aquiloni e a farli volare nel cielo. Invece mia mamma giocava ad operare le bambole. Anche lei giocava a nascondino, prendino e a cricket, con i suoi fratelli. Abdu87, quinta C – Primaria Tiepolo 107


Mia mamma mi ha raccontato che da piccola aveva una sola bambola. Era un regalo di uno zio. Aveva un vestito bellissimo, tutto ricamato. Per lei era molta preziosa: giocava poco per paura di rovinarla. Questa bambola ce l’ha ancora. Io la vedo quando vado dai nonni, nel paese di origine della mia mamma. Nina, quinta C – Primaria Tiepolo

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GIOCHIAMO? I giochi oggi sono cambiati, i bambini di una volta si divertivano con: trottole in legno, cavalli a dondolo, bambole, palloni... E solo i più fortunati potevano averli! Invece oggi noi bambini ci divertiamo diversamente: ad esempio, il mio gioco preferito sono le costruzioni Lego; mi piace molto uscire dagli schemi, cioè creare costruzioni senza le istruzioni. Mi piace anche il gioco Gravitrax, esso consiste nel creare piste per le biglie basate sulla forza di gravità. Invece i giochi all’aperto che mi piacciono sono: l’aquilone, quando vado al mare lo porto sempre e mi piace farlo volare in alto, poi mi piacciono molto anche i giri in bici. Ai tempi di mia mamma come giochi era molto diffusa la corda per saltare e il gioco della campana. Noce di cocco, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Il gioco che preferisco è “nascondino”: mi piace perché bisogna avere una strategia e perché non si sa mai se qualcuno ti troverà. Ci gioco spesso insieme a mio fratello: il gioco consiste nel trovare uno o più giocatori. Di solito sono io il meno furbo. Il secondo è “briscola” che è un gioco composto di quaranta carte: mi piace perché c’è sempre un pizzico di imprevisto. 110


Il minimo dei giocatori è due e il massimo è quattro e ci gioco spesso con il papà o anche con mio fratello e alcune volte tutt’insieme. Il gioco consiste nel fare più punti degli altri e c’è sempre una carta che comanda che si chiama briscola. Il più fortunato tra noi è mio fratello che spesso trova le briscole. Il terzo è un videogioco chiamato “Pocket Ants” che è un simulatore di formiche: mi piace perché essere piccolo è il mio sogno. Ci si gioca da soli. Lo scopo del videogioco consiste nel creare un impero di formiche e combattere contro tutti per conquistare tutto il mondo: ci sono mostri come le tarantole, gli scorpioni, le formiche rosse, le termiti, le api e gli afidi. Nel gioco io sono una formica che può dare ordini, assumere degli operai per fare avanzare la crescita del formicaio e addestrare “formiche soldati”. È ambientato in un’isola dove c’è un albero con due nidi: uno di termiti e l’altro di api. La cosa più difficile da fare è procurarsi delle risorse che servono ad ampliare il formicaio e a produrre soldati, perché tutti in qualsiasi momento ti potrebbero attaccare. Il quarto è giocare a “calcio”: mi piace perché quando mi devo sfogare ci riesco senza fare danni ed è un modo per stare all’aria aperta. Ci gioco con mio papà e con mio fratello e spesso dobbiamo rincorrere il pallone per fare più goal dell’avversario. Non è che siamo così bravi... Cedro, classe quarta C – Primaria Tiepolo A me piace giocare con la palla, con i lego Playmobil, con le macchinine e con la playstation. Nel tempo libero gioco con mio fratello a scacchi e a dama. Quando mia zia viene a farmi visita gioco con lei a carte e ci divertiamo facendo anche il gioco del solitario. Infine, mi piace tanto giocare con la mia cagnolina Diana 111


e Ares, il cagnolone dei miei vicini di casa. Una volta i miei nonni facevano dei giochi molto semplici. Spesso, per passare il tempo, giocavano con il cerchio. I loro giocattoli erano fatti di legno. La nonna ricorda che le bambole erano fatte di pezza. Gli occhi, il naso e la bocca erano ricamati, i capelli e la barba erano fatti con la lana. Altri giochi erano il girotondo, la palla avvelenata e i quattro cantoni. Momo 2011, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Il gioco che preferisco è “nascondino” perché è un gioco di gruppo in cui mi posso nascondere e divertirmi. Ci gioco con i miei amici al parco e quando vado in Romania invece ci gioco con mia cugina e altre amiche. Un altro gioco che mi diverte sono le carte “Uno”, perché fanno passare il tempo e mi fanno stare in compagnia dei miei genitori. L’ultimo gioco è “palla avvelenata”, mi piace perché si corre e non ti devi far toccare dalla palla che viene lanciata da un giocatore. In Romania ci gioco molto spesso in strada, perché non passano così tante macchine e lì si ritrovano tutti i bambini per giocare. Cielo azzurro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Il primo gioco che mi piace è “la carriola” e ci gioco con mia sorella; mi piace perché io ero sempre quella da portare. Il secondo è “campana” e si gioca con 3-4 e anche 5 persone; mi piace perché si può giocare con tante 112


persone. Il terzo è la corsa con le bici e si gioca in 2-3 persone; mi piace perché è divertente e anche avventuroso, non sai mai cosa ti potrebbe capitare. Leonessa, classe quarta C – Primaria Tiepolo Il mio gioco preferito è mosca cieca: mi piace perché è un gioco divertente e ci gioco da quando ero piccola. Ci gioco con i miei fratelli. Il mio secondo gioco preferito è il tiro alla fune: ci gioco con tutte le persone a casa. Mi piace anche fare le acrobazie. Leone, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Un gioco che mi piace molto è “lupo”. Mi piace molto perché è una specie di “prendino” però è molto più divertente perché se un lupo ti prende non prendi tu al posto del lupo, ma sei stato eliminato e puoi aiutare i lupi o le prede per vincere il gioco; si fa insieme a tutte le persone che vogliono giocare basta che non siano due. Un altro gioco che mi piace è “orso”: ci sono uno o più orsi e se una persona viene presa va nella tana dell’orso e ci rimane finché un’altra persona non ti prende; questo gioco si fa almeno in 5. C’è un gioco che mi piace molto si chiama “piccioni”. È un gioco dove ci sono due cacciatori e un po’ di piccioni (i piccioni non devono essere troppi perché se ce ne 113


fossero troppi i cacciatori non riuscirebbero a prenderli). I giocatori in tutto dovrebbero essere almeno 5 poi si può fare anche un’eccezione, cioè che ci sono più di due cacciatori ma anche più piccioni. Mare calmo, classe quarta C – Primaria Tiepolo Questi sono giochi che si fanno in Pakistan: 1. Il gioco della ruota: si giocava colpendo la ruota con il bastone; questo gioco era molto famoso e divertente e si gioca ancora oggi. 2. La fionda: giocavano tutti quanti, mettevano un piccolo sasso e lo lanciavano. 3. Il cricket: lo conoscerai di sicuro. È famoso in tutto il Pakistan, ma anche in altri paesi per esempio India. Tiger, classe quarta C – Primaria Tiepolo Quando sono con uno-due amici giochiamo al gioco

della bottiglia cambiando qualche regola, per esempio: 1. nel gioco le mamme sono i giudici 2. se la bottiglia punta verso qualcuno di noi, per esempio punta verso di me, il giudice decide se devo prendere qualche sculacciata sul didietro con un bastone (però leggero) oppure devo leggere una pagina di un libro 3. se il giudice sceglie prima di leggere, la prossima volta prendo qualche sculacciata leggera poi di nuovo devo leggere poi di nuovo la sculacciata leggera… poi 114


ovviamente i giudici la prossima volta scelgono altre due cose. Invece quando sono con un gruppetto di amici giochiamo a nascondino e a volte a “prendino” e un po’ più spesso a “lupo”. Nel gioco del lupo ci sono uno o più lupi che devono prendere le pecore che hanno una tana e tre vite: lo scopo delle pecore è arrivare al rifugio dei lupi. La prima pecora che scappa e tocca il rifugio dei lupi ha vinto e va al primo posto poi la seconda pecora che vince va al secondo posto… Poi i giochi del mio Paese, il Montenegro, sono: Domino, carte, nascondino, palla tra due fuochi… Nel gioco “palla a tre fuochi” ci sono da 8 a 30 giocatori. Il campo di gioco è un campo qualsiasi meglio non asfaltato così se i bambini cadono non si fanno male; è più corto di uno da pallavolo. Materiale: una palla leggera che possa essere lanciata, va bene quella da pallavolo. Scopo: fermare la palla al volo togliendo vite ai due fuochi. Regole: i giocatori si posizionano nella parte centrale del campo, mentre due fuochi alle due estremità. Al via, i fuochi devono colpire i giocatori in mezzo al campo con la palla, senza rimbalzo, chi viene colpito è eliminato e si siede a bordo campo. Se un giocatore riesce a fermare la palla al volo (cioè senza farla cadere) tutti quelli precedentemente eliminati tornano in gioco. Le vite sono tre. La partita finisce quando i fuochi eliminano tutti i giocatori. La palla può essere lanciata solo con le mani, se la palla colpisce più persone prima di cadere a terra, tutte quelle colpite sono prese. Se non cade per terra perché e presa al volo, tutti vengono liberati. Scintilla, classe quarta C – Primaria Tiepolo I miei giochi preferiti sono Roblox, “prendino”, nascondino. A questi giochi ci gioco in compagnia. Roblox è un gioco online però c’è sempre qualcuno che controlla come e 115


con chi gioco. In Roblox ci sono molti altri giochi online a cui puoi giocare: mi piace perché puoi trovare amici italiani e perché ci sono giochi interessanti. Invece “prendino” mi piace perché si corre, ci si diverte ed è bello. Ci gioco con gli amici e ci divertiamo tantissimo. Nascondino invece mi piace perché spesso trovo posti belli dove posso nascondermi. Mi piace anche perché ci puoi giocare con chi e quando vuoi. Per questo questi tre giochi mi piacciono e sono interessanti. Oro, classe quarta C – Primaria Tiepolo

In Marocco c’è un gioco che in italiano si chiama trottola: è un gioco di abilità. Perché di abilità? Perché hai una corda e una trottola: devi lanciarla e colpire la trottola dell’avversario finché non cade. C’è un gioco a carte che è uguale a quello con le carte napoletane solo che è marocchino. Infine, c’è il gioco della corda: due bambini hanno una corda e un bambino deve saltarla a ritmo. Toro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Il mio gioco preferito è “prendino”. Il gioco “prendino” mi piace molto perché si gioca in tanti: più siamo, più gioco è bello... Si corre tanto. Un bambino del gruppo deve prendere altri bambini e tutti gli altri devono scappare. A chi viene preso per primo tocca prendere quel bambino che prendeva e poi tutti 116


gli altri... Il mio secondo gioco preferito è nascondino: anche in questo gioco occorrono almeno 3 bambini. Uno dei bambini deve chiudere gli occhi e contare fino a dieci e gli altri nel frattempo si devono nascondere. Il bambino trovato per primo deve fare tana e, se non riesce, tocca a lui contare dopo la partita. Il gioco preferito di mia mamma, quando era piccola era il “gioco dell’elastico”. In quel gioco bisognava prendere un elastico. Ci sono due tipi di quel gioco: 1. a tre giocatori: due infilavano l’elastico e il terzo saltava 2. a più giocatori: due saltavano l’elastico e gli altri lo tenevano. Flip-tre, classe quarta C – Primaria Tiepolo Io gioco a nascondino. Ci gioco con altre persone. Mi piace perché è bello nascondermi e così alleno la furbizia. Gioco anche a calcio. Ci gioco a volte da solo, altre con qualcuno. Mi piace perché quando gioco a calcio mi sento libero. A “prendino” gioco insieme con i miei amici e mi piace sia perché mi alleno nella velocità, sia perché mi piace correre. Acqua, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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I miei giochi preferiti sono: lo slime, i giochi in scatola, creare cose per le bambole. Mi piacciono perché: lo slime delle volte è un po’ viscido e puoi fare delle forme, i giochi in scatola sono divertenti e puoi giocare con più persone. Il gioco che puoi creare delle cose per le bambole puoi farlo quando ti annoi. Ci gioco delle volte da sola e delle volte con mia sorella oppure con mio papà e con la mamma. Nuvola bianca, classe quarta C – Primaria Tiepolo Quando ero piccola il mio giocattolo preferito era un orso di peluche e con lui mi piaceva tanto giocare. Quando mi mettevo a dormire volevo che stesse accanto a me. L’orso me l’aveva comprato il papà in Germania. L’altro mio giocattolo preferito era un cavallo di legno che si dondolava: era il mio primo regalo di compleanno. Poi più che giocare con un giocattolo, mi piaceva uscire fuori perché, visto che in Macedonia abbiamo la casa in montagna, avevamo un agnellino piccolo e dei pulcini e mi piaceva tanto correre insieme a loro e guardarli. Questa è la mia infanzia e ogni volta che parlo con la mamma mi emoziono e sono anche delle cose che mi mancano tanto. Girasole giallo, classe quarta C – Primaria Tiepolo Il mio gioco preferito è il calcio: si gioca con un pallone e si deve fare goal. Mi piace anche “nascondino”. Si gioca così: uno conta e gli altri si nascondono. “Prendino” è un gioco divertente perché uno prende, gli altri scappano e non ti devi far prendere da quello che prende. Alieno, classe quarta C – Primaria Tiepolo Con i lego ci gioco a volte con la fantasia e a volte con 118


le istruzioni. Ci gioco insieme a mio fratello e mi piace perché stimola il cervello. Stickman Party si gioca con molta prudenza insieme a mio fratello e mi piace perché posso scegliere a cosa giocare. Con il mio garage di macchinine ci gioco con molta cura e in compagnia: mi piace perché ha tre piani e anche un tappetino. Quando vado in Marocco trovo sempre i miei cugini che mi propongono di giocare a cache-cache cioè nascondino. Un altro gioco che mi piaceva tantissimo era mosca cieca. Motore rombante, classe quarta C – Primaria Tiepolo Quando avevo circa quattro o cinque anni giocavo a tante cose: per esempio, alla corda, a nascondino, uno due tre stella, alle bambole, con i pattini e spesso andavo al parco a giocare. Invece ora non faccio più i giochi che facevo prima. Ora preferisco alcuni giochi sul telefono come Gacha Life che è un gioco dove crei i personaggi e fai delle storie. Ora che siamo in DAD mia mamma mi ha ordinato dei libri così a volte leggo: per esempio, ora sto leggendo un libro che parla di un mondo dove si insegna solo a giocare d’azzardo e per esempio alle superiori i ragazzi cominciano a sfidarsi e a scommettere e alle elementari le maestre insegnano come vincere. Gelato alla vaniglia, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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I GIOCHI DI IERI Mio nonno mi raccontava che da piccolo non aveva molti giochi, ma riusciva a divertirsi lo stesso molto. D’inverno, visto che a Trento nevicava sempre tanto, si lanciava con la slitta giù per le strade della città oppure a giocava a palle di neve. Negli altri periodi dell’anno c’erano le biglie e le piste con la sabbia, il gioco con il cerchio della bicicletta che si faceva roteare con il bastone oppure si costruivano le barchette con i gusci delle noci. Non mancavano le fionde, il gioco degli indiani e dei cowboy o guardie e ladri. Mia nonna faceva giochi più tranquilli, ma erano sempre divertenti. Aveva un’unica bambola che la sua mamma nascondeva prima di Natale così riappariva sotto l’albero con un nuovo vestito. Ma non mancavano le gare con le biglie, nascondino e scalone. Lo zio si costruiva gli archi con i rami dei morari e con il filo da pesca e le frecce con i raggi degli ombrelli. Giocava a indiani e cowboy. Si costruiva i carretti di legno usando i cuscinetti a sfera delle macchine rottamate per creare le ruote e si lanciava dalle salite e si fermava con un freno fatto con una manopola di legno. Si costruiva le case sugli alberi, giocava a scalone e a bandiera. In inverno usava le camere d’aria delle macchine perché non aveva soldi per comprarsi la slitta. Alunno della classe quarta B – Primaria Tiepolo Ho chiesto a mia madre dei giochi che faceva quando era piccola. Lei mi ha raccontato che c’erano moltissimi 120


giochi ma il suo preferito era LAMARINE. È un gioco solo per ragazze e inizia disegnando 6 o 8 caselle uguali sul terreno con il gesso. La settima o nona casella prende la forma di un semicerchio. Una ragazza lancia il sasso nella prima casella e inizia a calciarlo fino al blocco successivo e così via fino a raggiungere la quarta casella, dove ha il diritto a riposarsi e poi il gioco continua fino a quando non finisce nell’ultimo riquadro. Se mette il piede a terra o il sasso esce dalle caselle tracciate, la ragazza uscirà dal gioco. Alunna della classe quarta B – Primaria Tiepolo

Proviamo a fare i giochi di una volta e… Abbiamo giocato alla campana, un gioco dove devi lanciare un sasso in una casella e saltare fino a quella casella. Il gioco del cerchio che consiste nel far ruotare il cerchio con l’aiuto di un bastone senza farlo cadere e il salto della corda. I miei giochi preferiti sono: il gioco del cerchio e la campana. Sole7, classe quarta B – Primaria Tiepolo I giochi di una volta sono tanto belli, tra questi ci sono: la campana, il salto della corda e molti altri… A me piacciono la campana, ovvero il gioco in cui si 121


lancia un sasso sopra delle caselle numerate disegnate a terra. Si deve saltare, con un piede se la casella è singola, o con due, se la casella è doppia, fino alla fine evitando la casella con il sassolino. Al ritorno bisogna raccoglierlo e portarlo con sé fino alla casella iniziale. Anche la carriola è molto semplice: basta prendere per le gambe qualcuno mentre si tiene con le mani per non cadere a terra. Infine, ci sono il salto della corda e il tris. Il tris è un gioco che si può svolgere sia fuori che dentro basta creare su un foglio o per terra un tabellone formato da due linee orizzontali e due linee verticali incrociate; l’obiettivo è di occupare gli spazi vuoti o con delle X o con dei O, cercando di metterne tre in fila e battere l’avversario. Bacchetta Magica, classe quarta B – Primaria Tiepolo Noi a scuola abbiamo conosciuto dei giochi di una volta, che giocavano i nostri genitori, zii, nonni. Abbiamo giocato alla campana, al salto della corda e il cerchio ma io personalmente ho giocato ad altri giochi con mio fratello e i miei amici a nascondino e mosca cieca. I miei giochi preferiti sono: nascondino, mosca cieca, salto della corda e campana. Purple Girls, classe quarta B – Primaria Tiepolo Tempo fa i giochi erano molto diversi da quelli che conosciamo noi oggi. Tra questi ci sono il salto alla corda, il gioco del cerchio e la campana. Con la maestra a scuola abbiamo ricreato i giochi di una volta e quello che mi è piaciuto di più è stato la campana perché ero molto bravo… e il vostro qual è? Nuvola 8., classe quarta B – Primaria Tiepolo I miei compagni di classe ed io abbiamo giocato a diversi giochi durante l’ora di “motoria”: campana, il sercio e il 122


salto alla corda. Quelli che mi sono piaciuti di più sono stati il sercio e la corda. Mi sono divertito tanto soprattutto perché c’erano i miei amici: i giochi non sarebbero stati così divertenti senza di loro. Lampo 9, classe quarta B – Primaria Tiepolo I giochi di una volta erano tutti divertenti ma quello che mi è piaciuto meno è campana. Quello che mi è piaciuto di più è salta la corda e quello del cerchio Anche perché in salta la corda sono riuscito a battere il mio record. #adoro i giochi di una volta. Tuono 3, classe quarta B – Primaria Tiepolo Mi piace molto il gioco del cerchio, perché mi diverto a farlo roteare attorno al bastone, stando attento a non farlo cadere. Spero di poterci giocare ancora assieme ai miei compagni ed amici. Flax Raig, classe quarta B – Primaria Tiepolo

Ora vi parlo dei giochi di una volta. Campana è un gioco che la maggior parte di voi dovrebbe conoscere ma tranquilli se non la conoscete, ve la spiego. Disegnate una tabella con 10 caselle, ed è la base, dopo serve un sassolino. Il gioco è molto semplice, dovete tirare il sasso nella tabella cercando di centrare una casella, se il sasso cade dentro la tabella devi fare la campana normalmente però saltando lo spazio dove si trova il sassolino e quando torni in dietro lo prendi. Attenzione 123


se il sassolino cade fuori dal tabellone, salti il turno! Salta la corda credo che tutti sanno giocarci quindi salto la spiegazione! Per fare il gioco del sercio hai bisogno di un cerchio e un bastone e devi riuscire a farlo roteare il più possibile. Il mio gioco preferito è il salto della corda. Purple Girls, classe quarta B – Primaria Tiepolo

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L’angolo dell’Intervista Dove viveva quando era piccolo? Vivevo in una casa in campagna. Era una casa di contadini parecchio grande. Vi abitavamo in due famiglie: io, i miei genitori e mio fratello più grande, e la famiglia di un fratello di mio padre con la moglie e un figlio. C’erano le stalle per le mucche, due cavalli, maiali e un pollaio. Sopra le stalle c’era il fienile dove veniva riposto il fieno per l’inverno. Vi erano anche un grande cortile e una rimessa per gli attrezzi vari detta barchessa. Cosa si ricorda della sua infanzia e dell’adolescenza? Ha dei bei ricordi? Oggi, a distanza di parecchio tempo, conservo dei bei ricordi. La vita famigliare era tranquilla. Avevo 4-5 amici che venivano sempre a casa mia perché abitavano in case piccole, mentre a casa mia c’era molto spazio: ancora oggi quando ci troviamo ricordiamo i momenti belli dell’infanzia. Purtroppo, qualcuno non c’è più. Quali erano i suoi giochi preferiti? A quel tempo non c’erano molti giocattoli, io avevo un cavallino di legno con tre ruote e una biciclettina con le ruote di legno che mi erano stati regalati dalla figlia del proprietario della casa colonica e dei campi. Ma i giochi preferiti erano quelli con i miei amici. Quando eravamo in cortile mia madre ci diceva: - Ecco la banda righetto! State attenti a non farvi male! Si giocava con la fionda, con l’arco e le “marelle” (stecche di ferro) di un ombrello rotto usate come frecce: ricordo che una volta è stato colpito mio cugino (per fortuna non si è fatto male). Si giocava a saltare i mucchi di fieno. Si costruiva una pista per le biglie di vetro e con i tappi delle bottiglie sui gradini della chiesa. Si andava sul Monte Rosso (una collina che chiamavamo così) a fare gli indiani. Ma ricordo che a scuola la maestra ci lesse il libro “I ragazzi della via Pal”. Allora si sono 125


formati dei gruppi di ragazzi: io e i miei amici abbiamo costruito il nostro forte su un grosso pino e ci si allenava a combattere un eventuale invasore. Si andava nel fosso a prendere le spinose: era un pesciolino che aveva delle spine. Si andava anche a catturare le libellule. In inverno, dopo scuola si andava a “slissegare” (pattinare), con le scarpe o con uno slittino, sul fosso che era ghiacciato. Al termine versavamo dei secchi di acqua perché il ghiaccio diventasse bello liscio per il giorno dopo. Con la neve andavo sul Monte Rosso con la slitta, o con una specie di scii costruiti da mio zio. Quasi sempre alla sera dopo cena ci trovavamo nella stalla per fare i compiti e a giocare a trea o a dama. La stalla delle mucche era l’unico posto riscaldato, all’odore non si faceva caso. Ci si riuniva fra grandi e piccoli anche in 15-20 persone: era il famoso filò. Altri giochi che ricordo erano: CONCIO; SCALON; TELEFONO CON I BUSOLOTTI: erano due barattolini vuoti di conserva collegati fra loro con uno spago, ci si arrampicava uno su una pianta e un altro saliva su un’altra pianta, poi si parlava nel bussolotto; MOMOLA VEGNO: era un gioco che si faceva principalmente al mattino prima di entrare in classe. Si simulava il rumore di un motore mettendo delle figurine che, sbattendo contro i raggi della bicicletta, producevano un rumore simile a una moto. C’erano anche giochi che è meglio che non vi racconti perché erano pericolosi e non vorrei che qualcuno provasse a imitarli. La FIONDA comunque era il pezzo forte. Le maestre avevano una collezione di vari tipi di forcella sequestrati agli alunni perché, prima di farci entrare in classe, ci controllavano.

