Delle ombre e delle macchine a teatro

Page 1

1

1


2

Anna Maria Monteverdi

RIMEDIANDO IL TEATRO CON LE OMBRE, LE MACCHINE, I NEW MEDIA

2


3

Indice

Introduzione,

I.

Rimediando il teatro con le macchine

1. Robert Lepage: dall’Hamlet machine alla Walhalla machine 1.1. Gli oggetti di scena 1.2.Le macchine di scena 1.3. Le macchine della visione 1.4. La macchina wagneriana 2. Un congegno estremamente affascinante 2.1. Stifters Dinge di Heiner Goebbels II. Rimediando il teatro con le ombre 2. Dalle installazioni al teatro: William Kentridge, Shilpa Gupta, Kara Walker, Jean-Lambert Wild. 2.1 La rivoluzione è un naso a cavallo: The nose di William Kentridge III. Rimediando il teatro con i new media 3. Masbedo: il video, il live media e l’estetica dell’ambivalenza 3.1.L’arte della superfice 3.1.1.Dal digital signage agli urban screen 3.1.2.Reale o virtuale? Dal monumentismo prospettico… 3.1.3. Ai fondali teatrali. 3.2.Il videomapping 3.2.1. Mappando oggetti 3.2.2.Dal cubo alle cattedrali 3.2.3. Interaction design per il teatro e la performance 3.3.Rimediando Samuel Beckett con il video

3


4

Introduzione. “Un poème est une sorte de machine…scriveva Paul Valery. Il film pure, è una specie di macchina. E’ l’attrazione strana della téchne, della musa intesa come artescienza, gli specchi di quelle ombre gigantesche che il futuro proietta sul presente” (Gianni Toti, Immaginificanti e immaginificati. Pensiero elettronico e poematica, 1988)

Da alcuni anni mi occupo di autori e registi teatrali contemporanei il cui lavoro viene associato alle tecnologie o in generale alla multimedialità: da una parte Robert Lepage, William Kentridge, Heiner Goebbels, e dall’altra gruppi come Masbedo, Urban Screen, Motus. Analizzandone il processo creativo e indagando le ragioni profonde dei loro allestimenti teatrali ho trovato, per i primi, alcuni richiami espliciti a motivi che appartengono più al teatro dell’origine che non a quello della videocultura digitale: dalle ombre (viventi e animate) alle macchine (dispositivi scenici o congegni prospettici). Sono questi ad adattarsi al mutato ambiente teatrale digitale e alle rinnovate esigenze della scena contemporanea e non viceversa. Lepage, Kentridge e Goebbels accettano la sfida del contemporaneo mascherando il vecchio con il nuovo, mostrando l’innovazione tecnologica come la naturale evoluzione di un sapere tecnico antico che appartiene “geneticamente” al teatro. Se Edward Gordon Craig brevettava nel 1910 a Londra i suoi celebri screen (“le mille scene in una”)1 contenenti un richiamo alle scene del cinquecentista Sebastiano Serlio (autore del trattato Il secondo libro di Perspettiva,1545 e dei Libri di architettura, 1560)2, il canadese Robert 1

Il brevetto degli screen, pannelli semoventi monocromi simbolo del suo teatro antirealista (Patent n.1771) viene depositato da Gordon Craig (che si firma Stage-manager), il 24 gennaio del 1910. Nel documento Craig ne specifica caratteristiche tecniche, il funzionamento e i benefici per il nuovo teatro: “The object of my invention is to provide a device which shall present the aesthetic advantages of the plain curtain but shall further be capable of a multitude of effects which although not intend to produce an illusion shall nevertheless assist the imagination of the spectator by suggestion. My invention consists in the use of a series of double jointed folding screens standing on the stage and painted n monochrome –preferable white or pale yellow. The screens may be used as background and in addition to this use, may be so arranged as to project into the foreground at various angles of perspective so as to suggest various physical conditions such as, for example, the corner of a street – or the interior of a building”. Documento proveniente dalla Collezione Arnold Rood e pubblicato in occasione della mostra Exploding Tradition: Gordon Craig 1872-1966 (Victoria & Albert Museum, Londra, 1998) 2 M.I.Aliverti., History and histories in Edward Gordon Craig’s written and graphic work.in Wagner E., Dieter-Ernst W. (a cura di) Performing the Matrix: Mediating Cultural Performance, Epodium, Monaco, 2008. La Aliverti partendo dalla Collezione di libri storici di teatro di Craig ora conservata alla Bibliothèque Nationale di Parigi (Départment des Arts du Spectacle) prende in esame l’influenza proveniente dallo studio dei Libri di Architettura del Serlio nel periodo tra il 1906 e il 1909, anni in cui Craig realizza la regia del Rosmerholm di Ibsen con Eleonora Duse e Hamlet (Mosca, 1908). Franco Mancini afferma che lo stimolo per la sua idea di palcoscenico mobile era, effettivamente, venuta proprio dalla lettura del trattato del Serlio “che illustrava, tra l’altro,

4


5

Lepage ripropone (sia nei suoi “one-man-show” che negli allestimenti per la lirica e per eventi per il grande pubblico) apparati macchinici e scene girevoli di stampo rinascimentale3. William Kentridge artista visivo sudafricano, usa invece, per le sue installazioni e le sue scenografie, le vecchie animazioni filmate passo uno e le proiezioni di ombre mescolate ai video, reinventando per la scena, una pratica artigianale ormai perduta in epoca di programmazione computerizzata. La visione fatta di silhouette e proiezioni video è spesso presente anche negli spettacoli di Lepage la cui scena opaca e trasparente diventa una lastra fotosensibile o un “muto teatro d’ombre”4. Il compositore e regista tedesco Heiner Goebbels per la sua scena auto funzionante, sonora e macchinica, senza attori o manovratori, si rifà piuttosto, agli automata5. Nel secondo gruppo di giovani artisti e gruppi tecnoteatrali, è bene evidenziata un’altra singolare “concrezione”: l’adeguamento del nuovo teatro ai principi portanti dei new media e conseguente evoluzione dalla ormai storica “scena intermediale” (in cui avveniva uno scambio alla pari dei media) a quella ambivalente (in cui prevale il “formato mediale” di singoli supporti indipendenti sull’integrazione degli stessi), in una inedita formulazione di spettacolazione totale. Concetto quest’ultimo, bene espresso proprio dal regista e compositore tedesco Heiner Goebbels che specifica quanto i suoi lavori teatrali –che contengono elementi sia musicali che multimediali- non siano affatto finalizzati ad una “opera d’arte totale wagneriana”: “Non miro al Gesamtkunstwerk, al contrario. In Wagner ogni cosa tende e opera verso lo stesso fine. Ciò che vedi è esattamente ciò che senti. Nei miei lavori la luce, la parola, la musica e i suoni sono tutte forme a sé. Quello che cerco di fare è una polifonia di elementi in cui ogni cosa uno schema di teatro dalla superficie scenica sezionata a scacchiera. Costituito da volumi geometrici a forma di parallelepipedo ripetuti anche nella zona della soffitta e lambiti lateralmente da paraventi con il compito di modificare lo spazio scenico in rapporto alla necessità dell’azione, il palcoscenico di Craig, pur presentando pressappoco le stesse caratteristiche descritte da Serlio. Se ne distaccava per la mobilità, in quanto ogni quadrato poteva sollevarsi a piacere. F. Mancini L’evoluzione dello spazio scenico dal Naturalismo al teatro epico, Bari, Dedalo, 1986, p.57. 3 La scena teatrale tra il Quattrocento e gli inizi del Seicento, in cui la prospettiva con scorcio aveva definitivamente sostituito le mansions paratattiche delle sacre rappresentazioni, viene a trasformarsi progressivamente proprio grazie all’introduzione di macchine e argani, congegni che permettevano trasformazioni rapide, cambi automatici oltre che voli, apparizioni di cieli e soli, demoni e angeli annuncianti o discendenti progettati da Brunelleschi, Vasari, Sangallo, Buontalenti in occasione delle feste di nozze farnese o medicea, per naumachie e contrasti. E’ negli “intermezzi” che lo spazio della scena è tutto per la macchina. Anche Leonardo si era cimentato come “apparatore” in occasione dell’Orfeo di Poliziano, come è testimoniato dagli studi e dai progetti datati 1506-1508 presenti nel codice Arundel conservato al British Museum di Londra. Vedi C. Molinari, Brunelleschi, Leonardo e la tradizione scenotecnica, in “Quaderni di teatro”, anno III, n. 10, 1980, p.6. Ed inoltre: C. Molinari, La scena vuota in E.G.Zorzi (a cura di) Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Firenze, Leo S. Olschki, 2001 4 Il teatro d’ombre muto era utilizzato ampiamente per i Sacri Misteri. Sul tema vedi M. Rak, L’arte dei fuochi, comunicazione al convegno Bernini e l’universo meccanico, in “Quaderni di teatro” anno IV, n. 13, pp.46-59. 5 Automata è il titolo del volume di Erone di Alessandria, matematico che visse nel II sec. a.C. e tratta la meccanica dei corpi solidi. Erone descrive, tra gli altri, anche il famoso “teatro meccanico” con statue con sembianze umane che si muovevano , uccelli che cantavano, porte che si aprivano o chiudevano mossi dall’azione dell’acqua o del vapore.

5


6

mantiene la sua integrità, come una voce in un brano di musica polifonica. Il mio ruolo è quello di comporre queste voci in qualcosa di nuovo”6 Alcuni concetti (provenienti sia dalla critica letteraria e linguistica che dai media studies) ci vengono in aiuto per inserire nella più corretta cornice estetica, da una parte, questo strano connubio tra arcaismo e contemporaneità tecnologica, e dall’altro il mimetismo o trasformismo delle nuove performance ad alto tasso di multimedialità: primi fra tutti, l’intertestualità (il testo come “mosaico di citazioni”, secondo la Kristeva) e la “remediation”. La remediation è una modalità tecnica e linguistica che sta prendendo campo negli ultimi anni, configurandosi come un vero e proprio “nuovo stile”, approdando anche a teatro. Termine difficile da tradurre, la remediation (in italiano “ri-mediazione”) è entrato nel linguaggio comune grazie alla teorizzazione che ne hanno fatto nel 1999 Jay Davis Bolter e Richard Grusin (Remediation: Understanding New Media); in sostanza, nel momento in cui un nuovo mezzo di comunicazione appare sul mercato, questo si manifesta anche attraverso un’appropriazione o negoziazione (da parte sia dei media vecchi che di quelli nuovi), delle modalità, dei segni distintivi, dei codici artistici ed estetici dei mezzi che lo hanno preceduto, in una sorta di riorganizzazione delle forme comunicative. Per questo motivo un medium non scompare mai del tutto. La remediation altro non è altro, quindi, che la competizione tra vecchi e nuovi media, ma anche il “rimodellamento” di tutti i media (o di alcune caratteristiche di essi) solo apparentemente tra loro inconciliabili o incompatibili: come ricordano gli stessi autori: “Un medium si appropria di tecniche forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o rimodellarli7”. Jay Davis Bolter e Richard Grusin affermano che i nuovi media, ben lontani dall’essere entità indipendenti dai processi sociali ovvero, “agenti esterni che intervengono a scompaginare una cultura che sembra ignara di loro”, emergono dagli stessi contesti sociali, economici, culturali operando sui vecchi media un processo da loro definito appunto, di remediation che porta cioè, un “rimedio” all’incapacità dei vecchi media di rispondere alle mutate esigenze della società dell’informazione. Secondo Bolter e Grusin, i media digitali hanno messo in crisi i vecchi media costringendoli a “reinventare” se stessi, in sostanza ad attualizzarsi, a rimodellarsi e a scendere a compromessi con le richieste di un mercato sempre più attratto dalle tecnologie avanzate. Queste “rimediazioni” continuerebbero a succedersi dal Rinascimento ad oggi: nei tempi moderni la fotografia ha operato una rimediazione sulla pittura, la televisione ha fatto altrettanto con il cinema e con il teatro. Bolter e Grusin non parlano espressamente di teatro, anche se identificano e isolano tra i principi propri dei nuovi media proprio l’immediatezza e l’ipermedialità, elementi evidentemente non estranei alla grammatica del teatro (teatro come compresenza fisica di emittente e destinatario, secondo la definizione data dalla semiotica teatrale; teatro

Intervista a H.Goebbels a cura di I.Hewett, “The Telegraph” (GB), 22 giugno 2012. J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation: competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 2003. 6 7

6


7

come “insieme di rapporti interagenti”, primo assioma del teatro ambientale di Richard Schechner8). Remediation è quindi la possibilità di una reviviscenza per vecchie tecniche che hanno la possibilità di riemergere dal dimenticatoio o dall’obsoleto, restando così, al passo con la contemporaneità multimediale e contribuendo alla formulazione di una nuova estetica rétro-digitale. La più logica interpretazione della rimediazione, seguendo le intuizioni di Bolter e Grusin e confrontandole con le riflessioni estetiche di Rosalind Krauss9, sarebbe la reinvenzione di un dato linguaggio all’interno di una grammatica e di una tecnica assai distante ma resa meno estranea grazie alle caratteristiche proprie del digitale, che ricongiunge gli opposti e determina le mescolanze più impensabili. La contemporaneità artistica è fatta di innesti paradossali e di produzioni miste, di complessi progetti che vagano indifferentemente nel web, nelle gallerie d’arte e nei teatri provenendo dai mondi più distanti. In questa generalizzata computerizzazione della cultura (seguendo Lev Manovich10), la rimediazione produrrebbe una fenomenologia artistica aperta, mimetica e mutante. Si privilegia infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecnoartistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art. Non mescolanza, ma intertestualità: è l’intertestualità la logica prevalente delle nuove produzioni mediali, ricorda Giovanni Boccia Artieri: Ci troviamo cioè entro una logica di produzione di testi che echeggiano testi precedenti, incedono sul gioco delle citazioni, evocano e suggeriscono, sono autoreferenti, e allo stesso tempo si aprono al remake, producendo uno stato di particolare eccitazione per la forma11. I nuovi gruppi (i giapponesi Dumb Type, i finlandesi Whs, gli scozzesi Theatre Cryptic, gli italiani Masbedo) producono formati tecnoperformativi instabili, in costante metamorfosi e di tipo modulare, in cui i singoli elementi o oggetti mediali che li compongono – dal video alla grafica – sono declinabili in formati artistici diversi: si affiancano temporaneamente in scena in una dimensione di contiguità spaziale per la durata di una performance, per poi traslocare e tornare ai loro rispettivi luoghi di origine (luoghi di esposizione, luoghi d’arte). 8

