Il Cacciatore di Fiabe - Il Basile e la Basilicata

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il fascino dell’affascino

a cura di Anna Elena Viggiano


photography Paolo De Novi


Prefazione Sin da quando ero bambina il mondo delle fiabe e della fantasia erano per me un rifugio, un viaggio, un allontanamento dalla vita reale che mi permettevano di essere principessa, strega, fata, serva, cane, gatto…e come in ogni fiaba che si rispetti si comincia con “c’era una volta”…la Basilicata una regione ricca di luoghi incantati, di leggende, di magia, di fiabe e di racconti popolari. E’ da questa terra che molto probabilmente , il campano Giovan Battista Basile detto “Il cacciatore di fiabe” trasse spunto per alcuni dei suoi racconti tra il 500/600, dopo essere stato ospite dei Caracciolo a Lagonegro (PZ) e dei Pinelli di Acerenza (PZ), scrisse “LO CUNTO DE LI CUNTI” , libro progenitore di tutte le fiabe, un sapiente dosaggio tra cultura letteraria e fantasia popolare. Ancora oggi nei piccoli centri lucani tra boschi, foreste e castelli tra i si narra e si racconta è possibile respirare un’atmosfera che custodisce tradizioni, magia e mistero. Lo Cunto de li Cunti – Lo trattenimento dè Peccerille, denominato anche Pentamerone, cinque giornate e cinquanta racconti, un’opera squisitamente letteraria, dedicata agli adulti e i bambini dei casali di un tempo; fù pubblicato dalla sorella Adriana tra il 1634/1636 e subito tradotto e rielaborato in tutta Europa dai grandi della letteratura fiabesca come i Fratelli Grimm, Andersen, Perrault, Brentano che subito ne fecero altrettanti capolavori come Cenerentola, Hansel e Gretel, La Bella Addormentata nel Bosco, Raperonzolo e tante fiabe ancora oggi narrate e senza tempo. Tra momenti altanelanti, Il Basile e le sue fiabe continuano ancora oggi ad ispirare produzioni come “il Racconto dei Racconti (tales of tales)” del regista Matteo Garrone, la collezione invernale “Faboulous Fantasy” degli stilisti Dolce & Gabbana e lo spettacolo “Favola del principe che non sapeva amare“ firmato da Marco Baliani con Stefano Accorsi. E se davvero Ninnillo e Nennello, progenitore di Hansel e Gretel dei Grimm, fosse ambienta ad Acerenza, Sole Luna e Talia poi divenuta La Bella Addormentata di Perrault sul Monte Pollino e Raperonzolo nel fantastico Castello di Lagopesole ? Sarebbe davvero una bella fiaba e una nuova rielaborazione come solo “Lo Cunto de li Cunti” sa fare.

Anna Elena Viggiano

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Giovan Battista Basile Giornata II, Racconto I Lo Cunto de li Cunti - Pentamerone, 1634

Petrosinella C’era una volta una donna gravida chiamata Pascadozia che, affacciata a una finestra che dava sul giardino di un’orca, vide una bella aiuola di prezzemolo, del quale le venne una tale voglia, che si sentì di svenire; tanto che, non potendo resistere e spiando l’uscita dell’orca, ne colse una manata. Ma, tornata a casa l’orca e volendo fare la salsa, si accorse che c’era passata una falce mariola e disse: “Mi si possa scardinare l’osso del collo se non acchiappo questo manico d’uncino e non lo faccio pentire, così che impari a mangiare nel suo tagliere e a non scucchiarare nelle pignatte altrui”. Ma, continuando la povera Pascadozia a scendere nell’orto, una mattina ci fu sorpresa dall’orca che, furiosa e inviperita, le disse: “Ti ho acchiappato, ladra mariola! Forse paghi l’affitto di quest’orto, che vieni senza scrupolo a fregarti le mie erbe? Parola mia, che non ti manderò a Roma per penitenza!” La disgraziata Pascadozia cominciò a discolparsi, dicendo che non per gola o per ingordigia che avesse in corpo il diavolo l’aveva accecata a fare questo peccato, ma perché era gravida e aveva paura che la creatura nascesse con la faccia seminata di prezzemolo; anzi avrebbe dovuto esserle grata perché non le aveva mandato neppure un orzaiuolo. “Altro che parole vuole la sposa!” rispose l’orca “non mi prendi all’amo con queste tue chiacchiere! Tu hai finito di vivere, se non prometti di darmi la creatura che partori-

