Potenza Lunedì 1 settembre 2008
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REDAZIONE: Via Nazario Sauro, 102 - 85100 Potenza - Tel. 0971.69309
”C’era una volta” la città degli alberghi che nel borgo ospitavano Filogamo e il Re
Regali soggiorni potentini E poi da Triminiedd per la trippa di cumma’ Cettina IL “Modern Hotel” di Pecoriello, in via Pretoria, appena dopo l’attuale agenzia di viaggi Ricciuti era un albergo storico di Potenza. Non solo perché era raffinato ed elegante e ospitò Vittorio Emanuele II, di passaggio nel capoluogo di Regione, ma anche perché fu fotografato nientemeno che da Giovanni Guareschi, proprio il famoso autore di Peppone e don Camillo. Lui, all’epoca - siamo nel 1935 - possedeva addirittura la “Voigtlànder” una delle prime macchie fotografiche “serie” e fece diversi scatti a Potenza dove non era capitato per caso, ma era stato destinato al servizio di leva, nella Scuola Allievi Ufficiali di Complemento, che aveva sede nella Caserma Lucania. Il “marmittone” Guareschi, come egli stessi si definì a commento di alcune foto - fra queste una durante il turno di guardia nella garitta davanti alla Caserma, scattata da un collega - annotò anche altri momenti della vita della città come una calessino con cavallo (all’epoca un mezzo di trasporto veramente signorile) davanti all’elegante albergo di via Pretoria. Documenti storici che sono stati ripresi in un bel volume scritto dai figli di Guareschi, Carla e Alberto, edito da Rizzoli dal titolo “Un po’ per gioco”, nel quale viene appunto ricordata, anche con foto, il soggiorno in Basilicata di “Giovannino” prima a Potenza, poi a Melfi. Il “Moderno” non era l’unico albergo di un “certo livello” nella città. Avevano avuto momenti di grande fulgore il “Lombardo”, sempre in via Pretoria a due passi da piazza Mario Pagano (molti i matrimoni della buona borghesia cittadina nelle sue sale ricche di arazzi e di atmosfera stile ‘800) e abbastanza frequentato anche il ristorante che aveva le “vetrine” rigorosamente coperte da tende di pizzo, sul “salotto” della città. Anche il “Roma”, che occupava la parte terminale di piazza Matteotti, allo-
Il grande Albergo prima dell’80, l’Albergo Moderno ripreso da Guareschi e la porta della Frasca
ra Piazza Sedile (dove è stato realizzato un moderno fabbricato, una volta sede della Sip) era molto frequentato e ospitò personaggi celebri, come il noto presentatore radiofonico Nunzio Filogamo quello che iniziava le sua trasmissioni, “cari amici vicini e lontani buon giorno”- e la famosa orchestra di Renzo Ferrari, ospiti a Potenza per una selezione di giovani cantanti per la rubrica “Il microfono è vostro” della Rai. Sempre in centro, in via Pretoria, operava anche il “Vittoria”, (di fronte all’attuale negozio di “Limoni”, prima regno dei tessuti di Ignomirelli) più piccolo e con meno pretese. Poi vennero il “Grande Albergo”, (ristrutturato e rilanciato dopo il terremoto del 1980) che per molto tempo fu uno dei punti di riferimento della Potenza-bene. Fu nei saloni di questo Albergo a due passi da piazza Matteotti, che si esibì il “Quartetto Cetra”, ospite di uno dei tanti “Veglionissimi della Stampa” di cui diremo più avanti. Alla fine del centro storico, un professionista campano, Salvatore Anastasio, rea-
lizzò il Tourist Hotel, e poi sbarcò anche a Rifreddo di Pignola con un altro albergo molto vasto e ricco di promesse allettanti. Nel centro era anche aperto un altro piccolo hotel, (ora dopo la riapertura e la ristrutturazione si chiama Pretoria Hotel) mentre non mancavano alcune modeste ma utili locande, nella zona di Porta Salza. Ora la maggior parte delle strutture alberghiere, soprattutto quelle di dimensioni ampie, sono tutte in periferia. Il Park Hotel che fu realizzato da Nino Somma, allora imprenditore della “Ferriera Lucana” (una inaugurazione fastosa e ricca di attrazioni