R.Schechner, La cavità teatrale, De Donato, Bari, 1968, pp. 23-72. R.Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2006. 10Lev Manovich in Il linguaggio dei nuovi media (Milano, Olivars, 2001) parla del principio di transcodifica culturale che caratterizzerebbe la società permeata dai nuovi media. In sostanza, la computerizzazione trasforma tutti i media in dati informatici e questo ha un riflesso immediato sul piano delle azioni e dei comportamenti umani, sui processi cognitivi, sulla cultura: “Le modalità con cui il computer modella il mondo, rappresenta i dati e ci consente di operare su di essi, le operazioni tipiche di tutti i programmi (ricerca, comparazione, ordinamento sequenziale e filtrazione), le convenzioni di funzionamento delle interfacce – in sintesi, ciò che si potrebbe chiamare ontologia, epistemologia e pragmatica del computer – influenzano il livello culturale, l’organizzazione, i generi e i contenuti dei nuovi media.”( p. 69). 11 G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12. 9

7


8

Prevale una poetica dell’ambivalenza intesa come contemporaneità/convivenza temporanea di linguaggi che, pur interrelazionandosi tra loro in scena, mantengono la loro specificità e anche la loro “memoria d’origine”. Ambivalenza delle tecnologie in atto, quindi, quale potenzialità di scambio. L’ambivalenza indica un oggetto che ha una doppia proprietà o funzione, che si presenta sotto due aspetti diversi (non necessariamente in opposizione): in queste nuove produzioni tecnologiche il teatro non nasce dal teatro e soprattutto non si esaurisce nell’atto teatrale, ma acquista una vitalità infinita grazie al digitale potendo espandersi in forma di film, installazione, opera d’arte autonoma. Da una parte ritroviamo una storica poetica di intreccio di linguaggi, dall’altra una proposta estetica più vicina alla tematica del digitale che considera i singoli elementi di un progetto artistico come oggetti (o testi) multimediali12 come interscambiabili, aperti alle più diverse incarnazioni e tali da poter sperimentare tutti i possibili incastri mediali, in un nomadismo tecnologico senza precedenti. Ogni format può essere, così, considerato alternativamente realizzazione artistica autonoma o tappa di un ulteriore processo di elaborazione – virtualmente infinito e rigorosamente aperto. Spettacolo come organismo in evoluzione, entità autoriproduttiva o virus mutante di ultima generazione. Lev Manovich parla del principio di variabilità proprio dei nuovi media che sarebbe dipendente dalla codifica numerica e dalla loro struttura modulare: Il principio di variabilità permette di avere a disposizione numerose opzioni per modificare la performance di un programma o di un oggetto mediale: un videogioco, un sito, un browser o lo stesso sistema operativo. [...] Se noi applicassimo questo principio alla cultura tout court significherebbe che tutte le opzioni utilizzabili per dare a un oggetto culturale una sua identità specifica potrebbero in teoria, restare sempre aperte.13 Ne risulta una indeterminatezza di genere che è la caratteristica dei nuovi formati digitali, apparentemente privi di un modello strutturale classificatorio. Si tratta, come osserva acutamente Laura Gemini di

performance liminoidi e intermedie che mettono in luce la propria ambivalenza rendendosi difficilmente classificabili. È un’arte della performance che ha fatto propria la consapevolezza postmoderna, che ha riconosciuto l’esistenza di una rete complessa di flussi comunicativi e l’idea della conoscenza come partecipazione creativa dell’oggetto conosciuto. […] Parlare della performance artistica oggi significa non pensare né allo spettacolo come testo distinto (teatrale, televisivo, cinematografico o sportivo che sia) né allo spettacolare come categoria puramente estetica. Si deve piuttosto porre come condizione prioritaria la fluidità del mélange e rinvenire in quelle pratiche spettacolari che non si prestano ad essere classificate secondo rigide convenzioni formali. La stessa messa in scena va intesa come organizzazione di testi (cinema, teatro, televisione) che tendono alla progressiva indistinzione, a una dinamica di flusso che rende miglior merito alle forme comunicative contemporanee14. Un oggetto mediale è, secondo Manovich “qualcosa che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro”, L. Manovich, cit, p. 57. 13 Ibidem. 14L.Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, FrancoAngeli, Milano, 2003, pp. 69-70. 12

8


9

Se Kentridge e Lepage sono emblematici di una tendenza alla rimediazione dei vecchi media che sta sempre più facendo scuola (dal mercato tornato in auge dell’analogico, al collezionismo delle tecnologie che “non ce l’hanno fatta”, ad artisti che mescolano deliberatamente vecchie tecniche, macchine e televisori a tubo catodico dentro installazioni interattive), dobbiamo riconoscere che numerosi sono i ricorsi, anche all’interno di ambiti di spettacolo commerciale (per esempi i concerti rock o i grandi eventi negli spazi pubblici), a dispositivi e invenzioni ottiche di fine Ottocento. L’estetica del meraviglioso ovvero quella che Andrew Darley definisce l’estetica della superficie, è alla base delle forme spettacolari legate al videomapping15: la proiezione su enormi superfici architettoniche reclama uno sguardo panoramico e avvolgente nei lavori di Urban screen, Nuform, Apparati effimeri: è così che l’intreccio tra la forma della spettacolarizzazione e realtà tecnologica del medium riprende le forme del meraviglioso presenti nelle modalità ottocentesche di intrattenimento di massa consentendone anche una ridefinizione dello spazio urbano: effetti speciali visivi ed immersivi dove talvolta la forma conta più del contenuto, dove sono i giochi di superficie ad essere rilevanti16. Estetica che ha un gran debito nei confronti di Panorama e diorama e delle diverse fantasmagorie della cultura popolare ottocentesca17 ma anche nei confronti degli studi sugli scorci prospettici in pittura, sul quadraturismo, sull'effetto pittorico illusorio di sfondamento volumetrico. Si può dire allora che il video mapping e l'architectural mapping sono la prosecuzione ideale, in epoca di realtà aumentata e di dispositivi immersivi, delle macchine ottiche e degli esperimenti anamorfici18 del Seicento. Come ci ricorda Thomas Maldonado, la civiltà occidentale è diventata una produttrice e consumatrice di trompe-l'œil, che si è emancipato dai vincoli del virtuosismo artigianale per avvalersi di tecnologie la cui resa tende sempre più al realismo: "La nostra è stata definita una civiltà delle immagini. (…) Questa definizione sarebbe più vera, se aggiungessimo che la nostra è una civiltà in 15

Si tratta di una tecnica video che fa interagire la realtà e la sua ricostruzione digitale e ne modifica la percezione visiva sovrapponendosi ad essa sino a stravolgerla. Sono esperimenti di augmented reality applicati a spettacoli e eventi negli spazi all’aperto o in teatri, con proiezioni su enormi superfici (edifici o fondali teatrali). 16 G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12. 17 A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp.71-74 18 L'anamorfosi è una rappresentazione in prospettiva realizzata su un piano o su una superficie curva, la cui visione è possibile solo da un punto di vista non perpendicolare al piano su cui si trova l'oggetto, pena la visione deformata di quest'ultimo. Come ci ricorda Jurgis Baltrušaitis: "L'anamorfosi – parola che compare nel Seicento, benché si riferisca a combinazioni già note da tempo – ne [della prospettiva, N.d.A.] inverte elementi e princìpi: essa proietta le forme fuori di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato. Il procedimento si afferma come curiosità tecnica, ma contiene una poetica dell'astrazione, un meccanismo potente di illusione ottica e una filosofia della realtà artificiosa." J. Baltrušatis, Anamorfosi o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Milano, Adelphi, 1969, p. 13.

9


10

cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-l'œil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica. Ciò appare chiaro con l'invenzione della fotografia e poi, in modo più evidente, con quella della cinematografia e della televisione. La conferma più incisiva viene, oggi, dall'avvento della grafica computerizzata, soprattutto se si pensa ai suoi ultimi sviluppi finalizzati alla produzione di realtà virtuali."19 Remediation è anche il cortocircuito mediale che alcuni artisti video propongono offrendo un “risarcimento” a testi apparentemente irrappresentabili o restii alla scena, ma di forte impatto visivo e che hanno così, una “seconda” (o prima) vita in un linguaggio tecnologico diverso da quello per il quale è stato concepito, ma che sembrerebbe in realtà, più adatto ad esprimerli. E’ il caso delle numerose video creazioni dei “dramaticula” di Beckett o dai racconti brevi la cui narrativa giunge a una sintetica estrema, fino a ridursi a poche ma potenti immagini e situazioni, e diventando perciò, scenario straordinariamente fecondo per il territorio della videoarte.

19

T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 48.

10


11

I.

Rimediando il teatro con la macchina.

11


12

1. Robert Lepage: dall’Hamlet machine alla Walhalla machine

Chi visita il sito ufficiale di Ex Machina, la struttura produttiva di Robert Lepage20 Con quartier generale a Québec City, fa fatica a crederci: il numero di allestimenti (concerti, spettacoli di prosa e d'opera, installazioni luminose, pubblicazioni fotografiche, mostre d'arte) che la Robert Lepage inc. firma annualmente è impressionante, come impressionante è il numero di spettacoli in tournée contemporaneamente in tutto il mondo per molti anni. Nel 2012 La Face Cachée de la Lune (che ha debuttato nel 2001 in Canada) era ancora in tour in Europa, Andersen Project (realizzato nel 2005) era negli States, mentre Eonnagata aveva finito la sua tappa in Giappone e Lypsinch in Australia. New York festeggiava la fine del 2011 con Il crepuscolo degli dei, opera lirica di Richard Wagner con la regia di Lepage al Metropolitan. Nel triennio 2010-2012 Lepage ha firmato: uno spettacolo d’ispirazione shakespeariana (The Tempest), interpretato da nativi in esclusiva per una regione del Canada, il Wendake; una gigantesca proiezione videoarchitettonica sui silos del porto di Québec City per i 400 anni della fondazione della città (The Image Mill) e due scenografie per il Cirque du Soleil (compagnia internazionale di nuovo circo con base a Montréal, fondata nel 1984 da Guy Lalibertè e Daniel Gauthier). Si tratta di Totem (2010, set designer Carl Fillion) e Ka (2005, spettacolo stabile al Metro Goldwin Mayer Theatre di Las Vegas, set designer Mark Fischer, l'architetto che ha firmato anche i concerti dei Pink Floyd e degli U2). Ma la vera fatica titanica per Lepage è stata, a partire dal 2009, la regia dell'intera tetralogia wagneriana per il Metropolitan diretta dal maestro James Levine. Il ciclo dell’Anello dei Nibelunghi è stato inaugurato nel 2011 con Das Rheingold e Die Walküre, ed è proseguito con Siegfried nell'ottobre 2011 e si è concluso alla fine dello stesso anno con Die Götterdämmerung; l’intero ciclo viene poi riproposto al MET nella sua interezza tra il 25 aprile e il 2 maggio 2012. Ogni produzione di Lepage è un evento accolto con enorme entusiasmo dal pubblico (ma non sempre con eguale entusiasmo dalla critica), a cui seguono premi, riconoscimenti prestigiosi che a loro volta attirano nuove commissioni milionarie. Anche il MIT di Boston lo ha recentemente 20

Il regista canadese Robert Lepage (nato a Québec City nel 1957) è uno dei massimi autori del teatro tecnologico mondiale; realizza produzioni internazionali (Le poligraphe,1989 in tre versioni: francese, spagnola e italiana), epopee teatrali con tematiche interculturali (La trilogia dei dragoni; I sette rami del fiume Ota, 1995). Consensi unanimi e riconoscimenti per il suo teatro, caratterizzato da una presenza di immagini in forma di proiezione video e filmica e da una narrazione vicina a quella cinematografica, sono arrivati dai maggiori Festival mondiali. Lepage è stato l'unico artista nordamericano ad aver diretto un'opera shakespeariana per il London Royal Theatre (A Midsummer Night's Dream 1992). Vicino al teatro orientale, ha realizzato una regia in giapponese de La tempesta e del Macbeth per il Globe di Tokyo, mentre alterna l'attività teatrale a quella di regista cinematografico (Le confessional, presentato al Festival di Cannes del 1995, No ambientato in Giappone e Possibile Worlds), d'opera (La Damnation de Faust, The Ring) e di concerti rock (Growing up tour e Secret World Tour di Peter Gabriel). www.exmachina.qc.ca

12


13

insignito di un premio, l'Eugene McDermott Award in the Arts. E' passato molto tempo dall’epoca in cui, per finanziare i suoi primi film negli anni Novanta, come ricordava in un'intervista, era irritato alla sola idea di andare a chiedere finanziamenti per i suoi progetti artistici, a un “civil servant”. Oggi sono le grandi Fondazioni, i teatri internazionali a contenderselo a suon di milioni di dollari.

