Flavia Cristaldi, "Le migrazioni ambientali: prime riflessioni geografiche"

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Le migrazioni ambientali: prime riflessioni geografiche Climate change and environmental factors can exacerbate migration pressure and it is very likely that these weather events will contribute to an increased level of mobility and changing migration patterns (European Parliament, 2011, p. 15).

1. Introduzione Ogni anno milioni di persone sono costrette ad abbandonare le proprie case e i propri terreni a causa di una catastrofe di natura ambientale. A seguito di eventi catastrofici di breve durata quali terremoti, tsunami, eruzioni vulcaniche, cicloni, oppure di processi ambientali di più lungo periodo quali siccità, desertificazione, innalzamento del livello del mare, salinizzazione delle acque dolci, o anche a motivo dei conflitti causati dal controllo delle risorse naturali, come ad esempio le risorse idriche, o dal controllo delle risorse diminuite dopo le catastrofi (quali le minori rese agricole), individui, famiglie e intere popolazioni sono costrette o spinte all’emigrazione. In Asia, solo nell’arco 2010-2011, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, più di 42 milioni di persone sono diventati sfollati a cause di tempeste, inondazioni, siccità e ondate di freddo, ai quali si aggiungono tutti gli individui minacciati dall’innalzamento del livello del mare. Al miglioramento delle condizioni alcune persone e nuclei familiari riescono a rientrare nelle proprie case mentre molte altre sono costrette a migrare per trovare nuove opportunità. I flussi possono avere destinazioni interne allo Stato o scavalcare i confini ma, in entrambi casi, richiamano l’attenzione della comunità internazionale, sia per quanto concerne le politiche ambientali locali e globali e per il governo del territorio che per la gestione dei trasferimenti e dell’accoglienza nei Paesi stranieri. Gli studi internazionali affermano che nel futuro tali eventi diventeranno più frequenti a seguito del cambiamento climatico (e basta citare anche solo quanto pubblicato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC), così come aumenteranno i migranti e i costi sociali: «le conseguenze sociali dei processi ambientali in esame sono una delle più grandi sfide che la comunità internazionale dovrà affrontare nei prossimi 1 anni» (Bogumil, 2012, p. 5). Le migrazioni ambientali sono un fenomeno estremamente complesso che va inserito all’interno di un discorso più globale sulle migrazioni. La decisione di migrare, infatti, è molto spesso condizionata da una serie di fattori (territoriali o personali) e l’aspetto ambientale può essere la causa diretta oppure può incidere indirettamente su molti altri aspetti (ad esempio sociali ed economici). In ambito internazionale, infatti, 1

Traduzione dell'autrice.


