C'era una volta...il Cacciatore di fiabe

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Il fascino dell’affascino

C ’e r a u n a v o l t a . . . i l C ac c i a t o r e d i fi a b e a cura di Anna Elena Viggiano

I l B a s i l e e l a B a s i l ic a t a


" Il pi첫 antico, il pi첫 ricco e il pi첫 artistico fra tutti i libri di fiabe popolari" Benedetto Croce - filosofo


Ph: Paolo De Novi


Il fascino dell’affascino da “Lo cunto de li cunti” C’era una volta….il cacciatore di fiabe- Il Basile e la Basilicata a cura di Anna Elena Viggiano

Prefazione di Anna Elena Viggiano Sin da quando ero bambina il mondo delle fiabe e della fantasia erano per me un rifugio, un viaggio, un allontamento dalla vita reale, impenetrabile, che mi permetteva di essere principessa, serva, strega, fata, cane, gatto…La telefonata della biblioteca di Colobraro e del Sindaco Bernardo per la cura di una mostra per il bellissimo evento ormai alla quinta edizione “ Sogno di una notte…a quel paese che gioca con la magia, le tradizioni e i racconti, ha aperto tutti i miei cassettini della memoria, ricordo che la mia insegnante della scuola media mi parlò di questo grande libro… Come in ogni fiaba che si rispetti si comincia con C’era una volta…La Basilicata una regione ricca di leggende e di magia. E’ da questa terra che il campano Gianbattista Basile detto “Il cacciatore di fiabe” trasse spunto per i suoi racconti tra il 500/600, dopo essere stato ospite dei Caracciolo a Lagonegro (PZ) e dei signori di Acerenza (PZ), scrive il libro “LO CUNTO DE LI CUNTI” libro che trasforma la fiaba in genere letterario, progenitore di tutte le fiabe, ancora oggi nei piccoli centri lucani è possibile respirare un’atmosfera che conserva tipicità, suoni e credenze che riuscirono ad impressionare anche il cacciatore di fiabe libro progenitore di tutte le fiabe ambientato tra i boschi, le foreste e i castelli della splendida Lucania. Si pensa che il Basile abbia trascritto le tradizioni orali della Basilicata in modo letterario facendo diventare il suo grande libro il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari” ( Benedetto Croce). Lo cunto de li cunti – Lo trattenimento dè Peccerille, denominato anche Pentamerone, cinque giornate e cinquanta racconti, un’opera squisitamente letteraria, dedicata ad adulti e bambini che toccanva delle coordinate importanti per quel periodo fatto di gente dei casali, non molto colta; un’attenzione all’infanzia che necessitava di cure e cultura al momento prive di considerazione. Il libro fù poi pubblicato dalla sorella Adriana tra il 1634/1636. Il libro manifesto della fiaba che diventa genere letterario viene subito tradotto e rielaborato in tutta Europa dai grandi della letteratura, del cinema e dell’animazione come i Fratelli Grimm, Andersen, Perrault, Brentano, Liebrecht e Taylor, Walt Disney che subito ne fanno dei capovolavori come Cenerentola, Il Gatto con gli stivali, Hansel e Gretel, Shrek, La bella addormentata nel bosco, Raperonzolo e tante fiabe oggi ancora narrate e senza tempo. Lo Cunto de li Cunti ancora oggi continua ad ispirare, il regista matteo garrone nel suo ultimo film “il racconto dei racconti (tales of tales)” esalta il Basile e la sua Opera. Ho voluto far diventare i 25 artisti provenienti da pìù regioni italiane dei veri e propri cacciatori di fiabe, su quattro fiabe del Basile ambientate in Basilicata, Petrosinella - Raperonzolo, Sole Luna e Talia – La bella addormentata nel bosco, Ninnillo e Nennella - Hansel e Gretel e La cerva fatata - attinente alle caverne degl’orchi di Acerenza PZ per una collettiva unica nel suo genere perché le fiabe non vengono soltanto illustrate ma accompagnate da vere e proprie opere d’arte. Il fascino dell’affascino da “Lo cunto de li cunti” C’era una volta….il cacciatore di fiabe- Il Basile e la Basilicata a cura di Anna Elena Viggiano. La foto manifesto è stata scattata negli USA a cura del ph Paolo De Novi che ha voluto dare una versione attuale del Cacciatore di fiabe con un trailer di lavorazione, la grafica e il trailer artisti sono a cura di Pietro Gallili.


Giovan Battista Basile

Sole Luna e Talia Giornata V, Racconto V Lo Cunto de li Cunti - Il Pentamerone, 1634 Laddove la fiaba delle orche avrebbe potuto suscitare un po’ di compassione, invece portò solo piacere, poiché ognuno si rallegrò che le avventure di Parmetella fossero andate assai meglio di quello che ci si poteva aspettare. Dopo questo racconto, toccò a Popa e lei, che stava già col piede alla staffa, così disse: “C’era una volta un gran signore che, essendogli nata una figlia che aveva chiamato Talia, fece venire tutti i sapienti e gli indovini del suo regno per prevederne il futuro. Costoro, dopo varie riunioni, conclusero che la bambina avrebbe corso un gran pericolo a causa di una resta di lino: per questo motivo il gran signore stabilì che nella sua casa non entrassero mai né lino né canapa né altra cosa simile, per sfuggire a questa maledizione. Un giorno, mentre Talia, ormai grandicella, stava alla finestra, vide passare una vecchia che filava e, siccome non aveva mai visto né un fuso né una conocchia, fu talmente attratta e incuriosita da tutto quel movimento rotatorio che decise di far salire in casa la vecchia. Presa la rocca in mano, cominciò a svolgere il filo, ma per disgrazia le si conficcò una resta di lino in un’unghia e lei cadde a terra morta. La vecchia, vedendo quello che era accaduto, si precipitò giù per le scale e ancora sta correndo. Il povero padre, saputo della disgrazia , dopo aver pagato con un barile di lacrime questo secchio di asprinio , la mise nello stesso palazzo che stava in campagna, seduta su una sedia di velluto, sotto un baldacchino di broccato; poi chiuse tutte le porte e abbandonò per sempre quel palazzo che era stato causa di tanto dolore, per cancellare ogni memoria di questa disgrazia. Un giorno, a un re che passava da quelle parti per andare a caccia, sfuggì un falco che volò dentro una finestra di quella casa. Poiché l’uccello non tornava al suo richiamo, il re fece bussare alla porta, credendo che il palazzo fosse abitato; poiché nessuno rispondeva, fece portare una scala da vignaiolo e volle personalmente salire per vedere cosa ci fosse dentro e, dopo aver girato dappertutto, restò come una mummia, perché trovò nessuno. Alla fine arrivò nella camera dove c’era Talia prigioniera dell’incantesimo; il giovane, credendo che dormisse, la chiamò, ma, per quanto gridasse, lei non si risvegliava e lui, infiammato da tanta bellezza, la portò di peso su un letto e ne colse i frutti dell’amore; poi la lasciò coricata e se ne tornò nel suo regno, dove per lungo tempo non ricordò quello che era accaduto.