1.1. Gli oggetti di scena. Nonostante il notevole cambio di scala rispetto ai palcoscenici e al pubblico degli inizi, il marchio stilistico di Lepage rimane immutato. Il regista e interprete quebecchese trasporta abitualmente temi, motivi e idee del teatro di ricerca in territori a esso insoliti: negli stadi per i megaconcerti pop o nelle opera house per i classici della musica lirica, veicolando in spettacoli per il grande pubblico, la profondità narrativa, la visionarietà immaginifica e l’ingegno tecnico che caratterizza i suoi spettacoli teatrali. Nei concerti di Peter Gabriel in cui Lepage firma la scenografia e la regia (il Secret World Tour del 1993, il Growing Up Tour del 2003, lo Still Growing Up Tour del 2004) troviamo alcuni dei suoi famosi “oggettirisorsa” veicolanti più significati: tra questi, la cabina telefonica e l’apparecchio telefonico che Gabriel usa in Come Talk To Me. La canzone parla del desiderio di usare la parola per ristabilire un dialogo che sta scomparendo e sul palcoscenico è reso attraverso un lunghissimo cavo telefonico che lega i due cantanti in duetto: in Lepage questo è un tema ossessivo che compare per esempio, ne La face cachée de la lune, (il tentativo di ripristinare una comunicazione col fratello che equivale al desiderio di riscoprire il proprio Io interiore) visualizzato scenicamente dal cordone che collega l’astronauta-marionetta alla navicella-madre21. I personaggi delle storie di Lepage comunicano sempre al telefono la propria solitudine, cercano di trattenere a sé il proprio amore che li ha lasciati oppure vengono a scoprire verità drammatiche22. In Les aiguilles et l’opium il protagonista cerca di mettersi in contatto da Parigi con il proprio amante che sta in America ma tutto quello che ottiene è un dialogo a tre con la centralinista americana e quella francese. Nella scena finale l’attore volteggia appeso con un cavo posto sopra l’arcoscenico con un telefono sempre in mano mentre ascoltiamo lo squillare a vuoto inframmezzarsi con le note della Gymnopedia di Satie. Il riferimento è ovviamente, alla piéce telefonica di Jean Cocteau, La voce umana. Questi dialoghi implicano talvolta, proprio la presenza di una cabina del telefono: in Busker’opera ci sono due cabine rosse tipicamente londinesi, ravvicinatissime ma i personaggi nella finzione drammaturgica, sono geograficamente lontani. I dettagli del volto della protagonista sono ripresi da una telecamera e proiettati su un grande schermo, che così televisivizza la vicenda personale facendole assumere i contorni, falsi e ripetitivi, di una soap opera23. In Andersen Project il dialogo telefonico ritorna in numerose 21

Sugli aspetti del teatro di Lepage che ritornano nel palcoscenico musicale di Gabriel vedi: A. Lanini, Peter & Robert: rock e teatro in tour, in www.ateatro.it n.78. 22 In La face cachée de la lune uno dei due fratelli vende abbonamenti di un giornale per telefono; la sua voce viene riconosciuta casualmente da un’amica. Quando la conversazione va a cadere sul privato, il protagonista viene a sapere proprio al telefono che la madre non ha avuto un’embolia ma si è lasciata morire. 23 Vedi A.M.Monteverdi, Busker’s opera: un teatro fuori dalla cornice, www.ateatro.it n.25

13


14

occasioni: Frederic chiama a casa perché ha nostalgia e lo coglie un presentimento di abbandono. Il manager mentre attende la figlia nell’atrio della scuola, chiama lo psicoanalista per parlargli della sua attuale situazione familiare: la moglie infatti, l’ha lasciato (per telefono..).

1.2. Le macchine della visione. Nei lavori di Lepage numerosi sono i riferimenti alla pittura, talvolta espliciti, talvolta sotterranei; in alcuni casi si tratta solamente di citazioni che impreziosiscono la materia teatrale (e forse per questo motivo Claudio Longhi, a proposito dei mille riferimenti de I Sette rami del fiume Ota – dall’opera Madame Butterfly al film Hiroshima mon amour- parla di un emblematico caso di “teatro postmoderno”24). In Vinci (1986) il protagonista, un artista quebecchese in visita a Firenze alla ricerca del senso della vita e della sua arte, incontra Monna Lisa che sorseggia una Coca in un Burger King e Leonardo stesso in un bagno pubblico. Sono poi proiettati in scena i disegni di Leonardo, simbolo del superamento di quella mentalità che contrapponeva le arti liberali alle arti meccaniche e riprodotti la sua scrittura "al contrario", i suoi quadri, i disegni preparatori e i progetti per la costruzione di macchine da guerra (che diventano il motivo del dilemma morale dell'artista). Tra le opere, anche il Canone delle proporzioni, il cartone per l'affresco de La Madonna col bambino e Sant'Anna, La Gioconda proiettati in negativo fotografico. In Polygraphe (1987) una avvincente spy story teatrale in cui un medico legale tedesco sta indagando sull’omicidio di una donna, i riferimenti sono evidentemente più cinematografici. Nello spettacolo è più volte evocato lo spettro della morte; nella scena iniziale al corpo della protagonista Lucie si sovrappone in proiezione l'immagine di uno scheletro che ha il suo corrispettivo nella scena finale: il corpo nudo di François sospettato di omicidio e sottoposto alla macchina della verità (polygraphe, in francese) diventa uno scheletro. Lo scheletro come presenza funesta anticipatrice di eventi tragici (come nella scena della Danse macabre di Saint-Saens presente ne La règle du jeu di Jean Renoir, 1939) non può che richiamare sia le iconografie delle medioevali danze macabri o i Trionfi della Morte che raccontano l'umana Commedia o la moralité, che le pitture surrealiste di Dalì e gli inquietanti manichini dei quadri metafisici di De Chirico. Come nel surrealismo e nella metafisica qua lo scheletro funziona quale dépaysage, oggetto insolito ed estraneo alla generale collocazione della storia inserito per associazione illogica e psichica, a metà strada tra visionarietà onirica e proiezione inconscia dei personaggi. In Les Aguilles et l’Opium (1991) la spirale in movimento ciclico, simbolo della dipendenza emotiva che angoscia il protagonista, altro non è che un frammento della scena dell’ermafrodito tratta dal film Le sang d'un poète di Cocteau, 1930 con una citazione anche dai Rotorelief di Duchamp. Ne The Geometry of Miracle (1996) i protagonisti sono l’architetto americano Lloyd of Right e il filosofo russo Georges Gurdjeff. Coreografie sincronizzate, visualità, movimenti e scene simultanee sono le caratteristiche dello spettacolo mentre un unico tavolo da disegno, molta elettronica e luci colorate formano la scenografia e l'atmosfera visiva. L'architetto è circondato 24

C. Longhi, Tra moderno e postmoderno. La drammaturgia del Novecento, Pacini, Pisa, 2001.

14


15

dagli allievi-seguaci della scuola-comunità di Taliesin (concepita all'opposto da quella della Bauhaus, con una familiarità di vita e di lavoro dei giovani con il maestro). Proprio la personalità dell'architetto modernista, creatore di Casa Kauffmann e del Museo d'arte moderna Gugghenheim, il suo richiamo all'Oriente, all'arte giapponese - arte dell'essenzialità -, la formulazione teorica e pratica di un'architettura come composizione organica, l'edificio come organismo, elemento naturale che armonizza l'interno con l'esterno, si rivela determinante per definire la scena di Lepage in quei termini di "semplicità" e di integrazione di cui parla lo stesso Wright. La parte tecnologica prevedeva un uso di giganteschi video fondali che illustravano i progetti architettonici di Wright per la Chicago degli anni Trenta. In Andersen Project (2006) sono rievocate in proiezione attraverso la struttura scenografica cava dotata di un originale sistema pneumatico, i “panorami” e i costumi di fine Ottocento attraverso le viste fotografiche dell’Expo di Parigi che Andersen, uomo moderno e attratto dalle tecniche del suo tempo, visitò. Lo spettacolo con una maggiore presenza “pittorica” è senz’altro quello dedicato alla tormentata biografia di Frida Khalo e scritto con Sophie Faucher, La casa Azul; Lepage ha diviso l'intero spettacolo sul piano della "visualità", riducendo al minimo l'apparato tecnologico. La scena rievoca episodi della vita della pittrice messicana traducendo in scena i suoi quadri molto amati dai surrealisti e divide il palco come fosse un gigantesco schermo (o se si preferisce, come fosse un enorme parete di murales) incorniciato dentro la boite teatrale davanti (e dietro) al quale gli attori agiscono. La scenografia è ridotta a pochi elementi di arredo: l'appendiabiti, il cavalletto, i ponteggi e infine il baldacchino, che una volta privato delle quattro aste diventa, nel corso dello spettacolo, tavolo o letto d'ospedale, oppure sollevato in verticale, finestra o telaio che inquadra un dipinto. Ancora una volta caratteristica della scena di Lepage è, dunque, la trasformabilità. Il baldacchino/letto di morte evoca molti soggetti dei quadri della Khalo e il cavalletto è l’oggetto davanti al quale l’attrice Sophie Faucher con i lunghi abiti da tehuana, avvolta nel rebozo dipinge. Le pitture di Frida e del muralista Diego Rivera sono restituite in proiezione nella loro vivacità di forme e colori che riempiono la scena con una vera esplosione di immagini, mentre le parole del famoso diario multicolore della Khalo vengono mostrate nella loro calligrafia originaria, diventano così, una vera e propria "scrittura di luce”. Particolarmente intenso il momento della separazione in cui Lepage sceglie di proiettare il Doppio ritratto: è il quadro più famoso, anche quello più importante quanto a dimensioni (i quadri della Kahlo, come i retablos votivi, hanno in genere, piccole dimensioni). È la Frida addolorata per i continui tradimenti di Rivera. Con un bisturi recide la vena da cui scorre il suo stesso sangue. Il cuore è esposto. Herrera la definisce una "immagine di autonutrimento: Frida conforta, protegge o fortifica se stessa". O ancora la rievocazione del grave incidente avuto in gioventù che non le permise di avere figli, e nonostante questo, con ostinazione non volle rinunciare a provarci. Dopo un taglio cesareo, un secondo aborto spontaneo quando era in America, a Detroit, il 4 luglio 1932, la Khalo finì in un lago di sangue. Dallo schermo del palco si intravede dentro una vasca da bagno inclinata, Frida immersa nel suo stesso sangue. Nel buio della scena fuoriescono solo i contorni della 15


16

vasca intinti di un rosso denso, le braccia intorno alla testa in una posa da farfalla e un'abbagliante luce bianca. La scena ricalca nella scelta dell'insolito punto di vista sottinsù, il quadro della Kahlo Ciò che l'acqua mi ha dato in cui l'acqua e il contenuto della vasca sembra quasi rovesciarsi addosso all'osservatore.

1.3. Le macchine di scena. Le scene di Lepage impongono un certo impegno acrobatico agli attori (ma anche ai cantanti): la struttura metallica ideata per il Growing Up Tour (2004), che si staccava da terra per salire verso l'alto, obbligava Peter Gabriel a cantare a testa in giù; in Ka gli artisti del Cirque du soleil precipitano dall'alto di una piattaforma; nel ciclo wagneriano i cantanti cavalcano imponenti quanto virtuali cavalli, in bilico su una struttura alta otto metri. Una insolita spazialità era stata sviluppata anche nel cabaret musicale e tecnologico Zulu Time (2000), in cui oltre ad una azione verticale e radiocentrica del palco, furono inserite proiezioni e macchine di luce (robot che irradiavano fasci luminosi) incastonate dentro una futuribile scenografia a più piani a forma di ad arco di trionfo Nella piattaforma ideata per la tetralogia di Wagner (2011), è il movimento stesso della macchina scenica (insieme con le luci e le proiezioni videodigitali) a creare una drammaturgia e un interessante dialogo con l’attore: alzandosi verticalmente, disponendosi perpendicolarmente, accogliendo videoproiezioni, essa evoca molteplici "luoghi": montagne altissime, profondità marine, assolati campi di battaglia, viscere della terra infuocate. Nel momento in cui si attraversano altri territori dell'arte, la qualità della ricerca teatrale però non si disperde; al contrario, si estende ai diversi luoghi dello spettacolo, modificandone le convenzioni, sia che si tratti di un teatro d’élite o di pura spettacolarità musicale: Così Lepage: I've worked a lot with Peter Gabriel; his music isn't operatic, but he creates big, popular gatherings to which architecture, dance and music are all invited. Opera needs a major makeover; the large opera houses are too in thrall to their conservative patrons. Opera should be a place for art forms to meet. It includes music, literature, architecture, set designing, fine arts, choreography. Opera is a great meeting place25. E’ proprio nell'ambito dell'opera lirica che Lepage si cimenta per la prima volta con la sua sperimentazione scenica più ardita: un’architettura in grado di accogliere immagini 3D ed una effettistica cinematografica strabiliante: l’ha utilizzata nella messinscena de La Damnation de Faust da Berlioz nel 1998. Nella versione del 2008 per il Met, Lepage vi aggiungerà anche un sistema di motion capture che cattura digitalmente attraverso sensori, i movimenti dei cantanti e integra attori e immagini in una scena dall'aspetto di un enorme video-wall. Un modo, come lui stesso racconta, per "tentare di illustrare l'energia della musica di Berlioz, estenderla non decorarla". La tecnologia amplifica l'energia della musica perché: 25

Intervista a Lepage inserita nel trailer video del Metropolitan per la Tetralogia disponibile sul sito del Met.

16


17

The survival of the art of theatre depends on its capacity to reinvent itself by embracing new tools and new languages. In a way, innovators in both arts and sciences walk on parallel paths: they have to keep their minds constantly open to new possibilities as their imagination is the best instrument to expand the limits of their fields.26 E' impossibile dissociare Lepage dal suo giovane e altrettanto geniale stage designer Carl Fillion, con il quale crea da sempre le macchine sceniche per le quali è universalmente acclamato. Con Fillion ha dato vita al mondo d'ombre viventi e video di The Seven Streams of the River Ota; al dispositivo rotante di Elsinore, il marchingegno per il suo più folle progetto di one-man-show; ai pannelli scorrevoli, specchianti e proiettabili di La Face Cachée de la Lune. E' Carl Fillion a spiegare il segreto con cui egli trasforma un'unica scena, da un’idea iniziale discussa insieme con Lepage, in un vortice infinito di luoghi: I like to transform the scenic environment by creating elements that move and turn, on stage, in full view of the audience. My main visual signature as a designer can be found in the way I sculpt the space and keep it in motion.27 La matrice della metamorfica macchina scenica di Ka (e dell’apparato tecnologico del ciclo wagneriano) non è altro che il dispositivo girevole ideato per Elsinore, seppur in una scala diventata monumentale, adatta a sostenere volteggi, acrobazie, proiezioni. In Elsinore un unico elemento scenico, un dispositivo di alluminio mobile e rotante, attraverso le sue molteplici possibilità di movimento e attraverso la relazione che instaura con il personaggio che abita dentro i suoi meccanismi, mostra un’indivisibile polarità: l'empietà della corte e la lealtà di Amleto. L’unico suo attributo è la trasformabilità: The combination of the moving set, continually creating new relationships between the performer and the space, and the depiction of a range of backstage areas configures a number of the play's theme. Elseneur is about instability, about a whirly of activity around a central figure, about continual tensions between a human figure and a piece of machinery which one could express, metaphorically, as a tension between individual and state, or even the human and the cosmic28. Carl Fillion ha raccontato di aver creato un prototipo basandosi dapprima sull'immagine, fornita dal regista, di un monolite, e poi sul movimento del corpo umano; la forma finale è quella di un cerchio inscritto in un quadrato (all'interno del quale si trova il rettangolo, in forma di apertura-varco): è il simbolo dell'armonia, della perfezione e dell'uomo stesso. Un pianale metallico quadrato può alzarsi in verticale a 180°, sollevarsi parallelamente al palco, diventando di volta in volta muro, soffitto o parete.

26

Intervista a Lepage per il video trailer del Met per La damnation de Faust. Disponibile on line. 27 Intervista a Carl Fillion per Totem, inserita nel sito della compagnia Cirque du soleil. 28 A.Lavender, Hamlet in pieces. Shakespeare reworked by Peter Brook, Robert Lepage, Robert Wilson, New York, Continuum, 2001.

