Come Acqua

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Come Acqua Album di Famiglia, contenitori di identitĂ .

Annamaria Amura


Come Acqua Progetto fotografico a cura di Annamaria Amura 2014 ISIA Urbino, (PU) Istituto Superiore per le industrie Artistiche Biennio in Fotografia per i Beni Culturali Tecniche fotografiche II A.A. 2013/2014 Docente: Mario Cresci Fotografie, Testi e impaginato: Annamaria Amura Finito di stampare a Giugno 2014


A mia nonna


COME ACQUA “Che forma ha l’acqua? Essa non ha forma ma prende la forma del recipiente che la contiene.” Lao-tzu


ALBUM DI FAMIGLIA: CONTENITORI DI IDENTITÀ

In ogni società sono presenti dei dispositivi per trasmettere la cultura, le esperienze e le forme di relazione che caratterizzano il modo di vita dei suoi membri da una generazione all’altra. Questi dispositivi possiedono dei meccanismi per condizionare il comportamento, per orientare l’azione dei singoli verso i significati e i modelli condivisi, in modo esplicito o implicito. Questo fenomeno è stato definito dagli antropologi come inculturazione. Come un albero, l’uomo quando nasce è debole e duttile e durante l’arco della sua vita opera una riduzione della sua plasticità originaria per apprendere una cultura e vivere solo un tipo di vita, diventando un essere umano compiuto sotto la guida di modelli culturali che danno una forma. Questo processo d’inculturazione non si concentra solo nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza ma si dispiega nell’intero corso della vita producendo l’inserimento dell’individuo in un sistema, fondato sull’interazione sociale dell’imitazione. L’individuo soggetto al processo dell’inculturazione non è mai passivo ai modelli che esso propone, ma compie delle scelte trasformando e interpretando, creando dai vecchi modelli di comportamento, nuovi significati e valori. Il processo d’inculturazione lascia spazio alle capacità creative degli attori sociali. È anche in queste possibilità che si realizza il mutamento sociale: quest’aspetto è denominato varianza e implica la possibilità di scegliere tra diversi modelli. Il processo d’inculturazione costruisce il senso di appartenenza dell’individuo al gruppo. Le persone, infatti, valutano se stesse e il proprio comportamento eleggendo a riferimento una certa categoria di individui: il criterio della nostra autovalutazione non dipende dal gruppo cui apparteniamo quanto piuttosto a quello cui vorremmo appartenere. La famiglia è l’ambiente principale dei processi di socializzazione e di trasmissione culturale tra le generazioni, è il primo agente di controllo sociale che restringe le possibilità di comportamento. Per socializzazione s’intende l’imposizione di modelli sociali sul comportamento. Ogni individuo è sottoposto all’interiorizzazione dei ruoli fin dalla prima infanzia in relazione al sesso, alla posizione nella famiglia, all’età. Ognuno di noi ha quindi, rispetto alla realtà, una serie di atteggiamenti che lo caratterizzano socialmente. Questi si formano attraverso le esperienze quotidiane e gli eventi fondamentali che abbiamo vissuto.