introdusse, in Basilicata, un modo nuovo di ospitalità), la Primula molto raffinato e riservato, il Vittoria con ampi saloni per congressi e una dscoteca per i giovani. LA TRIPPA, REGINA DA TRIMINIEDD Se negli alberghi potentini si mangiava abbastanza bene (dove però l’uso dal coltello e della forchetta era d’obbligo) le tavole più frequentate dai potentini erano le trattorie dove, come si usa dire, «si mangia bene e si spende poco». La “trippa”, ad esempio, era la regina della tavola di “Triminiedd” all’epoca - parliamo degli anni 70 - forse la più nota trattoria potentina. La regina era lei, cummà Cettina, sempre con il sorriso sulle labbra, con il suo grembiule bianco, le maniche della camicia rimboccate, che insieme alla trippa, (rigorosamente con il peperoncino piccante) succulenta, tenera, cucinata in padelle speciali per non disperdere il suo aroma, offriva gli strascinati “cu lu n’tropp’che”, cioè con un pezzo di salsiccia o di carne in mezzo al sugo che lei metteva sui fornelli la mattina presto perché doveva cuocere almeno quattro ore, e i bucatini alla “trainiera”, con il sugo arricchito di olive nere, cipolla e aromi vari. Il tutto condito con l’ottimo vino di Pietragalla, (ma anche quello potentino, più aspro andava bene, soprattutto se si al-
lungava con una gassosa di Avena) e un pezzo di pane tagliato dalla panella grande (di solito pesava dai tre ai quattro chili). La sera del martedì la “cantina” era riservata ai giornalisti iscritti all’Associazione Provinciale della Stampa che lì scambiavano opinioni, commenti ai fatti del giorno e critiche anche feroci (che però un buon bicchiere di vino contribuiva a stemperare). Tra le trattorie famose, quella di Ciabatti in via del Plebiscito (alle spalle della chiesa di San Francesco), o “Peppe” che operava al primo piano di un locale nel centro storico, con visuale sul sagrato della chiesa di San Michele (straordinaria la sua pasta e rape e il peperone con la mollica). Più tardi, la famosa “Taverna Oraziana”. Era stata ricavata da un deposito di vini dei fratelli Somma ed ebbe subito un grande successo, per via di una donna che faceva la pasta di casa davanti al pubblico (gli strascinati e i cavatelli in particolare) e per l’abilità dei fratelli Umberto e Arturo Quartana, camerieri con il gusto delle cose buone, che diedero al locale prestigio e fama di ottima cucina. Quando fu rinnovato e allargato, diventando per architettura e atmosfera anche uno dei migliori locali del centro, non mantenne tutte le promesse. Anche perché Umberto e Arturo fecero il salto di qualità, “inventando” Fuori le Mura, uno dei locali dove la tradizione del mangiar bene è stata sempre tenuta alta anche ora che i proprietari originali si sono ritirati e il locale è gestito da una cooperativa. Fuori le Mura, ancora oggi molto frequentato, proprio vicino al cinema Ariston, fu “inaugurato” con uno storico “Veglionissimo della Stampa” che rimase nella memoria collettiva di tutti per due motivi. Il pranzo prima del ballo di carnevale quando si distribuivano premi e sorprese, (in genere messe a disposizione dai commercianti potentini) e il pagamento della quota fissa per tutti, Questore, Prefetto e Comandante dei Carabinie-
ri inclusi). Tutti ovviamente in smoking (gli uomini) e in abito lungo (le donne). Fu l’inizio di una tradizione che durò molti anni, si consolidò e caratterizzò il carnevale potentino. Il “Veglionissimo della Stampa” era diventato una grande occasione di mondanità (un avvocato di grido minacciò querele perché gli organizzatori non erano riusciti a trovare posto per sè e la moglie, perchè aveva fatto scadere i tempi rigorosi della prenotazione) anche per l’esibizione dei cantanti più in voga, come il già citato Quartetto Cetra, Nada (già famosa per la sua “Ma che freddo fa”, Mal, che spesso erano accompagnati dai complessi locali, come quello dei “Lupi” che a Potenza ebbe alcune stagioni di successo, insieme ai “The Devils” e “I fratelli evasi”. “CHIODD CHIODD” E LE CANTINE Una citazione di merito va fatta per le cantine del centro antico, caratterizzate, di solito, dall’esposizione di un ramo di mandorlo. La più caratteristica era quella denominata “La Frasca” (ma molte si chiamavano così), che funzionava in via del Plebiscito a un metro dalla porta San Giovanni. Meritano menzione anche quella di Galotta a Portas’alza e soprattutto quella dei fratelli Franculli, sistemata in una autentica grotta scavata nella roccia, proprio nel cuore della città, alle spalle della Banca d’Italia, dove ora c’è un grande fabbricato con supermercato e lavanderia. La specialità di Franculli era “tre quarti e una gassosa”, ovvero tre quarti di vino, che si misurava negli appositi contenitori di vetro (ce n’erano anche da litro e da un quarto, ma il più richiesto era il “tre-quarti”), al quale si aggiungeva una gassosa Avena (una volta distribuite in bottigliette con il tappo a scatto, e la guarnizione di gomma, a tenuta stagna e riciclabili), che finiva per far arrivare a quasi un litro la bevanda preferita dai potentini, la più diffusa, anche per ragioni di “economicità”. Qualche tavolo in un
angolo e un pezzo di pane con provolone o salsiccia, consentivano agli operai anche di fare una piacevole sosta, prima di rientrare a casa. Di questi locali ne è rimasto uno in via del Popolo, gestito da un giovane, che ha rilevato la gestione paterna, e che ancora serve il vino nei classici bicchieri bassi, tozzi e robusti e fornisce una cucina fatta rigorosamente con prodotti potentini, fra i quali, il famoso “soffritto”. “C’era una volta Potenza”, non può chiudere questo lungo elenco di ricordi, che hanno segnato la trasformazione della città, senza citare i forni che operavano nel centro, quando, le nostre nonne, o anche le ultime mamme massaie, facevano il pane in casa, facendosi prestare la “crescenta” dalla commara del vicolo accanto. Ne operavano quattro o cinque, da Porta Salza, al largo Castelluccio, e in un vicolo alle spalle di piazza Matteotti che diventò famosa e fu chiamata “u forno di chiodd chiodd”. Il nome gli fu imposto dalle stesse massaie per una sorta di necessità, quello di non aprire il forno a cottura iniziata. Capitava invece che qualche donna più lenta delle altre, arrivasse nel forno quando la bocca della struttura era stata già chiusa e il fornaio stava per mettere davanti alla grande piastra di ferro, che la serrava per le ore di cottura, alcune grosse pietre. Le ultime arrivate, di solito, chiedevano la cottura di una focaccia, quasi sempre col pomodoro e l’origano, (si chiamva “u ruccol”) e il fornaio, un po’ per non perdere i soldi dell’ultima arrivata, un po’ perché la cliente era una conoscente, apriva un’ultima volta il forno nel quale erano state già allineate decine di pani (grossi dai tre ai quattro chilogrammi) per sistemare vicino all’imboccatura le focacce che erano state spadellate in contenitori di ferro. Questo gesto disturbava le altre massaie (molte erano giunte più di un’ora prima per avere un posto strategico dei loro pani nel forno, in modo che la cottura fosse uniforme) e non gradivano la riapertura della bocca del forno. «Chiodd, chiodd (chiudi, chudi)» urlavano preoccupate che i gradi di calore venissero meno con quell’ultima apertura. «Chiodd, chiodd, disgraziato», l’urlo più comune. Ma qualcuna aggiungeva anche un «chi te m…» per soprammercato, una vera e propria bestemmia. Oggi le nostre massaie bestemmiano, invano, contro l’aumento del prezzo del pane che è salito a livello di merce di gioielleria. Come sono cambiati i tempi. Potenza di una volta non c’è più. E non c’è più nemmeno il buon pane che si cuoceva nel forno di “Chiodd chiodd”. Costava meno ed era più buono. (6.fine) Vittorio Sabia potenza@luedi.it