Dopo nove mesi la fanciulla partorì due gemelli, un maschio e una femmina, così belli che sembravano due gioielli e dei quali si presero cura due fate, comparse in quel palazzo, che li attaccarono ai seni della mamma. Un giorno i bambini, volendo succhiare e non trovando il capezzolo, le afferrarono il dito della mano e tanto succhiarono che ne estrassero la resta. Per la qualcosa Talia si risvegliò da quel gran sonno e, visti al suo fianco quei due gioielli, porse loro il seno e li tenne cari quanto la vita. Talia si domandava cosa le fosse accaduto e come si fosse ritrovata sola in quel palazzo con due figli e chi le fornisse il cibo, ma non riusciva a trovare risposta. Intanto il re, che si era ricordato di lei, con il pretesto di andare a caccia, andò a cercarla e, trovandola sveglia e con due bellezze che parevano dipinte, ne ebbe un piacere enorme. E così, spiegato a Talia chi era e come era accaduto tutto ciò, si legarono con un affetto molto forte e restarono insieme per una manciata di giorni. Quando il re dovette ripartire, promise alla ragazza che sarebbe ritornato a prenderla e, rientrato nel suo regno, cominciò a parlare di lei e dei figli a tutte le ore. Quando mangiava, aveva in bocca il nome di Talia e dei due figli, che avevano chiamato Sole e Luna e, quando andava a dormire , li nominava prima di coricarsi. La moglie del re, insospettita dal ritardo con il quale il marito era tornato, e sentendolo nominare sempre Talia, Luna e Sole, cominciò a accalorarsi più che se avesse preso un colpo di sole e, chiamato il segretario, gli disse: “Sentimi bene, figlio mio, tu sei tra Scilla e Cariddi , tra lo stipite e la porta, tra l’incudine e il martello. Se mi dici di chi si è innamorato mio marito, io ti faccio ricco, se invece me lo nascondi, farò in modo che tu non venga mai ritrovato né vivo né morto.” Il compare, da una parte stravolto dalla paura, dall’altra spinto dall’interesse che spesso acceca l’onore, appanna la giustizia e fa dimenticare la fedeltà, le raccontò, pane al pane e vino al vino, ogni cosa. Allora la regina lo mandò da Talia a dirle che il re voleva vedere i suoi figli e la fanciulla fu ben contenta di acconsentire. Ma la regina, che aveva un cuore da Medea , comandò al cuoco di scannare i due fanciulli, di farne minestre e cose saporite e darli da mangiare al povero marito. Il cuoco, che era tenero di cuore, visti questi due pomi d’oro, ne ebbe compassione e li consegnò alla moglie perché li nascondesse; poi preparò due capretti in cento modi. Quando arrivò il re, la regina con grande piacere fece portare le vivande e, mentre il re banchettava con gran gusto, complimentandosi ad ogni portata, la regina lo esortava a continuare, perché mangiava del suo. Il re per due o tre volte non fece caso a questa manfrina, infine, stanco della stessa musica, rispose: “Lo so che mangio del mio, perché tu non hai portato niente in questa casa!” e, alzatosi stizzito, se ne andò in una villa poco lontana a sfogare la sua rabbia. Nel frattempo la regina, non sazia da quanto aveva già fatto, convocato di nuovo il segretario, lo mandò a chiamare Talia con la scusa che il re l’aspettava; la ragazza accorse subito, col desiderio di ritrovare la sua luce, non sapendo che invece l’aspettava il fuoco. Ma, arrivata davanti alla regina, questa, con una faccia da Nerone , tutta inviperita, le disse: “Sii la benvenuta, signora Troccola! Tu sei quella pezza fine, quella cattiva erba che se la spassa con mio marito! Tu sei quella cagna randagia che mi fa avere tanti pensieri per la testa? Vai, che sei arrivata al purgatorio, dove ti farò scontare tutto quello che mi hai fatto!”