Individui provenienti da un diverso background di vita, entrando direttamente in contatto fra loro, producono - influenzandosi - un cambiamento di atteggiamenti e comportamenti in un processo chiamato acculturazione. In questo caso si può parlare d’identità etnica, come aspetto della conoscenza di sé derivante dall’appartenenza a un gruppo etnico diverso o generazionale. Questa si mantiene tra le prime e le seconde generazioni, e determina un benessere psicologico e una capacità di adattamento dell’individuo. È quindi la famiglia il primo recipiente in cui siamo inseriti: più della semplice somma delle sue parti, la famiglia produce una serie di legami che non possono essere ridotti a una singola unità. È un sistema d’individui interconnessi e il cambiamento anche di solo una parte fa si che cambi tutto il gruppo: la famiglia influenza il singolo, mentre è essa stessa influenzata dall’ambiente e dalla società; di conseguenza, l’ambiente influenza il singolo. Questo comporta una circolarità nel gruppo famiglia, dove per conoscere una piccola parte devi conoscere il tutto. Dispositivo per eccellenza di trasmissione di valori e ideologie è la fotografia: utilizzata fin dalla sua nascita come documento del reale, è stata impiegata dalle famiglie per la trasmissione della memoria e dell’identità. A organizzare tale identità è l’album di famiglia, la cui compilazione diventa un rito, a partire dall’Ottocento e dalla nuova filosofia di famiglia borghese, strutturata sempre più intorno ad alcuni concetti dominanti come la morale, e l’eternità. Alla cultura ottocentesca, caratterizzata dalla necessità di oggettività, è dovuto il successo della fotografia, considerata capace di riprodurre la realtà reale della natura, della vita e degli eventi. In questa supposta capacità di riprodurre fedelmente la realtà reale, si annida uno dei fondamenti del legame tra fotografia e famiglia. “La famiglia completa e perpetua il nostro essere: essa lo estende nello spazio e nel tempo. Chiede all’uomo il sacrificio di sé, ma lo ripaga con l’aumento del suo stesso essere: essa lo costringe a dimenticare se stesso, ma gli permette di rinnovarsi in altri; la famiglia, l’abbiamo detto, nasce da un grande sentimento; ma essa purifica questo sentimento, che non è interamente puro e lo santifica attraverso il dovere. Legando l’amore con gli impegni del dovere, facendogli promettere una fedeltà eterna, la famiglia non va contro la natura dell’amore,


ma obbedisce alla sua stessa natura. La morale non vede che la norma, e la norma è l’eternità degli impegni. Dio è sempre il supremo garante dell’unione coniugale. Fondata sull’amore e sul dovere, imposta dalla dignità della donna e la sicurezza dei figli, garantita dalla società e da Dio, la famiglia è eterna” (Janet 1856, pp. 12-15; 280-291).

Uno dei canali attraverso cui si crea e si diffonde il concetto della famiglia eterna, è costituito senza dubbio dalla fotografia: l’album fotografico rende l’istituzione familiare la figura-immagine per eccellenza dell’universalità oggettiva, in cui il soggettivo è superato. La forza dell’album consiste nell’essere un insieme di griglie che stanno alla base delle molteplici conoscenze di una determinata epoca, della memoria relazionale, di quei gesti di patrimonio collettivo, compiuti singolarmente, in pubblico e/o in privato, che sanciscono appartenenze e identità; come ritornelli conosciuti da tutti a memoria, all’incrocio tra ciò che è famigliare e familiare. È famigliare quanto attiene al sostantivo famiglia, all’evocazione di legami di consanguineità, genitorialità e parentela, marcando con essa un’appartenenza molto stretta; sono famigliari, in questo senso, le abitudini contratte nell’infanzia, i ricordi, i drammi, i segreti. Mentre è familiare ciò che si riferisce alla dimensione dei sentimenti: le relazioni familiari e ogni altro affetto, pensiero, gioco, indicano la presenza di qualcosa che riconduce a quanto è noto, conosciuto, carezzevole. Diventa familiare un posto di lavoro, un negozio, un saluto. È quindi familiare chi o che cosa, pur non avendo legami di stretta parentela con noi, ne possiede i tratti buoni. L’album fotografico, piattaforma enunciativa dell’auto rappresentazione interna-esterna della famiglia e dei suoi membri, è lo strumento essenziale di racconto autobiografico per immagini e strumento storico mediante il quale è possibile studiare come la memoria famigliare, quale struttura sovra individuale, ha la funzione di garantire la ripetizione, il mantenimento di strutture di comportamento di linguaggi e di valori. Svolge un ruolo incisivo, e decisivo, nel tramandare storie che divengono copioni, veri e propri rituali comportamentali, utilizzati per dare forma e per giustificare la propria identità personale e sociale. Un ruolo incisivo nella trasmissione, infatti, è svolto dal rituale, che prescrive i modi di esprimersi, muoversi, comunicare nel tempo e nello spa-