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Com’era la scuola? La scuola era vecchiotta, ora è stata ristrutturata ed è ancora intitolata a Pier Eleonoro Negri. Ricordo le aule: alcune erano belle grandi, altre più piccole. La mia era piccola ma eravamo in 30-35 alunni. Ricordo che in inverno era riscaldata da una stufa in terracotta e noi ragazzi, a turno, dovevamo andare a prendere la legna… ma era bello. Com’era la vita di tutti i giorni? È vero che anche i bambini e i ragazzi lavoravano? La vita di tutti i giorni era scandita secondo i lavori dei campi e dalle stagioni. Il lavoro nei campi era duro: non c’erano gli attrezzi di oggi. Noi avevamo un trattore, ma il lavoro lo facevano soprattutto due cavalli. Ricordo che guidavo il cavallo in vari lavori, davo il latte ai vitellini, portavo da mangiare ai maiali alle galline. Portavo da bere e da mangiare a chi stava lavorando nei campi lontano da casa… tutte cose che da bambino potevo fare. Nelle stalle durante le serate fredde, si svolgevano parecchi lavori: si riparavano e costruivano parecchi attrezzi da lavoro (rastrelli, scope in saggina, scale a pioli, ceste in vimini, manici per badili, forche, mestoli in legno). Si facevano zoccoli in legno e le suole per le “sgalmare” che portavano poi dal calzolaio (ricordo che si chiamava Bepi) per mettere la tomaia. Le donne filavano la lana, facevano calze, maglie, ricamavano, riparavano. I bambini imparavano dai grandi cominciando dalle piccole cose. C’è qualcosa che le manca della vita del passato? Tutto sommato posso essere abbastanza contento della vita trascorsa. Del passato ho dei bei ricordi. Spesso quando incontro persone che provengono dai luoghi in cui sono cresciuto, si ricorda con molta nostalgia i trascorsi. 127


Che messaggio vorrebbe lasciare ai bambini e ai ragazzi di oggi? Cercate di volervi bene, di ascoltare e amare i vostri genitori, di studiare con buona volontà. Sappiate appezzare quello che avete e non quello che vorreste avere. Amate e rispettate la vita, cercate di accogliere anche il diverso: la società ha bisogno anche di voi. Eugenio, Gruppo Alpini “G. Reolon”

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MALATTIE E RIMEDI NATURALI

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CURE NATURALI E TRADIZIONI DEL PASSATO L’uomo di un tempo, in un modo a noi incomprensibile, accettava le vicende della vita e la morte stessa. La salute è l’unica cosa buona di cui possa godere un povero. «Bisogna ringraziare Dio quando se sta ben e cercare de conservarse (mantenersi sano)» «Chi cura la so pele, guerna un castelo» (chi si prende cura della propria salute, governa un castello). Medicine vere e proprie ne esistevano poche, perciò si ricorreva spesso a rimedi naturali come le erbe o a riti che avevano il sapore della magia popolare. Quando qualcuno non stava bene si consigliava di prendere l’olio di ricino che era considerato un rimedio universale. I bambini non lo amavano per niente. È un olio vegetale, che viene estratto dai semi della pianta del ricino e ha funzioni lassative. Molte erano le erbe utilizzate per curare disturbi di vario tipo. Fra le più conosciute c’era il mènego maìstro, l’assenzio. È una pianta perenne con un odore aromatico e un sapore molto amaro. Veniva utilizzato soprattutto per problemi intestinali. Molto utilizzato anche l’àjo, l’aglio. Pestato e macerato nella grappa o ingoiato crudo era efficace contro i disturbi dell’ipertensione. Una collana di spicchi al collo dei bambini li liberava dai vermi intestinali, i fastidiosi ossiuri. Per lenire le infiammazioni, i gonfiori o le contusioni (chiamate in dialetto bòte e macaùre) si raccoglievano le foglie di erbàdena (Verbena officinalis). Si schiacciavano fra due sassi e si univano a della chiara d’uovo. Con la poltiglia avvolta in una pezzuola di canapa, si facevano degli impacchi nella parte malata. Contro infiammazioni alla gola, tosse e polmonite si bevevano decotti concentrati di nalba, malva. Stesso 131


impiego aveva l’erba chiamata tabaco de montagna dai caratteristici fiori gialli. Per far uscire le sgresende, schegge di legno conficcate nelle dita, si utilizzava la rasa cioè l’appiccicosa resina del pino. Diluita nell’olio la resina serviva anche per calmare i dolori reumatici e per disinfettare piaghe e ferite. C’erano anche rimedi un po’ strani… Contro l’influenza e il raffreddore si indicava come terapia preventiva quella di mètarse un maron mato in scarsea (mettersi una castagna matta, cioè dell’ippocastano, in tasca). Si riteneva che ciò rendesse immuni da qualsiasi contagio influenzale… una specie di vaccinazione. Alcuni rimedi erano… schifosi! Contro il catarro bronchiale qualcuno preferiva la rana. Il procedimento consisteva nell’acchiappare una rana per le zampe posteriori. Aprire bene la bocca affinché potesse entrare in gola e scendere giù. Scendendo nell’esofago si agita e si avviluppa di catarro. «La te neta ben e la matina te la fè fora» (ti pulisce bene e la mattina dopo ti esce la rana e il catarro).

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La Macedonia è un paese in cui il clima è molto umido e freddo. La maggior parte della popolazione a causa dell’umidità soffre di dolori articolari e muscolari, così per non ricorrere sempre ai rimedi medicinali, si ricorre ad un metodo naturale; per preparare questo rimedio non occorrono molti ingredienti, soltanto un tuorlo d’uovo. Solitamente le signore anziane conoscono il modo per applicare il tuorlo: si massaggia nella parte dove si ha il dolore dopodiché, per far sì che questo metodo naturale abbia una completa efficacia, si mette una pellicola trasparente e si lascia così per una notte. Il tuorlo d’uovo è un ottimo rimedio naturale ed ha svariati benefici perché è ricco di proteine e vitamine che rinforzano il sistema immunitario. Anche la salvia ha tanti altri benefici. Si usa soprattutto in caso di diarrea e digestione difficile, ma anche contro la gengivite e la tonsillite è un ottimo rimedio! C’è anche un altro rimedio molto efficace contro la tosse: fai bollire un po’ di zucchero in un pentolino affinché non diventi caramellato, dopodiché si aggiunge a piacere acqua o latte. Infine, si beve. Secondo me, dovremmo usare molti più metodi naturali. Noce di cocco, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Quando la mia mamma era piccola, tutte le volte che aveva mal di pancia la sua mamma le faceva bere un po’ di acqua e limone. Invece, quando si faceva male giocando le diceva 133


sempre: - Un bacino e passa tutto. Quando aveva mal di gola le faceva bere un succo d’arancia. Questi erano i rimedi usati da mia nonna. Leonessa, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Mia mamma, quando ho l’influenza mi fa una bevanda con un’erba chiamata zaatar*; la mette a bollire nell’acqua: è molto aspra. Quando mia mamma vuole sanificare la casa, fa bollire nell’acqua i chiodi di garofano. Quando ho mal di gola, bevo limone e un miele non liquido, ma denso. Leone, classe quarta C – Primaria Tiepolo * Lo za’atar è una mistura di spezie tradizionalmente composta da timo, sesamo e sale, ma la cui composizione può anche prevedere origano, cumino, semi di finocchio, santoreggia, maggiorana, sommacco, issopo. Si ritiene che il suo consumo possa permettere di ottenere una maggiore attenzione mentale rafforzando al contempo il fisico. Al timo, ad esempio, si riconoscono notevoli proprietà antisettiche, digestive e toniche; il sesamo, invece, è noto come preziosa fonte di ferro, calcio, magnesio, potassio, fosforo e vitamine.

Adesso ti racconterò quali erbe medicinali conosco e come le uso.

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La prima è la pappetta di semi di lino: serve per sciogliere il catarro quando ne hai tanto e io l’ho usata spesso d’inverno perché mi capita di essere raffreddato. Si prepara mettendo un po’ d’acqua sul pentolino fino a farla bollire. Poi si versano i semi fino a ottenere una specie di pappetta che si avvolge con un pezzo di stoffa e si mette sopra il petto. La seconda è il Timo che fa respirare meglio la pelle, è efficace contro la tosse, le infiammazioni dei polmoni e il raffreddore. Quella che usiamo noi è una pomata che si può mettere sul petto o sulla pianta del piede. L’ultima è la Calendula che si può trovare in diverse tipologie: infusi, olio, tintura o sotto forma di pomata che è quella che uso io. La Calendula serve a curare la pelle e favorisce la cicatrizzazione. Io e mio fratello la usiamo spesso visto i nostri numerosi “incidenti” e “scontri”. Secondo me, dovremmo usare di più gli infusi di erbe e non le medicine perché sono piene di effetti collaterali dannosi per la salute. Cedro, classe quarta C – Primaria Tiepolo

I rimedi naturali della mia famiglia sono: per calmare la tosse, mangiare un cucchiaino di miele o bere un latte caldo sempre con il miele; un sacchetto di stoffa con 135


dentro dei noccioli di ciliegio riscaldati quando si hanno dolori muscolari per ammorbidire i muscoli col calore. Mare calmo, classe quarta C – Primaria Tiepolo In Romania si usano alcune medicine naturali. La prima serve a curare il mal di gola: bisogna prendere una rapa nera, tagliare la parte superiore, fare un buco con il cucchiaio e mettere dentro un po’ di miele, poi si mette il coperchio tagliato al suo posto e per tre giorni si lascia a riposare. Alla fine, quel miele diventerà uno sciroppo. La seconda ricetta è lo sciroppo di gemme di abeti: si prendono delle gemme di abete e si fanno cuocere con lo zucchero. Questo sciroppo serve per il raffreddore. La terza ricetta è un altro sciroppo che serve per la mancanza di calcio. Si prende una buccia di un uovo, si sbriciola, si mescola insieme al miele e si lascia a riposare per sette giorni. Alla fine, si prende ogni mattina a stomaco vuoto un cucchiaino di questo sciroppo denso. Cielo azzurro, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Nella mia famiglia la medicina naturale che usiamo di più è una pianta che raccogliamo in collina e con quella prepariamo una tisana che serve per fermare il mal di gola. 136


Poi c’è una pianta che noi la chiamiamo “kapriv” e che serve per fermare i dolori anche quando ci si gonfia. Poi mia mamma, in Macedonia, mi preparava una specie di succo che serviva per fermare il mal di pancia. Girasole giallo, classe quarta C – Primaria Tiepolo

In Pakistan quando avevi mal di orecchie ci si metteva nell’orecchio dell’olio riscaldato e del sale, con del cotone. Quando avevi il raffreddore dovevi bere un the che in urdu si chiama “chae”: è una cosa tipica del Pakistan. Faceva guarire tutte le cose: raffreddore, tosse… Militare, classe quarta C – Primaria Tiepolo Ecco alcuni rimedi naturali usati in Pakistan: 1. phaki: si usa per mal di pancia; è aspro da mangiare. Dopo averlo mangiato devi bere l’acqua e non hai più mal di pancia. 2. olio: è fatto di olive e altre cose; è per il male del corpo e si usa facendo un massaggio con l’olio. Tiger, classe quarta C – Primaria Tiepolo In famiglia usiamo la tisana calda che fa passare il 137


raffreddore. È fatta con una piccola fetta di zenzero fresco, una fetta di limone, un cucchiaio di miele con acqua bollente. Poi si versa in una tazza. Si usa anche l’origano per fermare il mal di pancia e il raffreddore. Motore rombante, classe quarta C – Primaria Tiepolo I rimedi naturali della mia famiglia sono: Il Thymus serpyllum (majcina dusica), in italiano si chiama timo selvatico, piperna oppure serpillo. È molto usato per le sue proprietà antibatteriche, è molto utile per aiutare la digestione e ridurre la fermentazione intestinale. Si usa per il mal di testa, bronchite, tosse, immunità, la calma, il mal di pancia e coliche ed è ricco di vitamine C... La propoli è prodotta dalle api è una sostanza resinosa che riveste gli alveari e li protegge da muffe, funghi, batteri, insetti... La propoli è antisettica, antibatterica, antifungina, antimicotica, antivirale… È un antibiotico naturale e anche utile per prevenire influenze e raffreddori. Cura il nostro corpo dalla testa ai piedi. La piantaggine (bokvica) è utile in caso di infiammazioni delle mucose. Se qualcuno si taglia, ha problemi con la pelle o un insetto lo punge… si mette una foglia della piantaggine. Il the della piantaggine è molto buono contro la tosse e tranquillizza la diarrea. Aiuta anche nelle infiammazioni dentali e gengivali. Il the di achillea millefoglie (hajducka trava - sporis) aiuta per: Angina pectoris, ansia, gastrite, febbre, crampi allo stomaco, stitichezza (come diuretico), mancanza di appetito, nervosismo, insonnia, problemi digestivi, problemi di stomaco e tanto altro. Scintilla, classe quarta C – Primaria Tiepolo Le cure che naturali che sappiamo fare nella mia famiglia sono: 138


1. prepariamo il tè della foglia di menta per il mal di pancia; 2. uniamo le patate grattugiate con la grappa di uva per il mal di gola; 3. usiamo le foglie di cappuccio per diversi tipi di infiammazione; 4. prepariamo lo sciroppo di foglie di alloro, salvia e miele contro la tosse grassa; 5. per curare le verruche usiamo “latte” di fico (lattice).

Acqua, classe quarta C – Primaria Tiepolo Quando avevo il raffreddore la mia mamma mi dava un bicchiere di una pianta che somiglia alla menta. Io la bevevo (non mi piaceva tanto) e dopo un giorno o di più mi spariva il raffreddore. Al mio papà, quando aveva il mal di testa, la mia mamma dava sempre un pezzettino d’aglio e poi si rilassava. Quando avevo male all’orecchio la mamma o il papà versavano un pochino d’olio per far sparire il dolore. Toro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Nella mia famiglia le medicine naturali sono spesso le verdure. Quando una persona ha la pressione alta si ingoia un pezzo d’aglio. Poi ci sono le patate che vengono 139


tagliate a pezzi, dopo di che i pezzi vengono messi nei calzini che dopo vengono indossati. La camomilla viene preparata come un te: dopo quella bevanda viene bevuta per far passare il mal di pancia. L’ortica e la barbabietola vengono usate per le persone alle quali manca il ferro. Sicuramente esistono altre piante naturali che adesso non ho elencato. Oro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Ai tempi della nonna le persone venivano curate con certe erbe. Per la tosse facevano bollire il latte con salvia e miele; quando avevano male alla pancia adoperavano la senna e manna. Quando si cadeva e si prendeva una grossa botta usavano il midollo della mandibola di maiale. Per la pressione usavano l’aglio, per gli occhi infiammati usavano la camomilla e per il mal di denti la patata grattugiata. Momo 2011, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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I MEZZI DI TRASPORTO

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I MEZZI DI TRASPORTO ALL’INIZIO DEL‘900 NEL VICENTINO OGGI. I mezzi di trasporto per VIA TERRA che conosciamo sono: monopattino, skateboard, bicicletta, bicicletta elettrica, moto, scooter, automobile, furgone, camion, bus, pullman, taxi. Conosciamo anche i treni ad alta velocità come Freccia Rossa e Italo. La maggioranza dei veicoli funziona perché è dotata di un motore alimentato da carburanti, cioè da combustibili derivati dal petrolio. Alcuni veicoli sono elettrici e riducono le emissioni nocive per l’ambiente. INIZI 1900 a Vicenza e dintorni. Osservando cartoline storiche e foto del Giornale di Vicenza dei primi del ‘900… Nel 1884 fu inaugurata una prima tranvia urbana a trazione ippica che collegava la stazione ferroviaria con corso Padova. Il servizio cessò nel 1893. Intanto cominciarono a circolare le prime auto. Nel 1903 il re Vittorio Emanuele III e la regina Elena percorsero in carrozza il Viale della Stazione. Nel 1906 AIM progettò una linea tranviaria a trazione elettrica per collegare la stazione con il centro storico. Il tram elettrico fu inaugurato il 29 maggio 1910. Poi entrarono in scena i filobus: Vicenza è stata tra le prime città in Italia a istituire un servizio regolare di filobus. Nel 1909 si inaugurò l’Omnibus a motore della FIAT che partiva da Schio. Il primo treno giunse a Vicenza nel 1842. Nel 1904 il tramway a vapore collegava alcune cittadine vicentine. Nel 1910 venne festeggiata la “Vaca Mora”. “La Vaca Mora” era il termine popolare con cui veniva chiamato il trenino a vapore che si arrampicava sbuffando dalla pianura vicentina all’Altopiano di Asiago. Classe quarta A - Primaria Tiepolo

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IL TRENO FRECCIAROSSA E LA LOCOMOTIVA “VACA MORA” SI INCONTRANO. STAZIONE DEI TRENI DI VICENZA, 7 MAGGIO 2021 “SI INFORMANO I PASSEGGERI CHE IL TRENO FRECCIA ROSSA 1000 PER MILANO, PARIGI È IN ARRIVO AL BINARIO 3” Frecciarossa: - Hi! Una locomotiva a vapore!?! Cosa ci fai qui? Oh yeah, è per la mostra dei treni d’epoca. Locomotiva a vapore: - Ciao, come sei elegante. Frecciarossa: - Yes, cerca di non sbuffare finché non riparto. Locomotiva a vapore: - Pensavo che la gente fosse ancora allegra quando saliva in treno, invece nessuno parla, tutti gli occhi sono fissi su un piccolo telefono mobile. Frecciarossa: - Smartphone. Mi chiedo come un macchinista riuscisse a guidarti senza tablet con comando vocale, monitor, pannelli di controllo, luci a led… Locomotiva a vapore: - Il macchinista era aiutato dal fuochista e dagli ausiliari. Ricordo che il fuochista era sempre sudato e sporco di carbone. Frecciarossa: - E i passeggeri, poi! Quanto chiasso! I miei invece si rilassano nella zona silenzio. Possono reclinare e ruotare le confortevoli poltrone di pelle. I business men continuano il loro smart working usando la connessione Wi-Fi, fanno una pausa solo per un coffee-break o un pasto nella zona Bistrò. Locomotiva a vapore: - Sai, io mi divertivo un mondo d’estate quando salivo sulla linea a cremagliera da Piovene Rocchette ad Asiago. Avanzavo lentamente. Ad ogni stazione era una festa, i bambini salivano e scendevano contenti; io fischiavo, sbuffavo, borbottavo. I segni lasciati sui sedili di legno mi raccontano, ogni giorno, storie, scherzi, segreti. 144


Fiii Frecciarossa: - By, volo sui binari. Locomotiva a vapore: - Ciao, domani alla mostra spero di risentire risate di bambini, prima di essere messa in “un canton n’altra volta”. TATAM TATAM Classe quarta A – Primaria Tiepolo

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IL FENOMENO DELL’EMIGRAZIONE

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L’EMIGRAZIONE ITALIANA Per quasi due secoli molti italiani sono emigrati in America da ogni parte del Paese. Il Veneto è proprio tra le regioni che hanno visto più persone andarsene in cerca di un lavoro e una vita migliori. Le destinazioni preferite erano il Brasile e gli Stati Uniti. Molti morivano durante il viaggio, altri venivano rispediti in Italia alla prima occasione, altri restavano là, ma subendo moltissimi maltrattamenti di stampo razziale da parte degli americani (e non solo da loro). Molti non trovavano un lavoro, altri (la maggioranza) lavoravano molto, ma venivano pagati poco. Molte persone del Nuovo Mondo pensavano che gli italiani fossero più convenienti delle persone di colore e li ingannavano: promettevano di aiutarli, gli pagavano il biglietto, che poi gli emigrati dovevano ripagare lavorando anni e anni. Le navi in cui viaggiavano, poi, erano tutt’altro che sicure e accoglienti: passavano un mese circa tutti ammassati l’uno sull’altro in cabine poco sopra il livello dell’acqua (così se la nave affondava erano i primi a morire, mentre gli altri potevano mettersi in salvo). Molte navi erano illegali e se i responsabili rischiavano di essere scoperti li buttavano in mare. Agli emigrati arrivati in America venivano attribuiti antipatici appellativi. Adesso noi “sosteniamo” gli italiani dell’epoca, ma come ci comportiamo con gli immigrati che vengono in Italia? Male, molto male. Dovremmo aiutarli, invece, a integrarsi e a trovare un lavoro che permetta loro di vivere serenamente, piuttosto che trattarli male. Questo è quello che penso. Io sono dell’opinione che tutto questo modo di comportarsi (sia all’epoca che adesso) sia sbagliato e insensato: un essere umano è per sempre un essere umano, anche se si comporta in modo diverso da noi, anche se viene da un’altra parte del mondo, anche se è diverso fisicamente... Gli esseri viventi non sono fatti 149


con lo stampino! Come ogni animale e ogni pianta ha le proprie caratteristiche, così anche noi umani! In più generalizzare è una cosa da non fare: ovvero, io non posso pensare che se un uomo che fa un certo lavoro, proviene da un determinato Paese, ha un certo aspetto fisico, e cose del genere, sia per forza uguale a un’altra persona solo perché hanno una cosa in comune su mille! Mi sono spiegata male: faccio un esempio. Sento spesso dire che tutti gli asiatici sono così e magari questa persona di asiatici ne ha conosciuti solo due. Oppure sento chi dice che quelli che fanno un certo lavoro sono spesso persone di un certo tipo. Capisco subito che un individuo che parla non conosce nessuno che fa quel lavoro. Non dico di essere una santa che pensa sempre bene di tutti, ma cerco di non avere pregiudizi... Adesso sto cercando di essere molto vaga, ma sto provando a fare esempi per spiegarmi bene. Tutto questo per dire, riprendendo il discorso iniziale, che all’epoca dicevano che tutti gli italiani gridavano e gesticolavano (questo è in parte vero, ad essere sinceri), ma la maggior parte degli emigrati urlava per attirare l’attenzione per vendere e guadagnare. Anche noi ci comportiamo pensando e accusando gli immigrati (e non solo), esattamente come facevano gli americani con noi. Tutto questo è ingiusto e va ricordato per fare in modo di diventare un po’ più giusti e coerenti nei nostri giudizi e nel nostro comportamento. Rivka, classe terza A – Secondaria Barolini Un mese fa abbiamo iniziato a parlare dell’emigrazione italiana con i nostri insegnanti. Abbiamo guardato dei video e la prof di Storia ci ha mostrato un power point sull’emigrazione italiana in America. Dalle immagini che abbiamo visto, gli italiani per arrivare in America salivano sulle navi e vivevano in quei 30-40 giorni in condizioni disumane. Penso che gli emigrati italiani non si meritassero una vita del genere in America solo perché secondo gli americani tutti gli italiani erano mafiosi e 150


maleducati. Questi sono stereotipi e ancora oggi alcune persone pensano che noi italiani siamo tutti mafiosi. Questi pregiudizi non devono esserci, non solo per noi italiani ma anche nei confronti di africani, asiatici, ispanici, eccetera. Gli americani trattavano molto male gli emigrati italiani, li umiliavano, li accusavano, li chiamavano ”negri bianchi“. Non capisco allora perché alcuni italiani discriminino gli africani che arrivano con i barconi, sembra che non si ricordino più che nei primi anni del 900’ anche loro emigravano e che anche loro venivano trattati male. Non riescono a mettersi nei panni delle persone che provengono da Paesi che sono in guerra, dove non hanno casa, lavoro, né soldi, ecco perché vengono in Italia e in altri paesi europei. Quando si parla dell’emigrazione italiana, questi individui sostengono che i loro connazionali non dovevano essere trattati così, ma poi non vogliono che gli africani vengano in Italia e dicono che sono loro il problema dell’Italia. Anche gli americani facevano così, e questo non e giusto. Questo e quello che penso: gli italiani non dovevano essere trattati così, ma adesso loro lo stanno facendo con le persone che vengono in Italia a bordo dei barconi e non se ne rendono conto. I migranti che arrivano da noi non lo fanno così per passare il tempo, ma perché hanno problemi nel loro Paese come loro avevano problemi in Italia a trovare lavoro o non avevano abbastanza soldi per mantenere la famiglia. Questo è il mio pensiero. Momo 85, classe terza A – Secondaria Barolini Secondo noi non è stata ingiusta la discriminazione da parte degli americani contro gli italiani, Erano discriminati a tal punto che durante il viaggio venivano divisi e maltrattati, venivano addirittura gettati in mare i cadaveri (non era concessa neppure una sepoltura per i 151


propri cari). Arrivati a terra, li facevano lavorare fino allo sfinimento, Insomma, li trattavano come schiavi. Non era permesso un minimo di vita normale o sociale, vivevano in condizioni critiche, il cibo scarseggiava ed erano costretti a dormire in case malconce. L’igiene era scarsa e quindi molti prendevano malattie che causavano la morte di molti adulti e soprattutto bambini. Per fortuna nel corso degli anni la situazione è migliorata, tanto che gli europei in genere, gli italiani in particolare, ormai sono molto stimati, al punto che diversi quartieri in molte cittadine americane, o spiagge prendono il nome di località italiane. Flower 37, Luo7c, Scoglio 34 , classe terza A – Secondaria Barolini Come ben sappiamo, tra il 1876 e il 1915 milioni di italiani emigrarono in America. Lasciando l’Italia, che a quel tempo era in depressione economica. Tra i vari motivi troviamo: la crisi agraria, la pressione fiscale e la crescente disoccupazione. Insomma, la povertà e la fame spinsero le persone a cercare fortuna altrove. Peccato solo che, raggiungere l’America -che per molti, specialmente se poveri, rimaneva solo un sogno, per il fatto che non si potessero permettere il biglietto- non fu così facile. Il viaggio durava un mese, ma molti morivano ancora prima di raggiungere la terra tanto desiderata. Mancava igiene, dormivano tutti ammassati, c’era poco cibo, soffrivano il freddo... In più, il rischio di ammalarsi era alto. Come se non bastasse, una volta giunti alla tanto sognata “Merica”, erano costretti a sottoporsi a delle visite mediche. E se non andavi bene, in caso ti fossi contagiato, o avevano problema fisico, dovevi tornare indietro, cosa impensabile. In caso fossi riuscito a superare anche ciò, i problemi non terminavano; gli italiani difatti, non vennero visti di buon occhio. Questa cosa, andò a influenzare pesantemente la loro vita, che tanto, avevano sperato migliore. Cosa provo pensando a tutto ciò? Dispiacere. Dispiacere non solo per tutto 152


quello che dovettero subire durante il viaggio, durante quel mese infernale, nei quali si vedevano morire tante… troppe persone. Magari tra coloro, vi si trovava pure un proprio caro, che, come altri, semplicemente aveva sognato di poter vivere più serenamente. Ma anche per la discriminazione subita successivamente. Discriminare è una cosa che non mai capito, fin da quando ero piccola ho questa domanda in testa “perché?”. Ma sinceramente non credo ci sia una risposta, o almeno, per tutto ciò che mi dicono, mi pongo un nuovo quesito. E provo dispiacere, perché mi immedesimo in queste persone, che dopo aver affrontato, ed essere riuscite, a superare tutti gli ostacoli, ne trovano uno nuovo. Come si saranno sentiti capendo di non essere i benvenuti nella terra tanto sperata? Di non essere ben accettati nel paese per cui hanno sofferto tanto per poter arrivare? Rabbia? Frustrazione? Tristezza? Tutte emozioni in ogni caso negative, tutte emozioni che ti distruggono. Bisognava essere davvero forti. Ed io per loro, provo dispiacere. Luna 08, classe terza A – Secondaria Barolini

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Alunna della classe terza B - Secondaria Barolini 154


IL VIAGGIO: LETTURE Dopo la lettura di alcuni brani da Sull’Oceano di Edmondo De Amicis alcuni alunni della 3B hanno scritto testi di sintesi e di riflessione