Talia, sentendo tutto questo, cercò di scusarsi, spiegando che non era colpa sua se il marito l’aveva posseduta (aveva preso possesso del suo territorio) quando lei era ancora addormentata. Ma la regina non voleva sentire scuse; fece accendere nel cortile del palazzo un grande fuoco e ordinò che ce la sbattessero dentro. Talia, vedendo la mala parata, s’inginocchiò davanti alla regina e la pregò che le desse almeno il tempo di togliersi i vestiti che aveva addosso. La regina, non tanto per misericordia della povera giovane, quanto per impossessarsi di quei bei vestiti ricamati d’oro e di perle, le concesse di spogliarsi. Talia cominciò a spogliarsi ed ad ogni capo di vestiario che si levava, lanciava uno strillo; quando ebbe tolto tutti i vestiti, la gonna e il corsetto, come fu per levarsi la gonnella, lanciò l’ultimo grido. Mentre la trascinavano a diventare cenere per il bucato della brache di Caronte, arrivò il re che, visto quello spettacolo, volle sapere cosa era successo e, quando chiese notizie dei figli, seppe dalla stessa moglie, che gli rinfacciava il tradimento, la fine che gli aveva fatto fare. Il povero re, sentita questa confessione, in preda alla disperazione, non si dava pace, si accusava di essere stato lui stesso il lupo mannaro delle sue pecorelle e si chiedeva perché le sue vene non avevano riconosciuto il sangue del suo sangue. Rivolto alla moglie, la chiamava turca rinnegata e cagna feroce e le giurava un supplizio terribile e senza pietà. E così dicendo, ordinò che fosse gettata nello stesso fuoco che aveva acceso per Talia e che insieme a lei fosse bruciato anche il segretario che era stato complice di questo macabro gioco e tessitore di questa perversa trama. Avrebbe voluto far fare la stessa fine anche al cuoco, pensando che avesse fatto a pezzi i suoi figli, ma costui, gettandosi ai suoi piedi, gli spiegò che on meritava di essere buttato sulle braci insieme alla regina, ma che anzi avrebbe dovuto ricevere una grande ricompensa perché, a dispetto degli ordini di quella cagna feroce, lui, invece di uccidere i suoi figli e darglieli in pasto, li aveva salvati. Il re, a queste parole, andò fuori di sé per la gioia e gli sembrava di sognare, poiché non riusciva a credere a quello che sentivano le sue orecchie e, voltatosi verso il cuoco, gli confermò che, se davvero aveva salvato i suoi figli, poteva star certo che non solo non avrebbe fatto la fine di uno spiedino, ma sarebbe diventato l’uomo più felice del mondo, perché lui stesso avrebbe esaudito ogni suo desiderio. Mentre il re diceva queste parole, la moglie del cuoco, visto il rischio che stava correndo uo marito, portò Luna e Sole davanti al padre, il quale, dalla gioia, cominciò a scherzare e giocare con moglie e figli passando da uno all’altro e riempiendoli di baci. Poi diede un grande premio al cuoco e lo promosse maggiordomo di camera, quindi sposò Talia, la quale visse felice una lunga vita con marito e figli, riconoscendo che è proprio vero che chi ha fortuna anche quando dorme gli piove il bene dall’alto.


Barbara Burzo

Bolzano - fotografia digitale e fotoritocco 50x70

Maria Cristina Fior Tabacco Pisticci (MT) - olio su tela 70x70


Mariella Sellitri

Andria - materico acrilico su tela 50x70

Anna Troyli Policoro (MT) - tecnica mista su tela 50x70


Mirella Bitetti

G i n o s a ( TA ) - olio su tela 80x120

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Giovan Battista Basile

Ninnillo e Nennella Giornata V, Racconto VII Lo Cunto de li cunti - Pentamerone, 1634

Quando finì il racconto di Antonella, Ciulla si preparò a partire col suo e, dopo aver molto lodato il modo in cui l’altra aveva descritto l’ingegno di Sapia, così disse: “Disgraziato quell’uomo che spera di far allevare i propri figli da una matrigna, perché si porta in casa la macchina della loro rovina; infatti non si è mai vista una matrigna che guardi di buon occhio i figli di un’altra; e se pure qualcuna se n’è trovata per caso, certamente si è trattato di un corvo bianco . Ma io, fra tante che forse avrete sentito nominare, vi parlerò di una che si può mettere nella lista delle matrigne senza coscienza; e voi stessi la giudicherete degna della pena che si comprò da sola con denari contanti.” C’era una volta un padre chiamato Iannuccio, che aveva due figli, Ninnillo e Nennella, a cui voleva bene come alla luce dei suoi occhi. Ma, poiché la morte, con la ima sorda del Tempo, aveva rotto le inferriate che imprigionavano l’anima della moglie, lui ben presto si risposò con una brutta serpe che era peggio di una cagna maledetta. Costei, non appena ebbe messo piede a casa del marito, cominciò fare la padrona e a lamentarsi dicendo: “Sono forse venuta in questa casa per spidocchiare i figli di un’altra? Devo prendermi l’impiccio di avere ogni giorno intorno a me questi mocciosi? Non ho certo intenzione di rompermi le ossa, mangiare male e dormire peggio a causa di questi “cra-cra” .Non sono mica venuta per fare la serva io, ma la moglie! Bisogna trovare una soluzione per allontanare dalla casa questi pidocchi, altrimenti me ne vado io!. È meglio arrossire una volta che impallidire cento volte.” Il povero marito, essendosi un po’ affezionato alla donna, la tranquillizzò dicendole che la mattina dopo, prima del canto del gallo, le avrebbe tolto quel fastidio. E così il giorno dopo - prima che l’Alba stendesse le coperte damascate rosse per far cadere le pulci dalla finestra d’Oriente - lui, presi i figli per mano, gli mise al braccio un bel paniere pieno di vivande e li portò in un bosco dove pioppi e faggi tenevano imprigionate le ombre. Arrivato là, disse ai figli di mangiare e bere allegramente e, non appena fosse finito il cibo, di tornare a casa seguendo la linea di cenere che lui aveva lasciato lungo il cammino. Poi, dopo averli baciati, piangendo se ne tornò a casa.