zio della quotidianità o delle occasioni speciali come feste, anniversari, matrimoni, funerali, riunioni di famiglia ecc.. A partire dall’interiorizzazione della norma di gruppo si realizza in questo modo la coincidenza di una condotta individuale e di un’istanza collettiva. A tal proposito è interessante come dietro alla moda della fotografia familiare dei gruppi, a metà Ottocento, si avverte già l’esigenza di formare la distanza tra ciò che è e ciò che deve essere tramandato, mettendo in scena situazioni ideali. L’ album aveva una funzione pedagogica rilevante: osservando le fasi della vita documentate da ritratti e posture dei parenti, erano appresi i principi di filiazione, i legami di parentela, come pure il valore della gerarchia, dell’importanza della posizione, veicolata dalla stessa disposizione delle fotografie, dalla loro grandezza e preziosità. Un prodotto culturale di tutto questo è il libro di Carlo Brogi Il Ritratto in Fotografia. Appunti pratici per chi posa, un esemplare manuale del 1895 in cui sono tracciate una serie di regole considerate valide all’interno della rappresentazione fotografica del ritratto, e che evidenzia come l’aspetto democratico della fotografia estenda questi rituali a ogni soggetto sociale: “La fotografia non ha privilegi è alla portata di chiunque, e la sola differenza che può passare fra un ritratto e l’altro, sarà di stile o di metodo, ma la sostanza rimane uguale per tutti. Il Ritratto fotografico come fa bella mostra di sé nei salotti eleganti, così è penetrato anche nelle più modeste stanze e negli abituri di campagna. Il coscritto che va al reggimento, appena indossata la divisa militare, si dà premura di mandare la fotografia ai suoi ed alla ragazza che ha lasciato inconsolata al proprio paese. Il marito, che per ragioni di professione sta lontano dalla famiglia, porta con se i ritratti della moglie e del suo piccino prediletto. I parenti e gli amici lontani si ricongiungono mediante lo scambio dei ritratti. Il Ritratto fotografico è documento vivente degli affetti, pegno di fede, del vero fedele immagine del sentimento di adorazione. È biglietto personale che donandolo porge occasione ad esprimere sentimenti di amicizia, che risulterebbero talvolta ingannevoli se la fotografia oltre le sembianze ritraesse anche l’interno dell’animo. [...] È meglio posar prima che subito dopo mangiato. È opportuno recarsi alla Fotografia camminando non in fretta per evitare di arrossare la faccia, in specie nei mesi caldi, e di mancare di immobilità nella posa. Il vivo colore del


viso dà una pesantezza al ritratto che mal si toglie col ritocco, e mancherà pure di finezza se il modello non sta ben fermo. Se la persona che deve posare ha il tempo contato, il ritratto avrà un’aria di noia e di stanchezza da costringere a ripetere la seduta con nuova perdita di tempo. Anche le preoccupazioni per affari o per cure domestiche conducono ad un effetto consimile: bisogna prescegliere le giornate in cui il nostro spirito è sereno, e si prova quel senso di benessere che ci fa proclivi al buon umore. Il volto è quasi sempre lo specchio dell’anima, ed il fotografo non ha il pennello del pittore per smorzare le gradazioni espressive del vero quando non convengono” (Brogi 1896, p. 26). Con il vero e proprio tentativo di unificare oggettività e rappresentazione, insieme al ritratto del singolo egli dà anche una serie di consigli offerti alla madre che vuole farsi ritrarre con il proprio figlio per stabilire il limite verso il quale si dovrebbe idealmente tendere. Descrive come i ritratti maschili in generale sono quelli che riescono al meglio, perché la preoccupazione di mostrarsi è minima nell’uomo, mentre è massima nella donna, tanto che “le signore si fanno un viso apposta per il ritratto e una acconciatura particolare per accompagnarlo; e spesso col desiderio di rendersi singolari si fanno comuni” (Brogi 1896, p. 26), creando un ordine nelle auto rappresentazioni, compromesse in molti casi a causa della moda. Giocata tra realtà e finzione è quindi la commedia del ritratto che svela al suo interno la connessione degli individui che va oltre l’esperienza e che sta alla coscienza sociale collettiva come ciò che deve essere sta a ciò che è effettivamente. In questo senso, i ritratti contenuti nell’album familiare, ampiamente ancorati a verità indiscutibili di per sé, rappresentano gli eventi in funzione della loro partecipazione a una superiore realtà razionale. All’incrocio tra identità collettiva e identità individuale, la famiglia, intesa come legame privato fra i suoi membri e come sentimento di un noi pubblico, svolge un ruolo decisivo anche in funzione del grande disciplinamento della nazione: attraverso la famiglia si tengono unite forze che tenderebbero a fuoriuscirne. Dagli anni Cinquanta, e soprattutto durante il boom economico, la famiglia italiana della grande trasformazione urbana e del benessere affida alla fotografia il compito di attestare il grado della propria ascesa sociale, di certificare il livello dei consumi raggiunti e del benessere acquisito.