17


18

Il dispositivo (chiamato “the Machine”) contiene, invisibile, un disco circolare, solidale con la parete o autonomamente mobile, che permette ulteriori rotazioni, lente o veloci. Collocato esattamente al centro del disco, un varco rettangolare che viene usato come una porta, finestra o tomba. Alla struttura furono poi aggiunti due schermi laterali e un fondale. La scena, oltre alla struttura mobile, era così costituita da tre pareti modulari: quelle che affiancano la scena furono ricoperte di spandex e servivano per proiettare le immagini (in movimento e fisse) in diretta, raddoppiando Amleto, ingigantendolo o sezionandone una porzione del volto, producendo l'effetto di una visione stereoscopica (la visione contemporanea ma separata dei due occhi). Anche il dispositivo monolitico poteva diventare schermo proiettabile. La tecnologia non altera il dramma: lo esalta. Nelle ultime produzioni come one man show, Lepage aveva sviluppato un originale organismo scenografico particolarmente flessibile e metamorfico, atto anche a ospitare immagini video. Se in La face cachée de la lune la parete di fondo composta da svariati scomparti scorrevoli su binari poteva aprirsi e rivelare le parti interne, in Andersen Project si sperimentava addirittura lo sfondamento prospettico della parete grazie ad una cavità rientrante leggermente rialzata di 45 gradi, contenente un sistema pneumatico; veniva usato anche lo spazio sottostante il proscenio per muovere e far comparire oggetti. Trattasi di sistemi per “forzare” i limiti dimensionali della scena e creare artificiali (o semplicemente teatrali) illusioni di profondità e di volume attraverso trabocchetti di gusto antico29. In Le dragon bleu30 troviamo una specie di “antologia” della macchina lepagiana. Così vengono recuperati molti dei temi che hanno decretato il 29

Su Andersen Project vedi A.M.Monteverdi, Nuovi media, Nuovo teatro, cit. Sulle macchine e congegni mobili che venivano usati in occasione delle feste principesche e che si basavano su giochi d’acqua realizzati con pompe idrauliche e argani, vale la pena ricordare il bellissimo prontuario illustrato di Giovanni Branca Le machine, 1629 (ristampato da UTET nel 1977 a cura di Luigi Firpo, con edizione fotostatica). Sono 77 xilografie con didascalie esplicative che illustrano congegni di ogni tipo: la noria a cassette o a secchi, la ruota idraulica, la coclea di Archimede, i lumi alimentati a pressione d’aria, le fontane da tavola, fino ai finti uccelli canori per soffio di vapore. 30 Il dragone blu è una sorta di sequel teatrale de La trilogia dei dragoni: nel 1985 Lepage aveva inseguito le drammatiche vicende umane di alcune famiglie di immigrati cinesi nelle Chinatown canadesi lungo 75 anni. Il Dragone Blu è un focus su una delle numerose storie della Trilogia. Pierre La Montaigne artista del Québec, decide di lasciare il proprio paese per andare in Cina e non ritornare mai più; lavora a una particolarissima forma d’arte tradizionale, la calligrafia, e ha una galleria d’arte a Shangai. Lasciato a questo punto della sua vicenda Lepage riapre il capitolo che riguarda Pierre. Il tema portante è la calligrafia, con le simbologie e i numerosi significati correlati con quest’arte, i cui codici antichissimi evocano armonia compositiva. Pierre La Montagne è in aeroporto ad attendere l’amica che arriva dal Québec, sua compagna all’Accademia di Belle Arti di Montréal, per adottare un bambino; la delusione per l’impresa che si rivelerà impossibile e il soggiorno troppo prolungato ne svelano la natura depressiva e la storia da alcolista. Innamorata da sempre di Pierre accetta la sua ospitalità nella casa-loculo nel cuore di Moganshan, Shangai. Conosce così, la ragazza che frequenta l’atelier di Pierre e che si rivelerà essere anche la sua amante; Xiao Ling è una fotografa che ritocca digitalmente autoritratti scattati col telefonino o con macchina digitale per cogliere l’attimo e il sentimento che anima quell’attimo. Le tre storie apparentemente molto distanti sembrano combaciare nell’unico punto della solitudine e della crisi interiore: la ragazza è alla ricerca del mecenate che possa aiutarla a trovare una strada nel mondo dell’arte ma verrà segnata dal fallimento personale e artistico, Pierre soffre nel sogno non esaudito di un amore ricambiato, Marie è sola senza la compagnia di un figlio da amare. Dopo vicende di riconoscimenti, di delusioni, di litigi e di abbandoni, Pierre si ritrova da solo espropriato dal Governo persino dell’atelier, Marie non rientrerà più in Québec per frequentare l’alta società e la giovane artista cinese rimasta incinta di un uomo che potrebbe

18


19

successo della macchina trasformista di Lepage: la scena mobile tirata a mano, gli oggetti trasportati da invisibili servi di scena, la proiezione video frontale e retro sullo schermo con il personaggio incastonato in mezzo, pochi oggetti che si scompongono e si ricompongono alla vista diventando tutto quello che serve alla narrazione teatrale, scena avente diversi livelli di profondità, richiami a modalità cinematografiche (ralenti, flashback). La prima scena/sequenza offre poi una prima citazione da Le sept branches de la rivière Ota: schermi traslucidi a evocare le case giapponesi, pareti che si aprono, si sollevano e mostrano un interno di casa o una ferrovia, oppure, accolgono in proiezione paesaggi. E’ una macchina-involucro che contiene i dubbi esistenziali di ognuno di noi. Magistrale l’inserimento dell’illusione di movimento e attraversamento di spazi lontani da parte di protagonisti in realtà fermi in scena: esilarante la scenetta della pedalata in bici mentre le immagini del paesaggio si muovono dietro i personaggi: sembra una citazione ironica del finale del Molière della Mnouchkine o di Caccia al ladro di Hitchcock. Impossibile elencare tutte le soluzioni che vogliono evocare un mondo di luoghi lontani in fondo ricostruibili da poche tracce: un aeroporto immaginato da una proiezione di orari dal tabellone, un tavolo per la dogana che scompare sotto il pavimento per ricomparire un attimo dopo come tavolo da bar, un vernissage rappresentato da alcune proiezioni di immagini. La macchina scenica è presente come protagonista anche in La face cachée de la lune: con musiche originali di Laurie Anderson, lo spettacolo di Lepage, miglior produzione canadese del 2001, prende spunto dall'invio nello spazio delle navicelle sovietiche e americane. L'esplorazione della luna (fino a Galileo “specchio della terra”, come si racconta nel Prologo) è la metafora di cui si serve Lepage per parlare di un'altra ricerca, quella dello spazio interiore, intimo e privato: è la storia di due fratelli, uno metereologo, l'altro venditore di abbonamenti da sempre attratto dal tema delle esplorazioni extraterrestri. Separati da diversi stili di vita e caratteri (anglofoni e francofoni?), si incontrano nuovamente dopo che viene loro a mancare la madre. La luna e la madre, con il relativo armamentario mitico e simbolico, sono i due temi centrali dello spettacolo che si intersecano continuamente. Lepage inventa un fondale metallico di color grigio scuro che occupa tutta la larghezza del palco e che nasconde al suo interno ambienti tra loro separati da pannelli che anche essere Pierre, si abbandona a una vita da artista di strada, senza mezzi né amore con un bimbo che non accetta. L’incontro casuale tra la ragazza e Marie dentro una stazione diventata casa provvisoria, rimette di nuovo i tre di fronte al tema della responsabilità umana di fronte al dolore altrui. La spensieratezza della prima parte dello spettacolo, nel racconto dell’incontro di Pierre con la ragazza presso un laboratorio di tatuaggi, nella vicenda tragicomica della valigia persa in aeroporto e poi ritrovata trasudante miele, nella memoria iconografica coloratissima della Repubblica Popolare, si scontra con la crudezza della realtà tragica che viene descritta nella seconda parte. La nascita di un bambino, che sarebbe stata occasione di gioia per una delle due donne, è invece motivo di odio e desiderio di annullamento per l’altra; solo lo scambio affettuoso, il mutuo soccorso, il riconoscimento dell’altro come parte di noi stessi come si intuisce al fondo della storia, può servire ad evitare il tragico epilogo di tutte le vicende umane, quella di Pierre e la nostra. E può servire ad aprire una porta inattesa sull’avvenire. Così la storia contiene clamorosamente tre possibili happy end: nel primo, il bimbo viene adottato da Marie di ritorno con Pierre in Canada, nel secondo rimane in Cina dalla madre con la sicurezza di un padre e di un sussidio, nel terzo viene affidato solo al padre in Cina mentre le due donne vanno in Canada. Lepage infatti lascia libera la scelta ovvero propone tre finali diversi, come in un videogame; a noi immaginare come la storia potrebbe davvero finire.

19


20

scorrono silenziosi su binari; sulla sua parete vengono proiettate immagini tratte dai documentari sull'esplorazione della Luna e filmini in Super8 della vita del personaggio. Le ante scorrevoli fanno intravedere oggetti e ambienti sempre diversi: armadio, ascensore, stanze. Questo fondale ha anche una corrispondente quarta parete "fisica": un enorme specchio che si sviluppa per tutta la lunghezza del palco, dotato di un movimento rotatorio che lo trasforma sia in oggetto di scena sia in soffitto riflettente, restituendo agli spettatori, nel finale dello spettacolo, l'impressione di un corpo duplicato impegnato in una danza quasi in assenza di gravità. Dunque la tecnologia a teatro, quale appare in tutta la sua evidenza proprio in La face cachée de la lune, introduce un oxymoron davvero inatteso: è “arcaica”, imperfetta e pericolosa. Il montaggio dello spettacolo richiede tre giorni e una squadra di quattordici persone. I congegni impiegati, più che sofisticate soluzioni hi-tech, ricordano i meccanismi (i cosiddetti ingegni) del teatro rinascimentale, epoca dell’invenzione della mobilità della scena, i cui apparati erano un vero connubio di meraviglia e ars mechanica. Pensiamo agli intermezzi (intermedii), vero spettacolo nello spettacolo in cui tutta la scena era per le macchinerie, gli apparati, le quinte mobili che producevano stupore ed esaltavano la magnificenza del principe. Nello spettacolo di Lepage, vero trionfo del concetto antico di techne31, è come se ci fosse un altro spettacolo dietro lo spettacolo: tecnici e ingegneri del suono e della luce, ma anche numerosi “manovratori”, danno vita, dietro alla scena e in diretta, a questa artigianale e funzionale macchina teatrale, maneggiandola con destrezza; in un attimo invisibili servi di scena spostano a mano i pannelli piazzando l’armamentario scenografico e tirando i proiettori con funi. La macchina scenica lepagiana mutua i suoi movimenti dall'uomo, da cui spesso prende in prestito il sembiante e il carattere mutevole; è come una creatura vivente, in movimento dinamico, e il soggetto che la abita ne è fondamentale articolazione. In fondo, seguendo la metafora cara a Leonardo, l'uomo stesso è una macchina, l'uccello è una macchina, l'edificio è una macchina, l'intero universo è una macchina.

1.4.La macchina wagneriana Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage ha chiamato a collaborare, oltre a Fillion, i tecnici, gli artisti, i videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du Soleil, forse l’unica compagnia in grado di garantire un allestimento all'altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan di New York. Anche Josef Svoboda disegnò le scene per Der Ring des Nibelungen: al Covent Garden a Londra (1974-76), al Grand Théâtre di Ginevra (1975-77) e al Théâtre Antique d'Orange, in Francia (1988). La versione londinese, in cui lo scenografo cecoslovacco utilizzò il laser, è quella più vicina alla ipertecnologica regia di Lepage. E tra Svoboda e Lepage non bisogna dimenticare la versione "techno" dell'Anello dei Nibelunghi a firma della Fura dels Baus32: la compagnia 31

Techne era il nome con cui nell'antichità si designava, come è noto, sia l'attività dell'artigiano che gli artisti (che erano appunto, technites). 32La Fura dels Baus è il nome della compagnia teatrale e multimediale catalana fondata ne 1979 a Barcellona da Marcel.lì Antunez Roca, Quico Palomar, Carlus Pedrissa e Pere

20


21

catalana adotta un sistema ingegnoso per ingigantire personaggi e ambienti: i primi sono muniti di caschi fantascientifici e letteralmente trasportati sopra un apparato rialzato munito di ruote, gli ambienti sono invece, riprodotti in enorme formato in 2D e 3D come fondale. Per l'atmosfera del Crepuscolo degli dei, Lepage libera la scena da qualunque oggetto, per ospitare un unico monstrum leonardesco che sembra uscito dalle mani di un alchimista d'altri tempi, un erede naturale della fantasia avanguardista di Svoboda. Protagonista incontrastato della scena wagneriana di Lepage è infatti, l'enorme macchina progettata da Fillion per l'intera tetralogia, vera opera di ingegneria meccanica, composta di ventiquattro elementi di fibra di vetro ricoperta di alluminio: ciascuna di queste placche, a sezione triangolare, è lunga nove metri ed è mobile autonomamente rispetto alle altre; può sollevarsi e ruotare di 360°, grazie a un complesso sistema idraulico che permette un gran numero di forme differenti. Può diventare, a seconda delle necessità, la spina dorsale di un dragone, una montagna o il cavallo delle Valchirie. Una visualizzazione scenografica del leitmotif wagneriano: In looking for an approach that would allow us to tell the story and unify the four operas, we were guided by Wagner’s use of leitmotifs. He positions them in different relationships; sometimes he uses the same motif that he plays backwards, or in major or in minor, so the motifs are cousins..33. L'inclinazione variabile dei piani si presta a un gioco di voli di scale che fa ricordare i disegni di Adolphe Appia per Wagner. Lepage spiega che: What happens in Das Rheingold is that we’re in a world of mists and lightning, and fire and water, an elemental realm. That’s why the set is morphing into these elements that remind us of rocks and spines. As we move on, and the Ring tells the story of demigods and human being and eventually of society, and social classes and ranks, the set slowly moves toward architectural propositions34. I movimenti dell'architettura di scena avvengono con intervalli di cinque o dieci minuti e sono controllati in parte a mano in parte da un computer. Per le scene della foresta in Siegfried Lepage ha fatto ricorso a un uso strabiliante e fortemente realistico del 3D senza visori da parte del pubblico. It was important that we create a theatre machine that would be similarly versatile — a set that had its own life and could actually go through different metamorphoses but, at the same time feel very organic. Very early on, we decided to create a spine to the set that allows us to move things and Tantinya. Si definisce come un gruppo di teatro urbano che ricerca uno spazio scenico distinto da quello tradizionale. La base dei loro lavori è composta da una gamma di espedienti scenici che includono musica, movimento, utilizzo di materiali naturali e industriali, applicazione di nuove tecnologie e il coinvolgimento diretto e a volte anche violento, degli spettatori nello spettacolo. Il tutto dominato da una creazione collettiva, in cui l'attore e l'autore sono un'unica entità. Nel corso degli anni Novanta la compagnia estende i suoi progetti artistici al teatro testuale e al teatro digitale, alla realizzazione di grandi eventi e al teatro lirico. Realizza le scenografie e le macchine della Tetralogia wagneriana con la direzione musicale di Zubin Metha nel 2007 per il Nuovo teatro d’Opera di Valencia. Le scene sono di Carlus Pedrissa. Per la Fura dels Baus la chiave interpretativa è: “La degradazione suicida della natura da parte dell’uomo tecnologico” (dal Programma di sala). 33 Intervista a Lepage di Elena Park sul sito del Metropolitan di New York. 34 Ibidem.