Ma - quando tutti gli animali, azzittiti dalle guardie della Notte, pagano il conto alla Natura con il necessario riposo - i bambini, forse per paura di stare in quel luogo sperduto, dove le acque di un fiume che percuotevano le rocce impertinenti che gli si paravano davanti, avrebbero spaventato anche un Rodomonte , si avviarono piano piano per quel viottolo di cenere e adagio adagio arrivarono a casa verso mezzanotte. La matrigna Pasciotta, vedendoli, diventò una furia infernale: faceva strilli che arrivavano al cielo, batteva mani e piedi e sbuffava come un cavallo imbizzarrito: “Ma che è ‘sta cosa?”, diceva, “Da dove sono sbucati questi brutti mostriciattoli? Possibile che non ci sia modo di scrostarli da questa casa? È possibile che tu voglia farmi morire di crepacuore tenendoli qui? Levameli da davanti agli occhi prima che canti il gallo, perché altrimenti me ne vado e torno a casa mia, ché tu non mi meriti! Non ho portato la mia dote qui per lasciarla ai figli di altri! Il povero Iannuzzo, vedendo che le cose si mettevano male, in quello stesso istante prese i bambini e, tornato al bosco, con un bel paniere pieno di cose buone da mangiare, spiegò ai figli che per loro era meglio starsene nel bosco dove gli alberi pietosi li avrebbero protetti dal Sole, il fiume caritatevole li avrebbe dissetati senza avvelenarli e la terra cortese li avrebbe ristorati senza pericolo, piuttosto che rimanere in una casa dove una matrigna malvagia li avrebbe maltrattati. E che comunque, in caso di bisogno, avrebbero potuto ritornare a casa attraverso un viottolo di crusca che lui gli aveva preparato. Poi voltò la testa dall’altra parte per non far vedere le sue lacrime e non intristire quei poveri bambini. I piccoli, non appena ebbero terminato le scorte del paniere, vollero tornare a casa, ma, poiché un asino, figlio della mala sorte, si era mangiato tutta la crusca sparsa per terra, sbagliarono strada. Per giorni e giorni andarono in giro sperduti nel bosco, mangiando solo ghiande e castagne trovate per terra. Ma poiché il cielo tende sempre la sua mano agli innocenti, la fortuna volle che in quel bosco andasse a caccia un principe; Ninnillo, sentendo i cani abbaiare, ebbe talmente paura che si nascose nella cavità di un albero e Nennella si mise a correre così velocemente che, uscita dal bosco, si trovò su una spiaggia dove erano approdati certi corsari a raccogliere legna. Il loro capo la vide e se la portò a casa dove la moglie, che aveva perso da poco una bambina, l’accolse come una figlia. Ma ora torniamo a Ninnillo che, dopo essersi nascosto nella cavità dell’albero, era insidiato dai cani che abbaiavano in modo assordante, tanto che il principe mandò qualcuno a veder che cosa ci fosse e,trovato quel bel bambino, che non sapeva dire il nome del padre e della madre per quanto era piccolo, lo fece metter sulla soma di un cacciatore e portare al palazzo reale. Lì lo fece crescere con gran cura ed educare alla virtù e, tra le altre cose, gli fece imparare l’arte dello scalco , tanto che, passati tre o quattro anni, diventò così bravo in quest’arte da poter dividere anche un capello. Nel frattempo, essendosi scoperto che il corsaro che teneva Nennella era un ladro di mare, doveva andare in prigione; ma lui, che era diventato amico degli scrivani e sapeva come manovrarli, riuscì a fuggire con tutta la famiglia. Ma, forse per la giustizia del cielo, proprio lui che aveva fatto i suoi imbrogli nel mare, nel mare ne pagò le pena. Infatti accadde che, imbarcatosi su una barca piuttosto leggera, appena fu in mezzo al mare, venne un tale refolo di vento e una così grande mareggiata che la barca si capovolse e tutti finirono in acqua.


Solamente Nennella, che non aveva nessuna colpa nei suoi latrocini, come invece ne avevano la moglie e le figlie, scampò a questo pericolo. Infatti proprio in quel momento apparve vicino alla barca un gran pesce fatato il quale, spalancando una gola grande come una caverna, se la inghiottì. La fanciulla , che credeva di aver ormai finito i suoi giorni, trovò invece cose strabilianti nel ventre di questo pesce: bellissime campagne, giardini delle meraviglie, una casa da signori con tutte le comodità, dove lei soggiornò da principessa. Un giorno il pesce la portò dritto filato su uno scoglio dove, nel momento più afoso e di maggior calura dell’estate, il principe era venuto a rinfrescarsi. Mentre veniva apparecchiato un banchetto strepitoso, Ninnillo era andato su un balcone del palazzo che sorgeva sopra lo scoglio ad affilare certi coltelli, impegnandosi molto nel suo lavoro per farsi onore. Quando Nennella, che stava nella gola del pesce, lo vide, gridò con una voce cupa e rimbombante come provenisse da una caverna: “Fratello, fratello mio, i coltelli sono arrotati, le tavole apparecchiate, ma a me la vita rincresce senza di te dentro questo pesce!”. Ninnillo la prima volta non fece caso a questa voce, ma il principe, che stava su un’altra terrazza, si voltò, vide il pesce, sentì nuovamente le stesse parole e restò sbalordito. Così, mandati un gruppo di servitori a vedere se in qualche modo riuscissero a ingannare il pesce e a trascinarlo a terra, sentendo per l’ennesima volta fratello mio fratello mio, domandò ad ognuno di loro se avessero perso una sorella . Ninnillo rispose di ricordarsi, come in un sogno, che quando era stato trovato nel bosco, c’era con lui una sorella di cui non sapeva più nulla; il principe allora lo consigliò di accostarsi al pesce per controllare di persona: forse quella evenienza riguardava proprio lui. Ninnillo si accostò al pesce e quello, appoggiata la testa sopra lo scoglio, aprì sei palmi di bocca da cui uscì Nennella, talmente bella che sembrava una ninfa che, per l’ incantesimo di un mago, usciva da quell’animale. I due fratelli raccontarono al principe tutte le disavventure passate a causa dell’odio della matrigna, ma non riuscivano a ricordare né il nome del padre né quella della loro città. Così il re fece emanare un bando che chi avesse perduto nel bosco due figli di nome Ninnillo e Nennella doveva recarsi a palazzo reale dove avrebbe ricevuto buone notizie. Iannuzzo, che se ne stava sempre triste e sconsolato credendo che i figli fossero stati divorati da un lupo, corse con grande gioia a trovare il principe per dirgli che era lui che aveva perduto quei figli. Raccontò di come fosse stato obbligato dalla moglie a portarli nel bosco e il principe gli fece un bel predicozzo, dandogli del codardo, dell’uomo da niente, poiché si era fatto mettere il cappio al collo da una donna da poco, acconsentendo ad abbandonare nel bosco i suoi due splendidi figli . Ma, dopo avergli rotto la testa con queste parole, lo consolò facendogli vedere i suoi figli e lui per una buona mezz’ora non si saziò di abbracciarli e baciarli. A quel punto il principe fece chiamare la moglie di Iannuzzo, le fece vedere quelle due spighe d’oro, chiedendole cosa avrebbe meritato chi gli avesse fatto del male e li avesse messi in pericolo di morte. Lei rispose che l’avrebbe messo in una botte chiusa e l’avrebbe fatto rotolare giù da una montagna. “E così sia!”, disse il principe, “la capra ha rivolto le corna contro se stessa e quindi tu hai espresso la sentenza e tu la pagherai, poiché hai portato tanto odio verso questi bellissimi figliastri!”.