EMIGRAZIONE DALL’ITALIA Si parla di emigrazione quando si lascia il proprio territorio d’origine per andare a vivere all’estero in cerca di una vita migliore per sé e per la propria famiglia. L’emigrazione italiana si svolse in gran parte del 1900. Perché le persone, nei primi decenni del secolo scorso, decisero di lasciare l’Italia per andare all’estero? Per molti motivi: l’agricoltura era ancora molto arretrata e poco meccanizzata, il lavoro non era sicuro e lo si poteva perdere da un giorno all’altro. Principalmente per questi due motivi, le persone andavano all’estero in cerca di lavori migliori e più sicuri di quelli che l’Italia potesse offrire, per poter garantire a sé e ai propri cari un futuro migliore. Chi partiva dal Nord Italia si imbarcava a Genova o a Le Havre (Francia), chi dal Sud a Napoli. Il viaggio oltre l’Oceano poteva durare anche un mese. La terza classe comprendeva i due terzi di tutti i passeggeri, ed era anche la classe che aveva i trattamenti peggiori, 155


perché gli unici “comfort” dei quali usufruiva erano un sacco imbottito di paglia e un orinatoio ogni cento persone. Di solito i migranti si portavano delle seggiole pieghevoli, delle scarpe sulle spalle, sicuramente qualche foto di famiglia per ricordo, dei cuscini e dei materassi e ovviamente i documenti e il biglietto con il numero della cuccetta che era stata assegnata sul piroscafo. Gli Italiani che partivano dal Sud tendevano a emigrare verso gli Stati Uniti, quindi dovevano passare per Ellis Island a fare i controlli, mentre gli Italiani partiti dal Nord emigravano verso il Sud America, ovvero in Brasile e Argentina. A Ellis Island gli emigranti dovevano fare delle visite mediche e una visita psico-attitudinale. Se i controlli venivano superati si poteva entrare negli Stati Uniti, ma in caso contrario si veniva rispediti a casa con una “X” sui vestiti. Capitava molto spesso che gli emigranti venissero discriminati e non accolti come si deve. Gli venivano assegnati i lavori più pesanti e duri e peggio pagati e venivano giudicati in continuazione dalle persone originarie del territorio. Si può dedurre che venivano sfruttati e discriminati per la propria etnia e perché stranieri (razzismo). Nel secondo dopoguerra, gli emigranti iniziarono a cambiare mete, quindi le emigrazioni in America diminuirono. Le nuove destinazioni più gettonate furono la Francia, il Belgio e la Germania. Le persone, ancora oggi, continuano ad emigrare perché sperano di trovare altrove una vita e un futuro migliore. Alunna della classe 3B – Secondaria Barolini L’EMIGRAZIONE ITALIANA: una sintesi e alcune riflessioni L’emigrazione è quando si lascia il proprio territorio per andare a vivere da un’altra parte, spesso per motivi di lavoro, per le guerre o per la povertà. L’emigrazione in Italia iniziò alla fine del 1800, perché 156


l’agricoltura era arretrata, i lavori erano insicuri, quindi ognuno cercava di migliorare la propria vita e quella della famiglia spostandosi altrove. Il viaggio, per chi si recava nelle Americhe, durava circa un mese, e i passeggeri di terza classe, i più poveri, dormivano su dei sacchi imbottiti di paglia, avevano soltanto un bagno ogni cento persone, ed erano in pessime condizioni igieniche; inoltre, se erano fortunati, gli davano da mangiare un pasto al giorno. C’erano così tante persone che sul piroscafo stavano stretti. Nella “Grande Emigrazione” gli Italiani del Nord si dirigevano verso il Sud America (Brasile e Argentina), invece, quelli del Sud andavano verso gli Stati Uniti (New York). Durante il viaggio molti Italiani morirono e quelli che erano sopravvissuti dopo lo sbarco venivano esaminati dalle autorità sanitarie, perché si temeva che gli Italiani portassero malattie contagiose. Quelli che non superavano il controllo venivano segnati con una x sui vestiti e venivano rimandati indietro. Per chi desiderava andare a New York tutto questo veniva eseguito ad Ellis Island, una piccola isola che si trova poco distante da Manhattan. Gli emigranti non erano accolti bene: gli facevano fare i lavori pesanti, ed erano vittime di pregiudizi, infatti, molte persone non si avvicinavano a loro ed erano razziste. Secondo me non è giusto, perché le altre persone non avevano mai provato quello che avevano vissuto gli Italiani; scommetto che se avessero provato a vivere come le persone povere dell’Italia, non sarebbero sopravvissute oppure sarebbero emigrate anche loro. Le persone emigrarono per permettere alla loro famiglia una vita migliore, e non credo che sia sbagliato cercare un po’ di felicità. Anche oggi molte persone emigrano in Italia per permettersi o per permettere alla propria famiglia una vita migliore, o forse perché nel loro Paese c’è una guerra, ma non vengono qui in Italia per fare del male agli altri (a parte quelli senza cervello). Ancora c’è 157


della gente che scrive sui muri o alle fermate degli autobus “Tornate a casa neri di ...”. Se soltanto loro potessero provare le sofferenze che provano gli altri poveri, allora forse capirebbero. A me dispiace molto per le persone che emigrano dal proprio Paese, perché certe volte la mia famiglia ha dei problemi economici e appena abbiamo dei problemi tutti si preoccupano, ma dovremmo soltanto stare zitti e ringraziare Dio per averci dato almeno un tetto sopra la testa; anche se non riesco a capire perfettamente i loro problemi, so come si sentono, perché a differenza mia loro non hanno niente e in più rimangono sempre in ansia per la paura di essere rimandati nel loro Paese. Una delle cose che mi piace del Ghana è che nei villaggi, dove abita mio nonno, sono spesso poveri, non hanno un letto e faticano per avere del cibo, ma il punto è che se qualcuno di loro (anche se non sono familiari) riceve dei soldi e va a comprare del cibo, lo condivide con tutti e non lo tiene tutto per sé. Inoltre se non vieni dal Ghana e vieni per esempio dall’Italia, ti accolgono in un modo così bello che non te ne andresti più, anche se per dormire devi stendere delle coperte per terra. Le persone che emigrano dal proprio Paese non sono mai contente di andarsene, perché è lì che sono nate e cresciute; per loro è molto dura, ma sono costrette per la condizione di vita instabile. Già arrivano molte volte piangendo, in più se noi siamo razzisti e non li accogliamo bene, potrebbero anche decidere di togliersi la vita per colpa della frustrazione…. E’ così che forse si sentivano gli Italiani quando erano costretti a emigrare. Alunna della classe 3B – Secondaria Barolini

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L’EMIGRAZIONE ITALIANA: l’arretratezza delle campagne del Nord da cui i contadini fuggivano L’emigrazione consiste nel lasciare il territorio di origine, per andare a vivere altrove: le motivazioni sono le guerre e soprattutto la mancanza o la precarietà del lavoro. Verso la fine dell’Ottocento milioni di Italiani sono emigrati negli Stati Uniti, spesso a New York, per avere una vita migliore: l’agricoltura era arretrata e i contadini vivevano di agricoltura di sussistenza e in miseria. Aspiravano a un nuovo futuro quei lavoratori che avevano abbastanza denaro da permettersi un viaggio verso terre nuove. Si portavano: seggiole pieghevoli, materassi, coperte, valigie con alcuni vestiti, soldi e documenti, le scarpe al collo e il biglietto col numero della cuccetta assegnata. A volte inizialmente solo il padre partiva e, dopo aver trovato casa e lavoro, chiamava il resto della famiglia. Il viaggio durava un mese o di più e la vita sul piroscafo non era semplice: erano presenti la prima classe, che ospitava i ricchi e la terza classe, che invece ospitava la fascia di contadini e lavoratori. I primi erano avvantaggiati rispetto agli altri, che vivevano in pessime condizioni igieniche: non c’erano abbastanza bagni per tutti, si dormiva su letti scomodi e spesso l’imbarcazione era rumorosa; i ricchi, potendoselo permettere, portavano libri francesi illustrati, vistosi cappelli e cagnolini. Durante il viaggio molti morivano e quelli che sopravvivevano venivano esaminati a Ellis Island, nella baia di New York: si pensava che gli Italiani portassero malattie come il tracoma, un’ infezione degli occhi che rendeva ciechi, quindi gli emigranti che non superavano il controllo venivano rispediti indietro. Superato il controllo, li attendeva una nuova vita e cominciava la sfida per l’integrazione. Venivano sfruttati nei lavori pesanti, oltre le loro capacità, e pagati male, venivano discriminati e si pensava che non avessero gli stessi diritti e doveri degli altri. Gli Italiani furono anche costretti a vivere in quartieri isolati dal resto della città. 159


Contadini veneti in cerca di lavoro abbandonavano le proprie terre nella speranza di fare una vita migliore. Molti, però, raggiunto uno stato di maggior benessere, disprezzavano ciò che erano stati, buttando via attrezzi come zappe, falci, martelli e chiodi. La situazione al Nord est era a inizio ‘900 per esempio pessima, con agricoltura arretrata: sulle tavole delle case erano spesso presenti pane e polenta, si svolgevano molti lavori faticosi a mano come il taglio della pietra sfruttando una sega, o la trebbia a sangue, girata per diverse ore al giorno con l’intento di sgranare e separare il grano dalla pula. Le donne si occupavano della cucina e del bucato, aiutate dai figli tornati da scuola; anche il cucito era un lavoro diffuso nelle famiglie italiane; siccome non c’erano mezzi o soldi, i vestiti venivano prodotti a mano, e solo i più fortunati avevano anche un allevamento di bachi da seta che portavano qualche soldo in più in casa. Nonostante questo, le giornate e le serate si rallegravano con canti e poesie, raccontate dopo una lunga giornata di lavoro. Alunna della classe 3B– Secondaria Barolini

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Un alunno di 3B ha scritto una sintesi di Una bottiglia nell’oceano di Cinzia Capitanio

Una bottiglia nell’oceano: il riassunto. Il libro parla della svolta della vita di un ragazzino, Emilio. Il padre di Emilio, Mario, è partito per la lontana America in cerca di fortuna e di qualche spicciolo per vivere. Emilio, sua madre, Lucia, sua sorella maggiore, Elena, suo fratello minore, Enrico e sua sorella minore, Elisabetta, vivevano in una casetta con due stanze da letto, mangiavano sempre poco, certe volte alcuni erano a digiuno. Emilio era il nuovo ”uomo di casa”. Passarono mesi difficili, il padre avrebbe dovuto mandargli dei soldi tramite posta, ma i primi mesi non ci riuscì; in tutte queste difficoltà c’erano altri problemi per i ragazzi, per Emilio in particolare, ad esempio l’insegnante, malattie e il rapporto con Carlo, un ragazzo che spesso si era scontrato con Emilio, anche se poi erano diventati amici. Alla fine il padre iniziò a mandargli delle mance, e un giorno gli mandò i biglietti di un piroscafo che partiva per l’America. Emilio all’imbarco era stato diviso dalla sua famiglia, le donne e i bambini da una parte, e gli uomini e i ragazzi dall’altra; fece però amicizia con un uomo che lo aiutò. Nel piroscafo ci furono dei piccoli scontri e amori: un ragazzo del Sud, Salvatore, corteggiò 161


Elena, ed Emilio gli chiese di smetterla, ma poi si scontrarono; anche Emilio si innamorò di una ragazza, Maria, che era però una ragazzina nobile. I quattro ragazzi, raccontando i loro segreti e le loro storie, diventarono amici. Quando la famiglia scese dal piroscafo, c’era il padre al porto che li aspettava e tutti si riunirono di nuovo. La frase significativa. “Se non sai leggere e scrivere, resti ignorante e chiunque ti può imbrogliare. Non c’è ricchezza che conti più della conoscenza!” (pagina 35) Descrizione: cabine e dormitori. Sulla nave, i nobili e i più ricchi, quelli della prima classe, avevano le proprie cabine. Per i più poveri, quelli della terza classe, c’era un grande dormitorio nel quale erano state montate quelle che, di primo acchito, a Emilio sembravano delle gabbie di ferro. In realtà erano molti letti a castello sui quali erano stati posati materassi maleodoranti. Prima ancora che tutti vi entrassero, c’era già un odore acre di sudore. Alunno della classe 3B – Secondaria Barolini

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LA MIGRAZIONE INTERNA ALL’ITALIA NEGLI ANNI SESSANTA: CLIL E RIFLESSIONI SUL RAZZISMO (IRC).

La classe 3B ha affrontato lo studio della migrazione interna italiana, da sud verso nord, anche in lingua inglese. In Inglese ha studiato il “miracolo economico”, le motivazioni per cui le famiglie decidevano di spostarsi dal sud verso il nord, il tipo di vita che facevano i migranti specialmente nelle grandi città, così diverse dai loro paesi di origine. Ha anche letto, questa volta in italiano, alcune testimonianze e alcuni documenti, che mettevano in evidenza, fra le altre cose, come per decenni ci siano stati, al nord, a volte, atteggiamenti di antipatia e anche di razzismo nei confronti delle famiglie meridionali. I famosi cartelli “Non si affitta ai meridionali” ne sono testimonianza.

https://www.citynow.it/non-si-affitava-ai-meridionali-ritorno-al-passato/

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Con l’insegnante di religione, cattolica, la nostra classe ha svolto una serie di riflessioni su questo tipo di discriminazione e su tutte le discriminazioni, facendo riferimento anche a fatti di cronaca recenti. Qualche esempio delle nostre riflessioni: “In classe, abbiamo discusso del razzismo e il professore ci ha parlato di persone che sono state vittime di razzismo, come per esempio Romelu Lukaku, un giovane calciatore dell’Inter di carnagione scura, a cui, durante una partita di calcio, la tifoseria dell’Inter ha urlato contro solo perché era di colore e proveniva da un paese estero”. Alunno della classe terza B, – Secondaria Barolini “Abbiamo parlato molto della terribile ingiusta morte di morte di George Floyd, un vero e proprio omicidio... . Attraverso alcune riflessioni abbiamo provato a capire come si sentano le persone discriminate, escluse, prese in giro, disprezzate, come accadeva specialmente all’inizio alle famiglie meridionali che salivano al Nord per lavorare nelle fabbriche...). Alunno della classe terza B – Secondaria Barolini

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INCONTRO MARIA INES CHILANTI ASSOCIAZIONE VICENTINI NEL MONDO Maria Ines Chilanti è la Presidentessa del Circolo di Antonio Prado, città del Brasile nella quale ben il 90% della popolazione è di origine prevalentemente veneta. Moltissimi sono gli abitanti che hanno antenati vicentini.

Giovedì 20 maggio, alle ore 12.50, ci siamo collegati online con il Brasile per conoscere la storia degli emigrati veneti partiti per il Sud America. Hanno partecipato le classi terze della secondaria e le classi quarte e quinte della primaria. Erano presenti l’ex presidente e attuale tesoriere dell’ente Vicentini nel Mondo Giuseppe Sbalchiero, la dirigente scolastica del nostro Istituto Incoronata D’Ambrosio e l’attuale presidente dell’ente Vicentini nel Mondo Ferruccio Zecchin. All’inizio dell’incontro, la nostra dirigente scolastica ci ha introdotto l’argomento che avremmo dovuto trattare. In particolare, ci ha spiegato: “L’importante è che la cultura venga conosciuta e tramandata dalla voce delle persone che l’hanno vissuta in prima persona”. Dopo di lei, Ferruccio Zecchin e Giuseppe Sbalchiero hanno detto due parole sull’ente Vicentini nel Mondo e hanno ringraziato la protagonista del nostro incontro, la persona che di lì a poco ci avrebbe spiegato l’emigrazione italiana: la dottoressa Maria Ines Bernardi Chilanti. La signora Chilanti vive in Brasile, a Rio Grande do Sul, e insegna da tempo nelle scuole. Per cominciare, la dottoressa ci ha detto che gli italiani stanno emigrando a Brasile da 146 anni. Ma perchè? Nel ‘800 tutta l’Europa viveva una situazione di fame e miseria; l’economia dipendeva da poche industrie e il numero di famiglie povere stava crescendo. L’unificazione italiana non ha migliorato la situazione economica e per 165


questo è iniziata l’emigrazione da diverse regioni, tra le quali Veneto, Lombardia e Trentino Alto Adige. La destinazione era spesso il Sudamerica: soprattutto Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay. All’inizio dell’emigrazione per il Brasile, nel 1875, gli italiani partivano con l’intenzione di conquistare l’area geografica. Molte persone però sono state ingannate. Venivano chiamate al porto di Genova molti giorni prima dell’inizio del viaggio cosicché potessero finire i soldi che portavano con loro. Già non erano in buone condizioni economiche, in più chi aveva del denaro arrivava praticamente poverissimo. Alla partenza, il desiderio degli italiani era quello di arrivare e ricominciare una nuova vita. Le persone partivano in navi sovraffollate. Molti dormivano rannicchiati e il cibo era scarso. Tantissima gente moriva di malattie e veniva gettata in mare. Gli italiani arrivavano principalmente nel Sud-est del Brasile ed erano costretti a fermarsi nel centro di accoglienza detto anche “Casa degli emigrati”. Molte persone si indebitavano per poter trovare casa e lavoro al fine di fare concorrenza ai brasiliani. In seguito all’abolizione della schiavitù, nel 1888, le persone hanno dovuto lavorare a Sao Paulo nelle piantagioni. Più tardi, a causa dei debiti, milioni di italiani hanno cominciato a emigrare da Sao Paulo a Rio Grande do Sul su piccole barchette. I primi rifugi erano fatti in legno, con rami e paglia oppure sotto le grandi radici degli alberi delle foreste. Il fuoco svolgeva un ruolo molto importante nella vita degli emigrati. Gli insegnanti non riuscivano a farsi capire dagli alunni, perché costoro parlavano un dialetto italiano. Cercavano comunque di insegnare lettura, scrittura e calcoli. Molti ragazzi e bambini smisero di andare a scuola perché bisognava percorrere molta strada: camminavano a piedi nudi per recarsi nella sede dell’istituto, pestando rocce che facevano male. Fortunatamente, arrivò la signora Scotti che aprì una scuola privata e cominciò ad insegnare italiano. Per quanto riguarda feste e celebrazioni religiose, non si 166


potevano fare nella foresta. Dato che gli italiani erano tutti cattolici, avevano molta nostalgia delle celebrazioni e per sentire meno tristezza, gli italiani si recavano dai loro vicini per scambiarsi le belle notizie. I bambini giocavano a vari giochi: si arrampicavano, nuotavano, giocavano a nascondino. Le prime bambole erano fatte in legno rivestito con vecchi abiti delle madri. Poi si cominciarono a realizzare bambole fatte in stoffa (a mano). Le prime palline erano fatte di vescica di maiale, ma si rompevano facilmente. Poi si crearono le palline di stoffa, plastica, gomma e cuoio. I carrelli erano fatti sempre in legno, ma con strumenti molto semplici come martello e sega a mano. Anche oggi, in molte parti del Brasile, si parla italiano. Nel 2009 l’italiano viene riconosciuto come lingua ufficiale, nel 2014 a Rio Prado do Soul e nel 2016 in tutto il paese. Il 21 febbraio si celebra la Giornata nazionale dell’immigrazione italiana e il 20 maggio si celebra “Dia da etnia italiana no Rio Grande do Soul” ovvero la Giornata dell’etnia italiana nel Rio Grande do Soul. Al termine dell’incontro, sono state fatte le domande. Ne riporto qualcuna di seguito: “Quante persone di origine vicentina si trovano ancora da voi?”, “Ci sono stati problemi di integrazione tra italiani in Brasile?”, “Parlate ancora il dialetto veneto?”, “La sua famiglia di origine, quando è arrivata, ha fatto fatica a trovare lavoro?”. È stata un’opportunità molto interessante per noi. A7smile, classe terza A – Secondaria Barolini Giovedì scorso, noi della scuola Barolini abbiamo partecipato, insieme agli studenti della scuola Tiepolo, a un incontro online con Maria Ines Bernardi Chilanti, nata e vissuta in Brasile ma di origini vicentine. Condividendo una presentazione arricchita da molte foto, ci ha raccontato dell’emigrazione veneta in Brasile e di come è sorta la città in cui vive. 167


Nel 1800 e nel 1900 in Italia c’era molta povertà e miseria. Le case erano fredde e le tecniche agricole arretrate e inefficienti. Tra la gente si diffuse un’idea positiva del Brasile, alimentata dalle voci che venivano messe in giro da chi poteva approfittarne: c’erano persone, sia americane che non, a cui gli emigranti italiani potevano servire per lavori umili. Infatti, tutte le speranze di una vita migliore in Brasile sfumarono quando gli italiani ci arrivarono. Molti morivano già durante il viaggio perché gli spazi erano piccoli e spesso dovevano essere condivisi con animali e bagagli di ogni sorta; in questo modo si diffondevano le malattie. I sopravvissuti arrivavano in Brasile indebitati con gli abitanti del posto: questi, infatti, avevano pagato loro il viaggio che aveva un costo troppo elevato per gli emigrati. Per fare qualche soldo gli italiani lavoravano in condizioni anche disumane e vendevano animali e oggetti. C’è un luogo dove, in particolare, si sono stanziati alcuni italiani: Antonio Prado è la città con più discendenti degli emigrati in Brasile. Essi costruirono case nel bosco, dove non c’erano vie di comunicazione, il vicino poteva essere anche molto lontano e naturalmente non c’erano comodità. I figli degli italiani emigrati qui parlavano dialetti diversi e non c’era una scuola. In più era difficile che un’insegnante riuscisse a comprendere i suoi studenti se parlavano in modo diverso. Alla fine, però, nacque una specie di scuola che, insieme ai suoi insegnanti, veniva mantenuta dai genitori. Inizialmente le lezioni si svolgevano da chi aveva una casa abbastanza grande per ospitare i bambini. Essendo le abitazioni lontane tra loro, molti alunni erano costretti a percorrere parecchia strada a piedi, spesso scalzi, e prima di andare a scuola dovevano anche fare le faccende domestiche. Molti lasciarono la scuola per aiutare i genitori nei lavori. Per quanto riguarda la religione, grande era la nostalgia. Ogni sera si diceva il rosario, ma la domenica era un 168


giorno triste, perché si ricordavano le feste con gli amici e i parenti rimasti in patria. Per “risolvere” il problema, gli italiani andavano a trovare il vicino. In seguito fecero costruire anche una chiesa, che prima del loro arrivo non c’era. I primi giocattoli erano bambole di legno e spighe/ pannocchie ricoperte con i vecchi vestiti dei genitori. In seguito, visto che gli adulti non erano contenti di sprecare del cibo per dei giochi, le bambole diventarono di stoffa cucita a mano. I primi palloni erano di vescica di maiale; poi si passò a quelli di stoffa. Si giocava anche con le gambe di legno. In questa cittadina non ci furono problemi di integrazione, perché i suoi primi abitanti erano tutti emigrati italiani e allora qui parlavano tutti in dialetto. Adesso sia il dialetto che l’italiano vengono insegnati nelle scuole e nelle associazioni come Italiani nel mondo di cui fa parte anche la signora che ci ha raccontato tutto quello che ho scritto in questo testo. Ringrazio molto i miei insegnanti e Maria Ines Bernardi Chilanti per avermi dato l’opportunità di scoprire la storia degli emigrati italiani in America. Rivka, classe terza A – Secondaria Barolini

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Genoveffa Denale Scotti

https://museupadreschio.wixsite.com/antonioprado/exposi%C3%A7%C3%A3o-mulheres

Genoveva Denale (o Genoveffa) è stata la prima insegnante della colonia italiana creata ad Antônio Prado. Nacque nel 1876 ad Arsiè, Belluno. Nei primi anni, durante la costituzione della Colonia, senza insegnanti di lingua portoghese e senza scuola pubblica, la figlia di João de Denale aprì una piccola scuola privata in cui ha insegnato in italiano, ricevendo libri e materiale dall’Ispettorato per l’immigrazione. Ha così inaugurato l’insegnamento ad Antônio Prado. Sposata con Antonio Scotti, uno dei primi mugnai della città, oltre ad essere un’insegnante, ha avuto anche intense attività culturali, sociali e religiose… Siccome tutto era reso difficile dalle distanze fra le colonie, Genoveffa officiava anche i funerali, aiutava nel caso di malattie, scriveva e leggeva le lettere provenienti dall’Italia della maggior parte della comunità.

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Curiosità emerse durante l’incontro… Il governo brasiliano approvò e incentivò l’emigrazione europea in Brasile perché, dopo l’abolizione della schiavitù (1888), servivano persone per lavorare la terra e, in particolare, occuparsi della raccolta del caffè. Vi era, inoltre, bisogno di manodopera per costruire ferrovie, occupare territori lontani, creare vie di comunicazione… A tutto ciò si aggiunse anche la volontà di “sbiancare la pelle”: la schiavitù aveva portato in Brasile uomini e donne con la pelle scura, perciò si cercavano ospiti da Paesi che avessero popolazioni di pelle chiara. Sembra davvero impossibile che si potessero fare questi ragionamenti… Quando i primi coloni giunsero nelle colonie brasiliane si trovarono letteralmente in mezzo alla foresta. Le prime case che costruirono erano fatte di foglie/rami o scavate sotto le radici degli alberi. In questi rifugi ardeva sempre il fuoco per scaldare il cibo e scacciare gli animali selvatici (scimmie, cinghiali, gatti selvatici…). Le vie di comunicazione e l’assistenza medica non esistevano. Agli immigrati il governo brasiliano dava solo un sacchetto di semi (grano, miglio, fagioli…) e qualche zappa: questi erano gli unici strumenti che avevano per sopravvivere. La Giornata dell’etnia italiana nel Rio Grande do Sul (20 maggio) è stata istituita per rivivere la storia che ha portato allo sviluppo e alla crescita della regione; serve per comprendere gli sforzi di chi ha combattuto per cambiare il territorio e permettere la nascita delle città. Le prime famiglie che si stabilirono nelle regioni brasiliane parlavano dialetti diversi così si è sviluppata una lingua di comunicazione comune: il “TALIAN”, che non è esattamente l’italiano standard. È piuttosto un miscuglio fra dialetto veneto e portoghese. Nel 2009 il TALIAN è 171


stato dichiarato parte del patrimonio linguistico degli stati del Rio Grande do Sul e di Santa Catarina, e nel 2014 patrimonio culturale dell’intero Brasile. La signora Maria Ines Chilanti ci ha parlato in talian ed è stato incredibile ascoltarla perché, chi ha origini venete, ha riconosciuto le parole del dialetto che parlano i nonni.