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non esiste una definizione univoca in grado d’indicare un migrante costretto o spinto da motivazioni ambientali. Si utilizzano le espressioni di “migrante ambientale”, “eco migrante”, “rifugiato ambientale”, e altre, rendendo necessaria una riflessione terminologica che non si esaurisce nell’aspetto linguistico perché indica, nel caso, anche un preciso status giuridico estremamente diverso e stringente. Nelle pagine seguenti, vista la complessità del tema, alla luce della consapevolezza di una imminente accelerazione del fenomeno sia in ambito internazionale che nazionale, si proporrà una prima riflessione geografica sul tema delle migrazioni ambientali ancora parzialmente marginale all’interno della discussione scientifica nazionale (basti pensare, ad esempio, che la pagina di wikipedia relativa a “Environmental Migrants” non è ancora stata tradotta in italiano) e della disciplina geografica. 2. Ambiente, migrazioni, sviluppo Nonostante molte agende nazionali, così come quelle di alcuni organismi intergovernativi, dedichino spazio e interesse all’ambiente, alle migrazioni e allo sviluppo, ancora poca attenzione viene diretta allo studio delle relazioni tra queste tre tematiche. Infatti, benché negli ultimi anni i tre temi siano stati i focus principali di interessi internazionali, sia in ambito scientifico che politico, questi fenomeni sono stati analizzati per lo più separatamente. Nei lavori della Global Commission on International Migration (GCIM, 2005), ad esempio, non viene posta attenzione alle tematiche ambientali così come, dal lato opposto, nel Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (2007) non viene approfondito il tema delle migrazioni. Appare evidente, invece, come siano presenti interrelazioni dirette ed indirette tra tutte e tre le variabili qui considerate (per una rassegna sistematica e critica delle principali interpretazioni proposte si rimanda a Morrissey, 2012) che possono condizionare le realtà sociali, economiche e ambientali assumendo pesi disuguali nei diversi contesti geografici. James Morrisey individua due approcci principali nella letteratura relativa al tema dei rifugiati politici: uno minimalista ed uno massimalista. Nel primo (ad es. Hugo, 2010) il rapporto tra cambiamento ambientale e migrazioni è lineare mentre nel secondo (ad es. Myers, 2005) il rapporto è complesso perché entrano in gioco molti altri fattori, tra i quali, ad es., la percezione di un problema che potrà accentuarsi con il tempo, la pressione demografica (Graziano, 2012), la diminuzione di opportunità economiche, l’aumento della vulnerabilità del contesto, i conflitti che possono essere indotti dalla minore disponibilità di terre e risorse, il livello di sviluppo del Paese interessato dallo stress ambientale. Tra gli autori del filone minimalista, Naik, Stigter e Laczko (2007), ad esempio, riconoscendo l’esistenza di diverse relazioni complesse tra i fattori ambientali e le migrazioni riconoscono anche lo sviluppo come terzo fattore principale del discorso (fig. 1). I tre Autori affermano che le migrazioni possono avere sia effetti negativi che positivi sullo sviluppo perché la capacità di resilienza e adattamento di una popolazione ad un territorio anche degradato potrebbe rallentare la spinta al cambiamento finendo per facilitare e, a volte, aumentare nel tempo il degrado. In un’ottica opposta, al contrario,


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le migrazioni, attraverso l’impiego delle rimesse, possono rappresentare un forte aiuto per la ricostruzione dopo una catastrofe. Lo sviluppo, dal canto suo, può sia incoraggiare che inibire la migrazione, in quanto la mancanza di opportunità economiche può favorire le partenze ma, allo stesso tempo, può permettere il viaggio, perché se la povertà fosse estrema non si sarebbe in grado neanche di partire. È noto, infatti, che gli individui più poveri di una società generalmente non si muovono. Inoltre, lo sviluppo economico e tecnologico di un Paese è direttamente connesso anche ai possibili interventi di tutela ambientale e di prevenzione, aspetti che possono ovviamente limitare l’impatto di catastrofi ambientali sui territori e sulla popolazione. I disastri possono portare a un aumento dell’emigrazione se le aree sono diventate economicamente e socialmente impoverite a seguito delle crisi, ma possono allo stesso tempo attrarre immigrati in cerca di lavoro nello sforzo di ricostruzione. Tab. 1. Relazioni tra migrazione, sviluppo e catastrofi naturali.

Fonte: Naik, Stigter and Laczko, 2007, pp. 13-14.

La bibliografia internazionale mette in luce una certa limitatezza di studi su queste tematiche, anche perché fino a qualche anno fa non si riteneva che le migrazioni ambientali necessitassero di studi a parte rispetto alle altre migrazioni e perché il fiorire di tale letteratura può anche essere messa in relazione con il cambiamento di ottica nei confronti dell’ambiente e della sua gestione. Nonostante i ricercatori non forniscano una interpretazione univoca dei rapporti esistenti tra migrazioni e ambiente, risulta però ormai evidente e riconosciuta l’esistenza di un rapporto più o meno complesso tra