Subito diede ordine che si eseguisse la sentenza. Poi, trovato un gentiluomo molto ricco, suo vassallo, gli diede Nennella in moglie e diede la figlia di un altro, ricco come il precedente, al fratello. ElargĂŹ loro e al padre rendite sufficienti per farli vivere bene, in modo che non avessero bisogno di nessuno al mondo, e la matrigna, rinchiusa in una botte, terminò la sua vita gridando mentre spirava se il malanno tarda, guai a chi l’aspetta, perchĂŠ quando arriva, te la fa pagare cara!


Silvia Monacelli

Matera - tecnica mista (acrilico e olio) 60x40

Nilde Mastrosimone de Troyli Policoro (MT) - tecnica mista (china e penna su tela) 50x70


Eleonora Galli

Bernalda (MT)

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Anna Mero Bernalda (MT) - tecnica mista su tela 30x40


Francesco Carella

Bernalda (MT) - stampa digitale 50x70

Domenico Gaetano Carriero Bernalda (MT) -tecnica mista 60x80


Giovan Battista Basile

Petrosinella Giornata II, Racconto I Lo Cunto de li cunti - Pentamerone, 1634 “E’ così grande il mio desiderio di mantenere allegra la principessa, che per tutta la notte non ho fatto altro che cercare nei miei ricordi, tra tutti i racconti che ho ascoltato, le storie che era solita raccontare quella chiacchierona della signora Chiarella Visciolo, bisnonna di mio zio, che Dio l’abbia in gloria! E così ho scelto i racconti che a mio parere vi piaceranno di più. E se non riusciranno ad allontanare la tristezza che affligge il vostro animo, serviranno a stimolare la fantasia di queste mie compagne che, più giovani ed energiche di me, potranno rimediare alla mia mancanza con la ricchezza del loro ingegno”. C’era una volta una donna gravida chiamata Pascadozia, la quale, affacciatasi un giorno ad una finestra che dava nel giardino di un’orca, vide una bella aiuola di prezzemolo, e si sentì mancare per la gran voglia di mangiarlo. Alla fine, non resistendo alla tentazione, aspettò che l’orca fosse uscita, per raccoglierne una manciata. Quando l’orca rientrò, avendo voglia di fare un buon sugo, decise di raccogliere qualche foglia di prezzemolo dall’orto, ma, accorgendosi che ne mancava un po’, disse: “Mi si possa rompere l’osso del collo se non prendo quel maledetto ladro e non lo faccio pentire, così che impari a non scroccare dagli altri!”. Non avendo però Pascadozia ascoltato le parole dell’orca, continuò a rubare il prezzemolo dall’orto. Un giorno l’orca la sorprese sul fatto e, fuori di sé dalla rabbia, le disse: “T’ho scoperta brutta ladra! Come hai osato rubare nel mio giardino! Sta sicura che io non ti manderò a Roma per penitenza!”. La povera Pascadonzia cominciò a scusarsi in mille modi, dicendo di non avere rubato per lei, ma per evitare che sulla faccia del figlio che stava per nascere, restasse una voglia a forma di prezzemolo”. “Non arrampicarti sugli specchi”, rispose l’orca, “che non mi convinci con le tue chiacchiere! Sarai punita a dovere, salvo che tu non mi prometta di darmi il figlio che stai per partorire, sia esso maschio o femmina”. La povera Pascadozia, per evitare il peggio, giurò e stragiurò che avrebbe fatto ciò che lei le chiedeva, così l’orca la lasciò andar via. Quando fu tempo di partorire, nacque una bambina talmente bella da sembrare un gioiello, e poiché aveva una macchia a forma di prezzemolo sul petto, fu chiamata Petrosinella. Non appena la bambina ebbe sette anni, la madre la mandò dalla maestra.


Lungo il tragitto Petrosinella incontrava ogni giorno l’orca, la quale la fermava dicendole: “Di’ a tua madre di ricordarsi della sua promessa”. Il tempo passava e Petrosinella riportava ogni giorno le parole dell’orca alla madre. E tante volte ripeté questa tiritera, che alla fine la madre disse a Petrosinella: “Se l’orca ti ricorda ancora quella maledetta promessa, tu rispondile: Prenditela!”. Quando Petrosinella si trovò di fronte all’orca, fece quanto le aveva detto la madre, e così l’orca, afferratala per i capelli, se la portò in un bosco dove non entrava mai la luce del sole e la imprigionò in una torre che non aveva nè porte nè scale, ma solo una piccola finestrella attraverso la quale, grazie alle trecce di Petrosinella, che erano lunghissime, l’orca saliva e scendeva. Un giorno che l’orca si era allontanata, la ragazza mise le sue lunghe trecce fuori dalla finestra, al sole . Passò da quelle parti il figlio di un principe, il quale, scorgendo tra quelle onde preziose um viso da sirena che incantava i cuori, se ne innamorò perdutamente. E così poco a poco, tra sospiri, riverenze, strizzatine d’occhi, parole gentili, baci lanciati sulle punte delle dita… riuscì finalmente ad ottenere un appuntamento, che sarebbe avvenuto di notte, quando la luna è già alta nel cielo. Quando fu il giorno stabilito, Petrosinella fece addormentare l’orca con un sonnifero e, a un fischio del principe, calò le trecce giù dalla torre e lo tirò su. I due innamorati restarono insieme fino all’alba, poi il principe se ne andò, scendendo dalla stessa scala d’oro. La cosa andò avanti per molte e molte notti, fin quando una comare se ne accorse e, impicciona come era stato il Rosso , raccontò tutto all’orca; le disse anche che bisognava stare attenti, perchè ben presto il giovane avrebbe portato via Petrosinella da quella torre. L’orca la ringraziò e le disse che era tempo perso per Petrosinella tentare di squagliarsela, perché era prigioniera di un incantesimo, secondo il quale avrebbe potuto fuggire solo se in posseso di tre ghiande nascoste in una trave della cucina. Ma, mentre l’orca diceva tutto questo, Petrosinella, che non si fidava della comare e stava sempre all’erta, ascoltò ogni cosa. Così, quando la Notte distese nel cielo le sue vesti nere e il principe, come al solito, salì da lei, gli raccontò tutto. Lui immediatamente si arrampicò sulla trave di cucina e trovò le ghiande che consegnò a Petrosinella. Costruirono poi una scala di corda con cui si calarono dalla torre e se la diedero a gambe in direzione della città. Lungo la strada però furono visti dalla comare, la quale immediatamente cominciò ad urlare, svegliando l’orca che, dopo esser scesa dalla medesima scala, cominciò ad inseguirli, correndo più veloce di un cavallo imbizzarrito. Allora Petrosinella gettò per terra la prima delle tre ghiande, che subito si trasformò in un cane terrificante che, abbaiando a più non posso con le mascelle spalancate, si scagliò contro l’orca per farsene un sol boccone. Ma questa, che era più furba di un parasacco , tirò fuori da una sacca un pezzo di pane e lo lanciò verso il cane, il quale, azzannatolo, abbassò la coda e si acquietò. Superato il primo ostacolo, l’orca riprese ad inseguire i due. Petrosinella allora le lanciò la seconda ghianda: ed ecco apparire un ferocissimo leone che, sbattendo la coda per terra e scuotendo la criniera, con le fauci spalancate si preparava a far dell’orca una polpetta. Ma quella, vista la mala parata, tornò indietro, scorticò un