rai, maschio o femmina che sia”. La povera Pascadozia, per allontanare il pericolo immediato, lo giurò con una mano sull’altra, e così l’orca la lasciò libera. Ma, venuto il tempo del parto, fece una bambina così bella, che era un gioiello, e che, poiché aveva sul petto un ciuffo di prezzemolo, la chiamò Petrosinella; la quale, crescendo ogni giorno di un palmo, quando ebbe sette anni, la mandò dalla maestra. La quale, ogni volta che andava per la strada, e incontrava l’orca, questa le diceva: “Di’ a tua mamma di ricordarsi della promessa!” E tante volte ripeté questo ritornello che la povera mamma, non riuscendo più a sopportare questa musica, una volta le disse: “Se incontri la solita vecchia e ti chiede di quella maledetta promessa, tu rispondile: Prenditela!” Petrosinella, che non sapeva della promessa, incontrando l’orca e dicendole questa la solita frase, innocentemente le rispose come le aveva detto la mamma e l’orca, afferratala per i capelli, se la portò in un bosco dove non entravano mai i cavalli del Sole, per non pagare l’affitto per quei pascoli delle ombre, chiudendola in una torre, che fece sorgere con un incantesimo, senza porte, senza scale, con una sola finestrella, attraverso la quale, afferrandosi ai capelli di Petrosinella, che erano lunghi lunghi, saliva e scendeva come fa di solito il mozzo sulle sartie dell’albero. Ora avvenne che, essendo l’orca fuori da quella torre, Petrosinella aveva messo la

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testa fuori da quel buco e disteso le trecce al sole. Passò di lì il figlio di un principe, il quale, vedendo due bandiere d’oro, che chiamavano le anime ad arruolarsi nell’esercito dell’Amore, e ammirando dentro quelle onde preziose una faccia da sirena, che incantava i cuori, s’incapricciò fuori misura di tanta bellezza. E, inviatole un memoriale di sospiri, fu decretato che la fortezza si arrendesse alla sua grazia. E la trattativa andò così bene che principe ebbe cenni di capo in cambio di baci sulle mani, strizzatine d’occhi in cambio di riverenze, ringraziamenti in cambio di profferte, speranze in cambio di promesse e parole gentili in cambio di salamelecchi. La qual cosa continuata per più giorni, presero tanta confidenza che giunsero alla decisione di incontrarsi da vicino; la qual cosa doveva avvenire di notte (quando la Luna gioca a passera muta con le stelle) lei avrebbe dato un sonnifero all’orca e l’avrebbe tirato su con i suoi capelli. E, rimasti così d’accordo, venne l’ora stabilita e il principe arrivò alla torre, dove, fatte calare con un fischio le trecce di Petrosinella e, afferratosi e due le mani, disse: Alza! E, tirato su, si gettò per la finestrella nella camera, se ne fece un pranzetto di quel prezzemolo in salsa di Amore e, prima che il Sole insegnasse ai suoi cavalli a saltare nel cerchio dello Zodiaco, se ne scese per la stessa scala d’oro a fare i fatti suoi. E la qual cosa ripetendosi molte volte, se n’accorse una comare dell’orca, che, prendendosi il fastidio del Russo, volle mettere il muso nella merda, e disse all’orca di stare attenta, perché Petrosinella faceva l’amore con un certo giovane e sospettava che la cosa fosse andata ancora più avanti, perché vedeva il ronzio e il traffico che c’era, e dubitava che, se si faceva una retata, sarebbero state sfrattate da quella casa prima di maggio. L’orca ringraziò la co-