21


22

articulate things. So the set is actually not only illustrating some of the ideas in the Ring, but it’s also literally supporting the characters and the ideas...it was important for us that the set be very nimble, very flexible, very adaptable, and alive, so that it not only moves, but it also breathes. Verrà chiamata la Walhalla Machine. In azione per la Cavalcata delle Walkirie, da vera diva strappa applausi a scena aperta. Sulla superficie di questi assi, che ricordano i tasti di un gigantesco pianoforte ma anche, nei movimenti, i mostri fantascientifici del film Dune, vengono proiettate immagini in videomapping35, a mostrare alberi della foresta, caverne, le acque del Reno. Sono state usate sia immagini statiche sia immagini interattive, ottenute grazie a un sistema di motion tracking36. La macchina scenica complessiva è di tali proporzioni e di tale pesantezza (quarantacinque tonnellate) che il Metropolitan ha fatto rinforzare il palcoscenico. I giornali hanno parlato di "un'affascinante combinazione di complessa tecnologia e semplicità estetica", "tradizionale e rivoluzionario", ma anche di una produzione “troppo simile a un musical di Broadway", mentre il NYT è stato ancora più freddo, titolando la sua recensione: Ring vs Spiderman. La produzione rimarrà dunque negli annali per l'impiego di una tecnologia avanzatissima e per il numero straordinariamente alto di tecnici e progettisti, e di conseguenza anche perché si tratta di uno dei più costosi allestimenti teatrali di tutti i tempi (si parla di sedici milioni di dollari). La cosa non sembra aver preoccupato molto Peter Gelb, general manager del Metropolitan, dal momento che ha venduto l’esclusiva della diretta ai teatri e ai cinema di quaranta paesi.

35

Tecnica di proiezione video tridimensionale. Réalisations Maginaire inc., ha realizzato gli effetti video 3D e interattivi gestiti dal software Sensei. Sul tema vedi: A.M.Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro, FrancoAngeli, Milano, 2011. 36

22


23

2.Un congegno estremamente affascinante: Stifters Dinge di Heiner Goebbels Automa: macchina che si muove da sola, o con cui la forza motrice è insita nel meccanismo stesso. (Encyclopedia Britannica) Heiner Goebbels, compositore e musicista tedesco, sperimentatore e creatore di installazioni tecno-performative, nel 2009 realizza un concerto per macchine sonore e visive dal titolo Stifters Dinge: un congegno a mo’ di orchestra che non sembra celare al suo interno un manovratore umano come invece il falso automa, il giocatore di scacchi detto Il turco inventato da von Kempelen nel 1770 - ma esibisce tutta la bellezza dell’apparato macchinico di luce e movimento senza interpreti. L’artista tedesco aveva raccontato al pubblico italiano del Festival di Santarcangelo 2011 la sua poetica, menzionando i suoi maestri (Heiner Müller) e le sue matrici culturali, e commentando le immagini documentarie dei suoi lavori da palcoscenico. Un po’ come enunciato nei principi chiave del Manifesto Fluxus redatto da Maciunas sulla necessità di fare un’arte che spezzi definitivamente ogni distanza tra le arti, Goebbels attraversa linguaggi e sistemi, spazi e contesti in una strategia di aggregazione che rende conclamato il concetto di ambivalenza proprio del nuovo teatro, in cui i confini risultano sempre meno definiti non tanto in una direzione di ibridazione dei linguaggi, quanto di mantenimento delle proprie specificità e variabili in un contesto (o se vogliamo, in un paesaggio) multimediale “diversamente performativo”. Ecco la risposta piuttosto emblematica di Goebbels a chi gli chiede quale sia il territorio di appartenenza del suo lavoro (musica? teatro? arti visive? videoarte?): Io mi auguro di riuscire a dare a tutte le istanze espressive un'eguale importanza. Una cosa che mi piace molto è quella di non dare al pubblico la certezza di ciò che accadrà, di disattendere insomma, le aspettative. Sarà un concerto? Una performance? Un'installazione? Una piéce teatrale? Ogni format richiede un diverso approccio percettivo. È già una gran differenza, ad esempio, quella che passa tra l'ascolto musicale e quello di un testo verbale. I Went to the House But Did Not Enter (spettacolo musicale multimediale del 2007 ispirato a Blanchot, Beckett, Eliot nda) ruota proprio attorno all'incertezza tra queste due categorie - testo letterario o musicale -, specialmente nella sezione tratta da Beckett. Sono profondamente convinto che in questi momenti di “piacevole irritazione” il pubblico si disponga meglio nei confronti dell'esperienza artistica, perché in questi momenti cambiano decisamente le nostre convenzionali gerarchie percettive. Puoi trovarti a non sapere con precisione cosa fare: è più importante ascoltare la qualità musicale di un discorso invece che comprendere un testo, o le due cose si intrecciano? Come decidere? A cosa affidarsi: al contenuto o alla forma? La parola o l'intonazione con cui viene detta? Il compositore o il poeta? Il suono o l'immagine?

23


24

Proprio in questo “no borderline between arts” (che corrisponde, appunto, al concetto di intermedia, termine ideale per definire il “Fluxism”), in questa indeterminatezza di confini e di generi sta l’importanza del lavoro di Goebbels: le installazioni diventano macchine sonanti e rispecchianti, vere macchine celibi di duchampiana memoria, o meccanismi di luce come nelle spettacolazioni futuriste (Feu d’artifice di Balla, 1917). E il gesto dell’artista sembra proprio quello di scomparire, di lasciare che la creazione (automatizzata o robotizzata) prosegua da sola la propria corsa: Maciunas parlava proprio dell’utopia di creare una “automatic machine” in cui la forma d’arte potesse essere determinata attraverso processi naturali e casuali, indipendentemente dall’artista. Stifters Dinge (ovvero Le cose di Stifter) è dedicato allo scrittore, poeta e pittore boemo di inizio Ottocento Adalbert Stifter, specializzato in paesaggi tardo romantici, molto apprezzato da Thomas Mann); così Goebbels racconta di essere stato colpito dalla descrizione di Stifter della natura, una descrizione a suo avviso non naturalistica ma astratta: “Stifter dà ritmo al paesaggio in un modo rituale, lavora con ripetizioni, c’è molta astrazione nei suoi testi e questo mi interessa, perché è solo in questo modo che la natura può essere comunicata” . Stifters Dinge si presenta a prima vista come un aggregato (un “Merzbau”) di oggetti sonanti assemblati insieme, con un richiamo non incidentale, a prima vista a certe installazioni décollage di Wolf Vostell. Cinque amplificatori, cinque pianoforti disposti in verticale i cui martelletti sono guidati meccanicamente per produrre suoni, oppure rovesciati, aderenti a piastre di metallo, insieme a sacchetti di plastica che si riempiono con getti d’aria, e poi rulli, ventole, piatti, il tutto all’interno di una piattaforma che si muove avanzando impercettibilmente su rotaie verso il pubblico. In posizione ravvicinata rispetto al pubblico tre vasche di eguali dimensioni che vengono riempite di sale e poi d’acqua, diventando ruscelli, pozzanghere, cristalli riflettenti luci e ospitanti al loro interno evocative immagini in movimento. Impalpabili superfici che accolgono ombre, riflessi, parole, paesaggi mossi dalle vibrazioni acustiche. In alcuni momenti l’installazione ricorda la famosa fotografia di Henri Cartier-Bresson Behind the Gare St Lazare, con il bambino che corre e la sua ombra è catturata da una pozzanghera. A fianco, altre piccole macchine ed ingranaggi generatori di suoni concreti, contenitori di acqua riflettenti luci azzurre. E ancora, schermi che accolgono ombre e forme indefinite a offrire il commento visivo a un testo recitato off che parla di boschi e luoghi mentali; qua il regista mette in campo tutta una gamma di effetti rètro digitali davvero commuoventi nella loro semplicità e nella loro efficacia: ombre di rami e di alberi insieme a paesaggi di verzura vecchio stile vengono retroproiettati e grazie alla luce mutevole diventano poeticamente evocativi dei diversi tempi della giornata ma anche dei diversi stati d’animo: la luce piena e lo schiarire del giorno sono l’energia della giovinezza e il crepuscolo della vita, oppure se vogliamo, il sonno, la veglia, la ragione, l’immaginazione. Criptica la sezione in cui un piccolo schermo riporta immagini che sembrano indagare i particolari di un quadro rinascimentale italiano (La caccia notturna di Paolo Uccello); cani, cervi, cavalli immersi in paesaggi bucolici catturati da un occhio meccanico che sembra seguire lentamente la composizione e le linee prospettiche offerte dal pittore fiorentino. Ma forse è proprio la frase citata prima di Goebbels a darci qualche indicazione: egli 24


25

afferma di apprezzare di Stifter la capacità di descrivere il paesaggio secondo un ritmo. Quanto di più vicino a un pittore come Paolo Uccello legato come altri artisti rinascimentali ai trattati di aritmetica, musica e geometria e affascinati dalla costruzione prospettica e dall’equilibrio creato dai rapporti musicali. Charles Bouleau dedica un capitolo del suo famoso testo La geometria dei pittori alle consonanze musicali degli artisti del primo Rinascimento fiorentino e al cosiddetto “albertismo”, cioè l’effetto sui pittori rinascimentali delle letture di due libri di Leon Battista Alberti, De re aedificatoria e De perspectiva pingendi. Paesaggi evocati dai racconti di Stifter con il commento sonoro della musica di Bach (per piano senza uomo), e con la voce di Claude LévyStrauss che racconta il suo piacere del viaggiare ma anche il suo desiderio di solitudine e la sua assoluta mancanza di fiducia nei confronti dell’uomo. E in questo spettacolo, l’uomo non c’è: come annuncia il sottotitolo dello spettacolo, questo è un “no-man show” in cui l’attore in carne ed ossa è scomparso per lasciare spazio alle macchine animate che hanno sostituito, appunto, l’umanità. Terminata la performance, il pubblico è invitato a percorrere l’universo delle macchine come fosse un’installazione: dopo il live, l’apparato macchinico-scenico ritorna ad essere installazione, configurata questa volta, senza tempo, senza azione, senza musica, senza parole. Gli attori (le macchine) tornano a essere inanimati.

25


26

II Rimediando il teatro con le ombre.

26


27

2.1. Dalle installazioni al teatro: Shilpa Gupta, William Kentridge, Kara Walker, Jean-Lambert Wild.

William Kentridge37 tra i più grandi artisti visivi mondiali, svolge un’attività artistica multipla sin dalla fine degli anni Settanta: le sue opere spaziano dalle incisioni con tecniche diverse (puntasecca, acquaforte, acquatinta) ai disegni a carboncino, a gesso e pastello, ai collage, alle pitture, alle installazioni con sculture in bronzo, con mobili, arredi e schermi (che formano veri e propri teatrini in miniatura), ai film animati in 16 e 35mm, ai disegni a silhouette realizzati espressamente per i fondali teatrali. L’esposizione a Documenta Kassel nel 1997 e la personale al Palais des Beaux-Arts a Bruxelles nel 1998 ne decretano il successo mondiale. La sua biografia è costellata di numerosi eventi legati al teatro: iscritto alla Ecole Jacques Lecoq a Parigi, scenografo attore e regista della Junction Avenue Theater Company e della Handspring Puppett Company di Johannesburg, allestisce opere dai testi di Tom Stoppard e Alfred Jarry; diventa in seguito regista di corti in animazione girati in 16mm, ma i suoi 37

William Kentridge, artista visivo contemporaneo, nasce il 28 aprile 1955 a Johannesburg, Sudafrica. Cresce in una famiglia di origine lituana ed ebreo-tedesca, in uno Stato diviso dall’apartheid. Dal 1973 frequenta l’University of the Witwatersrand, dove, nel 1976 consegue la laurea in Politica e Studi africani. Nel 1976 s’iscrive alla Johannesburg Art Foundation, specializzandosi nelle varie tecniche d’incisione e, contemporaneamente, inizia a lavorare come attore, regista e scenografo nella Johannesburg’s Junction Avenue Theatre Company. Nel 1981, lascia Johannesburg e si trasferisce a Parigi, dove studia mimo e teatro all’École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq fino al 1982. Tornato in Sudafrica, abbandona la carriera da attore per dedicarsi completamente alla regia cinematografica, televisiva e al disegno. Il 1989 è l’anno del suo primo video d’animazione: Johannesburg, 2nd Greatest City After Paris, primo dei suoi celebri Drawings for Projections. Sono nove film animati e muti che raccontano le condizioni del Sudafrica durante la segregazione; animazioni create con uno stile inventato da Kentridge stesso basato sulla tecnica dello stop motion. Nel 1992 per la prima volta Kentridge collabora con l’Handspring Puppet Company all’opera Woyzeck on the Highveld. In quest’opera attori in carne e ossa sono affiancati da marionette di dimensioni umane inventate da Kentridge e gestite sul palco dalla Handspring Puppet Company. Nel 1995 collabora di nuovo con la Handspring Puppet Company allo spettacolo Faustus in Africa! di cui Kentridge stesso è l’autore. Nel 1994, in concomitanza con le prime elezioni generali sudafricane, che segnano la fine dell’apartheid, Kentridge realizza il film Felix in Exile; film che sarà esposto nel 1997 a Documenta X a Kassel insieme a History of the Main Complaint. L’attenzione da parte di un pubblico internazionale per Kentridge arriva proprio a Kassel e, nel 1998 a Bruxelles, viene allestita la sua prima retrospettiva europea. Tra il 1998 e 1999 ripropone l’opera teatrale di Jane Taylor Ubu and the Truth Commission lavorando ancora una volta con la Handspring Puppet Company, con la quale realizzerà anche Il Ritorno di Ulisse in patria. Nel 2005 reinterpreta il capolavoro musicale di Mozart, il flauto magico. Nel 2008 Kentridge presenta presso il Teatro La Fenice di Venezia l’installazione (Repeat) From the Beginning, dove viene trattato il rapporto tra teatro e musica. Nel 2009 il Time inserisce Kentridge tra le 100 persone più influenti del mondo. Tra il 2010 e il 2011 sono organizzate due sue grandi mostre itineranti che viaggeranno in tutto il mondo, la prima organizzata dal National Museum of Modern Art di Tokyo e l’altra: William Kentridge: Five Themes, organizzata dal Museum of Modern Art di New York.