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ambiente e migrazioni. Ciò che differenzia profondamente i due approcci minimalista e massimalista risiede, piuttosto, nell’uso dell’espressione rifugiati ambientali, espressione molto usata dai massimalisti e invece estremamente ridotta e limitata da parte dei minimalisti (Morrissey, 2012). Pur con tutti i distinguo, in ogni caso sembra che la comunità scientifica sia concorde nel classificare i cambiamenti ambientali come un “moltiplicatore di minacce” per individui e gruppi, sia per i paesi già svantaggiati da un punto di vista geografico e dello sviluppo economico, sociale-politico, istituzionale, sia per la sicurezza e lo sviluppo internazionale (Cespi, 2010). 3. L’ambiguità dei termini L’analisi della bibliografia internazionale evidenzia una difformità lessicale nell’uso dei termini con i quali si indicano i migranti oggetto di questa discussione. Le espressioni “rifugiato ambientale”, “eco migrante”, “migrante ambientale”, “migrante ambientale forzato”, “rifugiato climatico”, “sfollato ambientale”, etc., pur riferendosi ad individui che migrano, indicano situazioni di partenza o status giuridici diversi per i quali, però, ancora non esiste una considerazione univoca comune. L’espressione "rifugiato ambientale" fu inizialmente proposta dal noto ricercatore del Worldwatch Insti2 tute, Lester Brown, nel 1976 , e da allora si è assistito ad una proliferazione di termini. Anche nel Rapporto dell’United Nation Development Program (UNEP) del 1985, Essam El-Hinnawi considera ampiamente il fenomeno delle migrazioni ambientali ed utilizza l’espressione “rifugiati ambientali”. L’International Organisation for Migration, ad esempio, opta per l’espressione “migranti ambientali” e propone la seguente definizione: «I migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali» ed individua tre tipologie di migranti ambientali: - Environmental emergency migrant: persona che migra temporaneamente a causa di un disastro ambientale quali ad esempio uragani, tsunami, terremoti, etc.; - Environmental forced migrant: persona costretta a partire a causa del deterioramento delle condizioni ambientali, quali deforestazione, salinizzazione delle acque dolci, etc.; - Environmental motivated migrant detta anche environmentally induced economic migrant: chi sceglie di migrare in risposta a problemi che si vanno intensificando, come ad esempio chi parte in risposta alla diminuzione della produttività agricola causata dalla desertificazione.

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Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Environmental_migrant - cite_note-3.


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Il Parlamento Europeo, considerando il fenomeno delle migrazioni ambientali un fenomeno che interesserà l’intero continente nel prossimo futuro e dovrà quindi necessariamente essere affrontato sia da un punto di vista scientifico che politico, in uno studio del 2011 ha proposto di utilizzare l’espressione più generale “Environmentally induced migration” per indicare l’intero fenomeno ed “Environmentally Induced Displacement” per indicare le forme di migrazione forzata causata primariamente dagli stress ambientali. Ovviamente i ricercatori propongono anche di tenere ben distinte le forme di stress temporaneo legate ad eventi improvvisi e le forme permanenti, dovute a catastrofi di lunga durata, in quanto le due categorie richiedono differenti interventi e meccanismi di protezione umanitaria (European Parliament, 2011). Fondamentalmente bisogna differenziare tra la migrazione forzata e quella volontaria anche se non sempre tale differenziazione è di facile applicazione (Pollice, 2007). Le implicazioni delle due diverse forme di migrazione ambientale sono ovviamente di facile comprensione ed immaginazione, è comunque bene ricordare che le migrazioni ambientali forzate non hanno un adeguato riconoscimento giuridico nella legge internazionale e nei singoli ordinamenti statuali e questa mancanza è ovviamente connessa al diverso riconoscimento giuridico che si vuole dare ai migranti evidenziando la differenza tra le forme di migrazione collegate all’ambiente. Cercando di comprendere lo spirito e le motivazioni alla base del variegato dibattito esistente tra i proponenti dell’espressione rifugiati ambientali e i contrari, Morrissey afferma che per i proponenti dell’espressione, l’applicazione del termine “rifugiato” a tutte le tipologie di migranti ambientali serve, tra l’altro, ad alimentare una visione quasi apocalittica delle migrazioni internazionali e spingere verso un numero elevato d’interventi gestionali e di tutela sull’ambiente. I governi, anche in risposta alle richieste da parte di una popolazione sempre più in preda alla paura dell’invasione di migliaia se non milioni di rifugiati, per evitare di dover accogliere anche i rifugiati ambientali, facendo appello alla normativa internazionale che tutela i rifugiati, preferiscono impegnarsi in una maggiore tutela dell’ambiente. La Convenzione di Ginevra del 1951 e il suo Protocollo Supplementare del 1967 non prevedono delle specificità giuridiche per i rifugiati ambientali quindi, qualora venisse riconosciuto il rapporto univoco cambiamento ambientale (oppure evento catastrofici naturale)-rifugiati ambientali, i governi si troverebbero obbligati al riconoscimento dello status e al loro accoglimento all’interno dei territori nazionali. Il problema, ovviamente, è molto complesso, anche perché se il numero di rifugiati si allargasse enormemente, i finanziamenti disponibili per la categoria andrebbero suddivisi tra molti più richiedenti inficiando i risultati. In ambito europeo, nel Glossario Migrazione e Asilo pubblicato dall’European Migration Network per individuare un lessico comune al quale fare riferimento si sottolinea, ad esempio, la differenza tra “sfollato per motivi ambientali” (Environmentally displaced person), “rifugiato per motivi ambientali” (Environmental refugee) e “migrante per motivi ambientali” (Environmentally-driven migrant) (2011) evitando una definizione univoca. I migranti ambientali definiti come “sfollati” sono persone costrette a spostarsi all’interno del proprio Paese o all’estero a causa di conflitti e/o disastri naturali o provocati dall’azione antropica. Se gli sfollati non varcano la frontiera del loro Stato