mare dell’avvertimento e disse che sarebbe stato pensiero suo d’impedire la strada a Petrosinella; a parte che non era possibile che riuscisse a fuggire poiché le aveva fatto un incantesimo, che se non avesse avuto in mano tre ghiande, che erano nascoste in una trave della cucina, era un’opera persa che potesse filarsela. Ma, mentre facevano queste chiacchiere, Petrosinella, che stava con le orecchie spalancate e aveva qualche sospetto sulla comare, sentì tutto il ragionamento; e, appena la Notte stese i vestiti neri per preservarli dalle tarme, venuto come al solito il principe, lo fece salire sulle travi e, trovate le ghiande, che sapeva come usare per essere stata fatata dall’orca, fatta una scala di spago, se ne scesero giù tutti e due e cominciarono dare di calcagno verso la città. Ma, essendo visti mentre uscivano dalla comare, questa cominciò a strillare chiamando l’orca, e fu tanto lo strepito che quella si svegliò e, sentendo che Petrosinella se n’era fuggita, se ne scese per la stessa scala che era legata alla finestrella e cLi quali, appena li videro arrivare verso di loro più veloce di un cavallo imbizzarrito, si sentirono perduti, ma, ricordandosi Petrosinella delle tre ghiande, ne gettò subito una a terra, ed ecco spuntare un cane corso così terribile (oh, mamma mia!) che abbaiando con tanto di bocca aperta corse verso l’orca per farsene un boccone. Ma quella, che era più furba del diavolo, messa la mano in tasca, ne tirò fuori una pagnotta e, gettandola al cane, gli fece calare la coda e sbollire la furia. ominciò a correre dietro agli innamorati. E, tornata a correre dietro a quelli che fuggivano, Petrosinella, vistala avvicinare, gettò la seconda ghianda ed ecco uscire un feroce leone che, sbattendo la coda a terra e scuotendo la criniera, con due palmi di gola spalancata si preparava a inghiottire l’orca. E l’orca, tornando

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indietro, scorticò un asino che pascolava in un prato e, messasi addosso la sua pelle, corse di nuovo verso quel leone, che, credendola un asino, ebbe tanta paura che ancora fugge. Per la qual cosa, saltato questo secondo ostacolo, l’orca tornò a inseguire quei poveri giovani che, sentendo il rumore dei passi e vedendo la nuvola di polvere che s’alzava fino al cielo, capirono che l’orca arrivava di nuovo. La quale, avendo sempre il sospetto che il leone continuasse a inseguirla, non si era tolta la pelle dell’asino e, avendo Petrosinella gettato la terza ghianda, ne uscì un lupo che, senza dare tempo all’orca di trovare un nuovo espediente, se la inghiottì come fosse un asino. E gli innamorati, finalmente fuori dei guai, se ne andarono piano piano nel regno del principe, dove, con il consenso del padre, lui se la prese in moglie e provarono dopo tante tempeste di difficoltà che un’ora di buon porto fa dimenticare cent’anni di tempeste.

A. G. D’Alessandro - Bernalda (MT)

Vittoria Falcone - Scanzano J. (MT)

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Giovan Battista Basile Giornata V, Racconto V Lo Cunto de li Cunti - Pentamerone, 1634

Sole Luna e Talia C’era una volta un gran signore al quale nacque una figlia, che chiamò Talia, e fece venire i sapienti e gli indovini da ogni parte del suo regno perché le predicessero il destino. E loro, dopo essersi consultati, conclusero che Talia avrebbe corso un pericolo mortale a causa di una lisca di lino: per questo il padre ordinò che nel suo palazzo non entrasse lino, né canapa, né nulla di simile, per sfuggire a questa sciagura. Ma un giorno, quando era ormai grandicella ed era alla finestra, Talia vide passare una vecchia che filava, e siccome non aveva mai visto una conocchia né un fuso le sembrò bellissimo quel piccolo strumento che roteava e piroettava fra le dita della vecchia. Le venne un desiderio di provare tanto forte fece salire la vecchia su da lei, e, presa la rocca in mano, cominciò a tendere il filo, ma una lisca di lino disgraziatamente le si infilò sotto l’unghia e lei cadde a terra morta. La vecchia vedendo questa scena prese le scale e se la diede a gambe. Quando il suo povero padre venne a sapere della disgrazia, dopo aver versato tante calde lacrime che fu inondato di tristezza, accomodò la bellissima Talia seduta su una poltrona di velluto, sotto un baldacchino di broccato, in quel medesimo palazzo che era in mezzo alla campagna, poi serrò tutte le porte e abbandonò per sempre la dimora in cui aveva troppo sofferto, per dimenticare il dolore e perdere anche la memoria di quel