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UN TUFFO NEL PASSATO TRA EMOZIONI E RICORDI A scuola, con la maestra, abbiamo letto alcune lettere di emigranti all’estero, come quella di Luigi Basso del 1878, molto emozionante per il forte legame che ha per la sua famiglia, il suo dolore di essere distante dagli affetti e di non riuscire a trovare un lavoro che gli permetta di guadagnare per aiutare i suoi cari. Uno dei canti che abbiamo anche imparato ha il titolo “Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar” un brano sull’emigrazione italiana nel mondo. La maestra ci ha invitati anche ad ascoltare le notizie che i telegiornali trasmettono quotidianamente su quanti sbarcano lungo le coste dell’Italia perché molti di loro scappano dalle guerre e spesso perdono la vita in mare a bordo di semplici gommoni che non possono essere sicuri per trasportare tutta la massa di gente. “Mettersi nei loro panni” per capire la sofferenza di questa gente, che va alla ricerca di una vita migliore, anche a costo di rimetterci la propria, sarebbe una cosa giusta perché ci farebbe capire quanto fortunati siamo noi! In classe abbiamo osservato bene il documento dal titolo “Migranti” fondazione Paolo Cresci. Ci hanno colpiti alcune immagini, come la tristezza sui loro volti, perché costretti a lasciare la propria terra per andare via, in cerca di lavoro, senza una meta, la sofferenza del duro lavoro nei campi, il disagio e il sacrificio quotidiano. Anche la storia di Anna Sciacchitano ci ha fatto riflettere molto su questa condizione di vita…. Ci siamo, però, divertiti quando abbiamo animato in classe alcune fiabe e racconti in dialetto veneto dal titolo: I due gobbi, i due orchi e Piretto e la strega. E’ stata proprio una bella esperienza! Alla fine di questo percorso, abbiamo imparato che, anche se siamo distanti nel tempo diverse generazioni, anche se ci sono anni di storia che ci dividono, l’emozione, l’entusiasmo, l’angoscia, le preoccupazioni e la voglia di scoprire, appartengono a tutti. 173


Inoltre, abbiamo imparato ad apprezzare il vero valore umano di questa povera gente, costretta a spostarsi in cerca di “mondi migliori” in cui vivere e costruire un futuro (chi è stato più fortunato): “Il viaggio per la libertà e per la vita” Alunni e alunne della classe quarta B – scuola primaria Tiepolo

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TI RACCONTO COSA PENSO DELL’ITALIA E DI DOVE VIVO A me piace tantissimo vivere in Italia perché mi piace quando vado in posti nuovi che non avevo mai visto prima come: Napoli oppure Roma. Mi piace andare anche in posti in cui sono già andata tipo Jesolo o la Calabria. Di Napoli mi piace come fanno la pizza oppure la città sotterranea. Invece della Calabria amo il fatto che ci abita la mia bisnonna che vive a Francavilla Marittima: è un posto piccolino e mi conoscono quasi tutti così posso andare a fare i giretti con mio fratello o da sola (ma raramente vado da sola). Mi piace tanto Vicenza, la cosa che mi piace di più è Monte Berico perché è bello andarci a piedi e guardare il paesaggio. Se potessi cambiare qualcosa vorrei che a Vicenza ci fosse il mare e che non ci fosse l’inquinamento. Mare calmo, classe quarta C – Primaria Tiepolo Considero Vicenza la mia città natale poiché mi sono trasferita qui a soli tre mesi. Nonostante io abbia girato diversi e numerosi luoghi d’Italia e anche fuori Italia, in questi anni della mia vita, questo resta il posto a cui sono più legata. Vicenza è colma di punti di ritrovo, il mio preferito è Monte Berico perché si può vedere tutta Vicenza dall’alto, infatti, è il primo posto in cui porterei qualcuno che non conosce e non ha mai visto la città, inoltre è il luogo dove l’8 Settembre si festeggia la Madonna patrona della città. Un altro luogo particolarmente caratteristico, e in cui porterei a far visita chi viene da fuori, sono i Castelli di Romeo e Giulietta, a Montecchio Maggiore, un posto non molto distante dal centro di Vicenza. Di Vicenza non cambierei nulla, ma vorrei dimezzare o 175


almeno diminuire la distanza dal mare, anche se la distanza è colmata da diversi laghi più vicini, come ad esempio il lago di Fimon, nel quale non si può fare il bagno, ma è comunque un posto molto accogliente per fare lunghe passeggiate, e io amo le passeggiate domenicali assieme alla mia famiglia. Noce di cocco, classe quarta C – Primaria Tiepolo Penso che l’Italia sia un bellissimo Stato, solo che è un po’ inquinato e questa cosa mi fa arrabbiare perché staremmo molto meglio con l’aria pulita. In Italia ci sono tanti bambini stranieri e a me piace tantissimo perché posso imparare da loro qualche frase in diverse lingue. Io vivo a Vicenza che è una città ricca di piazze molto grandi, monumenti di marmo, teatri, musei, edicole. La piazza principale si chiama Piazza dei Signori e lì vicino c’è la Basilica Palladiana dove all’interno ci sono interessanti mostre d’arte. Vicino all’ospedale di San Bortolo c’è Parco Querini che è il parco più grande di Vicenza. È pieno di sentieri e c’è un boschetto, un piccolo corso d’acqua abitato da alcuni animali e un grande prato. Vicenza è circondata da montagne, colline e pianure che offrono varie opportunità per divertirsi e conoscere nuovi luoghi. Io in questa città ci sono nato e mi piacciono molto le biblioteche, le mostre d’arte e i centri commerciali. Cedro, classe quarta C – Primaria Tiepolo L’Italia è un paese bello, ma preferisco la Romania perché lì ho una casa grande con il giardino e si trova in campagna. Se potessi, cambierei la casa che ho qui in Italia perché è troppo piccola. Io vivo in un quartiere che si chiama San Pio X. A me di Vicenza piace Monte Berico, perché c’è la chiesa e si può vedere tutto il paesaggio. Adoro anche il centro perché ci puoi andare 176


a piedi e fare una camminata: è bello soprattutto quando è Natale e ci sono le lucine. Infine, Parco Querini mi piace perché ci sono molti animali come le tartarughe, i conigli, le anatre, i pesci e si possono fare le passeggiate o picnic. Cielo azzurro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Dell’Italia penso che sia bella perché ha una lingua che mi piace e ha la forma di uno stivale. Il quartiere dove vivo mi piace perché puoi passeggiare, andare a fare shopping, andare in piscina e andare al parco per giocare con gli amici. La città dove vivo è bella perché la gente è gentile e ha la propria storia. Oro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Mi piace vivere in Italia, perché è abbastanza grande, ha tanti bei posti, ha tanti laghi e mari molto belli, ha anche montagne e monti, arte meravigliosa, musei e città grandi e piccoli. Roma, la capitale, è una grandissima città piena di arte e antichità; Milano è la capitale della moda; Venezia è una città dove non esistono strade ma canali; Verona è la città di Romeo e Giulietta. Ho anche visitato la regione Liguria che è molto bella e ha un mare trasparente e pulito. L’Italia ha bellissime piste da sci: con i miei genitori vado spesso ad Asiago, perché è più vicino e dopo andiamo anche a Vipiteno che è vicino all’Austria. Mi piace tantissimo la cucina italiana, per esempio: pizza, pasta al ragù, pasticcio di lasagne al ragù, formaggio grana padano... Mi piace vivere a Vicenza perché ha tanti bei parchi con tanto verde. C’è anche il lago di Fimon dove vado spesso. In estate, quando è tanto caldo, andiamo nei Colli Berici. Vicenza è anche famosa per la Villa Rotonda di Andrea Palladio e la Basilica che si trova in Piazza dei Signori. Il mio posto preferito è il parco per giocare con i miei amici. Provengo dal Montenegro che è più o meno grande come il Veneto che è una regione piccola, ma è molto 177


bella. Ha tutto: mare, laghi, monti, montagne… Se potessi, vorrei solo che non ci fosse più la paura di essere rapiti perché sarebbe bello uscire un po’ da sola davanti al mio condominio. Scintilla, classe quarta C – Primaria Tiepolo Io penso dell’Italia che sia un Paese pieno di vita. È un paese meraviglioso, con un patrimonio artistico e paesaggistico. L’Italia ama la pace, riunisce tante persone provenienti da diverse parti del mondo con religioni e culture diverse. Spero che tutti rispettino la natura, l’ambiente e il luogo in cui vivono, dovunque, in modo da poter continuare in pace. Spero anche che in futuro ci possano essere nuovi spazi per giocare come i parco-giochi per i bambini. Motore rombante, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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A BORDO DEL PIROSCAFO

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DOPO AVER LETTO MOLTE LETTERE DI MIGRANTI ITALIANI DEL PRIMO NOVECENTO, PROVIAMO A IMMEDESIMARCI IN LORO. A bordo del piroscafo Cara mamma, vi scrivo questa lettera per dirle che io sto bene. Durante il viaggio dormivo sul ponte del piroscafo: per addormentami guardavo le stelle. Appena mangiato vomitavo tutto perché avevo il mal di mare. Di giorno non c’era niente da fare: io guardavo il mare e passeggiavo, poi ho trovato un signore che mi ha aiutato a scrivere la lettera. Poi non l’ho più visto. Il viaggio è stato orribile… Girasole giallo, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Cara mamma, ti mando questa lettera per dirti che nella nave era un “casino”. All’inizio non trovavo nessun posto dove 181


dormire, ma un signore gentile mi ha aiutato. Il cibo era un po’ schifoso perché era freddo. Nei primi giorni dormivo sul ponte della nave. Ora sono in Brasile e spero di rivederti. Leone, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Cara famiglia, sul piroscafo non si sta tanto bene. I letti sono scomodi, sembrano gabbie per animali. Il cibo non è buono: mangiavamo e rigettavamo, ma mangiavamo lo stesso. Dividono i maschi dalle femmine anche se poi ho trovato una ragazza più o meno della mia stessa età. Un giorno però lei si è ammalata perciò l’ho portata dai medici. Due giorni dopo stava meglio. I bagni sono piccoli anche se almeno ci sono: non ci vado spesso. Per arrivare a New York ci vorranno alcuni giorni anche se vedo una luce. Appena arrivo spedirò questa lettera. Spero che voi stiate bene. A presto. Leonessa, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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Cara Aurora, ormai sono in viaggio da diversi giorni, oggi ti vorrei raccontare cosa faccio durante la giornata. Il mio tempo lo uso andando a esplorare il piroscafo. Una volta mi sono persa e ho dovuto chiedere alle persone dove si trovava il mio posto (non ricordavo dove fosse). Nessuno sapeva aiutarmi perché non si erano mai avventurati, quindi mi sono arrangiata da sola. Ho girato tutta la nave e alla fine ho trovato la mia camera. Però solo perché mi ero persa non significa che da quel giorno non ho più esplorato la nave. Dormo per terra perché non ho fatto in tempo a prendere un posto buono. Le persone erano tante: almeno cinquanta in una stanza. Io ero capitata nella stanza più affollata della nave. Che sfortuna che ho avuto! Si mangia sia fuori che dentro la nave. Io mangio all’aperto anche se dovrei mangiare al chiuso: mi fanno

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mangiare all’aperto perché al chiuso ci sono delle persone con cui non vado molto “dacordo”. Ti invierò questa e altre lettere quando potrò! Spero molto presto. Ciao! Mare calmo, classe quarta C – Primaria Tiepolo

Cara maestra, ti scrivo per raccontarti il mio viaggio in un piroscafo. Era un giorno di dicembre, la partenza iniziò in fila per controllare i passaporti ed entrare nel piroscafo. Dopo quella lunghissima fila, delle persone ci hanno portati dentro delle stanze per controllare se avessimo qualche malattia ma, per fortuna, non ne avevamo nessuna, così ci siamo avviati verso il piroscafo. Appena siamo arrivati ci hanno dato una stanza dove c’erano solo donne; invece gli uomini li hanno portati in un’altra camera. I letti erano un po’ scomodi ma potevi sopportarli. La 184


cena non aveva un buon gusto. Io passavo il tempo un po’ disegnando e colorando oppure, visto che c’erano dei bambini, facevo nuove amicizie e giocavo con loro. Dopo venti giorni, siamo arrivati in America a New York ed era bellissima. Un bacione. Cielo azzurro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Un giorno mi sono imbarcato con i miei genitori e mio fratello in un piroscafo molto grande. C’erano tante persone con bambini di tutte le età; le persone venivano divise a seconda di ricchezza e classe sociale. Quando ci siamo imbarcati io e la mia famiglia siamo stati portati in terza classe dove si vedevano già tante persone. Nella cabina c’erano tanti letti a castello. Era una stanza grande e buia: le pareti e il soffitto erano rivestite di legno molto scuro, nel soffitto c’erano dei lumi appesi che facevano una luce soffusa (sembrava di essere in una cantina). In ogni cuccetta dormiva una persona: le donne dormivano con i bambini più piccoli, io dormivo

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con mio fratello sotto di me mia mamma e sopra mio papà. Le lenzuola erano bianche e ruvide. Non si poteva muoversi da quante persone c’erano e non si poteva giocare. C’era una stanza enorme con una tavola lunghissima con sedie e sgabelli e tutti erano ammassati per mangiare, il cibo che ci davano era una zuppa e un pezzo di pane. Il tempo passava per lo più stando disteso a guardare in alto. Momo 2011, classe quarta C – Primaria Tiepolo

La mia giornata a bordo del piroscafo la trascorro un po’ avventurosa e un po’ noiosa. Il tempo avventuroso lo trascorro quando conosco nuove persone e quando un altro bambino vuole giocare con me, mentre il tempo noioso lo trascorro soprattutto di notte perché a volte non riesco a dormire bene nei letti che sono abbastanza duri e scomodi. Dormo nelle stanze dove dormono gli uomini: i letti sono tutti attaccati. Mangio in una stanza che fa da mensa dove non ci sono troppe scelte di cibo quindi non mangio tutto. Oro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Finalmente il piroscafo partì. Dopo una lunga serie di controlli io e la mia famiglia siamo risultati sani. Siamo in tre: io, mia madre e mia sorella. La nostra meta era Ellis Island per andare a trovare mio padre. Appena saliti, le femmine sono state divise dai maschi, i bambini 186


con meno di otto anni dovevano stare in stanza con le madri. Le camere erano arredate con letti a castello. Delle signore ci avevano consigliato i letti di sopra perché la puzza lì si sentiva di meno. I letti non erano per niente comodi, si sentiva il legno sotto la schiena. Appena i corridoi si erano liberati dalla folla corsi subito a vedere “luciano”… le signore della contrada chiamavano così l’oceano. Tutta quell’acqua mi aveva sorpresa, mi sono chiesta quanto fosse profondo… I giorni passavano lentamente, ogni ora c’erano almeno una decina di persone che vomitavano per il mal di mare: quanta puzza! Oggi è l’ultimo giorno in mare, per festeggiare mi è venuta un’idea: scrivere una lettera, infilarla dentro una bottiglia e buttarla in mare. Questo è quello che avevo scritto: “Cari amici, spero che stiate bene. Oggi è il mio ultimo giorno in nave! Non preoccupatevi per me”. L’avevo scritta ai miei amici perché sapevo che non li avrei più rivisti. Era uno spettacolo vederla galleggiare lontano! Noce di cocco, classe quarta C – Primaria Tiepolo 1 maggio 1900 Cara maestra Cinzia, ti scrivo perché ti voglio raccontare una mia giornata a bordo di un piroscafo del 1900. Quando sono entrata nella nave la prima cosa che ho fatto è stata quella di sistemare quel poco che avevo nelle valigie. Poi mi divisero dai maschi, tranne quelli che avevano meno di 8 anni che restarono dalle loro mamme, nonne, zie… Quando entrai nella camera dove c’erano le femmine e i bambini, mi misi nei letti più alti. Dopo un po’ vidi delle donne spingersi perché, volevano anche loro i letti più alti. 187


Quando tutti si calmarono, cominciai a riflettere sul perché quelle donne stavano discutendo. - Forse perché di solito le camere delle persone di 3^ classe non hanno un odore bellissimo… - pensai. Però venni interrotta da una donna che mi chiese come mi chiamavo e io le risposi. Poi parlammo un po’. Dopo un po’ vidi delle persone alzarsi dai propri letti e di dirigersi verso la porta per uscire; la donna con quale avevo fatto amicizia mi disse di seguirla in mensa. Così ci siamo dirette verso la mensa dove ci portarono un piatto di riso. Quando finimmo di mangiare, andammo sul ponte della nave a prendere un po’ d’aria fresca e a parlare. Ci sedemmo su una panca lunga dove era difficile trovare un posto perché sul ponte le persone dormivano, si sdraiavano, passavano tutto il tempo… Ci sedemmo e cominciammo a parlare delle nostre paure e delle nostre nostalgie. Io raccontai di avere paura del mare agitato e dei piccoli roditori come i topi che mangiavano anche quel poco di cibo che avevamo. Invece lei mi disse che aveva paura delle malattie perché, se morivi ti buttavano nell’oceano che qualcuno chiamava “luciano”. La mia nostalgia era di aver lasciato mia nonna in un altro Paese e di aver lasciato i miei amici, però dal lato opposto almeno avrei potuto vedere i miei genitori. La donna mi disse che la sua nostalgia era uguale alla mia. Parlando arrivò l’alba e arrivò il momento di andare giù a dormire nelle cuccette: mi sembravano delle piccole prigioni di ferro solo che, per fortuna, si poteva uscire. Un bacione Scintilla, classe quarta C – Primaria Tiepolo Cara maestra, ti racconterò una delle mie giornate in un piroscafo del

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1900. Ero partito col piroscafo da Genova per andare in America a San Francisco per avere un buon lavoro e una nuova vita. Il piroscafo era molto grande e si chiamava “Ellys Island”. Ero con mio padre nel dormitorio di terza classe che era tenebroso, scomodo, piccolo e con cento letti a castello.

Io dormivo nella parte alta come mio papà. Mi ero appena svegliato da quel letto infernale molto scomodo e simile a una gabbia. Insieme a lui andai al lavatoio per lavarmi la faccia e poi andammo in mensa a fare colazione. Dopo la colazione il mio passatempo preferito era stare sul ponte della nave a guardare le onde del mare. Durante il viaggio pensavo alla paura di essere vittima della mafia e di non trovare lavoro, ma anche alla speranza di trovare una casa. Nel ponte vidi un uomo di mezz’età di nome Piero che iniziò a raccontarmi una storia molto saggia. Prima di dormire mi stava venendo un forte mal di mare e mi misi a vomitare finché Piero non mi diede un limone. La nausea mi passò e mi addormentai. Cara maestra Cinzia, io non saprei se vivere o no questa avventura perché mi sembra pericolosissima! Cedro, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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Alunna della classe terza B - Secondaria Barolini

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L’ARRIVO IN AMERICA

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LA STATUA DELLA LIBERTÀ E L’ARRIVO IN AMERICA La Statua della Libertà (Statue of Liberty) fu inaugurata nel 1886. È un simbolo di New York e degli interi Stati Uniti d’America, uno dei monumenti più importanti e conosciuti al mondo. Situata all’entrata del porto sul fiume Hudson al centro della baia di Manhattan, sulla rocciosa Liberty Island, il nome dell’opera è La Libertà che illumina il mondo. Fu donata dai francesi al popolo degli Stati Uniti e realizzata dal francese Frédéric Auguste Bartholdi, con la collaborazione di Gustave Eiffel, che ne progettò gli interni. Raffigura una donna che indossa una lunga toga e sorregge fieramente nella mano destra una fiaccola (simbolo del fuoco eterno della libertà), mentre nell’altra tiene una tavola recante la data del giorno dell’Indipendenza americana (il 4 luglio 1776). Ai suoi piedi vi sono delle catene spezzate (simbolo della liberazione dal potere del sovrano dispotico) e in testa vi è una corona, le cui sette punte rappresentano i sette mari e i sette continenti. Sul piedistallo vi è inciso un sonetto intitolato The New Colossus, scritto dalla poetessa statunitense Emma Lazarus in seguito ad una sua visita nei miseri quartieri di quarantena degli immigrati, in attesa nel porto di New York. Eccone alcuni versi: Antiche terre, - ella dirà con labbra mute - tenetevi la gran pompa! A me date i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata. I migranti, dopo aver ammirato incantati la meravigliosa 193


statua, giungevano a Ellis Island, chiamata l’isola delle lacrime: qui, alcuni avrebbero pianto per la gioia di rivedere i propri cari, altri si sarebbero disperati perché non ammessi e ricacciati indietro. Nel centro di smistamento erano sottoposti a esami e test. I malati non venivano accolti così come coloro che avevano disturbi mentali. Inoltre, bisognava dimostrare di essere arrivati in America con qualche soldo o di avere qualcuno che potesse farsi carico delle famiglie in arrivo. Chi era stato arrestato o aveva commesso dei reati, non era ben accetto. Insomma… bisognava avere tutte le carte in regola. Anche gli emigranti che giungevano in Brasile dovevano passare i controlli negli hospedarias de Imigrantes di Rio de Janeiro o di San Paolo dopo i quali venivano indirizzati alle fazendas o ai nuclei coloniali. Il tragitto avveniva a piedi e in carovane e poteva durare anche due settimane. L’emigrante si doveva addentrare in sentieri pericolosi dove non mancarono gli incontri e scontri con indigeni e animali feroci e pericolosi. Gli alunni e le alunne della classe quarta C – Primaria Tiepolo

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CARTOLINE DAL PASSATO

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Cara mamma, caro papà, come state? Io sto bene. Mi state mancando un sacco. Come stanno i fratelli e la sorella, mi è mancata. Ma una domanda. Vi ricordate che sono io? Io, la vostra cara figlia. Il viaggio è stato molto lungo. Nella strada c’era così tanta nebbia. Per questo ho preso l’autobus. Mi faceva male alla testa e ho avuto la febbre, ma avevo la medicina. Il viaggio è andato bene. Tanti saluti. Maanohillystar, quinta C - Primaria Tiepolo

Cari nonni, sono molti anni che non vi sento. Per colpa del virus, ma ci vedremo presto, molto presto. Daisy, quinta C - Primaria Tiepolo

Caro nonno e cara nonna, come state? Vi mando una cartolina perché stiamo partendo per l’America. Vi voglio far vedere quanto grandi siamo diventati io e mio fratello. Non so come sarà questo viaggio. Non voglio lasciare il mio paese, 201


ma devo andare per lasciare la povertà. Bè, adesso vi saluto perché devo prepararmi. Ciao, ciao. Speriamo di vedervi presto. XXX Abu123, quinta C - Primaria Tiepolo Ciao, va tutto bene mia famiglia qui in Italia. S.2010, quinta C - Primaria Tiepolo

Cara mamma e papà vi voglio bene. Spero di rivedervi presto e di riabbracciarvi. Il mio lungo viaggio tra un po’ finirà. Ciao Francix, quinta C - Primaria Tiepolo Caro nonno, ti scrivo per dirti che stiamo tutti bene. Tu come stai? Ci manchi tanto, ma anche se siamo lontani, staremo sempre vicini nei pensieri e negli affetti. XX Superiki, quinta C - Primaria Tiepolo Caro nonno, cara nonna, come state? Mi mancate molto e vi penso ogni giorno. Noi bambini siamo cresciuti. Un mio sogno è avere venti minuti per 202


abbracciarvi. Mi mancate molto. Con tanto tanto affetto. La vostra nipotina. Superqueensab, quinta C - Primaria Tiepolo

Cara famiglia, sono arrivata in Germania. Vi scrivo per raccontarvi quanto è bella la Germania. Papi, mamma, come state? E mia sorella come va a scuola? Spero tutto bene. Tanti saluti. Franci 4900, quinta C - Primaria Tiepolo

Ciao nonna Annamaria, non ti vedo già da troppo tempo. Qui noi stiamo bene. Non vedo l’ora che tu arrivi qui in America. Totem2000, quinta C - Primaria Tiepolo Cari nonni, visto che non ci vediamo da tre anni, tranne le 203


videochiamate che facciamo ogni sabato o domenica e ci chiedete quanto siamo diventati grandi, ecco le nostre foto. Siamo diventati grandi! Abdu87, quinta C - Primaria Tiepolo

Caro Papà, sei partito da tanto tempo e ci manchi tanto. Io e la mamma abbiamo preparato dei biscotti. Anche oggi ti abbracciamo forte e ti diciamo buona fortuna. Papà, stai molto attento. Nina, quinta C - Primaria Tiepolo

Cari genitori, sono appena arrivato in America. Trovo difficoltà nel comunicare, ma in qualche modo me la cavo. Ho subito trovato un lavoro. Spero stiate bene.

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Un abbraccio da vostro figlio. Emanieland18, quinta C - Primaria Tiepolo

Ciao mamma e papà, vi ho mandato questa foto per ricordarmi come eravamo insieme. Vi voglio dire che sto bene e spero anche voi. Ho trovato un buon lavoro e fra poco ritornerò con dei regali per voi. Ak3rem5, quinta C - Primaria Tiepolo Cari genitori, mi mancate tanto. Spero di vedervi presto. Ow., quinta C - Primaria Tiepolo

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Abbiamo provato a scrivere le nostre cartoline immedesimandoci negli emigranti del passato. Proprio come capitava a loro, abbiamo deciso di fare qualche errore ortografico per renderle più realistiche. Gli alunni e le alunne della classe quarta C – Primaria Tiepolo

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LA VITA IN AMERICA

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IL PASSAT0... Il passato è passato, ci dicono che non torna, e questo è vero o in parte, spesso si ripresenta a noi sotto varie sfaccettature: libri, oggetti, vestiti, foto. È parte integrante della nostra storia, quella che tutti noi ci lasciamo alle spalle. Ed ecco leggiamo un libro e ci si apre un mondo sconosciuto a noi di questa generazione, a noi che magari sbuffiamo quando vediamo persone di altre Nazioni che girano per le strade chiedendo l’elemosina, quando sentiamo dei tanti sbarchi nel nostro paese....... proprio noi, moltissimi anni fa siamo stati un popolo di emigranti, in cerca di fortuna in America, Argentina, Canada, Germania, Belgio. Le persone andavano in cerca di lavoro, dal sud Italia principalmente partivano, ma anche dal nord, dal nostro Veneto; partivano i capi famiglia e se tutto andava bene si facevano raggiungere dalle famiglie; partivano i bambini e proprio loro hanno dovuto dire addio ai giochi. Tra musicanti, vetrai, spazzacamini e venditori ambulanti, tutti emigranti italiani, figuravano anche i bambini. Erano sempre presenti tra gli artigiani che si riversavano fin dall’età moderna nelle città. Nelle zone appenniniche e nelle vallate alpine molti bambini, a partire dai 10 anni, venivano consegnati a suonatori ambulanti che ne facevano largo uso per intenerire il pubblico e raccogliere denaro. Molti ragazzi emigravano come arrotini, calzolai, ombrellai e seggiolai, ma il lavoro infantile tese a spostarsi sempre più verso l’industria, inserendosi in un mercato europeo del lavoro minorile che traeva alimento dall’arretratezza della legislazione italiana. Le fabbriche del vetro, delle costruzioni e le fornaci utilizzarono un gran numero di minorenni italiani in sostituzione di strumenti di sollevamento e di trasporto. I piccoli vetrai provenivano principalmente dalle province di Caserta, Isernia e Campobasso che erano tra le zone 217


più povere della penisola. Venivano sottoposti ad uno sfruttamento brutale. Il lavoro più penoso era quello del gamin, il bambino addetto a cogliere dal forno con una canna di ferro il vetro liquefatto e a porgerlo all’ouvrier. Il lavoro si svolgeva anche di notte e spesso i piccoli venivano costretti ai doppi turni. Paura, minacce, percosse, cattiva comprensione della lingua francese, toglievano loro qualsiasi speranza di sfuggire ad un destino che li condannava alla tubercolosi, all’enfisema polmonare o alla pleurite, a loro erano affidate tutte le mansioni di facchinaggio, trasporto di carbone e mattoni, carico e scarico di forni e carretti. Il minimo rallentamento era punito con percosse e improperi. Dovevano adattarsi al ritmo di adulti che lavoravano a cottimo. L’odissea di migliaia di fanciulli costretti dalla fame a lavori bestiali in condizioni di semi schiavitù in Europa per tutta la seconda metà dell’800 e per i primi decenni del secolo successivo. Frequentissime malattie e decessi. Si dovrà giungere al 1924 affinché il bambino sia riconosciuto in quanto tale, con la Dichiarazione dei diritti del fanciullo. Classe quinta A – Primaria Tiepolo Sfruttamento minorile Per prima cosa, che cos’è? Lo sfruttamento minorile era quando i bambini venivano obbligati a fare lavori pesanti, sin dalla più piccola età. Se non facevano quello che gli si diceva o, non stavano al passo degli adulti, venivano picchiati, rimproverati aspramente. Purtroppo in alcuni posti esiste ancora tutto ciò. Ai bambini facevano fare gli 218


spazzacamini, era un lavoro molto pericoloso perché per colpa della cenere andavano incontro a seri problemi respiratori quali: enfisema, sarcoidosi, infezioni… rischiavano oltretutto di rimanere incastrati e, per liberarsi si procuravano ferite alle braccia e alla gambe. Per questo motivo venivano scelti magri e piccoli. Tanti purtroppo morivano. Molti venivano venduti dalla famiglia agli ambulanti per far intenerire il cuore delle persone durante gli spettacoli e quindi davano più elemosina (mi rammenta Pinocchio quando fu venduto a Mangiafuoco). Altri lavoravano nei campi sotto il sole, ore e ore senza una carezza o un piccolo gesto di pietà. Questi lavori che ho elencato sono solo una piccola parte di ciò che erano costretti a fare, praticamente gli veniva tolta la libertà di bambino, la felicità e ancor peggio l’amore!!!! Alunno della classe quinta A – Primaria Tiepolo Il triste passato dei bambini Un secolo fa la vita dei bambini non era come la viviamo noi oggi ma, molto diversa. Invece di studiare, giocare, leggere, suonare, stare con i propri genitori, lavoravano, lavoravano. I lavori che svolgevano erano pesanti: lo spazzacamino, il minatore… Sceglievano per fare gli spazzacamini i bimbi più piccoli e magrolini; si dovevano arrampicare dentro il camino spesso procurandosi tagli ed escoriazioni, respirando poi tutta la fuliggine. 219