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d’origine rimanendone cittadini, mantengono tutti i diritti connessi ma, qualora i rispettivi governi e le autorità locali non si occupassero del problema migratorio interno, potrebbero non vedersi riconosciuto uno status giuridico specifico. Molti diritti e sistemi legislativi sono stati individuati a tutela degli sfollati, un primo esempio era stato fornito dai Principi Guida sullo Sfollamento (Guiding Principles on Internal Displacement) adottati nel 1998 dalla Commissione ONU sui Diritti Umani. Obiettivo era quello di fissare uno standard internazionale per accordare protezione legale e umanitaria agli sfollati interni in tutte le fasi del processo di sfollamento. I principi guida individuano anche i disastri naturali come fattore di sradicamento dalla propria casa: “persons forced or obliged to flee or leave their homes or places of habitual residence for an array of reasons, such as conflict and civil strife as well as natural disasters”. Ma, come evidenzia Terminski Bogumil, nel documento si propone una generalizzazione delle cause mentre sarebbe stato utile e necessaria una classificazione maggiormente incisiva capace di evidenziare le specificità delle cause ambientali (Bogumil, 2012). Il documento ONU, privo di alcun valore vincolante, era una specie di sintesi del quadro delle norme relative al trattamento umanitario degli sfollati interni. Diversi Paesi (tra i quali Liberia, Uganda, Angola, Peru e Turchia) fanno riferimento a questo quadro di riferimento normativo. Attualmente, Svezia e Finlandia sono gli unici due membri dell’Unione ad aver incluso i “migranti ambientali” (così vengono chiamati) nelle rispettive politiche migratorie nazionali (Aliens Act). Australia e Nuova Zelanda, maggiore area di destinazione dei migranti provenienti dalle isole Tuvalu e Kiribati (isole che rischiano di essere sommerse), discutono sulla necessità di prevedere forme di accoglienza anche per i migranti ambientali interessati da disastri ambientali di lungo periodo (Legambiente, 2012). 4. Disastri ambientali e migrazioni: l’aspetto temporale Rimanendo ad un primo livello interpretativo del rapporto intercorrente tra ambiente e migrazioni, bisogna analizzare il binomio su una scala temporale. Frane, valanghe, alluvioni, esondazioni, eruzioni vulcaniche, terremoti, tsunami, cicloni, siccità, desertificazione, perdita di produttività del terreno, incendi, epidemie, salinizzazione delle acque dolci, sono tutti fenomeni naturali che possono sconvolgere la vita di milioni di persone e di intere Nazioni. A questi si possono aggiungere il crollo delle dighe, gli incidenti nucleari e molti altri eventi catastrofici che indicano la necessità d’inserire nel discorso pure le catastrofi causate dalle opere tecnologiche. Se nel caso del crollo di una diga o di un incidente ad una petroliera è evidente il ruolo dell’azione umana nella catastrofe ambientale, mentre nel caso di un terremoto o di una eruzione vulcanica è nota l’origine naturale, la distinzione uomo-natura non è sempre netta e di facile applicazione nell’analisi delle catastrofi ambientali. La deforestazione, ad esempio, è causata esclusivamente dai cambiamenti climatici d’origine naturale o dipende anche dagli interventi dell’uomo? E quindi le migrazioni causate dalla desertificazione, sempre per ragionare in via di schematizzazione, sono causate dall’intervento della natura o dipendono da azioni dirette e/o indirette del genere u-