crudele destino. Ma dopo un certo tempo un re stava cacciando, e gli sfuggì il falcone che volò da una finestra nel palazzo e non tornò al suo richiamo. Allora il re bussò più volte al portone, credendo che ci abitasse qualcuno, e poi si fece portare una scala da vendemmiatore per entrare nel palazzo a vedere cosa c’era. Arrivato di sopra, dopo aver girato per tutte le stanze, era stupefatto perché non aveva incontrato anima viva, e alla fine entro nella camera in cui si trovava Talia come incantata e come il re la vide, credendo che dormisse, la chiamò, ma lei non si svegliava per quando la chiamasse e la scuotesse, e siccome si accese per la sua bellezza la prese fra le braccia e la portò su un letto dove colse il frutto del suo amore. Poi la lasciò distesa sul letto e se ne tornò nel suo regno, dove per un bel po’ di tempo non ripensò a quello che gli era successo. E lei dopo nove mesi partorì una coppia di gemelli, un maschio e una femmina che erano due splendidi gioielli, che furono accuditi da due fate apparse nel palazzo, e attaccarono i bambini al seno della mamma. Una volta che i bambini volevano poppare ma non trovavano il capezzolo, le presero il dito e succhiarono tanto che tirarono fuori la lisca di lino. Per Talia fu come svegliarsi da un lungo sonno, e vedendosi accanto quelle belle gioie diede loro il suo seno e li amò come la sua stessa vita. Mentre lei non sapeva che cosa le era

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successo, trovandosi sola sola in quel palazzo, con due figli accanto, vedendosi portare cose buone da mangiare senza mai vedere nessuno, il re si ricordò di Talia, e alla prima occasione andò a caccia per vederla. Avendola trovata sveglia con due bambolotti così belli, ne fu così felice che stava per svenire per la gioia. E dopo aver raccontato a Talia com’erano andate le cose, fecero amicizia e alleanza grande, e passarono insieme qualche giorno. Poi, dopo averla salutata con la promessa di tornare a prenderla, andò nel suo regno, dove nominava di continuo Talia e i figli, al punto che mentre mangiava aveva sulle labbra Talia, Sole e Luna, così aveva chiamato i bambini, e se si addormentava chiamava l’uno e l’altro. La moglie del re, che si era insospettita vedendo che era tornato in ritardo dalla caccia, sentendo tutto questo chiamare Talia, Sole e Luna, si accese di gelosia. Allora chiamò il segretario e gli disse: – Sentimi bene, caro mio, ora tu sei fra Scilla e Cariddi, fra l’incudine e il martello, fra la porta e lo stipite. Se mi dici di chi si è innamorato mio marito ti faccio diventare ricco e se me lo nascondi non ti faccio più ritrovare né vivo né morto. Il servitore, terrorizzato da una parte e avido di ricchezza dall’altra, messo da parte l’onore, incappucciata la giustizia e cancellata la lealtà, le disse tutto quello che voleva sapere. La regina mandò da Talia il segretario, che si presentò dicendo che il re le chiedeva di mandargli i figli perché voleva vederli. Lei tutta contenta glieli mandò, e quel cuore di Medea diede ordini al cuoco perché li scannasse e ne facesse paste e intingoli, da servire al povero marito. Il cuoco, che era di cuore tenero, vedendo quei due bei bambolotti ne ebbe compassione, e dopo averli affidati a sua moglie perché li nascondesse, preparò due capretti in cento modi diversi. Quando arrivò il re, la regina

molto soddisfatta fece servire in tavola, e il re mangiava di gusto dicendo: – Oh, perbacco, com’è buono questo! mamma mia, quest’altra cosa è veramente squisita! E lei ogni volta gli ripeteva: – Mangia, mangia, è tutta roba tua! In principio il re non ci fece caso, ma poi, siccome sentiva sempre questa cantilena, le rispose: – Lo so bene che quel che mangio è roba mia, perché tu non hai portato nulla in questo palazzo! E alzatosi da tavola andò in una sua villa in campagna per farsi passare la rabbia. Ma alla regina ancora non bastava quello che aveva fatto, e richiamato il segretario lo mandò a chiamare Talia con la scusa che il re la aspettava. Talia partì subito, tutta desiderosa di rivedere la luce dei suoi occhi, non sapendo che era c’era il fuoco ad aspettarla. Ma appena arrivò al cospetto della regina, lei con la faccia da Nerone tutta inviperita le disse: – Benvenuta madama Tummistufi! Tu sei quella allora la smorfiosa che ha abbindolato il re, la cagna che si gode mio marito! È da te, signora porcella che ha passato tante notti mentre io mi rigiravo nel letto? Ora sei arrivata in purgatorio, e ti farò pagare tutto quello che mi hai fatto! Allora Talia prese a chiedere scusa dicendo che non era colpa sua e che suo marito aveva preso possesso del suo territorio mentre lei dormiva. Ma la regina, che non voleva sentire scuse, fece accendere in quel cortile del palazzo un grande fuoco, e ordinò che ce la buttassero dentro. Vedendo che le cose si mettevano male, Talia si inginocchiò ai piedi della regina e la pregò di darle almeno il tempo di togliersi le vesti che indossava. La regina, non per compassione per la povera giovane, ma perché non bruciassero le sue vesti ricamate d’oro e di perle, disse – E va bene, spogliati. Talia cominciò a spogliarsi, e ad ogni capo di vestiario che si levava lanciava un urlo:così, quando si era già levata il mantello,