Succedeva a volte che si incastravano lungo lo stretto cunicolo e morivano. Nelle miniere il lavoro non era da meno, li usavano per entrare nei cunicoli più stretti e bui, oppure facevano gli apri porta e spingevano i pesanti carrelli carichi di carbone. Guai a non tenere il passo con gli adulti, erano grossi guai per loro. Lavorando nelle miniere si ammalavano ai polmoni e, non essendoci medicine morivano. Le continue morti avvenivano anche per la malnutrizione. I poveri bimbi dovevano tenere, durante le loro mansioni, il ritmo degli adulti e se rallentavano o si fermavano per riposare un attimo, venivano puniti con insulti e percosse. Le famiglie a causa della povertà a volte li vendevano a venditori ambulanti che, li mettevano in strada nei loro spettacoli per intenerire il cuore degli adulti e così, questi loschi individui guadagnavano. Altri facevano i lustrascarpe: pulivano e lucidavano le scarpe dei ricchi signori in cambio di qualche moneta. Finalmente il 20Novembre tutto cambiò grazie alla Giornata Mondiale dei Diritti del Fanciullo così non vennero più sfruttati nel mondo del lavoro. Alunno della classe quinta A – Primaria Tiepolo

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Intervista ad un’amica Mi chiamo Vittorina, sono nata a Noventa Vicentina settantun anni fa, ho quattro fratelli, di cui uno è mio gemello, l’unica femmina sono io. Ho frequentato l’asilo, non mi piaceva molto andarci perché c’era un bambino che mi tirava sempre i capelli o mi dava calci. Non ci facevano giocare molto, disegnavamo e coloravamo con i pochi colori a matita a nostra disposizione. Quando eravamo a casa, si giocava a Campanon, nascondino… giocattoli non ne ho potuti avere se non una piccola bambola trovate nel fustino del detersivo Tide, per me era meravigliosa e le feci una culla con una scatoletta di cartone in cui misi della paglia a mo’ di materasso. Nonostante tutto ci divertivamo tantissimo, correvamo per i campi e andavamo a prendere la frutta nella vicina fattoria. Guai se ci vedevano, il nonno (lo chiamavamo così) se ci vedeva, ci rincorreva e se prendeva qualcuno erano solenni sculacciate. Finita la quinta elementare, i miei genitori mi hanno mandato in Germania a Worms, da parenti che non avevo mai visto né sentito nominare, erano partiti molti anni prima da Noventa con una gran valigia di cartone, in cerca di fortuna. Iniziarono vendendo castagne per le strade e, risparmiando, sacrificando, nel giro di anni riuscirono a realizzare il loro sogno: aprire una caffetteriapasticceria-gelateria. Andai a malincuore da loro, avevo paura, non sapevo la lingua, non conoscevo nessuno, stavo quasi tutto il giorno dietro al bancone, vendendo gelati, pastine, dolcetti. Quando scendeva la sera ed ero a letto, davo sfogo al mio dolore di bambina, le lacrime mi scendevano copiose e pensavo alla mia casa, ai miei genitori e ai fratelli e, non capivo perché avevano mandato proprio me, unica femmina……Il tempo dei giochi per me era 221


terminato, lavoravo per inviare il mio guadagno a casa. Restai per tre lunghi anni e finalmente arrivò il giorno del ritorno ma, la permanenza durò poco, solo un anno, ripartii per raggiungere questa volta mio fratello che aveva aperto lì un piccolo bar-gelateria. Non ero contenta, non mi sentivo a mio agio, avevo sempre paura perché mi lasciava quasi sempre da sola a servire e purtroppo non tutte le persone che entravano erano buone, affidabili… Abitavo in due stanzette ad un chilometro dal bar, da sola, e la sera quando finivo il lavoro, facevo la strada di corsa, al buio, avevo paura di incontrare malintenzionati! Intervista a Vittorina, classe quinta A – Primaria Tiepolo

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STORIE VERIE DI EMIGRAZIONE... DAL PASSATO

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MI METTO NEI PANNI DI UN BAMBINO VERAMENTE ESISTITO La storia di Paolo Sciacchitano Era il lontano 1 maggio 1908 quando ci imbarcammo in un piroscafo diretto a Ellis Island. Avevo all’incirca 10 anni, mia sorella Maria 2 e il mio fratellino Domenico un anno. Ero emozionatissimo quando ricevemmo le 100 lire da mio padre per il biglietto. Avevo anche paura: tutta la contrada parlava di questo grande “Luciano”, un mare enorme. Per quanto arrabbiato lo descrivessero, non avrei mai cambiato idea anche perché non avevo scelta. Scrissi io il nome di mia mamma nella valigia di cartone dato che ero l’unico a saper scrivere. Sul piroscafo anche mia mamma ebbe un po’ di ansia. Depositammo la valigia in una stanza dove c’erano altrettante altre valigie. Appena arrivati andammo a riprendere la nostra valigia, peccato che non ci fosse più. Ci impiegammo un sacco di tempo a cercarla, ma nulla da fare. Una volta arrivati a destinazione il viaggio non era ancora terminato, mancavano le “analisi” dei dottori. Per fortuna nessuno di noi era ammalato, ora mancava solo dire nome e cognome al signore che doveva scriverli su un foglio. Non capivano il cognome Sciacchitano quindi lo cambiarono. Avevano cambiato la nostra identità, ora non eravamo più la famiglia Sciacchitano ma altre persone. Questa cosa mi aveva sconvolto. Ero molto arrabbiato, non è giusto cambiare cognome a chi vuoi, noi eravamo Sciacchitano, non chiunque! Ero sicuro che non mi sarebbe piaciuta l’America e avevo ragione. Noce di cocco, classe quarta C – Primaria Tiepolo 225


INTERVISTA A MEG ZAMBOLI KLOVRZA

Virginia Massarenti e Albino Zamboli Salve Meg Ciao Francesca Qual’ è il paese d’origine dei tuoi nonni? Mia nonna è nata in Brasile, figlia di genitori di origine italiana di Pordenone, mio nonno è nato a Venezia. Come si chiamavano i tuoi nonni? Mio nonno si chiamava Albino Zamboli e mia nonna Virginia Massarenti Zamboli. Dove si sono conosciuti i tuoi nonni? I miei nonni si conobbero in Brasile poiché la famiglia di mia nonna era di origine italiana e la sua famiglia frequentava solo persone provenienti dall’Italia. Quando lasciò l’Italia tuo nonno? Mio nonno Albino lasciò l’Italia nel 1912. Perché tuo nonno decise di lasciare l’Italia e di andare in Brasile? Mio nonno lasciò l’Italia perché la vita in quel periodo era molto difficile e c’era tanta miseria e povertà, così 226


decise di lasciare la propria patria per cercare un futuro migliore in Brasile. In quale parte del Brasile si stabilì? Nonno Albino si stabilì nella zona di São Paulo. Come si chiama la città? Morungaba. Che lavoro svolse tuo nonno in Brasile? Inizialmente contadino, poi commerciante. Che lingua parlavano i tuoi nonni? I miei nonni parlavano solo la lingua italiana. Ti ricordi alcuni proverbi e canzone italiane che i tuoi nonni erano soliti cantare? Funiculì funicul… Oh Sole mio… Non tutto il male viene per nuocere. Quali erano i piatti preferiti di tua nonna? Polenta, gnocchi, pane zucchero e marmellata, pasta al forno. Che cosa ti raccontavano i tuoi nonni dell’Italia? Mio nonno ci raccontava che l’Italia era una terra ricca di cultura e di storia, anche se in quel periodo storico era molto povera e devastata dalla miseria. Sono cresciuta con il sogno di poterla un giorno conoscere e di ritrovare le mie origini. Mio nonno aveva tantissima nostalgia della sua amata Italia. Purtroppo, non riuscì più a ritornarci perché il viaggio era lunghissimo e costoso. I miei nonni in casa parlavano esclusivamente la lingua italiana. Io purtroppo non capivo tutto quello che dicevano poiché ero molto piccola e i miei genitori in 227


casa parlavano solo in portoghese. Ricordo però alcuni modi di dire come ad esempio: «Dio ti benedica». Ti piacerebbe un giorno visitare l’Italia? Sì, assolutamente sì. Perché? Non appena la pandemia sarà finita verrò a vivere un lungo periodo in Italia, insieme a mio marito Octavio, anch’egli di origine italiana. L’Italia è una nazione meravigliosa; è la terra d’origine dei miei nonni, è una parte di me. Immagino che l’emozione di stare lì sarà incredibile. Inoltre avrò la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana poiché mio nonno è nato in Italia. Grazie per l’intervista Meg…… A presto Classe quarta C – Primaria Tiepolo

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STORIA DI UN’EMIGRATA VENETA Sono M. P. e ho 81 anni. All’età di 11 anni, nel lontano 1951, sono emigrata dalla mia città, Vicenza, verso l’Argentina, nell’America del sud. Negli anni del dopoguerra, in Italia, non c’erano molte opportunità lavorative e mio padre aveva sentito da conoscenti che in quel paese c’era richiesta di manodopera. Grazie ad un amico, era riuscito ad ottenere un posto nella piccola cartiera che un vicentino aveva aperto al di là dell’oceano. Nel 1949 era quindi partito per Buenos Aires; in Argentina erano accettati solo gli immigrati che davano la garanzia di aver già ottenuto un posto di lavoro in quel paese. Così, dopo due anni che mio padre lavorava come meccanico presso quell’industria, decise di farci andare a vivere con lui. Era l’aprile dell’anno 1951 quando con mia madre e i miei tre fratelli di 15, 9 e 7 anni, lasciai la mia casa a Vicenza e partii per quella che io, bambina, vivevo come una sorprendente avventura. Avrei visto posti nuovi e conosciuto persone diverse… anche se un po’ mi dispiaceva lasciare i miei vicini di casa che erano i miei compagni di gioco. Da Vicenza partimmo in treno con il quale raggiungemmo il porto di Genova. Lì ci aspettava una nave cargo, la “Paolo Toscanelli”. Eh sì, non si trattava di una nave da crociera, ma di una nave che era stata costruita per trasportare le merci e che poi, visto le numerose richieste di persone che volevano emigrare nei paesi oltreoceano, era stata parzialmente trasformata per il trasporto delle persone. Alloggiavamo in grandi 229


stanzoni dove erano stati sistemati molti letti a castello; il bagno serviva per molte persone e l’acqua era un bene prezioso. La traversata da Genova a Buenos Aires durò 19 giorni. Ma cosa mi ero portata per affrontare quel lungo viaggio? Purtroppo, poche cose, e non certo i miei giocattoli! In 5 persone, mamma e noi 4 figli, avevamo potuto imbarcare un solo grande baule che doveva contenere l’abbigliamento di noi tutti. Potete bene immaginare! Ma ciò che ricordo ancora molto bene di quel viaggio è la paura che ho provato quando, nel Golfo del Leone, abbiamo dovuto affrontare una tempesta. Come ballava la nave!

Passata quella zona, che ora so essere tristemente famosa fra i marinai, navigando al largo della costa della Francia, ci dirigemmo verso lo stretto di Gibilterra, la porta verso l’oceano Atlantico.

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L’ultima tappa, prima di affrontare l’attraversata dell’oceano, fu nelle isole Canarie dove la nave si fermò per scaricare alcune merci e fare rifornimento di carburante. Noi passeggeri non fummo fatti scendere e quindi di quel posto non ho ricordi. Mi ricordo che durante il lungo viaggio mi divertivo a giocare con i miei fratelli sul ponte della nave, ma la cosa più bella era quando due grandi navi si incrociavano e suonavano a lungo la sirena per salutarsi. Come era emozionante partecipare a quel momento! Ed un’altra cosa che mi piaceva particolarmente era quando alla sera proiettavano su grandi schermi dei film. Il viaggio durò molti giorni, ma, in compagnia dei miei fratelli e degli altri bambini incontrati sulla nave, il tempo passava veloce. Ad un certo punto, all’orizzonte che prima era sempre uguale, cominciò a delinearsi la terra e il profilo di Rio de Janeiro, grande città del Brasile, si fece sempre più definito; qui facemmo ancora tappa. Era quasi il tramonto e la statua del Cristo che domina la città sembrava darci il benvenuto nel nuovo continente. Questa è un’immagine che non dimenticherò mai!

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Ma ancora mancava un po’ di strada alla nostra meta; la nave continuò la sua rotta per Santos e Montevideo e… finalmente arrivammo a Buenos Aires! Ci volle del tempo per sbarcare dalla nave perché eravamo in tanti, ed aspettare che ci dessero il nostro baule fu lungo e noioso. La gioia di rivedere mio padre fu così grande che dimenticai i sacrifici del viaggio e veloce salii con la mia famiglia sul camion che papà si era fatto prestare dal suo datore di lavoro per venirci a prendere. Dopo una trentina di chilometri circa, a notte fonda, arrivammo nella nostra nuova casa che si trovava in un paese di nome BERAZATEGUI, nella periferia a sud di Buenos Aires. La casa era stata presa in affitto da mio padre, che pagava la retta mensile al suo datore di lavoro che dava così una sistemazione economica ai suoi dipendenti. Era affiancata ad un’altra abitazione; non era grande, ma aveva tutto ciò che ci serviva, una cucina, due camere da letto e un piccolo bagno. All’inizio tutto mi sembrava bello, ma un po’ alla volta capii che ci trovavamo in una zona di Buenos Aires, lungo la costa, dove gli abitanti del posto non abitavano tanto volentieri perché lì arrivavano tutti gli scarichi del sistema fognario della città. Inoltre non era servita da mezzi di trasporto e così ogni mattina dovevamo andare a scuola con un calesse tirato da una cavalla molto tranquilla, mezzo che era a disposizione di chiunque ne avesse bisogno. Già, anche in Argentina c’erano le scuole ed io, che dall’Italia ero partita senza finire la classe quarta, la dovetti rifare. Per fortuna imparai in fretta lo spagnolo, la lingua ufficiale di quel paese, che tutto sommato non è così diversa dall’italiano. Inoltre eravamo in molti emigrati 232


dall’Italia e quindi a volte avevo modo anche di esprimermi nella mia lingua. Al termine delle lezioni passava mio padre con il camion del lavoro per riportarci a casa. Ricordo che mia sorella maggiore non frequentava la scuola e lavorava in casa come sarta, attività che aveva già imparato in Italia. La nostra mamma, quando noi eravamo a scuola, andava a fare la domestica per aiutare il papà a mantenere la nostra numerosa famiglia. Anch’io, durante le vacanze scolastiche, mi davo da fare, talvolta aiutando la mamma nel suo lavoro, altre volte andavo presso una signora rimasta vedova a farle compagnia perché si sentiva sola. Mio fratello minore, dopo la scuola ed i compiti, poteva svagarsi dedicandosi a quello che era diventato il suo passatempo preferito, andare a cavallo. La domenica andavamo in chiesa, era ancora in costruzione; finito di celebrare la messa, il prete si impegnava nel lavoro di edificazione e ricordo che spesso lo aiutava anche mio padre. Una cosa per me un po’ strana era festeggiare il Santo Natale in estate; in questo paese, infatti, le stagioni sono al contrario rispetto al nostro. Mi spiego meglio: quando io sono partita dall’Italia, in aprile, per noi era primavera, mentre quando sono arrivata a Buenos Aires, era autunno. Ricordo infatti che con il passare dei giorni, verso giugno, faceva sempre più freddo ed iniziò l’inverno. Come era freddo il vento che soffiava forte proveniente dalla pampa! E per scaldarci in casa c’era solo una stufa a legna. La pampa non ci regalava solo aria fredda, ma anche dell’ottima carne poiché c’erano numerosi allevamenti di bovini. Dimenticavo di dirvi che, nei giorni immediatamente successivi al nostro arrivo 233


in Argentina, dovemmo recarci da un medico, il quale controllò il nostro stato di salute e si assicurò che non fossimo portatori di qualche malattia contagiosa, che avrebbe potuto dare origine ad una epidemia. Ora che sto vivendo questa pandemia, capisco bene il perché di quella visita! Il ricordo più bello che serbo di quel periodo riguarda il sabato sera. Tutte le settimane, nella piazza del paese, facevano festa e si poteva ballare. É là che ho imparato a farlo, come ci divertivamo io e mia sorella! A volte venivano anche mamma e papà, altre volte andavamo da sole perché allora eravamo già considerati grandi e responsabili. Dopo un anno circa, grazie al lavoro di noi tutti, eravamo riusciti a mettere da parte i soldi per trasferirci in un’altra zona della città, molto più bella e ben servita. Lì la vita era più semplice e piacevole; ora potevo andare a scuola con l’autobus che passava poco lontano dalla nostra nuova casa. Avevamo fatto numerose amicizie, fra le quali ricordo volentieri quella con alcuni bambini emigrati dalla Germania con i quali andavamo particolarmente d’accordo. Devo dire comunque che mi sono sempre sentita ben accolta dagli abitanti dell’Argentina, non mi hanno mai fatta sentire un’ospite indesiderata. Nel periodo successivo, ho frequentato di pomeriggio la classe quinta e sesta. Stavo quasi per finire la sesta ed ottenere il diploma di licenza elementare quando … Purtroppo nel 1952 in Argentina accadde un fatto che cambiò la storia di quel paese: morì Evita Peron, moglie del Presidente dell’Argentina, Juan Peron, donna che aveva avuto una grande influenza nelle politiche del marito. In seguito alla sua scomparsa, il presidente sembrò cadere in preda alla disperazione e il suo comportamento segnò l’inizio di una serie di disordini. Questo fatto, unito alla ripresa economica dell’Italia, fece maturare nei miei genitori l’idea di tornare nel paese d’origine. Tanti erano anche i solleciti da parte dei 234


miei nonni per un nostro rientro. Così, dopo 2 anni e mezzo, dal porto di Buenos Aires, ripartimmo con una nave francese e mettemmo la parola fine alla nostra avventura di emigrati.

Alunni della classe quinta B – Primaria Tiepolo

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STORIE VERE DI EMIGRAZIONE DEL PASSATO La storia di mio bisnonno. Mio bisnonno nacque in un paese della Campania, Felitto, in provincia di Salerno. È il papà di mio nonno paterno. Da ragazzo, dopo la scuola, si occupava di fare il pastore di pecore e capre per aiutare economicamente la famiglia. A diciassette anni si arruolò nel 10° reggimento genio del Regio Esercito Italiano. Venne mandato in Africa. Lì costruì ferrovie, strade e ponti. Rientrò in Italia nel 1939. Nel 1940 l’Italia entrò in guerra. Mio nonno decise di arruolarsi nuovamente come volontario. In un primo periodo andò a combattere in Spagna e rimase lì fino alla vittoria. Tornato in Italia, venne mandato di nuovo in Africa. Qui svolse ancora le mansioni legate al genio militare, finché lui e i suoi compagni vennero catturati dagli Inglesi e portati in un campo di prigionia del Kenya. Qui, grazie alle sue abilità di agricoltore e allevatore, riuscì a sopravvivere, coltivando da sé gli ortaggi, che divise anche con gli inglesi. La vita del campo era molto dura: molti dei suoi compagni morirono. La guerra finì nel 1945, ma lui rimase confinato nel campo e riuscì a tornare solo nel 1947. Tornò nel suo Paese, Felitto, dove trovò povertà e distruzione, allora decise di emigrare in Sud America, a Montevideo, in Uruguay. Nel frattempo, si era sposato con mia bisnonna e nacquero due figli: mio nonno e suo fratello. In Sud America mio nonno si impegnò tanto, lavorando duro, e riuscì ad aprire un’attività di vendita di frutta e verdura, avendo molto successo. La sua vita lì trascorse molto tranquilla e senza grossi 236


problemi. Nel 2013 morì, a 101 anni. Mi dispiace di non averlo mai conosciuto di persona. Superiki, quinta C - Primaria Tiepolo Mia nonna è nata nel 1905 da una famiglia molto numerosa, nove figli, e molto povera. Mia bisnonna si chiamava Maria e faceva la sarta, le bambine la aiutavano e tutte hanno frequentato la scuola solo fino alla terza elementare. Poi sono andate a lavorare, a otto anni! Tutte “a servizio”, come si diceva un tempo, cioè sono andate a fare le pulizie nelle famiglie delle persone più ricche. A dodici anni, la sorella più grande di mia nonna, faceva la tata dei bambini di un conte. Era molto brava perché aveva cresciuto anche i fratellini, ma non era molto contenta. Lei era nata nel 1895 e poco prima che cominciasse la guerra, la Prima Guerra Mondiale, si è sposata ed è partita con suo marito per l’Argentina. Lì era già emigrato un cugino di suo marito. La nonna mi ha raccontato che per quasi sei mesi non hanno avuto notizie dei due sposi, temevano che la nave fosse affondata. Poi è arrivata una lettera che raccontava che si erano trasferiti verso l’interno. La vita non era facile: vivevano in una piccola città che stava nascendo allora e mancava un po’ di tutto. La nonna si ricorda che all’inizio sua sorella non era molto felice, le sembrava tutto strano: la lingua, la gente, il cibo…ma suo marito era ottimista perché c’era tanto lavoro. Poi è scoppiata la guerra e sono arrivate sempre meno lettere. I problemi erano altri, un fratello della nonna è partito per la guerra e non è più tornato, c’era tanta paura. La nonna ha rivisto sua sorella solo un’altra volta. È 237


tornata in Italia quando è morta sua mamma. Poi si sono scritte e telefonate fino a quando anche la sorella argentina è mancata. I figli e mio papà ogni tanto si mandano gli auguri per Natale, ma ormai, da quando la nonna è morta, non si sentono più. Pro.ahm, quinta C - Primaria Tiepolo

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PROGETTO VALIGIE DI CARTA Una testimonianza: la vita da immigrato del mio trisnonno Alfonso a Philadelphia, negli USA.