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mano? Gli esempi potrebbero moltiplicarsi e la domanda non troverebbe risposta univoca, perché risulta ormai chiaro come le variabili natura e azione antropiche siano profondamente interconnesse. Fabio Pollice afferma che si potrebbe «rappresentare le possibili configurazioni causali che sono alla base delle migrazioni ambientali come i punti di un ideale continuum le cui estremità sono rappresentate: da una parte, dai fenomeni di degrado di matrice esclusivamente naturale come i terremoti o le eruzioni vulcaniche; e, dall’altra, dai fenomeni di degrado determinati dalla sola azione umana, distinguendo eventualmente tra azioni volontarie e involontarie […]» (Pollice, 2007, p. 127). Tale interpretazione lineare del rapporto catastrofe naturale e responsabilità del genere umano, va ovviamente intensificandosi e assumendo nuovo spessore quando si inserisce nel discorso anche il fattore migrazioni. A volte non è necessario neppure l’incidente affinché un’opera antropica costringa migliaia di persone all’emigrazione. Pollice suggerisce di procedere ad una distinzione nelle determinanti migratorie di matrice antropica: cause accidentali, progetti di sviluppo e strategie di guerra (Pollice, 2007). Se tra le prime è facile ricordare gli incidenti nucleari e chimici, tra i secondi basta citare il grande progetto della costruzione della diga delle Tre Gole, in Cina, con il quale si auspicava un miglioramento delle condizioni di benessere di milioni di persone e per raggiungere tale obiettivo più di un milione di persone è stato evacuato e ricollocato in nuovi o già esistenti centri urbani, sconvolgendo un’intera regione. La terza causa antropica nei processi di degradazione ambientale è rintracciabile nelle strategie di guerra, quelle strategie che utilizzano l’ambiente come arma, pressione o deterrente. Noto, ad esempio, è il problema della gestione dei corsi d’acqua e dell’uso strumentale che può essere attuato dagli Stati “a monte” nei confronti degli Stati a valle (come ad esempio lungo il corso dell’Eufrate). Gli effetti degli eventi catastrofici sulla popolazione possono essere diretti e indiretti e, soprattutto, possono investire una scala temporale molto diversa con implicazioni decisamente differenti. Gli effetti devastanti e imprevedibili di un terremoto, ad esempio, implicano lo spostamento improvviso e tempestivo di intere popolazioni con una necessaria gestione coordinata dell’emergenza che preveda anche forme di tutela degli individui coinvolti. Le implicazioni dell’innalzamento del livello del mare, al contrario, per ragionare su un fenomeno di lungo periodo, investono allo stesso modo intere popolazioni (si pensi alle popolazioni di alcune fasce costiere del Bangladesh o di alcune isole del Pacifico) ma, su una scala diacronica, permettono ai singoli e alle autorità di trovare risposte più o meno adeguate al problema dell’abbandono della casa e delle terre. Tali popolazioni, ad esempio, potrebbero decretare di abbandonare tutto e di emigrare ma potrebbero, al contrario, anche decidere di intervenire sul territorio attuando opere idrauliche capaci di allontanare il pericolo. I fenomeni ambientali che causano direttamente o indirettamente le migrazioni non vanno quindi analizzati nel loro insieme ma è necessario scomporli in categorie al fine sia di poterne monitorare la distribuzione geografica ma, soprattutto, per poter individuare le problematicità specifiche di ciascuna tipologia e suggerire interventi idonei capaci sia di tutelare il territorio che le popolazioni in un’ottica di sostenibilità. È errato pervenire ad una classificazione univoca e universale perché, al pari delle altre