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Mirella Bitetti - Ginosa (TA)

la gonna e il giacchetto, quando si stava levando la sottoveste, lanciato l’ultimo strillo, mentre la prendevano e la trascinavano dove sarebbe diventata la brace per la caldaia dell’inferno, accorse il re. Vedendo quello spettacolo, volle sapere cos’era successo, e quando domandò dei suoi figli, la moglie stessa, rinfacciandogli il suo tradimento, gli disse che glieli aveva fatti mangiare. Sentito questo il povero re, in preda alla disperazione, cominciò a dire: – Io sono stato il lupo mannaro dei miei agnellini! Ahimè, com’è possibile che le mie vene non abbiano riconosciuto il loro stesso sangue? Ah, turca rinnegata, che crimine feroce hai fatto? ma non avrai tempo di espiare la tua colpa, non ti manderò a Gerusalemme per fare penitenza! Ordinò che la regina fosse gettata

nello stesso fuoco che aveva acceso per Talia, insieme al segretario che le aveva dato mano a tessere questa trama scellerata, e voleva farci gettare anche il cuoco che credeva avesse cucinato i suoi bambini. Ma questo si buttò ai piedi del re e gli disse: – Veramente, signore, sarebbe proprio la giusta ricompensa per il servizio che ti ho reso ridurmi a un mucchio di braci, il posto che mi spetta sarebbe proprio quello di essere legato a un bastone in fiamme, la cerimonia che merito è proprio quella di annerire e sfrigolare nel fuoco, avrei una giusta promozione se le mie ceneri fossero mescolate con quelle di una regina! no, non è questo il premio che mi tocca per averti salvato i figli a dispetto di quel cuore disumano, che voleva ucciderli perché tornasse in corpo a te la carne della tua carne.

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Quando il re sentì questo discorso, rimase strasecolato e non poteva credere alle sue orecchie, e rivolgendosi al cuoco gli disse: – Se è vero che mi hai salvato i bambini, puoi essere certo che ti farò smettere di girare gli spiedi e ti metterò alla cucina del mio petto perché tu faccia girare il mio cuore come ti pare, dandoti un premio tale che sarai l’uomo più felice del mondo! Mentre il re parlava, la moglie del cuoco, vedendo cosa capitava a suo marito, portò Sole e Luna dal padre, e il re girava come una trottola per abbracciare Talia e i figli, in un vortice di baci. Dopo aver assegnato una ricca rendita al cuoco, che nominò primo gentiluomo di corte, sposò Talia, che poté godere di una lunga vita col marito e i figli, riconoscendo che come si è sempre saputo se la fortuna viene scende dal cielo anche dormendo il bene.

Barbara Burzo - Bolzano (BZ)

Mariateresa Scaringello - Ginosa (TA)

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Giovan Battista Basile Giornata V, Racconto VII Lo Cunto de li Cunti - Pentamerone, 1634

Ninnilo e Nennella Iannuccio ha due figli dalla prima moglie, poi si sposa una seconda volta e la matrigna li odia tanto che li porta in un bosco dove si separano e poi Ninnillo diventa l’amato cortigiano di un principe e Nennella, dopo un nau fragio, è inghiottita da un pesce fatato e, finita su uno scoglio, è riconosciuta dal fratello e fatta sposare dal principe con una ricca dote. Antonella finì la corsa e Ciulla si mise al nastro di partenza di questo palio e, dopo aver lodato molto il racconto dell’altra che aveva dipinto con così grande naturalezza il giudizio di Sapia, disse così: “Sventurato quell’uomo che ha figli e spera di allevarli con una matrigna, perché porta dentro casa la macchina che li perderà, non s’è mai vista una matrigna che guardi dì buon occhio i figli di un’altra; e, se pure per disgrazia se n’è trovata qualcuna, si può infilarci un bastoncino per ricordarselo e si può dire che è stato un corvo bianco. Ma io, fra tante di cui avrete forse sentito parlare, vi parlerò di una che sì può mettere nell’elenco delle matrigne cattive, che giudicherete degna della pena che andò a comprarsi in contanti.