Il mio trisnonno Alfonso, nacque a Bisenti, un paese in provincia di Teramo nel lontano 1850. Quando mio trisnonno viveva a Bisenti c’era molta povertà e molti giovani uomini migrarono negli Stati Uniti, in Australia, in America del Sud, alla ricerca di una vita migliore. Alfonso fu uno di quei giovani coraggiosi che a trent’anni lasciò la propria famiglia e si trasferì negli Stati Uniti, nella speranza di una vita migliore, con una valigia di carta colma di sogni e di speranze. Visse in Pennsylvania, a Philadelphia, per circa vent’anni. Era un abilissimo fabbro, un artigiano del ferro e, come molti italiani ed europei, ha contribuito a costruire i meravigliosi grattacieli presenti nella città. Durante i vent’anni trascorsi a Philadelphia il mio trisnonno Alfonso accumulò tantissimo denaro e decise di ritornare nella sua terra d’origine, Bisenti, dove investì le ricchezze in acquisto di terreni e case e ritornò a lavorare nella sua officina di fabbro. Rimasto vedovo, si risposò con mia trisnonna, Maria, di 239


molti più anni più giovane di lui. Dalla loro unione nacque Vincenzo, il mio bisnonno, unico figlio ed erede. Quando mio trisnonno Vincenzo diventò adulto, si trasferì in Sardegna e con sé portò anche sua madre, poiché nel frattempo il marito, il mio trisnonno, morì di vecchiaia. Le spoglie di mio trisnonno Alfonso riposano a Bisenti, mentre quelle di mio nonno a Thiesi, un piccolo paese vicino ad Alghero, in provincia di Sassari, dove è nato mio nonno Giovanni. La storia di mio bisnonno a Philadelphia si intreccia con quella mia perché mio padre Sean Patrick è americano, di New York. Io sono nata in Florida, a Fort Lauderdale, nella contea di Broward, vicino a Miami e ho vissuto i miei primi anni in una cittadina vicino a Philadelphia, Willow Grove. Conclusioni… Il progetto valigie di carta mi ha fatto conoscere il fenomeno dell’immigrazione e le importanti radici della mia famiglia. Ho imparato che tutto quello che noi siamo oggi è anche frutto dei sacrifici e delle umiliazioni di molte persone che sono vissute prima di noi, come mio nonno Alfonso. Sofficino, classe terza A – Secondaria Barolini

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STORIE VERIE DI EMIGRAZIONE... DEL PRESENTE

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Interviste ai genitori, ai nonni e agli amici che, nel corso della loro vita, si sono trasferiti da un altro Stato o regione d’Italia… Ecco le nostre domande… 1) Come ti chiami? 2) Quanti anni hai? 3) Qual è il Paese o la regione da cui provieni? 4) Quando hai lasciato il tuo Paese di origine? 5) Cosa ti ha spinto ad emigrare? 6) Quali sono i problemi che hai incontrato e hai dovuto affrontare? 7) Hai trovato degli amici che ti hanno aiutato? 8) Cosa ti è mancato e cosa ti manca del tuo Paese di origine? 9) Come ti trovi in Italia? Ti piace vivere qui? 10) Hai mantenuto alcune usanze e tradizioni tipiche del tuo Paese di origine? 11) Qui hai trovato qualcosa che ti ricorda il tuo luogo di origine? 12) Ritorneresti a vivere nel luogo in cui sei nato/a? La mia bisnonna ha 98 anni, è nata a Messina, in Sicilia. Ha lasciato la sua isola nel lontano 1943 a causa della guerra e si è trasferita a Meduna di Livenza in provincia di Treviso a casa di alcuni suoi parenti. Mia nonna è emigrata perché la sua famiglia si trovava in difficoltà economiche, aveva tanti fratelli e sorelle e i genitori hanno deciso che alcuni di loro, compresa lei, dovessero trasferirsi al nord Italia per cercare un lavoro e superare il terribile periodo di guerra. All’inizio ha incontrato molte difficoltà con il dialetto veneto, non lo capiva, lei parlava il siciliano e le persone non la capivano. Non aveva amici, ma aveva i suoi parenti che erano un punto d’appoggio. Poi ha conosciuto il suo futuro marito e così si è trasferita a Padova. In quegli anni le sono mancati molto i suoi genitori, il mare e il clima della Sicilia. Le piace vivere qui, si è sposata e ha creato la sua meravigliosa famiglia: ha 4 figli, 9 nipoti e 18 pronipoti. 243


Nel tempo, la nonna ha mantenuto alcune usanze culinarie tipiche del suo paese: le piace cucinare i maccheroni fatti con il ferro della lana, le polpette di carne e le verdure fritte. Ancora oggi ha nostalgia: quando va con la famiglia a fare delle gite a Venezia e vede il mare, le torna in mente la sua adorata Sicilia. Oggi non potrebbe più ritornare lì perché tutti i suoi figli vivono qui e poi ha imparato anche a parlare veneto e oramai si sente come a casa! Malia_2000, quarta A – Primaria Tiepolo La mamma ha 32 anni, è nata a Galati in Romania e ha lasciato il suo Paese di origine il 14 marzo del 2014. Il motivo principale che l’ha spinta ad emigrare è stata la difficoltà di riuscire a trovare un buon lavoro. I problemi che ha incontrato sono stati soprattutto con la lingua italiana. Purtroppo non ha trovato nessun amico. Le cose che le sono mancate: la sua famiglia e i suoi fratelli. Qui in Italia si trova molto bene, ha la sua famiglia vicina, c’è il papà, mio fratello ed io. Ha mantenuto alcune tradizioni tipiche, specie i cibi e le pietanze. In Italia non ha trovato nessun particolare che le ricordasse la Romania. Oggi non sa se in futuro ritornerà nel suo Paese nativo, dipende da molte cose… Ila, quarta A – Primaria Tiepolo La mamma ha 48 anni e proviene dall’Albania. Ha lasciato il suo Paese di origine nel 1998 perché lì non riusciva a trovare un lavoro. Nel tempo ha dovuto affrontare molti cambiamenti e, purtroppo, non ha trovato nessun amico che l’ha aiutata, ha cercato sempre di cavarsela da sola. I suoi zii e i suoi amici le sono mancati molto in questo periodo. In Italia si trova molto bene, le piace vivere qui. Ha mantenuto alcune tradizioni come i cibi tipici e i dolci che spesso ci prepara. Qui in Italia e in Veneto alcuni sapori, odori e vestiti le fanno pensare a quando era piccola e le ricordano 244


l’Albania. A volte pensa che ritornerebbe a vivere nel suo Paese di origine soprattutto per rivedere i suoi cari amici. Charx, quarta A – Primaria Tiepolo Mio nonno ha 70 anni, è nato a Bova Marina, un paese del sud Italia che si trova in provincia di Reggio Calabria. Il nonno ha lasciato la sua terra all’età di 20 anni nel 1970 perché voleva frequentare una scuola di polizia. All’inizio ha incontrato molte difficoltà e ha dovuto affrontare molti problemi, non capiva il dialetto vicentino e le persone erano “fredde” con lui. Poi insieme ai suoi colleghi compaesani è riuscito ad inserirsi nella comunità facendosi dei nuovi amici. Al nonno sono mancati gli amici dell’infanzia, il cibo calabrese e il clima caldo del sud. Qui si è sempre trovato bene e si è costruito una bella famiglia. Il nonno ha mantenuto tutte le usanze e le tradizioni tipiche, specie quelle culinarie. Quando arriva Natale, mio nonno riunisce tutti i nipoti e insieme prepariamo i “Pratali”, dei dolcetti tipici calabresi fatti con fichi secchi e mandorle, una vera delizia! A Pasqua, invece, è tradizione preparare gli “nguti”, dei dolci con uno o più uova sode messe al centro dell’impasto. Alcune volte il nonno ha pensato di ritornare a Bova Marina per passare la sua vecchiaia, ma poi mi ha confidato che qui a Vicenza ha tutti i suoi affetti e quindi preferisce restare accanto a noi. Alessandro, quarta A – Primaria Tiepolo Mia mamma è nata ad Agrigento, in Sicilia, ha 48 anni. Ha lasciato la sua città nel 1999 per motivi di lavoro. All’inizio ha incontrato molti problemi: ha dovuto cercare una casa dove abitare, ha sentito la mancanza degli affetti più cari e degli amici, ha dovuto conoscere abitudini diverse dalle proprie tipo gli orari, i cibi, ecc… Negli anni ha trovato delle bravissime persone che l’hanno supportata e aiutata nei momenti più difficili. 245


Alla mamma mancano tanto i suoi genitori, i suoi amici e il suo amato mare che guardava ogni mattina quando si recava a scuola. Oramai, dopo più di 20 anni, la mamma si è abituata a vivere a Vicenza: alcuni membri della sua famiglia sono qui, i suoi più cari amici e noi figli riempiamo le sue giornate e poi c’è anche il suo lavoro che lei ama molto. La mamma ha mantenuto tante abitudini del suo Paese di origine: prepara sempre piatti tipici siciliani tra cui i dolci per le varie feste. Qui, non ha trovato nulla che le ricordi il suo paese, solo se vede il mare pensa alla sua terra. Ora non ritiene più necessario ritornare a vivere in Sicilia. Stellina 560, quarta A – Primaria Tiepolo Mio cugino è un ragazzo di 18 anni e viene dalla Moldavia, ha lasciato il Paese in cui è nato a soli 9 anni. All’inizio è venuto in Italia per trascorrere le vacanze dai nonni e poi si è trasferito qui per sempre. Mi racconta che è stato difficile perché non capiva e non sapeva parlare bene l’italiano, ha incontrato molte difficoltà a comunicare con le persone, non ha trovato neanche amici pronti ad aiutarlo. Della sua terra gli mancano la casa e i suoi amici più cari. Ora a Vicenza si trova bene, gli piace vivere qui. Ha mantenuto la stessa religione. Oggi non pensa di ritornare in Moldavia per sempre. Pix 27, quarta A – Primaria Tiepolo Mio papà ha 46 anni ed è nato a Giovinazzo, un paese che si trova in provincia di Bari, in Puglia. Ha lasciato il suo paese quando era molto giovane, all’età di 22 anni nel 1997, si è trasferito a Vicenza per motivi di lavoro. Un problema che ha incontrato è stato quello di trovare una casa perché allora i meridionali non erano visti molto bene. Nel superare le difficoltà si è dovuto arrangiare da solo, nessun aiuto. Sicuramente del suo paese da subito gli è mancata la famiglia, il mare e il buon pesce fresco. A Vicenza si trova molto bene, gli 246


piace vivere qui, specialmente adesso che ha creato la sua famiglia. La tradizione che ha mantenuto è mangiare il pesce crudo durante alcune festività. Il suo paese gli viene ricordato tutti i giorni perché al lavoro i colleghi sono tutti di Giovinazzo, per questo ha conservato il suo dialetto giovinazzese. Mio papà mi ha detto che oggi non pensa di ritornare in Puglia perché qui ha trovato un buon lavoro e si è costruito una bella famiglia. Tutto merito della città di Vicenza! Pat Cobra, quarta A – Primaria Tiepolo Il papà è nato in Moldavia, ha 47 anni ed è venuto in Italia nel 1988. Ha scelto di venire in Veneto per cercare un buon lavoro, all’inizio è stato difficile perché ha incontrato molti problemi ad avere i permessi di soggiorno. Un suo amico che aveva un’azienda l’ha aiutato molto quando era in difficoltà. Oggi gli mancano tanto i suoi genitori. In Veneto si trova bene perché qui vive insieme a noi che siamo la sua famiglia. Quando vede i campi di uva matura e gli alberi da frutto tipo le pesche pensa al suo Paese. Sono sicura che gli piacerebbe ritornare a vivere in Moldavia, ogni tanto ci pensa! Bluberry_10, quarta A – Primaria Tiepolo La mamma è nata nelle isole delle Filippine, ha 35 anni. Quando era molto giovane, all’età di 18 anni ha seguito il suo papà che l’ha convinta a venire in Italia. La lingua italiana per lei è stata difficile da imparare, per fortuna tante persone l’hanno aiutata. Qui si trova molto bene, è felice perché ha noi: la sua famiglia. Le mancano il cibo e i prodotti che trovava nelle Filippine, a volte prepara qualche piatto tipico. Visto che le mancano i suoi parenti ritornerebbe volentieri nella sua terra. Orso 10, quarta A – Primaria Tiepolo Mio papà viene dal Kosovo, ha 40 anni. Nel 1998 è stato costretto a lasciare il suo Paese di origine per sfuggire 247


alla guerra che c’era. In Kosovo mancava tutto, lui era molto giovane e mi racconta che non si poteva neanche andare a scuola e mancava il lavoro anche per i suoi genitori. In Italia ha altri parenti che lo hanno aiutato e poi ha incontrato diversi amici. Oggi del suo Paese gli manca tutto. Qui, insieme alla sua famiglia, si trova bene. L’Italia è un Paese che aiuta. Gli piace mantenere usanze e tradizioni del Kosovo, molte sono simili anche qui in Italia. Il suo sogno è di ritornare nel suo Paese. Mario 65, quarta A – Primaria Tiepolo Mia mamma è nata in Serbia, ha 36 anni e nel 2003 all’età di 18 anni è arrivata in Italia. La situazione economica che c’era nel suo Paese in quegli anni l’ha spinta ad emigrare. Ha dovuto adeguarsi ad una nuova cultura e imparare una nuova lingua. Ha trovato pochi amici. La mamma mi racconta che del suo Paese non le è mancato nulla poiché, in questi anni, ha provato molta rabbia verso tutte le persone che hanno governato male la Serbia. Oggi le manca la casa in cui è nata e dove ha trascorso la sua infanzia. In Italia si trova bene, le piace vivere qui. Ha mantenuto le tradizioni e le festività ortodosse a Pasqua e a Natale. Oggi non vuole ritornare in Serbia. NR 4711, quarta A – Primaria Tiepolo La mamma proviene dalla Moldavia, ha 31 anni. E’ venuta in Italia perché mio papà era già qui prima di lei e l’ha convinta a trasferirsi e a raggiungerlo. La sua maggiore difficoltà è stata quella di imparare l’italiano e trovare un lavoro. Molte persone l’hanno aiutata. Le manca molto la sua famiglia e ha molta nostalgia. Qui si trova bene, le piace vivere così, ha tanti amici e molti sono moldavi. Per il momento non ha intenzione di ritornare nel suo Paese d’origine. Charli 17, quarta A – Primaria Tiepolo

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La mamma di una mia compagna di classe è nata in Moldavia, ha 43 anni. Si è trasferita in Italia nel 2006 per cercare un buon lavoro. All’inizio ha incontrato molte difficoltà per ottenere i documenti utili per il permesso di soggiorno e portare in Italia i suoi figli. Per fortuna ha trovato molti amici che l’hanno aiutata a superare questi momenti di difficoltà. In questi anni le sono mancate soprattutto le sorelle. Ama l’Italia, si trova benissimo. Ha mantenuto le tradizioni religiose: festeggia la Pasqua in modo diverso. Qui ha conosciuto tante persone del suo Paese che le ricordano tanto la Moldavia. Oggi vive bene in Italia, ha deciso di fermarsi qui insieme alla sua famiglia. Frank 2011, quarta A – Primaria Tiepolo

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STORIE DI EMIGRAZIONE Il racconto del primo giorno in Italia del mio papà “Il primo giorno in Italia iniziò in un lontano giorno del 18 agosto 1998 verso le tre di notte sulle coste del mare Adriatico, in Puglia, dove scesi da un barcone più o meno di quelli che vediamo oggi arrivare dalle coste della Libia. Non so come si chiamava quel paesino dove presi il treno per la stazione di Bari centrale; arrivato a Bari centrale scesi da quel treno regionale e chiesi alle persone con quel poco di italiano che sapevo la partenza per Firenze dove era la mia destinazione finale. Tra gli sguardi delle persone e l’indifferenza, le uniche che mi sono state d’aiuto furono un gruppo di suore che mi aiutarono per il biglietto e la partenza. Iniziò un viaggio lungo ben dieci ore fino alla stazione di Bologna: qui scesi da quel treno in una stazione caotica. Rimasi lì per diverse ore anche perché non sapevo dove andare e non avevo più soldi per proseguire il viaggio verso la mia destinazione. Cercavo di stare più nascosto possibile alle forze dell’ordine perché io ero un clandestino e potevo essere rimpatriato. Ho contattato un parente che mi venne a prendere verso mezzanotte e da lì proseguii il mio viaggio verso la destinazione finale. Emozioni provate… Non so… forse quello di essere stato fortunato ad arrivare vivo (dico vivo perché molte persone hanno perso la vita nell’attraversare il mare e che ancora oggi tante madri hanno le lacrime nei loro occhi per un figlio/figlia, fratello/sorella, padre o marito che non vedranno mai più) in quella che da noi si chiamava la terra promessa. Terra promessa? Ne dubito oggi che ci sia…” Alieno, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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I miei genitori vengono da un piccolo Paese, non molto lontano dall’Italia, che si chiama Montenegro. Il confine tra l’Italia e il Montenegro è marittimo e si estende nel mare Adriatico. Il mio papà è venuto in Italia in agosto, nel 1991: era giovane e aveva 22 anni. Partì da solo, con il treno. Era partito dalla Serbia verso l’Austria, ma sceso dal treno a Vicenza decise di restare lì e di viverci. Dormì per tre notti nel parco. Non sapeva la lingua, non conosceva nessuno e a quel tempo c’erano pochi che parlavano la sua lingua. Dopo ha conosciuto un serbo che gli trovò un posto dove vivere. In seguito, trovò un lavoro. Il mio papà si sentiva giovane e pieno di vita. A quei tempi l’Italia era sicura e si poteva dormire al parco senza paura che succedesse qualcosa. Aveva anche una ragazza italiana che gli insegnò a parlare il veneto. Nel 2000 i miei genitori si sposarono in patria e poi mio papà tornò in Italia per fare le carte. Nel mese di gennaio del 2001, con una nave partita da Bar (città del Montenegro) sono arrivati ad Ancona, poi hanno continuato con la macchina fino a Vicenza. Mia mamma è venuta a Vicenza dal Montenegro perché si è sposata con mio padre. Lei si è sentita come se stesse vivendo una nuova avventura in un nuovo mondo, ma dopo alcuni giorni ha sentito una grande nostalgia: le mancavano i genitori, i parenti, gli amici, le tradizioni, la lingua. Ma col tempo è riuscita ad abituarsi, a trovare nuovi amici, a conoscere la lingua italiana, a trovare lavoro. Mia madre mi fece nascere ed iniziò anche lei ad amare questa terra. Scintilla, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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Il giorno in cui la mia mamma si è trasferita a Vicenza era il mese di gennaio del 2008. Quando è arrivata si sentiva molto confusa. Era venuta per un colloquio di lavoro. Vicenza per lei era molto bella perché c’erano molti parchi e le persone andavano in bicicletta. Di Messina le mancava il mare. La mia mamma lavorava tutto il giorno così decise di licenziarsi perché lavorava troppe ore e non aveva il tempo per dedicarsi a sé stessa. Nel frattempo, ha organizzato il matrimonio con mio papà. In maggio si sono sposati. Leonessa, classe quarta C – Primaria Tiepolo Il 10 luglio 1992 mia mamma venne per la prima volta in Italia precisamente a Roma per trovare sua mamma e suo papà per le vacanze estive. Venne in Italia con suo nonno (il mio bisnonno). Il primo giorno in Italia fu emozionante perché non aveva mai visto posti del genere però era preoccupata perché non sapeva l’italiano. Passate le vacanze estive ritornò in Macedonia; nel 1993 si trasferì definitivamente in Italia anche se era un po’ triste per aver lasciato le sue amiche. L’Italia le rimase impressa come Paese: le piacevano molto le pasticcerie colme di dolci e le case moderne. Per questo decise di trasferirsi in Italia! Pochi anni dopo mia mamma conobbe mio papà in una autoscuola e da quel momento cominciarono a frequentarsi. Noce di cocco, classe quarta C – Primaria Tiepolo Mia mamma è arrivata in Italia cinque anni fa. Il suo primo giorno è stato strano e pieno di emozioni diverse. Da un lato era triste perché non poteva vedere mio fratello, mia sorella e me, dall’altro lato invece era anche felice perché era consapevole del fatto che noi avremmo avuto un futuro migliore. Dato che non aveva trovato subito un appartamento era andata a casa di sua suocera. Il primo giorno l’hanno portata in centro. 252


Era soddisfatta, ma aveva anche un po’ paura. Aveva paura perché era tutto nuovo: nuova lingua, nuove persone e nuovo posto per vivere. Ha conosciuto i vicini di casa che l’hanno accettata subito. Da quel giorno sono usciti sempre insieme e sono diventati amici. Oro, classe quarta C – Primaria Tiepolo La nostra coinquilina mi ha raccontato che il mezzo che l’ha portata in Italia era un pulmino con 14 persone e tra queste c’era anche lo zio. Per errore il pulmino li ha portati a Mestre mentre loro dovevano fermarsi a Vicenza dove abitava il fratello che era qui da un anno e lavorava come muratore. Quando è scesa a Mestre, ha fatto salti di gioia perché finalmente era arrivata in Italia. Suo fratello le aveva raccontato che le persone qui erano molto gentili e accoglienti e poi l’attiravano tantissimo i paesaggi. Cedro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Il primo giorno in Italia della mia mamma è stato molto brutto perché ha dovuto lasciare la nonna con la quale era cresciuta. Era molto disorientata il primo giorno. Non capiva niente: tutti i posti dove andava sembravano uguali. L’hanno portata a vedere la scuola che doveva frequentare, ma a lei non piaceva perché voleva tornare dai suoi compagni e nella sua scuola che frequentava in Bosnia! Flip-tre, classe quarta C – Primaria Tiepolo Quando sono arrivato in Italia sembrava un altro mondo: tecnologico, bello… Eravamo agitati io e la mia famiglia. Eravamo diversi da tutti: abbiamo la pelle scura mentre tutti erano bianchi però sembrava che sarebbe stato bello vivere in Italia. 253


Tiger, classe quarta C – Primaria Tiepolo Quando siamo venuti qui in Italia non abbiamo conosciuto nessuno. Abbiamo solo visto mia cugina perché lei viveva già qui. Eravamo impressionati perché abbiamo visto anche molti posti. L’emozione che abbiamo provato mia sorella e io era la felicità perché, dopo aver visto quei posti, non vedevamo l’ora di venire a scuola. Girasole giallo, classe quarta C – Primaria Tiepolo Mia nonna è arrivata dalla Calabria quando aveva 18 anni. I suoi genitori l’hanno mandata a Vicenza perché c’era una zia e volevano che la raggiungesse per le vacanze. La sua famiglia ha insistito e insistito e alla fine è partita. Era triste perché non voleva lasciare il suo paese, i suoi amici e le sue amiche. Poi il giorno in cui è arrivata a Vicenza stava piovendo e quindi è diventata ancora più triste. È stata ospitata dalla zia, poi ha incontrato un ragazzo (il nonno). Dopo un po’ si sono sposati e hanno comprato casa. Quando ha sposato il nonno è diventata più felice e ha deciso di abitare con lui qui a Vicenza. Però in Calabria torna ogni anno per le vacanze. Mare calmo, classe quarta C – Primaria Tiepolo Il primo giorno in Italia di mia mamma è stato ansioso perché non sapeva parlare in italiano e poi per lei e stata una cosa nuova impararlo. Poi mia mamma non era mai stata in qualche Paese, tranne il Marocco. Però è stata fortunata perché suo fratello l’ha portata. Leone, classe quarta C – Primaria Tiepolo Mio nonno paterno all’età di circa diciotto anni, stufo di non trovare un lavoro fisso, dalla Puglia venne su nel 254


Veneto da una sua cugina. In breve, trovò lavoro, un appartamento in affitto e lì fece venire la sua mamma e i suoi fratelli. Poco tempo dopo ha conosciuto mia nonna e si è sposato. Nuvola bianca, classe quarta C – Primaria Tiepolo La mia famiglia proviene dal Pakistan. Mia mamma era felice. Si sono trasferiti subito a Vicenza. Hanno incontrato uno che vendeva case. L’emozione di mia mamma era forte. Poi dopo due anni la mamma e il papà tornarono in Pakistan e costruirono una casa bellissima. Militare, classe quarta C – Primaria Tiepolo Mio padre è arrivato in Italia nel 1999. Era arrivato in aereo all’aeroporto di Malpensa, poi ha incontrato suo fratello che l’ha invitato a casa sua. Quando era sceso dall’aereo aveva provato tante emozioni tipo: curiosità, felicità, entusiasmo. Oltre alle belle emozioni aveva anche provato la paura e la tristezza. La tristezza perché aveva abbandonato la sua famiglia e la paura di non trovare un lavoro. Ha anche provato la preoccupazione di non sapere la lingua italiana. Adesso non prova più queste emozioni perché ha trovato un lavoro e ha imparato la lingua italiana, ha una casa e una famiglia. Motore rombante, classe quarta C – Primaria Tiepolo Nel 2005 mia zia è andata a prendere mia mamma alla stazione di Vicenza e sono andate insieme a casa. L’emozione che ha provato è stata la felicità perché non vedeva sua sorella da tanto tempo e anche un po’ di paura perché non sapeva parlare l’italiano. Mio papà invece dopo qualche mese è andato a Roma da una 255


delle sue sorelle: ha provato tanta felicità perché finalmente potevano riabbracciarsi e raccontarsi di tutto. Dopo pochi mesi, si è trasferito a Vicenza per stare vicino a mia mamma. Erano ancora più felici perché finalmente erano uno vicino all’altro e si sostenevano a vicenda. Non è stato facile, hanno avuto problemi a trovare lavoro e una casa perché non avevano i documenti giusti. Nel 2011, sono nata io, ma dopo sei mesi siamo tornati tutti in Romania perché i miei genitori non avevano più un lavoro. Quando avevo cinque anni siamo tornati di nuovo in Italia perché mio papà ha ritrovato lavoro. Abbiamo rivisto mia zia, le mie cugine e mio zio. Eravamo contenti di rivederli, ma io avevo un po’ di paura perché non sapevo parlare e non sapevo cosa sarebbe successo. Ora va tutto bene, l’italiano lo so abbastanza bene e ormai sono quattro anni che viviamo in Italia. Il mio pensiero è sempre quello di andare in Romania anche se mi trovo bene qua. Cielo azzurro, classe quarta C – Primaria Tiepolo La mia mamma aveva paura perché non capisce l’italiano, ma allo stesso tempo era felice perché c’era il mio papà in Italia. Anche io provavo le stesse emozioni della mia mamma in aereo (ma anche in aeroporto). Ringrazio i marocchini/e perché altrimenti non sarei mai stato in Italia. Perché? Perché loro sono andati/e in Italia, quindi sanno l’italiano. Ringrazio anche le maestre: io sono stato fortunato ad avere queste maestre perché mi hanno insegnato benissimo l’italiano ma anche altre materie. Toro, classe quarta C – Primaria Tiepolo Ora ti racconto perché mio papà è venuto in Italia. È venuto qui perché quando era giovane mio papà adorava viaggiare, ma a un certo punto voleva fermarsi in un posto per essere tranquillo e stare in un posto preciso a vivere. Il posto più vicino a lui era l’Italia quindi 256


si trasferì. Venne a Vicenza per vivere. Non era tanto triste anche se era un po’ troppo difficile trovare un lavoro. Mia mamma venne in Italia per mio papà. All’inizio era un po’ arrabbiata perché mio papà non trovava lavoro, quindi non vivevano molto bene perché non avevano soldi. Lei è venuta in Italia per guadagnare soldi. Gelato alla vaniglia, classe quarta C – Primaria Tiepolo La mamma era un po’ spaventata quando è arrivata in Italia perché non conosceva la lingua. Non la parlava nessuno tranne il papà. Le mancavano tanto i familiari perché ha lasciato tutti in Serbia. Però era anche felice perché eravamo insieme come famiglia. Le è piaciuto conoscere l’Italia perché è un bel Paese. Il papà è venuto qui perché la Serbia, dopo l’ultima guerra, era stata distrutta: non c’era lavoro e gli stipendi erano bassissimi. Ha deciso di venire in Italia perché qui aveva suo padre e altri familiari. Aveva solo 22 anni quando si è trovato in un Paese completamente sconosciuto, senza sapere una parola di italiano. Già all’inizio sapeva che non sarebbe stato facile però ha deciso di fare di tutto per rimanere. Così sono passati gli anni con impegno e grande lotta per imparare la lingua, trovare lavoro e comprendere il sistema italiano. Acqua, classe quarta C – Primaria Tiepolo

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STORIE VERE DI EMIGRAZIONE DI OGGI Mio papà è nato in Pakistan a Gujrat il 20 giugno 1983. E’ venuto in Italia il 15 novembre del 2009. Conosceva già mia mamma e si sono sposati nel 2008. Ha lavorato fin da piccolo in una fabbrica di piatti, poi in un negozio di vestiti dove controllava la qualità della stoffa, infine ha lavorato in un negozio di alimentari. In Italia prima ha fatto volantinaggio, poi ha venduto fiori. Alla fine, con un prestito, ha aperto un negozio di Kebab. Ow., quinta C - Primaria Tiepolo Mio papà è nato in Serbia. La sua casa era molto vecchia, con il pavimento fatto di terra, perché i suoi genitori erano poveri. Lui è nato lì, su quel pavimento di terra , perché i suoi non sono riusciti ad andare all’ospedale. Così è nato lui, su quel pavimento, in quella casa molto vecchia a Krijevo, un paese povero ma bello. A sei anni, nel 1966, ha cominciato la scuola, faceva molti chilometri ogni giorno, per andare e tornare, perché la scuola non era vicina. A sette anni, con pezzi che recuperava in giro, o gli regalavano, si è costruito una bici e così piano piano ha anche imparato ad andarci e lo ha insegnato a sua sorella. Poi i suoi, per prendere soldi, l’hanno venduta e lui ci è rimasto malissimo. Mio papà ha frequentato la scuola fino alla terza media. A quattordici anni, cioè nel 1974, ha cominciato a lavorare per guadagnare i soldi che i suoi non potevano dargli. Nel 1978, a diciotto anni, è andato a fare il servizio militare, perché a quel tempo era obbligatorio. Subito dopo averlo finito, nel 1983, è venuto in Italia ed è andato ad abitare da mia zia che era già venuta prima. 258