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tipologie migratorie anche quella ambientale è causata da numerose variabili che cambiano nei contesti geografici, nella storia di un luogo e nel ciclo di vita del singolo individuo (Cristaldi, 2012). Ragionando esclusivamente sul fattore ambientale, una prima differenziazione di tutti questi fenomeni può essere operata prendendo come punto di riferimento la scala cronologica, pervenendo alle due categorie generali relative agli eventi catastrofici di breve periodo e alle catastrofi di lungo periodo. All’interno di tali categorie bisogna effettuare una nuova suddivisione tra le catastrofi naturali legate ad eventi geofisici, meteorologici, idrologici, climatologici e biologici. A partire dall’inizio degli anni ’70, periodo nel quale è cominciato il monitoraggio sistematico degli eventi catastrofici da parte del Centre for Research on the Epidemiology of Disaster, il CRED, costituitosi nel 1973 e attivo dal 1988 nella costruzione di una banca dati (EM-DAT) che raccoglie i dati dei disastri ambientali registrati nel mondo a partire dal 1900, il numero degli eventi catastrofici naturali è aumentato (fig. 2), così come è aumentato il numero di persone coinvolte (fig. 3), benché il numero delle vittime (decessi) sia diminuito (fig. 4) (The International Disaster Database). Fig. 2. Numero di disastri naturali segnalati, 1975-2010.

Fonte: The International Disaster Database (http://www.emdat.be/reference-maps)

Il CRED ha registrato negli ultimi anni un incremento di frequenza delle inondazioni e delle tempeste (tifoni e uragani) e con i suoi studi diacronici ha evidenziato le aree maggiormente interessate dalle diverse tipologie di disastri naturali (environmental spots). A livello globale, l’Asia e l’area del Pacifico risultano le zone maggiormente interessate dai disastri naturali sia dal punto di vista della frequenza che per quantità di popolazione coinvolta (Asian Development Bank, 2012, p. viii).


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Fig. 3. Persone che hanno necessitato d’immediata assistenza durante un disastro naturale 1975-2011.

Fonte: The International Disaster Database (http://www.emdat.be/).

Fig. 4. Numero di vittime di disastri naturali ogni 100.000 abitanti 1986-2005.

Fonte: The International Disaster Database (http://www.emdat.be/reference-maps).

Ma non tutte le aree colpite dagli eventi catastrofici vedono partenze di massa, perché l’emigrazione è anche condizionata dal grado di sviluppo economico e dalle capacità d’intervento dello Stato. Steve Lonergan, già nel 1998 aveva sottolineato quale fosse il ruolo significativo giocato dallo sviluppo del Paese sulla vulnerabilità verso i cambiamenti ambientali (Lonergan, 1998). E Richard Black, nel 2001, con un forte spirito critico, affermava che se il cambiamento ambientale c’è, questo è solo una causa parziale dell’emigrazione mentre l’origine dei movimenti dipende dalle disuguaglianze nello sviluppo (Black, 2001).