C’era una volta un padre, chiamato Iannuccio, che aveva due figli, Nennillo e Nennella, a cui voleva bene come alle sue ciliegine. Ma, quando la morte con la silenziosa lima del Tempo ruppe le grate che tenevano prigioniera l’anima della moglie, si prese una brutta bruttona, che era una cagnaccia maledetta, che non aveva neanche messo piede in casa del marito che cominciò a fare il cavallo di razza e a dire: “E che, sono venuta a spidocchiare i figli degli altri? Mi mancava solo questo, prendermi quest’impiccio e sentirmi intorno questi piagnistei! ah, che mi fossi rotta l’osso del collo prima di venire in questo inferno dove si mangia male e si dorme peggio per il fastidio di questi due ranocchi! non è possibile sopportare questa vita: sono venuta da moglie, non da

serva! bisogna trovare una soluzione e cercare un posticino per questi seccatori altrimenti cercheranno un posticino per me! è meglio arrossire una volta che impallidire cento volte: ora aggiustiamo questo matrimonio, perché sono proprio decisa a trovarci l’utile o a finirla in tutto e per tutto!”. Il povero marito, che aveva messo un poco d’affetto su questa femmina, le disse: “Non arrabbiarti, moglie mia, lo zucchero costa caro, domani mattina, prima che canti il gallo, ti toglierò questo tormento per farti contenta”. E così la mattina dopo - prima che l’Alba stendesse la sua rossa coperta di damasco sulla finestra d’Oriente per scrollarne le pulci - lui, presi per mano i figli con un bel paniere di roba da mangiare infilato nel braccio, li portò in un bosco dove un esercito di pioppi e di faggi assediava

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le ombre. Arrivato in quel luogo lannuccio disse: “Bambinelli miei, restatevene qua, mangiate e bevete allegramente e quando vi manca qualcosa guardate a questa traccia di cenere che sto spargendo: questo sarà il filo che, tirandovi fuori dal labirinto, vi porterà di corsa a casa vostra”, e, dopo avergli dato un bacio per uno, se ne tornò, piangendo, a casa. Ma - quando tutti gli animali, ammoniti dalle guardie della Notte, pagano alla Natura la pigione del necessario riposo - i bambinelli, forse per la paura di restare in quel luogo solitario - dove le acque di un fiume, che bastonava le pietre impertinenti che gli si paravano dinanzi ai piedi, avrebbero fatto rabbrividire un Rodomonte - si avviarono piano piano per quella stradina di cenere ed era già mezzanotte quando adagino adagino arrivarono a casa. Dove Pasciozza la matrigna non fece cose da femmina ma da furia infernale, facendo arrivare i suoi strilli fino al cielo, sbattendo mani e piedi e sbuffando come un cavallo ombroso, dicendo: “Che bella faccenda è questa? da dove sono spuntati questi pupazzi e bambinacci? è possibile che non ci sia argento vivo per scrostarli da questa casa? è possibile che tu ce li voglia tenere per far crepare questo cuore? vai, levameli da davanti agli occhi, subito adesso, non voglio aspettare né musica di galli né pianti di galline! altrimenti puoi startene a pulirti i denti mentre io dormo da un’altra parte e domani mattina me la svigno a casa dei miei parenti, perché tu non mi meriti! e ti ho portato anche tanti bei mobili in questa casa per vederli cacati dal profumo di culi altrui e non ho versato una dote così ricca per diventare schiava di figli che non sono miei!”. Lo sfortunato Iannuccio, quando vide la barca in brutte acque e la faccenda surriscaldata, in quello stesso momento prese i bambini e tornò nel bosco dove,