Sotto questo profilo spiccano le auto rappresentazioni nelle quali gli italiani si fanno fotografare o si fotografano accanto ai simboli del benessere, ossia con l’auto, la motocicletta, la Vespa, il telefono, le vacanze. La famiglia italiana affida alla fotografia anche l’immagine unitaria che comincia a sfuggirle: l’auto-rappresentazione di una vita familiare perfetta, immobile e felice nella tranquillità raggiunta, soddisfatta dei consumi acquisiti, serena per la fine delle paure. In questa direzione, si può affermare, che “alla fotografia dagli anni Cinquanta è chiesto di costruire una memoria non tanto d’archivio del come eravamo, quanto soprattutto del come siamo e/o del come vorremmo essere” (Smargiassi 2004, p. 398). Da questo punto di vista, più che auto-storiografia, l’album familiare è il copione di una recita, di un gioco di ruolo i cui modelli non occorre inventare di sana pianta, né cercare lontano, eccoli già disponibili sulle pagine dei rotocalchi, sia in formato mitologico (le famiglie regnanti) che prêt-à-porter (le famiglie delle réclames dei detersivi), in attesa che irrompa il modello globale delle sit-com televisive. Favorendo i momenti forti, quali le nascite, le cerimonie, le vacanze, escludendo tutto il resto, ogni fotografia prodotta in famiglia è un monumento, una memoria fabbricata con scopi precisi, una memoria che non archivia ma afferma. Col passare degli anni, l’album non muta d’aspetto, si fa standardizzato e plastificato, perde le didascalie, ma anche così, omogeneo e seriale, resta un tentativo di ribaltare in qualità la quantità di tempo, spazio, identità, coesione. Inoltre, quella stessa famiglia che in privato scatta migliaia d’istantanee per affermare se stessa accetta di mostrare in pubblico il proprio privato. Oggi, benché la videocamera si affianchi alla macchina fotografica, oppure la sostituisca, il rituale non cambia: il moderno gruppo familiare adotta tecnologie più aggiornate, ma si auto rappresenta ugualmente nei suoi ruoli reciproci e nei suoi momenti fondamentali che regolano la vita e il suo funzionamento, quali il matrimonio, il battesimo, il compleanno, la comunione, la laurea, le vacanze e le occasioni di festa. Il vecchio album sopravvive, e in esso la famiglia continua a riporre se stessa, immobile, ad auto rappresentarsi nella forma radicata, divenuta icona, del libro. L’avvento del digitale, pur avendo portato con sé importanti trasformazioni, in parte riconferma la tendenza - comune anche ai nuovi media - di adattarsi alle tradi-