27


28

film così come i suoi disegni e le sue installazioni continueranno a trasudare il teatro, ad essere abitati da maschere del teatro di tutti i tempi: straordinari i primi monotipi di piccole dimensioni della serie PIT; un palco/gabbia come fossa o bolgia dantesca ospita corpi incatenati o nudi di donne e uomini deformi o schiacciati dalla prospettiva, illuminati da un accecante faro teatrale. Nella loro angosciante commedia nera sono l’oggetto dello sguardo crudele di spettatori posti all’estremità superiore di questa arena. Reminiscenze pittoriche di Goya, Bacon e degli artisti di Weimar convivono con le atmosfere del teatro del Gran Guignol. Nel volume sono riportate le riproduzioni delle incisioni che costituiscono la serie Ubu tells the truth (1996-1997) con le fotografie dallo spettacolo andato in scena con la collaborazione di Handspring Puppett Company, i disegni per lo spettacolo Faustus in Africa (1995), per Confessions of Zeno (2002), per l’opera in musica Il ritorno di Ulisse in patria (1998) da Monteverdi; alcune fotografie inserite nel volume documentano l’installazione Preparing the Flute, un modellino teatrale con due film animati in 35mm con cui Kentridge reinventa il suo lavoro per le scenografie per l’opera Il Flauto magico da Mozart. Celebri sono i Drawings for Projections, film animati muti realizzati da Kentridge a carboncino e inaugurati con la fine degli anni Ottanta. Travagliato il lavoro di Kentridge davanti alla Bolex 16mm per creare sequenze animate composte da innumerevoli e minime variazioni e cancellature del disegno monocromo davanti alla macchina da presa, ci riporta al cinema delle origini, ai primi studi fotografici del movimento di Marey: A differenza dell’animazione classica in cui per creare un solo secondo di filmato si realizzano ventiquattro disegni diversi su altrettanti fogli, per i suoi film Kentridge usa solo pochi fogli di carta che vengono ossessivamente disegnati, cancellati e ridisegnati a carboncino. L’artista parte da un largo foglio bianco appeso al muro e vi disegna la prima scena. Poi passa alla telecamera con cui riprende il disegno per pochi istanti. Quindi ferma la cinepresa e torna al disegno: lo altera con cancellature, aggiunte e sovrapposizioni anche solo infinitesimali, facendo evolvere l’immagine secondo la narrazione. E di nuovo torna a filmare il disegno, nato da una metamorfosi di quello precedente, di cui conserva la memoria38. Ma le sue opere sono inscindibili dalla storia recente del Sudafrica, dal tema dell’apartheid a cui Kentridge dedica la lunga saga di Soho Eckstein, storia di un avido e ingordo capitalista industriale simbolo stesso della corruzione e della depravazione in una Johannesburg colpita dalle ingiustizie razziali e dallo sfruttamento del lavoro operaio nelle miniere. Il personaggio che gli si contrappone è il solitario e triste Felix Teitlebaum. Nel repertorio visivo di Kentridge le ombre sono un motivo iconologico costante e un vero topos, sviluppate nelle più diverse tecniche: dalle sculture in lamina nera di figure in sospensione tra le due e le tre dimensioni (addossate su muro o anamorfiche e disperse a frammenti nello spazio, e persino rotanti su un perno o riprese dalla telecamera/macchina da presa), alle processioni in silhouette di derelitti in marcia eseguite a collage con carta strappata (come in Portage, 2000), dalle sagome di figure nere di varie 38

C.Alemani, William Kentridge, Milano, Electa, 2006, p.32.

28


29

dimensioni inserite su arazzi fino ai ciclorama di profili neri su sfondo bianco o su pagine di libri e su carte geografiche, e infine alle proiezioni animate (Shadow Procession, 1999; Stair Processing Vertical Painting, 2000; Procession or Anatomy of Vertebrates, 2000). I video, le installazioni e le opere filmiche animate di William Kentridge a partire da disegni al carboncino sono creati quali forme espressive aperte che si espandono verso inedite traiettorie artistiche, in una felice “conflittualità relazionale”: il video, come espansione del fatto grafico, diventa installazione, poi quadro scenico animato all’interno di uno spettacolo, come nel recente progetto ispirato al racconto Il naso di Gogol dal titolo I am not Me, the Horse is not Mine, 2008). L’effetto di ombre in movimento nel suo teatro (con una eco non incidentale al teatro giavanese, il wajang) è variamente combinato con le proiezioni video o filmiche, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell'attore (o della marionetta) che della macchina (e del suo manovratore). L’onda anomala innescata da artista politico come Kentridge, con il suo repertorio di figure nere in processione e di cortei di ombre animate, simboli di azione, resistenza e riscatto in un Sudafrica “riconciliato” all’indomani della vittoria dell’African National Congress di Mandela, sta facendo scuola anche in territori non strettamente teatrali. Alle ombre è dedicata una delle più significative installazioni della giovane artista multimediale indiana Shilpa Gupta: in Shadows #1 e Shadows #3 (2007), le silhouette del visitatore, grazie a un sistema video interattivo, si mescolano alla folla inquietante di fantasmi in nero video proiettati. Il motivo kentridgiano della processione di figure nere a mo’ di ciclorama e i video animati con sagome di carta, però con protagonisti schiavi, madri stuprate, sottomesse, uomini torturati (che sembrano a prima vista innocenti decorazioni che escono da lavori di découpage o dal cassetto di giochi dei bambini) sono al centro del lavoro della giovane artista afro-americana Kara Walker. Il lessico dell’artista (quale si evince da tutte le sue opere nei più diversi formati e tecniche usati: acquarello, inchiostro o carboncino su carta, collage, figurine di carta su muro, o film in 16mm) è connotato da un voluto primitivismo (il film 8 Possible Beginnings on the Creation of AfricanAmerica, 2006 e l’allegorico tableau composto da ritagli di carta neri su parete bianca The End of Uncle Tom, 1995 o la serie negativa con figure bianche su fondo nero Excavated from the Black Heart of a Negress, 2002) di cui parla Yasmil Raymond nel catalogo dedicato alla Walker My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love (2008). L’epopea della negritudine passa dalla tratta degli schiavi alla guerra tra sudisti e nordisti, al colonialismo, dal racconto dello Zio Tom, allo sfruttamento razzista, alla proclamazione dell’emancipazione femminile. Walker raffigura atti indecenti di sesso mescolati ai segni del potere, la nascita con lo smembramento e tutte le pericolose derive dal desiderio alla procreazione: violenza, allattamento, dominazione (dell’uomo sulla donna, dell’uomo bianco sullo schiavo nero: le serie di acquarelli, disegni a matita e inchiostro Do you like Creme in your Coffee and Chocolate in your Milk? e Negress Notes entrambi del 1997). I suoi lavori con proiezione video, carte ritagliate e ombra (come in Darkytown Rebellion, 2001) sono ulteriormente esaltati dalla performance dal vivo con effetti luministici colorati. Dalle ombre 29


30

ritagliate su carta e incollate alla parete, alle silhouette realizzate con il supporto di mixed media fino alla animazione dal vivo in direzione performativa. L’aspetto del teatro multimediale è legato infatti, alla creazione di alcuni video come piccoli teatrini, realizzati attraverso l’animazione manuale effettuata in diretta dietro uno schermo, delle figure nere ritagliate servendosi di bastoncini, a raccontare schiavitù infinite e oppressioni millenarie. Un altro artista che usa le ombre mescolandole all’arte tecnologica è Jean Lambert-Wild, direttore artistico della Comédie di Caen. Lo spettacolo musicale Sade Song che ha diretto, tratto liberamente dalle opere del marchese De Sade, è impostato su silhouette e straordinari giochi d’ombre e luci colorate in un’atmosfera di musica dal vivo di fortissimo impatto.

2.2. La Rivoluzione è un naso a cavallo. L’opera lirica The nose di William Kentridge. Il progetto di William Kentridge per un allestimento basato sul racconto di Gogol' del 1836 Il naso (Nos), tratto dai Racconti di Pietroburgo, risale a diversi anni fa, quando l'artista sudafricano si imbatté per caso nel racconto dello scrittore russo nella libreria di un aeroporto. Non una commissione da parte di un teatro, dunque, ma un'idea che Kentridge decise di condividere con il produttore Bernard Focroulle, allargando successivamente il progetto alla regia di un'opera musicale: quella composta da Šostakovič39 nel 1930, al suo giovane esordio operistico, 39

Dmitri Šostakovič nacque a San Pietroburgo il 25 ottobre del 1906 ma visse a Leningrado (il nome della città dopo il 1917) e morì a Mosca il 10 agosto del 1975. Importante personalità della musica moderna russa, si formò artisticamente nel clima politicamente e culturalmente acceso della rivoluzione sovietica diplomandosi nel 1923 in pianoforte e nel 1925 in composizione. Il clima familiare nel quale cresce il piccolo Mitja (come veniva chiamato dai parenti e dagli amici più intimi) risentì molto delle idee leniniste e contribuirà non poco a stimolare il suo spirito progressista, fino a coinvolgerlo di persona. Il suo linguaggio si rifà alla tradizione e alla cultura russa, mischiandola a una propria e originalissima visione artistica. Brillante, rapida e intensa, la carriera artistica di Šostakovič culmina con le opere Il naso (1930) e Ladv Macbeth di Mcensk (1934), fra cui si inserirono alcune felici composizioni come il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi (1933) e la Quarta Sinfonia (1936). Soprattutto in queste composizioni il musicista rivela il suo stile tagliente, la forza di un’ironia spesso drammatica e la smagliante sapienza della tecnica, che contribuì a collocare Šostakovič non ancora trentenne, fra le figure più rappresentative della cultura musicale moderna. Dal 1936 la parabola artistica di Šostakovič si scontra con dure critiche politiche. Cresciuto con la Rivoluzione di Ottobre, credeva nel socialismo sovietico, e aderì agli ideali del nuovo potere politico che aveva rovesciato l’ultimo zar. Ma nel 1935, la Pravda pubblicò un articolo sulla sua Lady Machbeth, dal titolo: “Caos anziché musica” a cui seguì il marchio definitivo di “formalismo” apposto dal regime alla sua Quarta Sinfonia. Per quanto la sua produzione si estendesse in tutti campi della musica vocale e strumentale, Šostakovič è eminentemente un sinfonista: egli crede nella sinfonia quale massima espressione dall’ arte musicale, rappresentazione della vita dell’ uomo perennemente in lotta con il destino. Questa sua concezione grandiosa si estrinseca principalmente nella Settima (detta di Leningrado) e nell’Ottava sinfonia dove si celebrano la resistenza eroica della Russia alle armate hitleriane e si descrive il quadro desolante delle devastazioni morali e materiali prodotte dalla guerra. Insignito ripetutamente dei più alti riconoscimenti (nel 1940 aveva ottenuto il premio Stalin), egli travasa la sua genialità musicale sia nelle pagine grandiosamente sinfoniche (11 sono le sue sinfonie) sia in pagine più intime (vanno ricordati

30


31

ispirandosi proprio al racconto di Gogol'. Il debutto di The Nose, con la direzione musicale del giapponese Kazushi Ono e con le scene animate di Kentridge, risale al 2010 al Metropolitan di New York. Il baritono russo Vladimir Samsonov interpreta la parte del protagonista. Kentridge, come è noto, si trova perfettamente a suo agio negli allestimenti d'opera, vedi le mirabili scenografie per Il flauto magico di Mozart e per Il ritorno di Ulisse in patria (da Monteverdi): le sue stesse opere animate (i famosi Drawings for Projection) e le videoinstallazioni prevedono nella maggior parte dei casi, più che dialoghi, montaggi sonori da musiche da camera o operistiche. Kentridge "reinventa" il medium cinematografico attraverso un'insolita riscrittura del linguaggio che unisce l'arte del disegno a obsolete tecniche di animazione passo uno, allontanandosi dagli automatismi del mezzo tecnico e dai mirabolanti effetti della postproduzione computerizzata più attuale, guardando a Mélies più che a Walt Disney. L'opera di Šostakovič prevede più di sessanta personaggi in dieci quadri scenici divisi in tre atti, un intermezzo e un epilogo. Sono quaranta i musicisti nella fossa orchestrale e quasi altrettanti i cantanti (ventisette solo per la scena settima). Come riportato dal programma, il musicista russo, sodale di Vsevolod Mejerchol'd all'epoca del teatro sperimentale di Mosca, "immagina una forma costituita da scene corte ma numerose, incatenate secondo una logica quasi cinematografica, portandoci nei diversi luoghi di San Pietroburgo". Cinematografica, nel senso che molte scene sono giocate quasi simultaneamente in diversi punti del palcoscenico, come in un frenetico montaggio (associativo o contrastivo) di situazioni. Cinematografica anche nella costante giustapposizione di elementi sonori anche contraddittori, dissonanti. Tutta la scena, in verticale e in orizzontale, in esterno e in interno, in profondità e in superficie, con palchetti sopraelevati, scale, piattaforme e praticabili di legno (che ricorda la scena costruttivista di Ljubov Popova per Le cocu magnifique di Crommelynck con la regia di Mejerchol'd, 1922), è impegnata a raccontare una vicenda che sembra scaturita dalla fantasia di qualche proto-surrealista. Sono invenzioni originali di Šostakovič le frenetiche e folcloristiche atmosfere da spettacolo di massa, il balagan (nel XVIII e XIX secolo l'arte dei menestrelli, saltimbanchi e venditori ambulanti, parte della cultura popolare russa) che fanno di quest'opera lirica poco rappresentata, un capolavoro di quello che viene chiamato lo style russe. La trama, che sembra anticipare tanto il teatro dell'assurdo di Ionesco quanto le metamorfosi kafkiane, vede un assessore del collegio, Kovaliov, coinvolto in una vicenda paradossale ma descritta in modo assolutamente realistico: una mattina l'uomo si trova senza il naso mentre il suo barbiere se 1 quintetto, 6 quartetti, 2 trii, 24 preludi e fughe per pianoforte), nelle quali seppe sempre portare ad un altissimo livello la convinzione che la musica, al servizio del popolo, debba anzitutto esprimere i pensieri e i sentimenti del popolo. Convinzione, peraltro, che fu già della scuola nazionale russa, di cui Šostakovič può considerarsi, fra i moderni compositori, l’ultimo e più importante continuatore. Si interessa anche al teatro, scrivendo opere e balletti, da cui sovente trasse suites orchestrali da concerto. Fedele alla tonalità sia pure liberamente allargata e poco avvezzo alle ispirazioni folkloristiche, Šostakovič fu uno dei pochi compositori moderni che seppe mantenersi equidistante sia dal conservatorismo che dalla rivoluzione atonale e dodecafonica, lasciando intravedere in questa posizione una terza via di sviluppo per la musica moderna.