dato un altro paniere di cosette da mangiare ai figli, gli disse: “Voi vedete, bene mio, quanto vi ha in odio quella cagna di mia moglie, venuta dentro la casa mia per la vostra rovina e per piantare un chiodo nel mio cuore; per questo restate in questo bosco, dove gli alberi più gentili vi faranno da tetto contro il Sole, dove il fiume più caritatevole vi darà da bere senza avvelenarvi e la terra più cortese vi darà materassi d’erba senza pericolo. E quando vi mancherà da mangiare io vi faccio questa stradina di crusca dritta dritta, per cui potrete venire a cercare aiuto”. E, così detto, voltò la faccia dall’altra parte per non far vedere che piangeva e spaventare quei poveri pupattoli. E loro, quando ebbero finito di mangiare la roba del panierino, se ne volevano tornare a casa; ma, poiché un asino, figlio della mala fortuna, si era ingozzato la crusca sparpagliata a terra, sbagliarono strada di tanto che se ne andarono per un pugno di giorni sperduti in mezzo al bosco, mangiando ghiande e castagne che trovavano a terra, cadute dagli alberi. Ma poiché il cielo tiene sempre la sua mano sugli innocenti, un principe venne per caso a caccia in quel bosco e Nennillo, sentendo l’abbaiare dei cani, ebbe tanta paura che si nascose dentro un albero che trovò cavo e Nennella si mise a correre tanto che, uscita dal bosco, si trovò in riva al mare, dove erano sbarcati certi corsari a fare legna, che se la portarono via e il loro capo se la portò a casa, dove la moglie, che aveva appena perduto una bambina, se la tenne come figlia. Ma torniamo a Nennillo, che, nascosto in quella corteccia d’albero, era circondato dai cani che abbaiavano da stordire al punto che il principe mandò qualcuno a vedere di cosa si trattasse e, trovato quel bel bambino, che non sapeva dire, tanto era piccolo, neanche chi fossero il padre o la madre, lo fece mettere sulla

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un grande pesce fatato, che, aprendo un grande buco di bocca, se l’inghiottì. Ma quando la ragazza credeva di avere finito i suoi giorni proprio allora trovò cose incredibili nella pancia di questo pesce, perché c’erano campagne bellissime, giardini deliziosi, una casa signorile con tutte le comodità, dove se ne stava da principessa. E dallo stesso pesce fu portata, in braccio e a cavalluccio, su uno scoglio, dove, nel momento più afoso e nella calura più bruciante dell’estate, se n’era andato il principe a prender fresco. E, mentre stavano preparando un banchetto spaventoso, Nennillo se n’era andato su un terrazzino del palazzo, da dove si vedeva lo scoglio, per affilare certi coltelli, perché gli piaceva molto quel suo lavoro e per farsi onore. Nennella, quando lo vide attraverso la golaccia del pesce, gridò queste parole rimbombanti: “Fratello mio, fratello, i coltelli sono affilati, le tavole sono apparecchiate e a me vivere rincresce senza te dentro ad un pesce!”.

Francesco Carella - Bernalda (MT)

soma di un cacciatore e, portatolo al palazzo reale, lo fece allevare con grande cura e educare alla virtù e, tra le altre cose, gli fece imparare l’arte dello scalco, al punto che non passarono tre o quattro anni che diventò così bravo in quest’arte che avrebbe diviso un capello. Nel frattempo scoprirono che il corsaro che aveva Nennella faceva il pirata sul mare e volevano metterlo in prigione; ma lui, che si era fatti amici gli scrivani e li teneva cotti al punto giusto, se la svignò con tutta la famiglia. E, forse per giustizia del cielo, lui che aveva commesso i suoi delitti sul mare sul mare ne pagò la pena, e così, imbarcato su una piccola barca, come fu in mezzo al mare arrivò un tale refolo di vento e una tale rabbia di onde che la barca si rovesciò e tutti andarono a bagno. Solo Nennella, che non aveva nessuna colpa per quelle ruberie, come ne avevano la moglie e i figli, scampò questo pericolo perché proprio in quel momento si trovò vicino alla barca

Silvia Monacelli - Matera (MT)