asino che pascolava tranquillamente, si ricoprì con la sua pelle e, correndo verso il leone, lo spaventò tanto che ancora sta scappando. Fatto ciò, ancora una volta l’orca riprese ad inseguire i due giovani, i quali, sentendola avvicinarsi a grandi passi e vedendo sollevarsi un gran polverone, capirono di essere di nuovo alle strette. Petrosinella gettò a terra la terza ghianda e ne venne fuori un lupo il quale, poiché l’orca per paura del leone non si era tolta la pelle d’asino, se la ingoiò in un battibaleno, come fosse un asino. Fu così che i due innamorati, finalmente salvi, poterono recarsi tranquillamente verso la casa del principe dove, una volta avuto il consenso del padre, si sposarono, provando dopo tante tempeste e travagli che: un’ora di buon porto fa dimenticare cento anni di tempeste


Mara Marsiglia

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Rita Intermite

G r o t t a g l i e ( TA )

- acrilico perlescente e brillantinato 100x70


Vittoria Falcone

Scanzano Jonico (MT) - tecnica mista su tela 40x120

Angela Capurso Matera - fotografia 50x70


Gabriella Rodia

G r o t t a g l i e ( TA ) - olio su tela 50x70

Arcangelo Gabriele D’Alessandro Bernalda (MT) - tecnica mista 50x70


Giovan Battista Basile

La Cerva Fatata Giornata I, Racconto IX Lo Cunto de li cunti - Il Pentamerone, 1634

Rimasero a bocca aperta ad ascoltare il bellissimo racconto di Paola, e tutti conclusero che la persona umile è come una palla, che quanto più è sbattuta a terra, tanto più salta in alto. Ma, non appena Taddeo ebbe fatto cenno a Ciommetella di continuare, lei così mise la lingua in movimento: “E’ grande, senza dubbio, la forza dell’amicizia e ci fa sembrare nulla le fatiche e i pericoli affrontati per un amico: il denaro non conta più niente, l’onore non ha importanza, la vita non vale un fico secco, quando si possono spendere per aiutare un amico. Le favole e le storie sono piene di questi episodi e oggi vi darò un esempio che mi raccontava sempre mia nonna (pace all’anima sua!) se, per darmi ascolto, chiuderete la bocca e aprirete le orecchie”. C’era una volta il re di Lungapergola che aveva nome Jannone. Questo re, desiderando moltissimo avere dei figli, rivolgeva sempre preghiere agli dèi, perché la moglie gli desse una buona volta un erede. Pensando di ottenere più sbrigativamente questa gioia, si mise a dare alloggio a tutti i viandanti che passavano davanti alla sua reggia, mostrandosi generoso e caritatevole. Passato un bel po’ di tempo, vedendo che le cose andavano per le lunghe e che il figlio non arrivava, il re cambiò atteggiamento, diventò selvatico e inospitale, sbarrò l’ingresso del castello e cominciò a tirare colpi di balestra a chi ci si avvicinava. Un giorno passò per quel paese un vecchio sapiente, che non sapeva che il re aveva cambiato atteggiamento, oppure, sapendolo, voleva porvi rimedio. Costui andò a trovare il re Jannone e lo pregò di dargli ospitalità in casa sua. Il re, con la faccia cupa ed un’ espressione terribile, disse: “Se non hai altra candela che questa, andrai a letto al buio! E’ passato il tempo il tempo che Berta filava! Il re non è più quel gonzo che ospitava tutti a sue spese!”. E quando il vecchio chiese la causa di questa trasformazione, il re rispose: “Io, per il desiderio di avere figli, ho sperperato le mie ricchezze, mostrandomi generoso con tutti, ma, quando ho visto che non ottenevo nessun risultato, ho deciso di chiudere i cordoni della borsa”. “Se questo è il motivo”, replicò il vecchio, “stai tranquillo, lascia fare a me e vedrai che presto tua moglie rimarrà incinta, mi ci gioco le orecchie!”. “Se lo farai”, disse il re, “ti do la mia parola che avrai metà del mio regno”.