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Gli uragani e i cicloni che si abbattono sugli Stati Uniti, ad esempio, pur distruggendo intere città e regioni (si ricordi l’uragano Katrina del 2005 che si è abbattuto su New Orleans parzialmente distruggendola) e spingendo all’emigrazione migliaia di famiglie, grazie all’intervento dei governi, alle capacità tecnologiche e ai capitali presenti, finiscono per lasciare meno distruzione e impoverimento della popolazione rispetto a quanto disseminano in altri paesi (si ricordi la devastazione conseguente allo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano). Oppure basta paragonare la situazione di Haiti dopo tre anni dal terremoto (2010) con quanto si sta ricostruendo oggi, e si è già ricostruito, in Giappone dopo lo tsunami del 2011. Tra i fenomeni ambientali di lungo periodo che si ritiene abbiano il maggior impatto sulle popolazioni bisogna annoverare l’innalzamento del livello del mare, la siccità e la desertificazione. Lo scioglimento dei ghiacciai sta facendo registrare un sensibile aumento delle acque oceaniche mettendo in grave pericolo i territori posti al di sotto o leggermente al di sopra di tale livello. L’Asia e il Pacifico sono le aree più vulnerabili e maggiormente esposte a tale fenomeno. Esempi macroscopici di tale fenomeno sono le piccole isole del Pacifico che vedono la scomparsa progressiva dei loro territori invasi dalle acque marine. Non soltanto i terreni si assottigliano ma diventa sempre più preoccupante anche la salinizzazione delle acque dolci e delle falde acquifere con il conseguente aumento della salinità delle terre da coltivare. Con il tempo anche le terre non interessate direttamente dalla sommersione del mare devono essere abbandonate per le rese agricole sempre più basse. Solo per rimanere in Asia, oltre alle coste del Bangladesh e del Vietnam, anche le zone costiere di Guangzhou, Haikou, Shanghai, Shenzhen, e Tianjin in Cina, di Seoul nella Repubblica di Corea, così come quelle di Honshu in Giappone sono a rischio a causa dell’innalzamento del livello del mare. Per lanciare uno sguardo al Pacifico, i problemi ambientali che stanno affrontando i piccoli Stati delle isole Tuvalu e Kiribati, a seguito del processo di sommersione, sono esacerbati anche da altri fenomeni demografici che spingono verso l’emigrazione. Le isole, infatti stanno registrando un aumento naturale della popolazione mentre stanno registrando una diminuzione delle rese agricole e delle risorse disponibili, elementi che portano a crisi sociali sempre più consistenti. I governi dei due Paesi stanno approntando misure atte a gestire il cambiamento ambientale e la partenza in massa della popolazione. A Tuvalu, tra l’altro, sono in via di realizzazione nuove cisterne per la conservazione dell’acqua potabile, mentre a Kiribati è in corso il programma “migration with dignity”, un programma d’istruzione attraverso il quale offrire alla popolazione competenze professionali utili sia in Patria che nel caso di migrazione. Nell’analisi delle migrazioni per cause ambientali bisogna anche considerare le catastrofi di origine tecnologica, cioè tutti quegli eventi catastrofici indotti direttamente dall’azione antropica, quali ad esempio le fuoriuscite di petrolio da navi o pozzi petroliferi, incidenti industriali, etc., che possono sconvolgere intere regioni e popolazioni. L’incidente nucleare di Chernobyl del 1986, ad esempio, come quello di Fukushima del 2011, hanno distrutto interi ecosistemi forzando la popolazione all’evacuazione e alla migrazione. Ma i danni economici che si stimano subito dopo il verificarsi di questi eventi difficilmente tengono conto dell’economia informale che permette, in realtà, la sopravvi-


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venza di intere fasce di popolazione svantaggiata quindi, in alcuni paesi, i danni riportati sono molto più consistenti di quelli stimati. Le catastrofi avranno ridotto non solo la disponibilità delle risorse, di cibo, ma anche di lavoro spingendo la popolazione a migrare per le conseguenze indirette sull’economia. 5. Conclusioni Come emerge chiaramente da queste prime riflessioni, il fenomeno delle migrazioni ambientali interesserà un numero sempre maggiore di persone e coinvolgerà quasi tutte le Nazioni, se non come aree di partenza almeno come aree di arrivo. I migranti ambientali, come messo in evidenza nelle righe precedenti, partono per una serie di motivazioni che si sovrappongono e s’intersecano, per cui è quasi impossibile individuare il ruolo specifico e univoco del degrado o del cambiamento ambientale di un territorio nell’espulsione o nell’allontanamento del singolo o di una collettività. È stato ormai riconosciuto, comunque, che la componente ambientale ha un peso variabile, da limitato a totale, in alcuni contesti ed in alcuni momenti e non in altri. Proprio per questa differenziazione sia geografica che temporale il discorso globale sul rapporto tra ambiente e migrazioni, pur essenziale per la comprensione e per le politiche internazionali, deve piuttosto essere affrontato ad una scala locale, nella quale si possano evidenziare le varie componenti in gioco. La scienza geografica, in tale prospettiva, sembra offrire una metodologia analitica consolidata, in grado di scomporre e ricomporre un territorio alle diverse scale, riuscendone a cogliere anche le relazioni non sempre evidenti. Nei prossimi anni, anche in virtù di una crescente domanda d’intervento da parte di migliaia e, in alcuni casi, anche milioni di persone, non soltanto la scienza dovrà impegnarsi nella ricerca di nuove soluzioni tecnologiche ma dovrà, soprattutto, pervenire all’elaborazione di politiche globali alle quali le Nazioni dovranno fare riferimento. Sarà necessario, sempre nell’ottica globale, pervenire ad una definizione univoca del “migrante ambientale”, decidendo in sede internazionale quali garanzie giuridiche possono o non possono essere indirizzate ai singoli individui e alle categorie di migranti. In un pianeta sempre più interessato da guerre, nel quale i profughi chiedono asilo, le risorse disponibili, che vanno incrementate, devono prevedere anche l’aiuto ad alcune categorie di migranti ambientali. L’applicazione del termine “rifugiato” ambientale a tutte le categorie di migranti coinvolte con un problema ambientale sembra incapace di fornire utili risposte sia interpretative che giuridiche. Sarebbe più utile, invece, pervenire ad una classificazione univoca e riconosciuta solo ad alcune categorie dello status di rifugiato. Queste prime riflessioni sui rapporti tra ambiente e migrazione, così come sugli aspetti giuridici dei migranti, dovranno trovare in futuro un necessario approfondimento nel contesto scientifico e civile italiano perché anche l’Italia assumerà sempre più un ruolo all’interno di questo fenomeno globale, sia in quanto paese di accoglienza che come Paese interessato anch’esso dalle catastrofi (si pensi ai recenti terremoti de L’Aquila e dell’Emilia). Anzi, in un prossimo futuro, l’eruzione del Vesuvio costringerà