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Nennillo non fece attenzione la prima volta a queste parole, ma il principe, che stava su un altro terrazzo, si voltò a questo lamento, vide il pesce e sentì le stesse parole una seconda volta e restò senza fiato per lo stupore. E, mandata una manciata di servi a vedere se in qualche modo riuscissero a imbrogliare il pesce e a tirarlo a riva, finalmente, sentendo ripetere continuamente quel fratello mio fratello mio, chiese ad uno per uno a tutta la sua gente chi avesse perduto una sorella. E, quando Nennillo rispose che riusciva a ricordarsi, come in sogno, che quando il principe lo aveva trovato nel bosco aveva una sorella della quale non aveva avuto più notizia, il principe gli disse di accostarsi al pesce e di vedere di cosa si trattava: forse questa fortuna era proprio per lui. E Nennillo si avvicinò al pesce e quello, poggiata la testa sopra uno scoglio e aperti sei palmi di bocca, ne fece uscire Nennella, così bella che sembrava proprio una ninfa che, in un intermezzo, usciva, per incanto di qualche mago, da quella bestia. E, quando il re chiese cosa fosse questa faccenda, Nennella cominciò a raccontargli qualche episodio dei loro guai e l’odio della matrigna, ma non riuscivano a ricordare il nome del padre né il luogo della casa. Per questo il re fece pubblicare un bando che diceva che chi avesse perduto due figli di nome Nennillo e Nennella in un bosco doveva andare al palazzo reale, perché ne avrebbe avuto buone notizie. . Iannuccio, che se ne stava sempre con il cuore nero e inconsolabile credendo che se li fosse mangiati il lupo, corse con grande gioia a trovare il principe, dicendo che era proprio lui che aveva perduto quei figli. E, dopo aver raccontato come fosse stato costretto a portarli nel bosco, il principe gli fece una bella sfuriata, chiamandolo pecorone, uomo da niente, che s’era fatto mettere i piedi sul

collo da una femminetta, che s’era ridotto a sperdere due gioielli come i suoi figli. Ma, dopo avergli rotto la testa con queste parole, ci mise sopra la medicina della consolazione facendogli vedere i figli, che furono insaziabilmente baciati e abbracciati per mezz’ora. E il principe gli fece levare da dosso la livrea, fece vestire Nennillo da gentiluomo e, fatta chiamare la moglie di Iannuccio, le fece vedere quelle due spighe d’oro, chiedendole cosa avrebbe meritato chi gli avesse fatto del male o ne avesse messo in pericolo la vita. E lei rispose: “Secondo me la metterei in una botte chiusa e la farei rotolare giù da una montagna”. “Vai, che hai indovinato”, disse il principe, “la capra ha rivoltato le corna contro se stessa! ora andiamo: tu hai emesso la sentenza e ora paga tu la pena, perché hai portato tanto odio a questi bei figliastri!”. E così diede ordine che si eseguisse la sentenza pronunciata proprio da quella donna e, trovato un gentiluomo due volte ricco e suo vassallo, gli diede Nennella come moglie e diede la figlia di un altro riccone al fratello, dandogli rendite sufficienti a far vivere loro e il padre, che non ebbero più bisogno di nessuno al mondo e la matrigna, fasciata da una botte, sfasciò la sua vita gridando attraverso il buco e finché ebbe fiato: guai a chi aspetta il malanno che tarda, che poi arriva pesante e paga tutti!”.

Anna Mero - Matera (MT)

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Magda Raspatelli - Potenza (PZ)

“Il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari” Benedetto Croce - filosofo

Si ringrazia Il Conte Domenico Basile - Scrittore e discendente di Giovan Battista Basile Avv. Raffaello Glinni - Storico e Ricercatore Dott. Gianluca De Novi - Researcher - Harvard Medical School - Boston, Stati Uniti

Foto manifesto e Graphic design de: “Il Fascino dell’Affasscino - il Cacciatore di Fiabe” a cura di: Paolo De Novi - photographer www.paolodenovi.com

Per le fiabe si ringrazia Lo Cunto de li Cunti - Domenico Basile e Grazia Zanotti Cavazzoni - ed. L’ISOLA DEI RAGAZZI

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Le storie raccontate ne “ Il racconto dei racconti” descrivono un mondo in cui sono riassunti gli opposti della vita: l’ordinario e lo straordinario, il magico e il quotidiano, il regale o lo scurrile, il terribile e il soave. Matteo Garrone - Regista E’ un melodramma nuovo e antico, un modo diverso da quello usato per vendere carne in scatola, perciò quello di un mondo diverso dove tutte le lingue sono una, le parole e le frasi sono esperienze di una storia di paure, di amore e di odio, fatte e subite allo stesso modo da tutti”. Roberto De Simone regista - autore teatrale creatore della nuova compagnia di canto popolare Basta un carillon, sentire la sua musica per tornare bambini ed è subito favola... Dolce & Gabbana


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