Il vecchio rispose: “Ascoltami bene ora: se vuoi che tutto vada per il meglio, incarica qualcuno di strappare il cuore a un drago marino e fallo cucinare da una ragazza da marito, che, soltanto all’odore che viene dalla pentola, rimarrà incinta; e, appena questo cuore sarà cotto, dallo da mangiare alla regina, che subito avrà un bel pancione, come se fosse già al nono mese”. “Come può accadere una cosa simile?”, continuò il re, “mi sembra, francamente, impossibile”. “Non ti stupire”, disse il vecchio, “perché ci sono stati altri casi nel passato; sembra che anche la dea Giunone, calpestando un fiore, sia rimasta incinta” . “Se è così”, disse il re, “si trovi immediatamente questo cuore di dragone. Tentar non nuoce”. Fu così che cento pescatori, mandati per mare, prepararono tanti arpioni, nasse, ami, lenze, cime, fiocine e reti, che alla fine riuscirono a catturare un dragone e, strappatogli il cuore, lo portarono al re, che lo diede da cucinare ad una bella damigella. Questa si chiuse in cucina e, appena mise il cuore nella pentola e uscì il fumo del bollore, non solo a lei venne la pancia, ma anche a tutti i mobili che, dopo pochi giorni, figliarono: il letto fece un lettino, il forziere uno scrignetto, il tavolo fece un tavolinetto, la sedia una seggiolina, il vaso da notte un vasetto da notte decorato, così bello che faceva voglia! Ma, appena il cuore fu cotto e la regina l’ebbe assaggiato, subito si sentì crescer la pancia e dopo quattro giorni, lei e la damigella partorirono ciascuna un bel maschione, così simili l’uno all’altro, che non si distinguevano assolutamente. I due bambini furono allevati insieme, e si volevano tanto bene che non potevano stare neanche un minuto l’uno lontano dall’altro. La regina, col tempo, cominciò ad ingelosirsi, perché suo figlio sembrava voler più bene al figlio di una serva che a lei stessa; cominciò quindi ad arrovellarsi per trovare il modo di togliere di mezzo il figlio della damigella e non vederlo più. Un giorno i due amici, volendo andare a caccia, fecero accendere un bel fuoco nel camino della stanza del principe, per fondere il piombo e farne pallottole; ad un certo momento il principe si allontanò, per andare a cercare di persona qualcosa che gli serviva. Intanto arrivò la regina che, trovato da solo Canneloro, il figlio della damigella, pensando di toglierselo una buona volta da torno, lo colpì in faccia con una paletta arroventata. Canneloro, per schivare il colpo, si chinò e fu colpito solo sul sopracciglio; quando stava già per ricevere un secondo colpo, entrò Fonzo, il figlio della regina; lei, fingendo di essere venuta a trovarlo, gli fece quattro moine e con una scusa se ne andò via subito. Canneloro si calcò il cappello sulla fronte e non disse niente all’amico, nonostante si sentisse friggere per il gran dolore, ma, appena ebbe finito di fare palle come un bacherozzo che appallottola lo sterco, chiese all’amico il permesso di partire. Fonzo, stupito di questa richiesta improvvisa, gli chiese spiegazioni. Lui rispose: “Non chiedermi nulla, Fonzo mio; sappi che sono costretto a partire e che, separandomi da te, che sei il mio cuore, l’anima mi viene strappata dal petto e il sangue mi si gela nelle vene. Ma poiché non posso fare diversamente, stammi bene e ricordati di me!”. Canneloro, dopo baci e abbracci disperati, si ritirò nella sua stanza dove indossò l’armatura e afferrò una spada (proprio quella che era nata da uno spadone, il giorno famoso del cuore del dragone bollito) e, sceso nella stalla, stava per montare a cavallo, quando lo raggiunse Fonzo che, tra le lacrime, lo pregò di lasciargli


almeno un segno tangibile del suo affetto, per poter sopportare meglio il dolore della sua assenza. A queste parole Canneloro, preso il pugnale, lo conficcò a terra e in quel punto preciso sgorgò subito una bella fontana. “Questo è il ricordo migliore che ti posso lasciare”, disse Canneloro a Fonzo, “perché se vedrai zampillare da questa fontana acqua limpida, vorrà dire che la mia condizione è tranquilla e sicura; se la vedrai torbida, saprai che sono in difficoltà; se la vedrai asciutta (il Cielo non voglia), è segno che la mia vita è giunta alla fine”. Quindi prese la spada e la infilzò a terra: immediatamente spuntò dal terreno una bella pianta di mortella e lui disse: “Quando vedrai la pianta verde e rigogliosa, significa che anch’io sono in ottima salute; se la vedrai appassita, saprai che la fortuna mi sta abbandonando; se la vedrai secca, vorrà dire che dovrai recitare per me il requiem dei morti”. Detto questo, i due amici si abbracciarono di nuovo e Canneloro partì. Cammina e cammina, dopo aver affrontato molte avventure e peripezie - liti tra vetturini, truffe di osti, assassini di guardie del dazio, diarree per paura dei ladri – alla fine il giovane arrivò a Vignadoro, proprio il giorno in cui in paese si stava organizzando un gran torneo: il vincitore avrebbe ottenuto in sposa la figlia del re. Canneloro si presentò, in quattro e quattr’otto sbaragliò tutti gli altri concorrenti, si prese in moglie Fenizia, la bellissima figlia del re, e tutto si concluse con una gran festa. Dopo aver passato qualche mese in santa pace, Canneloro cominciò ad immalinconirsi per la voglia di andare a caccia, ma, quando disse questo al re, gli fu risposto: “Stai attento, genero mio, apri bene gli occhi, perché in questi boschi si aggira un parasacco, che ogni giorno cambia aspetto; ora sembra un lupo, ora un leone, ora un cervo, ora un asino e con mille stratagemmi trascina quelli che gli capitano a tiro in una grotta, dove se li divora. Perciò, figlio mio, attento, non rischiare la pelle!”. Canneloro, che non sapeva cosa fosse la paura, non ascoltò i consigli del suocero e - non appena il Sole ebbe spazzato via con i suoi raggi le ragnatele della Notte - partì per la caccia. Giunse in un bosco fitto e oscuro, proprio il luogo dove si nascondeva l’Orco, il quale, vedendolo arrivare, si trasformò in un battibaleno in una bella cerva. Quando Canneloro la vide, cominciò ad inseguirla; e quella tanto lo fece correre in lungo e in largo, che alla fine lo trascinò nel cuore della foresta, dove cominciò a cadere tanta pioggia e tanta neve che sembrava dovesse venire giù il cielo. Quando Canneloro si trovò davanti a una grotta, vi entrò per ripararsi dal freddo e, presa un po’ di legna, accese un bel fuoco per riscaldarsi. Mentre si asciugava gli abiti, la cerva si affacciò all’ingresso della grotta e disse: “Signor cavaliere, mi permetta di entrare a riscaldarmi un pochino, perché sono gelata dal freddo”. Canneloro che era un giovane cortese, le disse: “Avvicinati, che sei la benvenuta”. “Io entro”, rispose la cerva, “ma temo che tu poi mi ammazzi”. “Non temere”, replicò Canneloro, “ti do la mia parola”. “Se vuoi che io venga”, disse ancora la cerva, “lega questi cani, perché non mi sbranino e anche il cavallo, ché non mi tiri calci”. Il giovane fece quanto gli veniva chiesto. E la cerva disse: “Sì, ora sono abbastanza tranquilla, ma se non leghi anche la tua spada io non entro, per l’anima di mio nonno!”. E Canneloro, che voleva familiarizzare con lei, legò anche la spada. Non appena l’Orco