zioni e ai rituali preesistenti, pur fornendo nuove chiavi di lettura interpretative. Si può quindi pensare alla fotografia di famiglia come foto della messa in scena, basandosi anche sul manuale di consigli per chi posa che Brogi sentì necessario pubblicare già nell’Ottocento. Una fotografia della messa in scena per la messa in memoria, usata come dispositivo di acculturazione e di modellazione dell’individuo e creatrice d’identità e ruoli di genere, che svolge una vera e propria attività d’intermediazione tra l’immaginario collettivo e le singole identità, contribuendo alla formazione di un ordine sociale e regolando l’agire dell’individuo. La famiglia attua questo processo sfruttando il notevole coinvolgimento emotivo che questi procedimenti tendono a scatenare sia nei diretti interessati sia nei loro dintorni affettivi, e lo fa attraverso la fotografia poiché l’atto di vedere è essenzialmente un mezzo di orientamento pratico; permette di stabilire attraverso i propri occhi che una cosa è presente, e definire un processo d’identificazione. Secondo le teorie sulla percezione visiva, il mondo delle immagini non s’imprime semplicemente nella nostra mente, ma guardando qualcosa noi tendiamo una mano verso di esso, facciamo esperienza attraverso lo sguardo, ci muoviamo entro lo spazio dell’immagine, costruiamo la nostra realtà esterna. Ogni esperienza visiva è inserita in un contesto di spazio-tempo, l’aspetto degli individui è influenzato da quello dei suoi vicini nello spazio e dalle esperienze visive che l’hanno preceduto nel tempo, ed il prodotto del presente non è la semplice somma di quanto si è visto in passato. Se ci siamo familiarizzati con le cose che ci circondano, è perché esse sono state costruite per noi tramite forze di organizzazione percettive che hanno agito prima e indipendentemente dall’esperienza personale, consentendoci in tal modo di sperimentarle. L’interazione tra la forma che prendiamo nel presente e gli oggetti, le esperienze viste nel passato, non è automatica ma legata alla condizione che tra i due momenti ci sia una relazione. I racconti, accompagnando le fotografie, contribuiscono ulteriormente al processo di identificazione e di appartenenza. La descrizione verbale risveglia in noi una traccia mnestica visuale che ci fa stabilire un punto di contatto con l’immagine, in questo senso la percezione si dimostra soggetta all’influsso d’istruzioni verbali. La traccia mnemonica diventa più forte col passare del tempo, il

passato non è mai alla portata della mente, sopravvivono soltanto sentimenti che hanno lasciato residui dentro di noi, ossia tracce mnestiche. Queste tracce rimangono nel cervello, influenzandosi reciprocamente e modificandosi con i nuovi arrivi, visuali ed esperienziali. È questa eredità del passato, indice di una cultura, di un circuito comunicativo che ha contribuito in vari modi a plasmare e meglio definire la nostra memoria e le nostre risorse identitarie. Attraverso diversi tipi di tracce, lasciate negli album di famiglia, è possibile ricostruire un percorso visivo immaginario, ricomponendo e ricollegando mediante la fotografia della messa in scena , un ipotetico continuum generazionale, capace di rendere evidente una vicenda sociale, quella dell’identificazione con il proprio gruppo famiglia.. Un continuum che si poggia anche sui rapporti che si intrecciano tra le diverse tracce sia sul piano sequenziale, tra segni precedenti e successivi, sia su quello simbolico, tra rinvii ad altre presenze o assenze.

Bibliografia: Arnheim R., Arte e Percezione Visiva, Feltrinelli, 2011 Brogi C., Mantegazza P., Il ritratto in fotografia: appunti pratici per chi posa, Editore Salvatore Lanzi, 1895 Calanca D., Album di famiglia. Autorappresentazioni tra pubblico e privato, 18701950. In: Storia e Futuro. Rivista di storia e storiografia, n° 8 - novembre 2005 Maranzana Scacchi A., Socializzazione e Società, Zanichelli, 2008 Migliorini L., Rania N., Psicologia sociale delle relazioni familiari, Editori Laterza, 2008 Regnani G., Fotografie di Famiglia: “ritratto” di una società? La singolare dimensione del genere di immagini più praticato al mondo, Sapienza Università di Roma, novembre 2005



“La maschera, essendo innanzi tutto un prodotto sociale, storico, contiene più verità d’ogni immagine che si pretenda “vera”; porta con sé una quantità di significati che si riveleranno a poco a poco” Italo Calvino L’avventura di un fotografo.




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