31


32

lo ritrova dentro un panino. L'uomo si precipita a fare un'inserzione sul giornale, che gli viene però rifiutata, vista l'assurdità della richiesta. Kovaliov inizia a cercare la parte del suo corpo che si era allontanata: senza di essa si si sente depauperato del proprio potere e della propria dignità, caduto nel ridicolo, e perciò impossibilitato a frequentare "la società". Finché un giorno l'Assessore del Collegio Kovaliov non si imbatte nel proprio naso, che nel frattempo è diventato Consigliere di Stato con tanto di divisa sgargiante, cappello con piume e bottoni d'oro. Lo ritrova prima in atteggiamento devoto in chiesa, poi acclamato dal popolo in una parata ufficiale, trionfante a cavallo. Ma non può fare nulla, nemmeno avvicinarsi perché in fondo, rispetto al suo naso, lui è pur sempre di rango inferiore! Il problema, così come è nato, scompare all'improvviso: inaspettatamente una mattina il naso viene ritrovato da un funzionario di polizia mentre stava prendendo la diligenza per Riga. Così il naso ritorna al suo posto. Alla fine del racconto, Gogol' spiega che "simili fatti accadono nel mondo, raramente ma accadono". Al racconto di Gogol', Šostakovič aggiunge personaggi originali, come il servo di Kovaliov che nell'opera lirica ha una sua autonomia espressiva musicale popolare (suona la balalaica); o la figura grottesca del Dottore, che prima di riattaccare il naso a Kovaliov tenta di comprarlo. Inserisce anche situazioni corali, come le concitate scene della caccia al naso e quella degli avvistamenti di nasi in piazza, in cui troviamo una folla di ambulanti, affittasedie, una venditrice di dolci molestata da militari, e una sfilata di personaggi appartenenti ai più diversi strati della società russa: studenti, poliziotti, cocchieri, colonnelli… Ogni personaggio è associato a uno strumento: il Naso (tenore) a un flauto, Kovaliov (baritono) al corno e allo xilofono, il barbiere al contrabbasso. Molte sono state nel tempo, le interpretazioni del racconto gogol'iano: oltre a quella freudiana, centrata sulla virile paura dell'evirazione, la più convincente rimane quella della satira grottesca della società zarista che l'autore mette alla berlina raccontando l'ascesa e la caduta del potere di Kovaliov: è forse questo il motivo per cui un autore dalla forte consapevolezza politica come Kentridge non poteva che guardare con interesse ai risvolti attuali del racconto di Gogol', scritto alla metà dell'Ottocento. Anche la biografia di Šostakovič ha sicuramente giocato un ruolo chiave per Kentridge: la sua opera Lady Macbeth di Minsk fu messa sotto processo da Stalin, ritirata per quasi mezzo secolo e l'autore condannato. Passate le purghe staliniane, Il naso ricompare sulle scene solo nel 1974, a un anno dalla morte del musicista, quale parziale risarcimento morale. Kentridge inizia a lavorare ai due maggiori temi visivi ricavati dal racconto di Gogol' (con l'aggiunta di altre interpolazioni letterarie) e al modo in cui renderli in scena: il naso e il cavallo. Un motivo ricorrente è la scala; elemento che nasce, come raccontato da Kentridge, dopo la visione del film d’avanguardia del 1930 The Life and Death of a Hollywood extra dove una comparsa cerca con tutte le sue forze di far carriera a Hollywood. Così Kentridge: La comparsa sale i gradini di una scala e precipita ritrovandosi di nuovo all’inizio della scala, riprova la salita e ottiene ancora lo stesso risultato, una sorta di fatica di Sisifo. 32


33

Allo stesso modo io ho setacciato tutta Johannesburg cercando una scala adatta per le riprese di una particolare scena senza ottenere risultati e finendo per utilizzare la scala del mio atelier. Questa soluzione di ripiego si è rivelata poi perfetta e adatta allo spettacolo per la sua somiglianza con il podio di Lenin. Arrivato a un certo punto della lavorazione di quest’opera, non sono più riuscito a capire quello che ho utilizzato per lo spettacolo e quello che è diventato spettacolo40. Il naso gigantesco ha una sua dignità, un suo portamento, una sua autorevolezza. La sua massa informe ricorda quella disegnata da Alfred Jarry per il suo Ubu. La sua strana e ingombrante forma di cartapesta viene calzata in scena dal cantante-interprete (il tenore Alexandre Kravets) come fosse una maschera. Anche il cavallo è stato oggetto di numerosi studi preparatori da parte di Kentridge, che ha lavorato in particolare sul tema iconografico del cavallo quale simbolo di autorità e potere (come si ritrova nelle varie statue equestri di condottieri dal Rinascimento in poi). Pur ispirandosi al monumento equestre di San Pietroburgo, però, l’artista sudafricano raffigura un cavallo anti-eroico che compie il suo dovere senza rubare la scena al naso con la sua imponenza. Sugli schizzi per il cavallo, spiega Kentridge: Quanto specifici devono essere dei pezzi di cartoncino affinché noi possiamo riconoscere ciò che vediamo? Una testa, una curva per il collo, qualche linea dritta per le gambe ed un ghirigoro per la coda è tutto ciò di cui abbiamo bisogno non solo per convincerci che stiamo vedendo un cavallo, ma per impregnare il cavallo degli attributi dell’animale vivente e delle immagini associate. Così mentre tentavo di fare cavalli minimali o residuali, cercavo anche di fare cavalli anti-eroici. Dei cavalli che avrebbero avuto il diritto minore possibile di essere sui monumenti41 Durante i vari anni di progettazione dell'opera, Kentridge ha dato vita a un mondo abitato da disegni e incisioni di nasi a cavallo, seduti al caffè, nasi con gambe, nasi che stanno in piedi su compassi, nasi come condottieri o come teste in corpi di donna, e poi ancora teste di cavallo come quelle disegnate da Leonardo o come ronzini donchisciotteschi, inseriti in contesti molteplici. Kentridge infatti li colloca in arazzi ricamati a mano, in forma di collage sopra carte geografiche, li realizza in metallo a guisa di sculture tridimensionali anamorfiche, come ombre, o disarticolati nei singoli pezzi del corpo e poi riversati in filmati video animati: Questo universo di progetti, bozzetti, disegni, acquerelli, carboncini dei protagonisti e dei diversi personaggi del racconto, sono testimoniati nel catalogo della mostra Kentridge: 5 Themes: in questi anni, hanno alimentato diverse situazioni artistiche ed esposizioni che non hanno più nulla del lavoro preparatorio per la scena, ma sono già opere compiute a sé. Tipica è la modalità artistica di Kentridge, aperta a integrare diverse tecniche ed espansa verso nuove e ulteriori traiettorie espressive: un universo di creazione che anche per The Nose, andrà ad abitare indifferentemente le installazioni, le mostre, le performance, le conferenze-spettacolo. Come per la piéce da camera Telegrams from The Nose, l'installazione video 40 41

Dall’intervista in video contenuta nel documentario del Met. Intervista a Lepage per il documentario del Met.

33


34

8 Fragments round The Nose o quella su quattro pareti contigue I am not me the Horse is not mine, in cui Kentridge non si sottrae al divertissement di animare i cavalli con la tecnica dello stop motion e di inserire sé stesso nelle animazioni, nonché di "trattare" spezzoni di film russi con l'aggiunta di scritte e colori42. Kentridge parla di uno spettacolo in forma di collage che aveva in mente di realizzare dopo aver letto il racconto di Gogol': Avevo visto una produzione di The Nose, eccellente sul piano musicale, al Teatro Marinsky di San Pietroburgo, ma, durante la seconda parte, quando lo spettacolo entra nel vivo, ho notato che gran parte degli spettatori si è addormentata, come per proteggersi dal caos. In quel momento mi sono reso conto che la prima regola, per mettere in scena quest'opera è quella di seguire la storia: sapere dove siamo concretamente in qualunque cambio di scena, chi è la persona che canta, chi è il suo personaggio e cosa canta.43 In realtà di tratta di un vero cine-montaggio di sequenze agite dagli attori e di quadri visivi e animati senza soluzione di continuità; un esempio straordinario sono le scene realizzate contemporaneamente con scenografie materiali e ombre bidimensionali: il Naso entra nella diligenza ma il cavallo che lo traina è un'ombra. Oppure, nella casa di Kovaliov formata da un letto e un armadio, appare uno squarcio di luci e di panorami da una finestra che altro non sono che proiezioni in prospettiva sghemba. La scena è un gioco di scatole cinesi che contengono i diversi ambienti: gli interni e gli esterni del racconto, la Prospettiva Nevski e l'interno della casa del maggiore o la barberia; Gogol' infatti non privilegia un solo aspetto e un solo personaggio, ma mostra una varia umanità inserita in un contesto urbano rumoroso, con le idiosincrasia dei soggetti tipici, i burocrati, i militari, il popolo. Kentridge non disdegna un'incursione nell'arte d'avanguardia primo novecentesca: a imporsi come cifra stilistica dello spettacolo sono più l'atmosfera storica e il contesto rivoluzionario legato a Šostakovič che non all'epoca di Gogol'. C'è la Russia del Costruttivismo, del Suprematismo, del Transmentalismo, del Cubofuturismo, con citazioni quasi letterali da El Lissitzky (il quadro Colpisci i bianchi con il cuneo, La tribuna di Lenin), dai manifesti pubblicitari realizzati con la tecnica del fotomontaggio alla Rodčenko, da Tatlin (Il monumento per la terza internazionale) e soprattutto dalla scena cineteatrale di Mejerchol'd (La terra capovolta, 1928). Guardare a Mejerch'old significa guardare a quel teatro che ha realizzato per la prima volta nella storia l'utopia della "sintesi delle arti". Un discorso a parte meritano i costumi: quasi letterali le citazioni dalle tute da lavoro/uniformi d'attore (la prozodiejda) da Varvara Stepanova (come quelle per lo spettacolo La morte di Tarelkin, che nelle videoinstallazioni preparatorie di Kentridge sono fatte di carta di giornale); ancora, l'esplosione dei colori, le ingombranti sagome e geometrie delle scene e dei costumi di Kazimir Malevič per La vittoria sul sole (1913), uno dei primi spettacoli futuristi, fino ai segni e persino ai movimenti biomeccanici degli attori/cantanti, il tutto rimixato con un turbinio di 42

Molti dei materiali relativi alla produzione di The Nose e l'installazione I am not me the Horse is not mine erano in mostra alla Galleria Lia Rumma di Milano, in occasione dell'allestimento dedicato a Kentridge a Palazzo Reale e alle repliche del Flauto magico con scenografie di Kentridge alla Scala (2011). 43 Intervista video per il documentario del Met.

34


35

grafiche, motivi in rosso e nero e continui richiami alla "nuova arte". C'è, insomma, tutto il mondo letterario, cinematografico e artistico russo raccontato da Angelo Maria Ripellino ne Il trucco e l'anima. La citazione entra quindi, nel merito dell'arte russa dell'Ottobre, un'arte di propaganda e rivoluzionaria, quale è in fondo anche quella di Kentridge, che ha raccontato meglio di qualunque documentario - come già fece Picasso con Guernica- la tragedia contemporanea dell'apartheid in Sudafrica, consegnandola alla Storia. Bellissimo l'enorme fondale che conterrà al suo interno tutte le scene (per dare unità ai diversi episodi); insieme con la set designer Sabine Theunissen, Kentridge ha realizzato con minuziosa dovizia di dettagli un enorme collage fatto di ritagli di giornali, mappe geografiche, scritte in cirillico, figure di politici mutilati curiosamente del naso e macchine dell'epoca. La maquette è stata successivamente realizzata in stampa a dimensioni appropriate in uno studio professionale, il quale però ha mantenuto il più possibile una "modalità artigianale". Districarsi nell'universo dell'opera realizzata da Kentridge non è facile, ma è possibile rintracciare una serie ininterrotta di segni inconfondibili del suo lavoro: le parate, le processioni in nero, le ombre animate, contestualizzate nella Russia staliniana, abitano la scena di The Nose, riempita dalla musica a tratti privata del canto e della parola. Il tema visivo della processione e del corteo è un vero topos nel repertorio di Kentridge (le famose Shadow Processions), sviluppato nelle diverse tecniche e spesso associato all'ombra o a figure nere, simboli di azione, resistenza, riscatto. Anche in The Nose la scena della "processione nera" in chiesa è una delle più toccanti e potenti, ma questa volta si tratta di corpi di attori in carne e ossa che vengono mischiati a proiezioni animate di ombre e di silhouette di corpi in preghiera: è un komos contemporaneo che racconta un mondo sotterraneo e invisibile venuto alla luce, in grado di mutare la realtà in senso rivoluzionario.