vide Canneloro senza difese, riprese il suo terribile aspetto, lo afferrò e, senza tanti complimenti, lo calò in una fossa in fondo alla grotta; chiuse poi l’entrata con una pietra, con l’intenzione di mangiarselo più tardi. Nel frattempo Fonzo, che mattina e sera controllava con la massima attenzione la pianta di mortella e la fontana, appena vide che l’una era appassita e l’altra torbida, capì subito che Canneloro era nei guai; senza chiedere il permesso né al padre né alla madre, si mise immediatamente a cavallo e, bene armato e con due cani fatati, tanto camminò e tanto girò e rigirò per il mondo che alla fine arrivò nel regno di Vignadoro. Trovò la città parata a lutto per la presunta morte di Canneloro. Appena si presentò a corte, tutti, credendolo Canneloro (infatti erano proprio identici), corsero ad avvertire la principessa, che, scapicollandosi giù per le scale, abbracciò Fonzo dicendogli: “Marito mio, cuore mio, dove sei stato per così tanti giorni?”. Fonzo capì subito che Canneloro era arrivato in quel paese e che se ne era andato; cercò di saperne di più e quando gli fu detto che, a causa di quella maledetta passione per la caccia si era esposto al pericolo di incontrare l’Orco cattivo, immaginò dove fosse andato il suo amico; per il momento pensò di far finta di nulla e, quando fu notte , andò a dormire. Dichiarando di aver fatto voto di non avvicinarsi alla moglie per quella notte, mise lo spadone come una steccato tra lui e Fenizia e aspettò con ansia che arrivasse l’alba. Non appena il Sole si levò, lui, nonostante le preghiere della moglie e l’ordine del re, volle assolutamente andarsene a caccia. Montato a cavallo, prese i cani fatati e si inoltrò nel bosco dove gli capitò ciò che era capitato a Canneloro. Entrato nella grotta, vide le armi dell’amico, i cani e il cavallo legati e comprese che Canneloro era finito proprio lì. E quando la cerva lo pregò di legare i cani e il cavallo, lui, per tutta risposta, glieli istigò contro e quelli la fecero a pezzetti. Mentre si guardava intorno per trovare qualche traccia dell’amico, sentì dei gemiti provenire dalla fossa e, alzata la pietra che la chiudeva, ne tirò fuori Canneloro con tutti gli altri che l’Orco teneva sepolti vivi per farli ingrassare. Si abbracciarono felici e contenti e subito tornarono a casa. Ma Fenizia, vedendoli così simili, non capiva chi fosse suo marito e non sapeva che pesci pigliare. Fortunatamente la situazione si chiarì non appena la pricipessa alzò il cappello di Canneloro e vide la cicatrice: immediatamente lo riconobbe con certezza e si gettò fra le sue braccia commossa e felice. Fonzo rimase lì un mese a divertirsi tra balli e festeggiamenti, ma poi volle rimpatriare; per mezzo suo Canneloro fece venire la sua mamma a Vignadoro, per averla sempre vicino. Da allora in poi non volle più sapere niente né di cani né di caccia, ricordando il proverbio che dice: gran male è castigarsi a proprie spese


Maria Grazia Tarulli Bernalda (MT) - tecnica mista su tavola 70x80

Gianfranco Policoro (MT) P r i l l o - acrilico su tela 100x120


Vito Antonio Marconia (MT) B a g l i v o

- tecnica mista su tela 50x60

Principia Cera Cesano Boscone (MI) R o s c o

- tecnica mista 50x70


Magda

Raspatelli

Potenza - acrilico su tela 80x100

Nino Oriolo Nova Siri (MT) - digitalart


Si ringrazia Il Comune di Colobraro e il Sindaco Avv. Andrea Bernardo per il patrocionio e il sostegno economico Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata - Dott.ssa Marta Ragozzino Il Conte Domenico Basile - Scrittore Avv. Raffaello Glinni - Storico e Ricercatore Emanuela Matera - Docente Manifesto - Scatto a cura del ph Paolo De Novi Design ed elaborazione grafica a cura di Pietro Galli

Per le fiabe si ringrazia L’ISOLA DEI RAGAZZI a cura di Domenico Basile e Grazia Zanotti Cavazzoni, Lo Cunto de li Cunti.


La voce amata di chi ci legge le fiabe, annoda le trame dei nostri sogni. L’ordito corre con noi,insegue instancabile il sogno e tesse la vita. Emanuela Matera - Docente Le storie raccontate ne “ Il racconto dei racconti” descrivono un mondo in cui sono riassunti gli opposti della vita: l’ordinario e lo straordinario, il magico e il quotidiano, il regale o lo scurrile, il terribile e il soave. Matteo Garrone - Regista E’ un melodramma nuovo e antico, un modo diverso da quello usato per vendere carne in scatola, perciò quello di un mondo diverso dove tutte le lingue sono una, le parole e le frasi sono esperienze di una storia di paure, di amore e di odio, fatte e subite allo stesso modo da tutti”. Roberto De Simone regista - autore teatrale creatore della nuova compagnia di canto popolare

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