Poco dopo ha trovato lavoro come muratore, da un suo amico serbo che era in Italia da molto. Un giorno era a fare un lavoro, è montato sopra il tetto ed è scivolato su una tegola rotta e così si è rotto il gomito. Il suo amico ha chiamato l’ambulanza e poi la mia famiglia per dare notizia dell’accaduto, ma io non c’ero. Queste cose me le ha raccontate tutte il mio papà. Nikk.10, quinta C - Primaria Tiepolo Sono nata in Sierra Leone. Ho frequentato una scuola cattolica. Ho dei bei ricordi delle prime classi. La nostra teacher era come una mamma per tutti noi bambini. Ci voleva molto bene. In classe quarta ho avuto un maestro bravissimo che ci insegnava le cose con le canzoni che inventava e ha composto un libretto di canzoni per noi. Gli anni successivi sono stati molto duri. Dovevo studiare tantissimo per andare alle superiori. La “capa” degli insegnanti era durissima, mi rimproverava perché arrivavo sempre in ritardo: ma io partivo da casa alle 6 per andare a scuola, a piedi, ed arrivavo sempre dopo le 8. Una volta mi ha messa in punizione con una mia compagna: dovevamo riempire delle grandi taniche di acqua: siamo state sotto il sole cocente tre ore e il tempo sembrava non finire mai. Poi è scoppiata la guerra, andare a scuola era pericoloso, perciò mio zio mi ha mandato in una scuola più vicina, anche se i professori erano meno bravi. Poi sono venuta in Italia, ho fatto tanti lavori, non tutto è stato facile, con gran fatica ho fatto la scuola di operatrice socio sanitaria e ora aiuto le persone che sono in difficoltà. Abu123, quinta C - Primaria Tiepolo

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LA MIA FAMIGLIA Mia mamma e nata il 24 marzo del 1983 a Tecuci, un piccolo paesino vicino a Galati, in una famiglia abbastanza povera. I miei nonni lavoravano in una fabbrica vicino alla città: la famiglia era composta da tre figlie (Elena, Iuliana e MirelaNeacsu) e dai miei nonni. Mia mamma ha trascorso l’intera infanzia e anche la sua adolescenza in un piccolo appartamento a Galati. Quando lei ha 13 anni, mio nonno muore di infarto, quindi mia nonna si ritrova a crescere 3 figlie da sola con uno stipendio minimo ed inizia a fare i turni di notte in fabbrica. A quel tempo mia madre finisce la scuola media, sostiene la prova per iscriversi insieme a mia zia ad un liceo industriale meccanico ed entrambe vengono accettate. Mia mamma, per aiutare mia nonna economicamente, lavora dal pomeriggio fino alla sera in un minimarket vicino a casa sua. Mio padre è nato a Galati da una famiglia abbastanza benestante. Mia nonna era una contabile e lavorava nel centro della città, invece mio nonno era un elettricista. Mio padre è cresciuto in una casa insieme ai suoi fratelli gemelli. Mio nonno è morto d’infarto quando mio padre aveva 14 anni, però, a differenza di mia nonna paterna, lui non ha sofferto per problemi economici. Mio padre frequentava un liceo industriale simile al Rossi e poi dopo il liceo si è iscritto all’università degli studi economici. I miei genitori si sono incontrati in un parco e da lì e iniziato tutto. A quei tempi molte persone andavano via dalla Romania per cercare lavoro: una di questa e stata la mia prozia, che è partita per l’Italia nel 1999 per venire a Vicenza a lavorare come infermiera socio-sanitaria in un ospedale. Nel 2000 anche mia madre è partita per l’Italia grazie a lei, che le ha assicurato un lavoro come sociosanitaria e lei ha accettato. Mio padre, per non perdere mia mamma l’anno successivo ha lasciato l’università e la sua famiglia per raggiungerla in Italia. Dopo pochi anni, tutta la mia famiglia (da parte di mia madre) si è ritrovata a Vicenza. Anche se viviamo da tanto tempo in Italia, io la mia 260


famiglia ogni anno andiamo in Romania, a Galati, per riunirci tutti insieme ed esplorare di più il nostro paese di origine. Momo 67 – classe terza A – Secondaria Barolini

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DAL BANGLADESH ALLA SVIZZERA E POI, INFINE, ALL’ITALIA Tutto è cominciato con mio padre, che ha voluto trasferirsi dal Bangladesh in Europa per motivi di lavoro. Lui è stato il primo della nostra famiglia a venire qui con mio zio e mia zia; hanno cominciato a lavorare in Svizzera e poi si sono trasferiti in Italia. Successivamente li hanno raggiunti i miei cugini, che hanno studiato e cominciato a lavorare in Italia; dopo qualche anno hanno deciso di portare in Italia, a Vicenza, anche me. Mi era tutto nuovo e mi sembrava strano vivere in città, perché in Bangladesh io abitavo in campagna, ma dopo mi sono abituato a stare qui. Dopo qualche mese mi hanno iscritto alle materne, dove ho frequentato solo un anno, e dopo i miei hanno deciso di cambiare casa, perché la famiglia si stava allargando. Quando ci siamo trasferiti, dopo qualche settimana, il 28 Aprile 2014, è nato il mio fratellino. Purtroppo mio padre dopo qualche mese ha dovuto trasferirsi, perché aveva trovato lavoro in un cantiere di navi da crociera e quindi stava sempre lontano da noi. Qualche anno dopo, quando io ero in quarta elementare, il papà ha cambiato lavoro: ora lavora come operaio qui a Vicenza e gli piace molto. Alunno della classe terza B – Secondaria Barolini DA NAPOLI A VICENZA Mio padre è nato a Napoli, dove ha vissuto e studiato fino all’età di 25 anni, quando ha cominciato il lavoro di consulente informatico. Inizialmente il lavoro lo portava a spostarsi in varie città italiane, soprattutto del Centro e Nord Italia. Nel 1998 è venuto ad abitare a Vicenza, ma tutti i giorni andava a lavorare a Padova. Dopo qualche mese ha iniziato a lavorare a Vicenza. Mi dice sempre che in quegli anni in cui si è trasferito qui al Nord, circa 25 anni fa, ha sperimentato come Vicenza 262


sia molto più tranquilla e ordinata di una metropoli come Napoli. Vado a Napoli spesso, a trovare i miei parenti, specialmente d’estate. Le differenze che trovo tra Vicenza e Napoli sono tantissime, ad esempio il carattere delle persone, il cibo e, principalmente, la città. Napoli mi è sempre piaciuta, è una città molto più grande di Vicenza, con un clima diverso e con tutti i vantaggi e gli svantaggi di una metropoli. Però sinceramente non ci andrei a vivere: oramai sono abituato ai tempi e alla vita di Vicenza, città in cui il ritmo della giornata è molto diverso. Ma con i suoi paesaggi e il suo clima Napoli resta una città in cui si vive molto bene, specialmente in estate. Alunno della classe terza B – Secondaria Barolini DA TRAPANI A VICENZA Mio papà nacque nel 1969 in Sicilia nella città di Trapani in una famiglia molto “allargata”. Visse in quella città finché non conobbe mia madre, che era lì in vacanza con i suoi genitori, e se ne innamorò. Nel 1994 si sposarono in Comune a Milano; non c’erano tanti invitati, ma c’erano le persone più importanti per loro. Poi tornarono a Trapani. L’anno dopo nacque mia sorella Debora, ma papà e mamma guadagnavano molto poco e non potevano comperare tutto l’occorrente per mia sorella, che era piccola. Allora decisero che mia madre sarebbe tornata a Milano dove abitavano i miei nonni materni e mio padre avrebbe cercato lavoro al Nord. Nel 1999 i miei poterono finalmente tornare a vivere insieme qui a Vicenza, perché il papà aveva trovato un buon lavoro. Purtroppo era spesso in trasferta, tornava il venerdì sera e se ne andava il lunedì all’alba. Così mio padre non poté godersi l’infanzia di mia sorella, ma doveva provvedere al sostentamento della famiglia e dovette fare così. Alunna della classe terza B – Secondaria Barolini 263


DA PALERMO A VICENZA Mio padre, prima che io nascessi, se ne andò in Germania lasciando mia madre e mio fratello giù a Palermo. Partì con mio nonno e, dopo svariate ricerche, trovò un lavoro da muratore. Furono anni difficili, anche perché mio padre non sapeva il tedesco, ma non si scoraggiò. Non gli interessava il posto in cui era, attendeva solo il momento di tornare a casa e stare con mia madre e mio fratello. Lavorò duro, senza scoraggiarsi. Dopo qualche anno poté tornare e la mia famiglia si ricongiunse a Vicenza, dove papà aveva trovato un buon lavoro. La storia di mio padre mi insegna che non ci si deve scoraggiare al primo ostacolo che si incontra, ma che occorre affrontare le difficoltà con serenità e fiducia nel futuro. Alunno della classe terza B – Secondaria Barolini IL VIAGGIO DI MIA MAMMA Oggi vi racconto il viaggio che ha fatto mia madre per arrivare dove vive ora, in Italia, a Vicenza. Mia madre da quand’era piccolina andava per le strade a vendere sacchetti, per portare qualcosa a casa, soprattutto cibo. Un giorno ha deciso di partire dall’Africa, sperando di trovare un posto migliore per vivere e stare bene con la sua mente, bene senza patire la fame, bene per aiutare la sua famiglia a distanza. Intorno ai vent’anni è arrivata qui in Italia e ha cominciato a fare la badante a Verona. Quello che guadagnava lo divideva, metà se lo teneva e metà lo mandava alla sua famiglia in Africa. Un giorno mio padre passò per di là con gli Alpini e fu subito amore a prima vista. Dopo quel giorno si sentirono, si conobbero e si sposarono, nonostante la gente mormorasse contro il loro matrimonio. Ora mia madre è un’aiutante in ospedale e manda ancora giù soldi per aiutare i nostri parenti. Però ha una grande nostalgia dell’Africa. Alunno della classe terza B – Secondaria Barolini 264


L’EMIGRAZIONE VISTA CON GLI OCCHI DEGLI ARTISTI

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QUANDO I MIGRANTI ERAVAMO NOI Gli artisti che raccontarono l’emigrazione italiana di fine Ottocento Questo lavoro è la sintesi di lettura di un testo di Federico Giannini e Ilaria Baratta. Fra il 1876 e il 1920 molti Italiani migrarono all’estero. In particolare: - tra il 1876 e il 1900 lasciarono il paese più di cinque milioni di Italiani; - tra il 1901 e il 1920 la cifra salì a quasi dieci milioni; L’esodo si concentrò soprattutto nelle regioni del nord Italia. Nel periodo compreso tra il 1876 e il 1900: - il primato delle emigrazioni spettò al Veneto, da dove partì il 17,9% del totale dei migranti; - dal Friuli Venezia Giulia partì il 16,1% dei migranti; - dal Piemonte partì il 12,5%; - dalla Lombardia partì il 9,9% - dalla Campania partì il 9,9%. Stati Uniti, Francia, Svizzera, Argentina, Germania, Brasile, Canada e Belgio sono i Paesi verso i quali si concentrò la gran parte del flusso dei migranti italiani. Le persone emigravano per vari motivi, innanzitutto economici: - a causa della crisi agraria, provocata dal crollo del prezzo del frumento, dovuto alla crescente meccanizzazione dell’agricoltura e all’arrivo sul mercato europeo di grano a basso prezzo proveniente dall’America (del nord e del sud) e dalla Russia; - a causa della competizione con altri paesi su diversi mercati, per esempio quello del vino con la Francia o quello degli agrumi con la Spagna; - a causa dell’aumento della pressione fiscale, perché l’Italia unita aveva bisogno di entrate per poter 267


realizzare le infrastrutture. Alle cause economiche si legavano ragioni di natura sociale: - le lavoratrici donne che lavoravano in fabbrica, maturarono una percezione della loro condizione che non avevano mai avuto prima e cominciarono a desiderare condizioni di vita migliori; - i contadini che lavoravano per le aziende agricole meglio organizzate, specialmente nell’Italia del nord, cominciarono a reclamare migliori condizioni di lavoro e a manifestare paura e disprezzo della povertà. Un crescente clima di sfiducia verso le istituzioni italiane si accompagnava alla speranza di migliorare le proprie condizioni di vita a seguito di un trasferimento all’estero. Tali speranze erano accresciute dal fatto che in molti paesi stranieri, soprattutto in America settentrionale e meridionale (e segnatamente negli Stati Uniti, in Brasile e in Argentina), c’erano moltissimi territori poco popolati e che necessitavano di manodopera (e di conseguenza questi paesi avevano avviato vere “campagne” per attirare i migranti europei). Fotografo ignoto, Emigranti a Ellis Island attendono il traghetto per arrivare a New York (1900 circa) Questi furono i principali motivi che spinsero 268


centinaia di migliaia di italiani ad abbandonare il Paese. Chi partiva per le Americhe, ovviamente, non aveva altri mezzi che la nave per raggiungere la meta agognata: il più grande porto di emigrazione era quello di Genova (anche se nell’Italia settentrionale non mancò chi preferiva imbarcarsi a Le Havre in Francia: paradossalmente, per un piemontese dell’epoca, con i sistemi di trasporto in vigore al tempo, era più facile raggiungere la Francia del nord che la Liguria), ma bastimenti carichi di migranti partivano anche dai porti di Livorno, Napoli, Palermo. Alcuni artisti del tempo, desiderosi di narrare la situazione di chi aveva scelto di lasciare il Paese (o era stato costretto a farlo), iniziarono dipingere le partenze di velieri, piroscafi, transatlantici. con lo stile del verismo sociale. C’è per esempio il dipinto Gli emigranti del toscano Angiolo Tommasi (Livorno, 1858 - Torre del Lago, 1923), del 1896, che ha sullo sfondo i velieri e i piroscafi che si apprestano a lasciare gli ormeggi. In primo piano ci sono le famiglie di migranti che si assiepano sulla banchina, in attesa della partenza. Ci sono madri che tengono per mano i propri bambini e altre che allattano neonati, giovani e vecchi che conversano, una donna incinta, persone sdraiate a sonnecchiare o si trascinano dietro qualche povera valigia, o semplicemente siedono in silenzio. In primo piano, una donna guarda verso di noi, a richiamare l’attenzione sulla scena. La composizione di Tommasi riecheggia un’opera di poco precedente, gli Emigranti di Raffaello Gambogi 269


(Livorno, 1874 1943), del 1894. Rispetto al dipinto di Tommasi, quello di Gambogi, anch’esso ambientato al porto di Livorno, contiene più intensi accenti di sentimentalismo. Lo sguardo si focalizza sulla famiglia al centro della scena, composta da un padre, una madre, una ragazza e due bambini piccoli: è il momento del commiato con il padre, commosso, che abbraccia la sua bambina. A fianco a loro, altri migranti siedono sui loro bauli, in mezzo a sacche e zaini, aspettando il momento dell’imbarco, che alcuni, in secondo piano, stanno già affrontando valigie in spalla. Le famiglie che si accalcavano sulle banchine dei porti, peraltro, non erano ben viste dagli abitanti delle città portuali. La storica Augusta Molinari riporta in un suo saggio una relazione del questore di Genova, datata 1888, in cui si legge: “continua ininterrotto ormai da tempo lo sconcio di famiglie di emigranti le quali giunte a Genova prima del giorno stabilito per l’imbarco si trovano prive di asilo e costrette a pernottare sotto i porticati e sulle pubbliche piazze con grave danno dell’igiene, della morale, del decoro della città. Bisogna trovare un modo per porre fine a questo deplorevole stato di cose”. E di conseguenza, sottolinea Molinari, la rappresentazione sociale che la 270


politica, i giornali e la letteratura fornivano dei migranti non poteva che suscitare “due reazioni nell’opinione pubblica: paura o pietà”, con la prima a prevalere sulla seconda, soprattutto nelle città di porto. A descrivere questa realtà è un dipinto del 1905 di Arnaldo Ferraguti (Ferrara, 1862 - Forlì, 1925), passato in asta nel 2008: Gli emigranti è ambientato in uno scorcio urbano, con i migranti seduti a occupare il bordo di una strada. Il tema era particolarmente sentito da Ferraguti, che nel 1890 aveva collaborato con lo scrittore Edmondo De Amicis (Oneglia, 1846 - Bordighera, 1908) per illustrare Sull’Oceano, romanzo che parlava di emigrazione, per conto dell’editore Treves. Ferraguti, per realizzare la sua opera e su esplicita richiesta di Emilio Treves, aveva compiuto un viaggio su di una nave di migranti partita nel 1889 da Genova alla volta di Buenos Aires: nel viaggio, l’artista aveva portato con sé non soltanto tele e pennelli, ma anche una macchina fotografica, in modo da descrivere nella maniera più accurata possibile le situazioni di cui sarebbe stato testimone. Ferraguti con le sue illustrazioni documentò il viaggio per mare. Le traversate dell’oceano Atlantico, che con i mezzi dell’epoca duravano più di un mese, erano tutt’altro che semplici e comode: i passeggeri, soprattutto quelli più poveri, dopo aver acquistato un biglietto il cui costo, alla fine del XIX secolo, era quasi sempre compreso tra le 100 e le 150 lire per un viaggio in terza classe (una somma che corrispondeva, grosso modo, a tre mesi di lavoro di un bracciante), venivano prima divisi (uomini da una parte, donne e bambini da un’altra: le famiglie dormivano dunque in cuccette 271


separate) e poi ammassati in dormitori sporchi, umidi e maleodoranti, con servizi igienici scarsi e carenti, che favorivano il proliferare di malattie. Spesso accadeva che le navi venissero sovraccaricate, col risultato che le scorte alimentari, cominciassero presto a esaurirsi. Le condizioni proibitive (solo a partire dai primi anni del Novecento sarebbero migliorate) causavano frequenti decessi, soprattutto tra i bambini piccoli. E non era comunque detto che i partenti fossero certi dell’arrivo: il naufragio era un’eventualità da mettere in conto. Edmondo De Amicis dedicò agli emigranti anche una lunga lirica, Gli emigranti: “Cogli occhi spenti, con le guancie cave, / Pallidi, in atto addolorato e grave, / Sorreggendo le donne affrante e smorte, / Ascendono la nave / Come s’ascende il palco de la morte. / E ognun sul petto trepido si serra / Tutto quel che possiede su la terra. / Altri un misero involto, altri un patito / Bimbo, che gli s’afferra / Al collo, dalle immense acque atterrito. / Salgono in lunga fila, umili e muti, / E sopra i volti appar bruni e sparuti / Umido ancora il desolato affanno / Degli estremi saluti / Dati ai monti che più non rivedranno”...

Giovanni Pascoli all’emigrazione in America dedicò il poemetto Italy. Luigi Pirandello dell’emigrazione parlò in alcune novelle, come L’altro figlio o Lontano). Ada Negri nella sua poesia Emigranti si rivolge a un 272


muratore lombardo che lascia la sua terra e la sua famiglia: “La vecchia storia sempre nuova io tutta / leggo nei solchi e solchi che ti scavano / il volto, e nella dura orbita cava / degli occhi, ove ogni luce par distrutta. / Porti, nel sacco a spalla, ogni tuo bene; / ma raccolto sul petto aver vorresti / il tuo bambino, e dargli, se si desti / e pianga, un bacio, e il sangue delle vene!”... ). In ambito artistico, una delle descrizioni più commoventi dell’emigrazione è il dipinto Ricordati della mamma dello svizzero Adolfo Feragutti Visconti (Pura, 1850 Milano, 1924), realizzato tra il 1896 e il 1904. L’emigrazione interessò anche il Canton Ticino la scena descritta da Feragutti Visconti si svolge sulle rive del lago di Lugano. Qui, una giovane madre saluta il figlio che sta per partire: il suo sguardo è confuso e tormentato. La separazione delle famiglie era del resto un dramma tipico di chi migrava, perché non era detto che l’intera famiglia partisse alla volta della meta. Se molti autori dedicarono la loro attenzione al tema dell’imbarco verso il nuovo mondo, non mancò chi preferì raffigurare i primi momenti della partenza, o concentrarsi su altri tipi di migrazioni. Al primo caso appartiene un dipinto del veneto Noè Bordignon (Salvarosa, 1841 San Zenone degli Ezzelini, 1920), che col suo dipinto Gli 273


emigranti, ambientato nelle campagne venete, raffigura una famiglia che, su di un povero carretto trainato da un asino e con pochi fagotti caricati, ha appena lasciato il suo borgo e probabilmente è ancora inconsapevole di ciò che l’attenderà (i volti appaiono infatti freschi, e addirittura compare una ragazza che sorride). Di ben altro tenore è invece Membra stanche, noto anche come Famiglia di emigranti, ultima opera di Giuseppe Pellizza da Volpedo (Volpedo, 1868 - 1907), che racconta le tribolazioni dei migranti stagionali che lasciavano temporaneamente le montagne per lavorare nelle risaie attorno a Vercelli. Il dipinto è incompiuto dal momento che Pellizza si tolse la vita prima di completarlo (vediamo, infatti, che i volti dei personaggi non sono definiti) ed ebbe una lunga gestazione (fu ideato già nel 1894, e abbozzato un paio d’anni dopo): tuttavia, anche se non finito, il dipinto racconta il tema dell’emigrazione con un’inedita potenza espressiva. Tra i dipinti più tragici è possibile annoverare Il ritorno al paese natio di Giovanni Segantini (Arco, 1858 Pontresina, 1899) che racconta il rientro al borgo natale tra le montagne della salma di un emigrato, probabilmente un naufrago, portata su di un carretto trainato da un cavallo, scortato da un uomo e accompagnato da una donna in lacrime. 274


Il ritorno felice è invece il tema di Torna il babbo, dipinto di Egisto Ferroni (Lastra a Signa, 1835 - Firenze, 1912), del 1883, che narra il ricongiungimento di una famiglia a seguito del ritorno del padre. Sorrisi, volti sollevati, sensazione di felicità. L’opera contribuisce anche a sottolineare due aspetti dell’emigrazione italiana di fine Ottocento: nella prima ondata (fino al 1885) si trattò di un fenomeno che coinvolse soprattutto i maschi (i partenti erano solitamente nelle proporzioni di una donna ogni cinque uomini), ma negli ultimi anni del secolo la percentuale di donne aumentò fino a raggiungere il 25%, e i numeri si equilibrarono in prossimità del primo conflitto mondiale. Il secondo aspetto è il numero dei rientri: in particolare, nei primi venticinque anni del Novecento, fece ritorno in patria circa un terzo di coloro che avevano lasciato l’Italia per trasferirsi in America. Il tema dell’emigrazione cominciò a scomparire dai “radar” dei pittori italiani attorno agli anni Dieci, ma il fenomeno non si arrestò, anzi. Certo, le condizioni di viaggio erano nettamente migliorate, ma la separazione dalla propria terra e dai propri affetti era sempre un dramma e i numeri dei partenti continuarono a essere consistenti per gran parte del XX secolo. Lo storico Gianfausto Rosoli, specialista in storia dell’emigrazione, ha calcolato che in un secolo, dal 1876 al 1980, più di 26 milioni di italiani hanno lasciato il paese: di questi, 16 se ne sono andati prima del 1925 (furono soprattutto i primi vent’anni del Novecento quelli che videro partire il maggior numero di persone). 275


Oggi Il fenomeno dell’emigrazione, pur in mutati contesti economici, culturali e sociali, continua ancora al giorno d’oggi: l’Italia oggi non è solo terra di arrivo di molti migranti (una trasformazione che il nostro paese ha conosciuto a partire dagli anni Novanta), ma è ancora, seppur in misura ridotta rispetto al passato e con logiche totalmente cambiate nelle dinamiche dei flussi, un paese da cui si parte. Tra il 1997 e il 2010, secondo i dati raccolti dall’Istat, sono stati 583mila gli italiani che hanno scelto di espatriare, e solo nel 2017 il numero di italiani emigrati ammontava a 114.559. Il fenomeno oggi riguarda soprattutto i giovani: un emigrante italiano su cinque ha meno di vent’anni, due su tre hanno un’età inclusa tra i 20 e i 49 anni, e l’età media ammonta a 33 anni per gli uomini e 30 per le donne. Il flusso è costituito soprattutto da cittadini che hanno titoli di studio medio-alti: nel 2017, sono stati 33mila i diplomati e 28mila i laureati che hanno lasciato il paese. Storie radicalmente diverse rispetto a quelle di fine Ottocento, mezzi diversi, disponibilità economiche diverse, ceti sociali diversi, cultura diversa, paragoni impossibili, ma stessa speranza, sia per coloro che partono, sia per coloro che arrivano o ritornano: quella di provare a crearsi un futuro. Alunni della classe 3B – Secondaria Barolini

Foto e riflessioni tratte da: https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/quando-imigranti-eravamo-noi-emigrazione-italiana-nelle-opere-degliartisti

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I VIAGGIATORI DI BRUNO CATALANO I “Viaggiatori” di Bruno Catalano sono stati installati in piazze, aeroporti e stazioni ferroviarie di numerose città - dal porto di Marsiglia (per celebrare la città capitale europea della cultura nel 2013) all’aeroporto di Singapore, passando per le strade del Belgio e per quelle innevate delle alpi francesi. Sono dei gruppi scultorei realizzati plasmando l’argilla e poi ricoperti con bronzo fuso. La principale loro caratteristica è che appaiono come corpi vuoti, lacerati, con “pezzi” mancanti, privati dei loro organi vitali. Molte sono le interpretazioni di questi “Viaggiatori” e dei loro vuoti. Una delle più suggestive è quella secondo la quale davanti al loro sguardo vi è il luogo dove vivranno, il loro futuro, dietro e dentro di loro c’è ciò che si sono lasciati alle spalle e il loro passato. Tutte le statue raffigurano persone in movimento, in viaggio e tutti portano con sé unicamente una valigia, che stringono con forza. «Nella valigia ci sono ricordi, nostalgia, il peso della vita, i vincoli, ma anche le speranze, l’orgoglio e il desiderio di viaggiare, di vivere» spiega l’artista che ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’emigrazione.

https://www.terzoincomodo.it/pot-pourri/il-vuoto-esistenzialedei-viaggiatori-di-bruno-catalano 277


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RACCONTI E POESIE

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MESSAGGI IN BOTTIGLIA Oceano, in questa bottiglia mettiamo i nostri sogni. Ascolta le nostre voci. Consegniamo alle tue acque le nostre speranze. Aiutaci, se puoi, a realizzarle.