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le popolazioni pedemontane all’emigrazione, la siccità spingerà intere famiglie ad abbandonare i propri terreni in cerca di terre più umide, frane e alluvioni sconvolgeranno altri lembi del nostro territorio lasciando fango e distruzione, richiedendo quindi alla scienza, alla politica e alla società civile una presa di coscienza di un fenomeno che non ha confini, perché anche quando agisce su uno spazio extranazionale finisce per ripercuotersi all’interno dei confini statali. 6. Bibliografia Asian Development Bank, Addressing climate change and migration in Asia and the Pacific, Asian Development Bank, Manila 2012. Deborah Balk, Urban Population Distribution and the Rising Risks of Climate Change, Presentation at the United Nations Population Division Expert Group Meeting, 21-23 January 2008. Richard Black, Environmental Refugees: myth or reality?, Working Paper n. 34, UNHCR, Geneva 2001. Terminski Bogumil, Environmentally-Induced Displacement. Theoretical Frameworks and Current Challenges, CEDEM, Liège 2012. Lester R. Brown, Patricia L. McGrath, Bruce Stokes, Twenty-two dimensions of the population problem, Worldwatch Paper 5, Worldwatch Institute, Washington (DC) 1976. Valerio Calzolaio, Ecoprofughi. Migrazioni forzate di ieri, di oggi, di domani, NdA Press, Rimini 2010. Centre for Research on the Epidemiology of Disaster, The international disaster database, http://www.emdat.be/. Cespi, Cambiamenti climatici e governance della sicurezza: la rilevanza politica della nuova agenda internazionale, n. 16, Roma 2010. Flavia Cristaldi, Immigrazione e territorio. Lo spazio con/diviso, Pàtron, Bologna 2012. Essam El-Hinnawi, Environmental Refugees, UNEP, Nairobi 1985. European Migration Network, Glossario Migrazione e Asilo, Idos, Roma 2011. European Parliament,“Climate refugee”. Legal and policy responses to environmentally induced migration, Bruxelles 2011. Maurizio Gubbiotti, Tiziana Finelli, Elena Peruzzi, 2012, Profughi ambientali: cambiamento climatico e migrazioni forzate, Legambiente Onlus, Roma 2012. Teresa Graziano, Il migrante “ambientale”. Tra nuove configurazioni delle migrazioni transnazionali ed evoluzione delle dinamiche demografiche, in “Bollettino della Società Geografica Italiana”, Roma 2012, pp. 223-241. Steve Lonergan, The role of Environmental Degradation in Population Displacement, in “Environmental Change and Security Project Report”, vol. 4, 1998, pp. 5-15. James Morrissey, Rethinking the 'debate on environmental refugees': from 'maximilists and minimalists' to 'proponents and critics, in “Journal of Political Ecology”, vol.19, 2012, pp. 36-49.


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