Bottiglia, ti affido i miei sogni. Io vorrei che non ci fosse una distinzione fra ricchi e poveri, importanti e non importanti, giovani e anziani, ma vorrei la pace, l’amicizia, la sincerità e il rispetto per tutti. Questa missione l’affido a chiunque leggerà questo messaggio. Intanto io inizierò con questo sogno: quello di essere tutti liberi. Cedro, quarta C – Primaria Tiepolo Oceano, ti affido i miei sogni. Da grande vorrei diventare un contadino, un uomo libero in mezzo agli animali. Non vorrei essere né ricco, né povero. Vorrei avere una famiglia, sposarmi e avere dei figli che, da grandi, dovranno essere liberi. Questo messaggio l’ho scritto a 9 anni e mezzo. Flip-tre, quarta C – Primaria Tiepolo Oceano, ti affido i miei sogni. Io non vorrei perdere i miei amici. Vorrei salire sopra una collina, al tramonto, per ridere e pensare che stare con gli amici non è un 281


sogno e nemmeno un desiderio: è una cosa unica e profonda. Gli amici a volte ti fanno piangere, ma se sono veri amici, come i miei e quelli che avrò, li perdonerai. Nuvola bianca, quarta C – Primaria Tiepolo Bottiglia, ti affido i miei sogni. Da grande vorrei visitare i musei e anche fare il maestro e il commerciante di vestiti. Giraffa, quarta C – Primaria Tiepolo Bottiglia, ti affido i miei sogni. Io non voglio essere ignorante. Voglio avere una bella famiglia. Non voglio una vita con le lacrime ma allegra. Voglio un futuro con gli amici, pieno di divertimento. Spero che questo sogno si avvererà. Tiger, quarta C – Primaria Tiepolo Bottiglia, ti affido i miei sogni. Da grande vorrei diventare un calciatore perché, fin da quando ero piccolo, mi piaceva vedere le gambe che spingevano il pallone. Vorrei anche diventare una persona migliore che aiuta i poveri e miglior l’ambiente. Acqua, quarta C – Primaria Tiepolo Oceano, ti affido i miei sogni. Desidero ritornare nella mia terra. Vorrei imparare a scrivere e a leggere la mia lingua madre. Un altro desiderio che ho è che finisca presto il Covid. Cielo azzurro, quarta C – Primaria Tiepolo Bottiglia, ti affido i miei sogni. Far sparire le malattie come ilCovid-19 e tante altre malattie gravi; Far sparire il razzismo e non insultare le persone per il colore della pelle o l’aspetto fisico; 282


Far sparire la povertà e non far arrendere le persone che sono partite da zero e sono povere: ce la faranno a stare meglio; Dare a tutti un buon lavoro per sostenere la propria famiglia. Oro, quarta C – Primaria Tiepolo Oceano, ti affido i miei sogni per farli realizzare. Uno dei miei sogni è visitare il mondo. Vorrei creare disegni, dipinti e ritratti per mostrarli al mondo e per essere contenta. Scintilla, quarta C – Primaria Tiepolo Bottiglia, ti affido i miei sogni. Vorrei avere il diploma. So che alle medie e alle superiori non sarà facile e che sarà il percorso più importante della mia vita. Sarei molto contento di avere il diploma. Vorrei anche diventare un calciatore, ma prima dovrò studiare: non si possono realizzare i propri sogni senza studiare. Toro, quarta C – Primaria Tiepolo Bottiglia, ti affido i miei sogni… il mio sogno più grande è quello di diventare un’artista o di fare la cosplayer. Un giorno vorrei credere in me stessa, di accettare quello che sono e di avere la possibilità di vestirmi seguendo il mio stile senza essere giudicata. Vorrei che le persone amassero per quello che la gente è smettendo di dire cose brutte… anche loro soffrono: non sono robot. Gelato alla vaniglia, quarta C – Primaria Tiepolo Oceano, conserva il mio desiderio. Vorrei la pace nel mondo. Vorrei la libertà. Vorrei rendere i mondi infiniti. Avverare i miei sogni è il mio desiderio. Noce di cocco, quarta C – Primaria Tiepolo 283


Bottiglia, ti affido i miei sogni. Da grande vorrei lavorare. Mi piacerebbe fare il calciatore o il giocatore di basket. Nel tempo libero vorrei coltivare l’orto e il giardino e aiutare il nonno. Momo 2011, quarta C – Primaria Tiepolo

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DIARIO DI UN EMIGRANTE VICENTINO 5 Settembre 1904. Oggi dobbiamo preparare le valigie, perché dobbiamo partire per una nuova vita. Dobbiamo andare dall’altra parte del globo, perché così io e mio padre potremo fare un lavoro ben pagato e mandare i soldi alla nostra famiglia rimasta in Italia. Purtroppo non abbiamo delle valigie vere e proprie, perché costano molto e con i nostri soldi non ce ne possiamo permettere nemmeno una; quindi ,come soluzione, useremo delle valigie di cartone e speriamo che non si rompano in viaggio, perché altrimenti sarebbe un vero caos rimettere tutto a posto. 6 Settembre 1904, mattina presto. È stata una nottata ieri.. Non riuscivo a dormire, perché ero preso dall’emozione del salpare fra qualche ora ed ho anche pensato a come potrebbe essere la nostra camera: penso che sarà bella spaziosa e che avrà 2 letti separati grandissimi. 6 settembre 1904, ore 8:00. Stiamo salpando! C’è molta gente qui, stavo per essere calpestato da tutti, perché sono molto di fretta le persone che vogliono salpare, ma per fortuna sono riuscito a togliermi di mezzo ed a non rimanerci secco. Siamo saliti sulla nave e fra qualche minuto dovremmo partire, ma non capisco perché non ci abbiano portato alle camere. Forse ci vogliono far salutare i nostri cari per un’ultima volta e poi stasera ce la faranno vedere con calma. 6 Settembre 1904, ore 19:00 A quanto pare non esistono camere di lusso come immaginavo, che delusione! In realtà ci sono, ma per le persone che pagano una somma stratosferica e poi 285


sinceramente non sono neanche pulite e belle da vedere. Purtroppo io e mio papà dormiremo sul pavimento, proprio come stanno facendo molte famiglie. Non importa dove dormiremo, almeno saremo vicini per il resto del viaggio. Buonanotte. 9 Settembre 1904 Non ho scritto molto in questi giorni, non avevo idee e poi ero anche molto stanco. Si dorme male qui, perché rischi di essere calpestato da qualcuno che in qualche modo si sveglia la notte ed è nottambulo in un certo senso. Poi anche il cibo è pessimo, ho passato una notte col mal di stomaco per colpa di quei “minestroni” che non potrei nemmeno chiamarli così perché fanno veramente schifo. Inoltre ho notato che ci sono un sacco di ratti sulla nave e la gente sta iniziando a sentirsi molto male. Ho addirittura sentito che c’è stato qualche morto ma mi hanno detto ”Non sono tuoi problemi piccoletto, pensa solo a goderti il viaggio”. 11 Settembre 1904 Ho paura, molta paura per me e per mio padre. C’è molta gente che sta male e che sta morendo. Ho timore che io o mio padre potremmo beccarci qualche malattia che ci faccia andare all’altro mondo. E io spero vivamente che non succeda… 14 Settembre 1904 Sto male da diverse notti, ho il raffreddore e un sacco di mal di pancia, ho vomitato per ben 4 volte le scorse notti, ho paura di morire. Mio papà mi ha rassicurato che non succederà niente. Comunque, anche se morirò, voglio che succeda accanto a mio padre, così che possa morire serenamente con l’unico mio amico e genitore in questo viaggio infernale… Sofficino 07, classe terza A – Secondaria Barolini

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Sono emigrato in America Nel 1900 partii, con la mia famiglia e mia madre, verso l’America. Avevamo problemi economici, quindi decidemmo di trasferirci oltreoceano. Scegliemmo l’America perché avevamo sentito delle belle voci riguardo quel continente. Ma questa scelta fu una delle più peggiori della mia vita da padre, figlio e uomo. Il viaggio durò trenta giorni e durante questo viaggio, perdetti mia madre, che si ammalò. Per non farla soffrire la lanciai in mare: lei non sapeva nuotare, quindi la sua morte fu dolorosa da guardare. Mia moglie capì subito perché l’avessi fatto, ma i miei figli, una di 8 anni e uno di 11 anni, continuavano a dirmi: “Papà! Papà! Perché l’hai fatto? Nonna ti voleva bene, perché l’hai uccisa?! Non le volevi bene? Papà! Papà! Rispondi!” Piangevano senza sosta: io, senza parole, non seppi rispondere e rimasi zitto. Mia moglie cercava di consolarli ma mia figlia le disse, con le lacrime agli occhi: “Tu sai perché papà l’ha fatto... Vero? Voi due non volevate bene a nonna… Quindi l’avete uccisa gettandola in mare!” Sapevo che mia moglie aveva il cuore spezzato dopo aver sentito quelle parole, ma continuò a consolarli senza preoccuparsi di se stessa. Non sapevo che il viaggio verso l’America fosse così difficile. Dormivamo come se fossimo delle sardine in scatola, c’era la totale mancanza di igiene e il cibo non era buono. Ma io cosa potevo fare? Mi dovevo accontentare di questo, se volevo raggiungere il nuovo continente. Finiti questi durissimi 30 giorni di viaggio, fummo messi in isolamento per una settimana. Non seppi mai il perché di questo isolamento, ma non volevo infastidire gli americani per la mia insolenza verso questa decisione. Terminata la quarantena, io e mia moglie cercammo 287


lavoro, per comprare cibo e vestiti ai nostri figli. Diventammo entrambi degli operai: a mia moglie era stata offerta una parte da balia, ma lei rifiutò. Perché sapeva che, nonostante un buon stipendio, non ci avrebbe mai più rivisti. Però, nello stato in cui mi trovo adesso, avrei preferito che avesse accettato. All’inizio non capivamo bene la loro lingua, ma comprendemmo che “Boss” significava “Capo”. Ci chiamavano “Negri bianchi”: all’inizio noi non capivamo questo nomignolo. Ma presto fummo consapevoli del fatto che venivano discriminati come le persone di colore. Un giorno mio figlio mi disse: “Papà… Voglio tornare in Italia!” – e cominciò a piangere- “Io e Vittoria siamo stanchi… A scuola ci prendono in giro per il nostro colore bianco! Io non capisco…!” “Oh, Vito…” -rispose mia moglie – e senza battere ciglio -corse da lei- “Mamma! Ti prego torniamo indietro!” “Per adesso non possiamo… Non abbiamo abbastanza soldi per tornare indietro. Ma ti prometto che quando ne avremo lo faremo!” Mi guardò dritto negli occhi, come se mi volesse dire qualcosa. Per risponderle feci un leggero movimento con la testa e risposi di si. L’8 marzo del 1911 scoppiò un incendio nella fabbrica dove lavorava mia moglie… Quando fermarono l’incendio cercai il corpo di mia moglie, e lo trovai… “Ilaria, amore mio. Hai fatto tutto quello che è stato possibili fare nella tua vita. Adesso riposa, che te lo meriti. Non ti preoccupare di Vito e Vittoria, perché ci sono io…” La seppellii nel cimitero vicino a casa Raccontai quello che successe ai bambini, loro dovevano sapere la verità. Si recavano ogni giorno al cimitero per salutarla prima di andare a scuola. Ormai sono passati 10 anni da quell’episodio. Io sono un vedovo con un figlio di 23 anni e l’altra di 18. 288


Non tornammo più in Italia, perché ci eravamo abituati. I miei bambini, ormai grandi, si sono fatti degli amici a scuola. Vittoria sta studiando per fare la giornalista, Vito per diventare dottore e salvare le persone. Sono fiero di loro e spero che lo sarai anche tu, Ilaria. Sakura 14, classe terza A – Secondaria Barolini

Una mamma che emigra con i suoi figli Il vento soffiava forte e il cielo stava diventando scuro. I primi temporali e tuoni iniziavano a farsi sentire. “Mamma, mamma! Te (c’è) un motro (mostro) nel cielo!” - gridò Anna impaurita mentre cercava la sua mamma tra il mucchio di persone ammassate. “Non aver paura cara, non c’è nessun mostro. E’ solo un temporale che passerà presto” - le rispose la mamma. Ma il cielo diventava sempre più scuro e la nave stava dondolando tra le onde in modo violento. “Dove sono Angelo e Maria?” - esclamò la mamma preoccupata guardando il tempo fuori. Intanto Anna disse: “Mammina, ho tanta fame! Te (c’è) qualcosa da mangiare? – “No cara, non ho niente da darti.”- disse la mamma dispiaciuta. Intanto si avvicinarono Angelo e Maria. I bambini esclamarono in coro: “Mamma! Abbiamo tanta fame!”. La mamma non sapeva cosa fare. Poco dopo un anziano signore si avvicinò alla famiglia. Diede tre pezzi di pane ad ognuno dei bambini e uno alla madre, che chiese: “Signore, è sicuro di voler dare tutto il suo pane? Come riuscirà a sopravvivere senza cibo?”. Il signore fece un cenno per lasciar intendere che avrebbero potuto tenere il pane, ma non disse una parola. Era analfabeta. La famiglia aveva la fortuna di saper parlare l’italiano, perché la maggior parte delle persone nella nave non era capace di comunicare neanche tra di loro. “Mamma! Mamma!” - urlò Anna d’un tratto. “Cosa succede amore, 289


dove sei?”. Anna rispose: “Non to (so), sono chiacciata (schiacciata)!”. La bambina era finita tra una coppia di anziani che stavano dormendo sfiniti. La madre cercò di tirare la bambina fuori in qualche modo e la consolò dicendole: “Noi siamo tutti così appiccicati che alcune volte può succedere. Non ti preoccupare.” Era passato qualche giorno, Anna cominciava a sentirsi male e ad avere la temperatura sempre molto alta, raffreddore, e mal di pancia. “Come ti senti amore?” - le chiese la mamma. “Mi tento (sento) molto male. Ho male la teta (testa).”- rispose Anna. La mamma non riusciva a trovare rimedio. La figlia non si poteva curare senza un dottore e serviva almeno un lettino. Cominciò a preoccuparsi tanto. Ha visto persone morire davanti a lei e temeva che potesse succedere anche a sua figlia. I giorni passavano e la condizione di Anna peggiorava. “Mamma io guaiò peto (guarirò presto) vero?”. La mamma si fece coraggio e rispose alla bambina impaurita: “Ma certo bimba mia, stanne certa. Succede a tutti almeno una volta nella vita.” Anna chiese: “Ma è successo anche a te?” – “Certamente! Io stavo ancora più male di te!” - fu la risposta della mamma. Anna chiese ancora una volta: “E’ successo anche ad Angelo e Maria?” La mamma fece l’occhiolino ai suoi figli e Maria aveva subito capito cosa dire: “Si Anna! Non ti dico quanto male mi ero sentita! Ero devastata e non riuscivo neanche a muovermi. Ero troppo stanca.” Angelo capì e a sua volta rispose: “Anche a me è successo e io sono guarito presto, proprio come succederà a te. Vedrai che anche tu starai di nuovo bene come tutti noi.” Passarono altri giorni ma Anna non guariva proprio. Un giorno disse: “Mamma mi sento moto (molto) male come te (se) tessi (stessi) per svenire!”. La mamma aveva capito che non c’erano più speranze. La figlia non sarebbe sopravvissuta, anche se i fratelli ripetevano che sarebbero potuti accadere dei miracoli. La mamma disse: “Cara Anna, fra un po’ farai un piccolo sonnellino e ti sveglierai in perfetta forma!” Anna disse: 290


“Veramente?” – “Certo”. Passarono alcune ore e Anna non si muoveva più. La mamma provò a vedere se riusciva a respirare ma la figlia era ormai andata. “Vivrà felice nel paradiso”- disse la mamma. Dopodiché scoppiò in lacrime, seguita da Angelo e Maria. Il cadavere di Anna fu gettato in mare senza pietà. La povera Anna morì solo qualche giorno prima dell’arrivo nel Nord America. La famiglia riuscì subito a capire che erano giunti a destinazione perché, appena la Statua della Libertà apparve a alla vista dei migranti, questi avevano cominciato a gridare di gioia “LA MERICA! LA MERICA!”, essendo analfabeti. C’era però un’ultima tappa da affrontare: l’Ellis Island. Qui avveniva la decisione finale e la selezione di coloro che potevano migrare e di quelli che avevano sprecato mesi per niente. La famiglia era molto preoccupata, perché vedeva persone che passavano via piangendo per non esser state selezionate. Fortunatamente, loro riuscirono a entrare tranquillamente e poterono iniziare la loro vita nel “Nuovo Mondo”. A7Smile, classe terza A – Secondaria Barolini

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La scuola Oggetti in legno, lunga bacchetta, fate attenzione, l’orologio ticchetta! Se la bacchetta le mani colpisce, la punizione il tuo cuore ferisce. La scuola a quei tempi era molto severa, ditemi voi, ne valeva la pena? I banchi di legno tutti d’un pezzo su cui ci posavano forse un attrezzo. Voi poi direte: - Ma è bella così! fate attenzione che i bimbi punì. Le care maestre con serietà giungevano a scuola con puntualità Non tutti i bambini a scuola andavano perché duramente nei campi lavoravano, diverse le famiglie analfabete difficile pensare che nulla capirete. I grembiuli obbligati a indossare i bambini come una regola per grandi e piccini. C’era una volta la scuola a quei tempi, forza e coraggio, si stava più attenti. Bacchetta Magica, quarta B – primaria Tiepolo Emigrazione Tutti in massa dai confini scappan grandi e piccini! Emigrando in molti posti lascian famiglie a tutti i costi. Ti attanaglia, o solitudine, 292


ma ci fai un’abitudine. È una grande emigrazione se ci fosse una soluzione…. Sia per guerra o per lavoro la famiglia perde l’oro! Cara, forte emigrazione, sei una grande commozione! Bacchetta Magica, quarta B – primaria Tiepolo Scuola, scuola, che fatica… Scuola, scuola, che fatica Tante punizioni a vita! Ma solo chi si comporta male, vorrebbe poi tanto scappare! Le cose belle sono i banchi Non sempre puliti, ma di certo stanchi! Le maestre con bacchette Lunghe come il quadrimestre! I bambini silenziosi sono sempre premurosi, quelli, invece, un po’ monelli sono tanto giocherelli. Il grembiulino ed il colletto da portare con rispetto. Questa scuola tanto amata, oggi è anche un po’ odiata. Purple Girls, quarta B – primaria Tiepolo Emigrazione Addio, caro Paese, forse ritorneremo fra un mese! La nostra lingua madre abbandoneremo 293


e in un Paese sconosciuto ci troveremo! Con una piccola barca andremo e in mezzo al mare ci perderemo. Notte tristi passeremo forse un giorno felici vivremo…. Anche se ci annoieremo ma un bel giorno attenderemo… Le mosse onde alla barchetta, tanto debole e piccoletta. In essa tutti affamati e anche tanto annoiati. Caro mio strano destino scriverò su un bigliettino, alla mia amata Terra spero non porti la guerra. Flax Raig, quarta B – primaria Tiepolo La valigia dell’emigrante La valigia dell’emigrante Non è poi tanto pesante! Ha lasciato il suo villaggio farà presto un atterraggio. Pane, acqua e qualche frutto Quel che serve, innanzitutto. Ha timore di partire Tra le onde non vuol patire. In carne ed ossa arrivare E magari poi viaggiare. Verso nuovi mondi andare e il lavoro ricercare. Con il cuore un po’ triste, ma la speranza che resiste. Lion Girls, quarta B – primaria Tiepolo 294


L’emigrazione Dai, è ora di emigrare mi sa che dobbiamo andare! Quando il cielo si fa scuro Non mi sento al sicuro. Sogno ancora la felicità E poi tanta libertà. Ma, ahimè, ho il cuore infranto mi vien quasi un forte pianto. Cara mia dolce fortuna, spero brilli come la luna. Pink Girls, quarta B – primaria Tiepolo Emigrazione Ad emigrare ci si sente stretti nel cuore e nella mente; poca voglia di viaggiare ma prima i parenti abbracciare; tanta è la nostalgia penso senza compagnia; i tanti sguardi sembran persi su quei volti tutti diversi; la sola forza la speranza resta in ogni circostanza. Stella quaranta, quarta B – primaria Tiepolo Emigrare È brutto emigrare, ma la devo fare…. Perché in questo posto non ci posso più stare. Alcuni emigrano con i battelli, 295


ma dico io beati quelli. Altre, invece, con i gommoni dove se ne stanno tranquilli e buoni, sperando in un tempo migliore per realizzare i sogni del cuore. Ci sono persone che emigrano per lavoro anche se pensano di non trovare l’oro. Diversi, invece, per la guerra “Se io fossi in loro, griderei Terra-Terra” Addison, quarta B – primaria Tiepolo Il viaggio è stato lunghissimo nel mare viaggiare è come sognare è un’avventura, è scoprire dove andremo a finire ma io vedo in lontananza la speranza. Momo 2011, quarta C – Primaria Tiepolo In viaggio posso andare il futuro può iniziare speranza posso trovare il passato posso dimenticare anziani posso aiutare nuovi luoghi posso trovare. Tiger, quarta C – Primaria Tiepolo Io vorrei partire per poi il futuro scoprire persone nuove conoscere e poter essere libera di crescere per nuovi mondi esplorare e poter sperare. Girasole giallo, quarta C – Primaria Tiepolo 296


Un viaggio vorrei fare per tutto il mondo vorrei andare per vedere posti sconosciuti talmente belli da restare muti, per provare emozioni in tutte le stagioni. Leonessa, quarta C – Primaria Tiepolo La speranza di un viaggio avere nel corpo il coraggio il sentimento della paura ma la grinta dell’avventura i consigli degli anziani la saggezza delle loro mani. scoprire luoghi sconosciuti seguire gli obiettivi voluti lasciare indietro il passato andare in America in un luogo sperato. Noce di cocco, quarta C – Primaria Tiepolo

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America, America Noi aspettiamo le navi Arriviamo, arriviamo Lavoriamo e tacciamo Pochi soldi, lavoro duro Non rispetto e prese in giro Ingiustizie non ripagate Ma la pizza c’è sempre E tutte le bontà La vita è dura Degli immigrati italiani in America Detti dagli americani come “Mafiosi” Addio Veneto, Buongiorno America. Momo 67, classe terza A – Secondaria Barolini Con le valigie di cartone strette in mano; valigie piene di ricordi, valigie piene di sogni. Con le valigie di cartone, partiamo dall’Italia in cerca di una vita migliore. Con le valigie di cartone inizia un viaggio; un viaggio di speranze, ma anche di morte e delusione. Con le valigie di cartone, i sopravvissuti a Ellis Island vengono visitati e confinati. Molti vengono rimandati indietro perché troppo malandati. 298


I pochi fortunati, raggiunta l’America, scoprono che sono loro a doverla costruire. I pochi fortunati, raggiunta l’America, capiscono di essere schiavi. Noi italiani, in cerca di lavoro, sfruttati, picchiati, maltrattati ingiustamente, perché diversi e poveri. Noi italiani, in cerca di serenità, ci confiniamo e protestiamo, perché stanchi di subire. Con le valigie di cartone, strette in mano, gli italiani vanno in cerca di una vita migliore. “La Merica! La Merica!” Rivka, classe terza A – Secondaria Barolini MIGRAZIONI Partono disperati i poveri, per il nuovo mondo, pensano di trovar pure strade d’oro! Il viaggio li devasta, più della metà non ci arriva, muoiono prima di vedere il loro nuovo mondo. 299


Vedon la statua e gridan di gioia, ma un’altra parte di persone è rimandata. Viaggi di mesi vengon rovinati. Qualche fortunato in America entrato, non si aspetta il lavoro a lui imposto, guardan le strade,non sono d’oro! Pure la loro polvere devono pulir loro. A7Smile, classe terza A – Secondaria Barolini

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STORIE DI VALIGIE Le valigie di carta di queste foto sono in possesso di mio nonno Gino che le ha come ricordo di famiglia. Sono appartenute a suo nonno Giovanni che le usò agli inizi del Novecento per andare negli Stati Uniti come migrante in cerca di lavoro. Dopo alcuni anni è tornato in Italia in tempo, purtroppo, per la Grande Guerra. Queste valigie risalgono alla fine dell’800. Rivka, classe terza A – Secondaria Barolini Questa valigia è di una maestra che ce l’ha prestata. L’ha trovata in una discarica e l’ha “salvata” comprendendone il valore storico. Chissà, se potesse parlare, quante storie ci racconterebbe questa valigia! Ci piacerebbe sapere dove è stata, con chi ha viaggiato e che avventure ha vissuto. Vorremmo capire quali sogni ha portato con sé e se si sono realizzati. Ci piace immaginare che le sue siano state storie meravigliose. Gli alunni e le alunne della classe quarta C – Primaria Tiepolo

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SOGNI Non importa se i tuoi sogni vuoi affidare a un biglietto d’aereo per farli volare se preferisci sui binari farli scivolare o con le tue gambe lontano portare. Non importa se in una bottiglia al mare li hai donati o se a un vento sconosciuto li hai affidati. Non importa se tra le pagine di un diario li hai liberati o se in una valigia di cartone confinati. La cosa davvero importante è che di sognare tu non smetta neppure un istante. I sogni sono fatti di magia e anche di un pizzico di follia. Nei sogni c’è la speranza di un mondo migliore lontano dalla fatica e dal dolore ci sono orizzonti lontani ai quali tendere con emozione le mani. Giovani di oggi e di domani, aprite gli occhi senza timori e non smettete mai di essere sognatori. Cinzia Capitanio

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Sommario VITA QUOTIDIANA NEL VENETO DEL PASSATO..........................7 Intervistiamo i nonni per scoprire l’emigrazione e come si viveva in passato ................................................................... 21 L’angolo dell’Intervista.................................................. 26 TRADIZIONI ANTICHE FAR FILO’......................................... 31 L’angolo dell’Intervista.................................................. 44 LA SCUOLA.................................................................. 51 L’angolo dell’Intervista.................................................. 89 I GIOCHI..................................................................... 91 L’angolo dell’Intervista................................................. 125 MALATTIE E RIMEDI NATURALI.......................................... 129 I MEZZI DI TRASPORTO.................................................. 141 IL FENOMENO DELL’EMIGRAZIONE..................................... 147 A BORDO DEL PIROSCAFO............................................... 179 L’ARRIVO IN AMERICA..................................................... 191 CARTOLINE DAL PASSATO................................................ 199 LA VITA IN AMERICA...................................................... 215 STORIE VERIE DI EMIGRAZIONE... DAL PASSATO................... 223 Intervista a Meg Zamboli Klovrza.................................... 226 STORIE VERIE DI EMIGRAZIONE... DEL PRESENTE................. 241 L’EMIGRAZIONE VISTA CON GLI OCCHI DEGLI ARTISTI............ 265 RACCONTI E POESIE...................................................... 279 STORIE DI VALIGIE........................................................ 301

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A partire dalla fine dell’Ottocento, molti italiani, e tra questi tanti abitanti del Veneto, si misero in viaggio verso la “Merica”. Lasciarono vite consumate dalla miseria e dalla fatica di un mondo contadino che per generazioni li aveva legati alla loro terra. Partirono con i pochi averi racchiusi in valigie di carta che in questo libro diventano il simbolo di ciò che accomuna uomini e donne del passato con gli emigranti dell’epoca moderna. In esse, infatti, è conservato qualcosa di invisibile agli occhi, ma di incredibilmente prezioso: la speranza di una vita migliore.


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