35


36

III Rimediando il teatro con i new media

36


37

3.1. Masbedo: i video, i live set e l’estetica dell’ambivalenza Era il 2007 quando i Masbedo (Jacopo Bedogni e Nicolò Masazza) presentano il loro primo video d’arte: Prato, Museo d’arte contemporanea “Luigi Pecci” in occasione della mostra “Nessuna paura”; l’opera esposta era 10 insects to feed, una videoinstallazione composta da tre pannelli incorniciati a formare un trittico di gigantesche proporzioni, caratterizzato da accese campiture cromatiche e scelte quasi cinematografica per le inquadrature per raccontare panico improvviso, senso di soffocamento, paura della morte e delirio. I loro lavori sono caratterizzati, sin dagli esordi, da una grande cura in fase di pre-e post-produzione, dell’immagine e del suono che produce come risultato finale, video opere di grande rigore stilistico e formale. Il contenuto, sempre fortemente drammatico della trama video, non è mai realistico: tende a mostrare, evocandoli, luoghi dell’interiorità, affrontando dimensioni mentali e fisiche estreme. Da qui l’accostamento sempre meno azzardato a Bill Viola (che li allontana viceversa, dall’accusa di estetismo manieristico e conformista a loro rivolta) la cui arte mediale, su sua stessa ammissione, è volta a “oltrepassare una soglia, allontanarsi dal mondo fisico e entrare nel mondo metafisico”44. Le ambientazioni dei video dei Masbedo (Schegge d’incanto in fondo al dubbio, Teorema d’incompletezza, Glima) grondano potenti metafore esistenziali: le vette impervie e le cime innevate del Monte Bianco, le grandi 44

B.Viola, The Landscape within, Conferenza alla Scuola Normale Superiore, Pisa, 2001.

37


38

profondità marine, il mare in tempesta della Francia del Nord, il paesaggio glaciale e vulcanico dell’Islanda non sono altro che potenti e drammatiche istantanee interiori, un veritiero e scomodo specchio dell’anima; dentro questo panorama desolato un uomo e una donna nella solitudine più sfrenata ma anche nella resistenza più accanita, sono intenti in quella lotta quotidiana nel “gran mare dell’essere” (come scriveva Giacomo Leopardi). Un “esistenzialismo tecnologico” in cui Masbedo si riconoscono e coltivano una loro estetica fortemente connotata e riconoscibile. Testi importanti accompagnano i loro story board, scritti da Aldo Nove o ispirati alla filosofia di Houellebecq; ma sono più importanti i sottotesti, suggeriti dalle atmosfere cupe e avverse che avvolgono un lui e una lei imprigionati, in eterno, vicendevole conflitto che approda a un temporaneo stato di tregua, fisica e mentale. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga. Le tematiche comuni alla quasi totalità dei video dei Masbedo (Teorema di incompletezza, Glima, Autopsia del tralala, Togliendo tempesta al mare, Person) sono il senso di vuoto, di disincanto e di precarietà esistenziale, l’incomunicabilità, l’isolamento volontario come rifugio ultimo, la custodia sisifica dei valori societari, l’arte che trattiene gli ultimi brandelli di umanità, la sterilità dei rapporti umani nel generale inaridimento e decadenza morale della società occidentale. Nel video Teorema di incompletezza è assente, esattamente come nelle Operette morali di Leopardi, la figura umana: il paesaggio intorno quasi agli estremi confini della terra, è di una alterità spiazzante. La camera è pressoché fissa, registra con pochi cambi di inquadratura, ciò che ha davanti come se non ci fosse nessuno a comandarla; del resto non c’è neanche un vero soggetto ma solo un gioco tra un sorvegliante impersonale e forse automatico e un sorvegliato altrettanto inanimato (ricordando questo l’occhio della macchina elettronica di Der Riese di Michael Klier e il famoso video e relativa installazione di Michael Snow La Région Centrale creato con un dispositivo di ripresa automatico che registrò per 5 giorni in tutte le possibili angolazioni, il paesaggio montuoso del Québec). La scena è composta infatti da un’insolita “natura morta”: una tavola di legno con due sedie, apparecchiata con una serie di bottiglie e bicchieri vuoti che vengono frantumati da una pallottola sparata con grande conflagrazione in un paesaggio lavico sconfinato e lontano da ogni socialità. Quello che era un rassicurante paesaggio di oggetti della più pura quotidianità, fatto di contenitori trasparenti integri e lucidi, diventa un attimo dopo lo sparo dell’invisibile cecchino, un universo di vetri acuminati, taglienti mentre il rivolo d’acqua continua, testimone indifferente, a scorrere sotto la tavola. In Schegge d’incanto in fondo al dubbio un uomo e una donna sono intenti in una lotta di proporzioni titaniche: da una parte l’uomo si trascina faticosamente nella neve con un paracadute aperto e tenta ostinatamente di opporsi alla violenza elementale, dall’altra la donna si accinge a salvare suppellettili domestiche impregnate di riferimenti psicologici e simboli di sesso e di fede. Nuota a fatica nella marea fangosa dell’esistenza inumana che l’ha travolta, portando se stessa e i propri oggetti di affezione e memoria lontano, al riparo dalla civiltà, o tutto quello che ne rimane. In entrambi i casi Masbedo usa un linguaggio figurato, fatto di pregnanti metafore visive (cioè, figure retoriche che sostituiscono un termine proprio 38


39

con uno figurato): l’ordinario e lo straordinario convivono insieme. La deriva esistenziale dei video di Masbedo ha sempre un suo correlativo oggettivo in una natura matrigna che ha già dimenticato l’uomo. Come nel quadro di Caspar David Friedrich Il mare di ghiaccio la cui ispirazione gli fu offerta dalle spedizioni al Polo Nord avvenute per nave nel 1819 e nel 1824 o nei quadri di Ruskin, qua si annulla il succedersi dei giorni e delle stagioni, tutto è eterno e quest'eternità è di ghiaccio; non si può non vedere nei video di Masbedo un riflesso del “pensiero poetante” di Leopardi (da una definizione di Benedetto Croce). Nel Dialogo della Natura e di un Islandese di Lepardi la natura è nemica, ostile: L’Islandese si rivolge alla Natura: A questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria… tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidi ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi. Valgono anche per Masbedo le parole di Asor Rosa sulla Ginestra di Leopardi: Leopardi esprime con estrema forza il valore morale di un comportamento che non s'illude di trovare a questa infelicità un risarcimento spirituale ma nella resistenza disillusa e pur fiera alle avversità della natura crede di assolvere al compito naturale assegnato alla ragione dell'uomo e su questa matura consapevolezza, senza speranza alcuna ma anche senza vigliaccheria, fonda il rapporto uomo-natura, che è ormai un rapporto antagonistico e agonistico, di lotta reciproca e senza cedimenti. E’ del 2008 il concerto video live Indeependance (Arena Civica di Milano) in cui Masbedo provano a mescolare in una dimensione da grande palco, formati e generi artistici in un potente e spettacolare live electronics. Un progetto pilota che voleva unire video live, teatro, poesia e musica grazie a collaborazioni con etichette e artisti internazionali (dalla Real World di Peter Gabriel a Bjork a Steward Copeland a Howie B) in un format a metà tra il palcoscenico dei concerti rock e le installazioni multimediali e in un coinvolgimento sensoriale potente e ipnotico: il pubblico era collocato al centro di una piattaforma da cui erano governati suoni e immagini live mentre il perimetro dell’arena era delimitato da quattro schermi avvolgenti di grandi dimensioni. Masbedo con questo progetto incarna il concetto prettamente postmoderno esposto da Frederic Jameson di “saturazione estetica”, una saturazione totale e complessiva dello spazio culturale da parte 39


40

dell’immagine, una permeazione dell’immagine nella vita sociale e quotidiana. Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium “così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale”, recentemente Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza individua nel concetto di “ambivalenza” che rompe la pratica del modello strutturale normativo, dell’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno: La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno... L’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. E’ l’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’ambivalenza…Classificare consiste negl atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno… L’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione..Quella all’ambivalenza è una guerra suicida.45 Masbedo si muovono proprio in un libero e ambivalente universo cross mediale e amano definire i loro interventi un “meticciare i linguaggi”, o creare “un’arte bicefala” poiché privilegiano allo specifico del medium, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno artistico dal doppio codice genetico, affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo per espandersi tra territori diversi oltre al video: teatro, cinema e pittura. Un’arte intermediale, un’arte espansa. Ricordano le esperienze di Nam June Paik ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel, Metamkine nei cui concerti la componente sia visuale che multimediale arricchiva notevolmente il loro immaginario musicale in direzione spettacolare, la musica il cinema, il video e la performance sono sempre stati strettamente collegati. E’ quindi un naturale territorio multidisciplinare e intermediale quello in cui si muove il video sin dal suo esordio dalla metà degli anni Sessanta (dai protagonisti del movimento Fluxus a Paik a Cage), come ricorda Simonetta Cargioli un fecondo terreno per sperimentazioni di incroci attraversamenti e transizioni. In questo contesto di effervescenza creativa e sperimentale il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali. La performance, la danza,

45

Z. Bauman, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

40


41

la poesia, il cinema, tra gli esempi numerosi, diventano altra cosa dopo il video o perlomeno, dopo averne assorbito il contatto46 Così Masbedo ripropongono in chiave attuale una modalità video dialogica e intermediale ampiamente sperimentata proprio dai pionieri dell’art vidéo. I loro video traggono ispirazione dalle pitture antiche (i loro personaggi assomigliano nelle pose e nei sembianti a figure mitologiche, ricordano pitture prerinascimentali o preraffaellite e sculture tardo romane) e assorbono credito vitale dall’improvvisazione teatrale degli attori privati di sceneggiatura e posti di fronte a canovacci con poche battute; la performatività di alcuni loro video è talmente evidente che lo sfociare nel teatro vero, fatto di palcoscenico come “arena degli attori” diventa (come lo è stato alla fine degli anni Ottanta per Studio Azzurro a coronamento della loro attività video artistica con Camera astratta) quasi una necessità o uno sconfinamento naturale. Schegge d’incanto in fondo al dubbio è una videoinstallazione per due schermi sincronizzati diventata live set con musica dal vivo suonata da Lagash dei Marlene Kuntz per il Festival Invideo e per Aquaticus (Porto Venere 2010). Il video Glima nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, è diventato performance video-corporea di enorme fisicità e di grande impatto (grazie anche alla musica live di Lagash e Gianni Moroccolo) in occasione del Festival di Dro nel luglio 2010. Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistico e afflizioni autoindotte (intensa l’interpretazione di Erna Ómarsdóttir e Damir Todorovic come si vede dalle fotografie di Iris Stefansdottir); intorno a loro una terra vulcanica, l’Islanda, paese che sta subendo un processo di erosione millenario. Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico, prevedeva anche un’interazione degli attori con una webcam montata su un robot dalla forma aracnoide telecomandato che catturava i dettagli dei volti. Il video Schegge d’incanto in fondo al dubbio è ricchissimo di riferimenti iconografici alla classicità e alla mitologia greca, e numerose sono anche le citazioni al codice di stile della pittura fiorentina trecentista rivolta alla concretezza dei contenuti umani delle immagini sacre (per la figura femminile la raffigurazione drammatica della Madonna in pietà o della Maddalena sotto la croce, per l’uomo l’immagine titanica del Prometeo incatenato: “ritto”, “insonne”, “temerario”). La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: fugge e trascina dietro di sé gli oggetti che sono inseparabili dal suo corpo perché ne 46

S. Cargioli, Introduzione a Le arti del video, Ets, Pisa, 2004.

41


42

rappresentano la vita vissuta; infine, ferma immobile su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti plastici e una torsione del corpo ricchi di pathos – come nella raffigurazione scultorea ellenistica del Galata morente – accende un fuoco come a chiedere aiuto. In questo gesto plastico l’attrice evoca miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. Se l’uomo incarna il motivo dell’audacia di chi ha osato ribellarsi e andare oltre il limite estremo (“Io, invece, che avrei dovuto saper morire, per essere andato oltre la parte a me assegnata, vivrò una vita infelice”, Euripide, Alcesti) la donna mostra una maschera del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere. Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche: Nello sperimentare il tragico a teatro, gli spettatori si trovano di fronte al colmo dell’orrore, a crisi di instabilità e a prove di resistenza, ovvero di fronte a esperienze che nessuno si augurerebbe mai di dover affrontare nella vita reale. Ma poi alla fine dello spettacolo, nessuno ne esce morto o traumatizzato. L’esperienza dell’abisso, il viaggio nell’instabilità a teatro sono vissuti – visti, ascoltati – in una forma che ha bellezza. La poesia, la danza, la musica, i costumi e le voci, l’armonia di suono e azione collaborano a rendere l’esperienza teatrale un momento da cui l’uomo può trarre non abbattimento e debolezza, ma energia. Quello che fanno questi splendidi vasi è di distillare bellezza dalla confusione di tutta questa nostra vita umana. Le pitture vascolari, le tragedie, i vasi e gli spettacoli interagiscono al fine di rinnovare nell’uomo la forza di resistere alla morsa delle tenebre. 47 Si chiama "Ponti per le culture costruendo pace" il forum delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro in cui hanno partecipato oltre 2000 operatori politici, leader e attivisti, fondazioni e giornalisti di tutto il mondo e in cui è stato presentato il film collettivo commissionato dall’ONU che ha visto tra i partecipanti anche Masbedo insieme con Tata Amaral, Robert Wilson, David Cronemberg e Fanny Ardant e che è stato girato interamente alla Spezia nelle aree della Marina Militare. Masbedo hanno dato il loro contributo in forma di cortometraggio dal titolo Distante un padre con la sceneggiatura di Aldo Nove e musiche originali dei Marlene Kuntz. Masbedo hanno voluto declinare il tema comune per tutti i registi, la spiritualità, come la luce interiore che pervade in un momento di grande dolore, come verità rivelata, l'animo dei due protagonisti, un uomo e una donna. L'uomo è un palombaro e il buio della profondità è la sua dimensione; un senso di mancanza e di perdita legato alla morte della figlia che li vede da quel momento vivere in una sorta di simbiosi acquatica, viene colmato dal ricordo e dalla fiducia che "se non si vivrà la felicità, almeno se ne vedrà la luce", come recitano le prime frasi del testo di Aldo Nove scritto per l'occasione.

47

Testo della conferenza di O. Taplin (Professore di Lingue e Letterature Classiche e Direttore dell'Archive of Performances of Greek and Roman Drama all'Università di Oxford) all’Università di Catania, 18 gennaio 2010. Disponibile on line sul sito dell’Università.

42


43

La loro esistenza è accompagnata dalla consapevolezza del dolore e dell’estraneità assoluta col mondo; una sofferenza indicibile pervade i loro gesti quotidiani e li rende figure quasi ascetiche e mistiche, di un misticismo trascendente che svetta al di sopra del trambusto umano, nella speranza vivificante di una dimensione altra. Al culmine della sofferenza terrena, i protagonisti sembrano toccare la verità. Chi soffre risulta separato dal contesto del mondo perché il dolore ha provocato in lui un tipo di visione che non è di nessun altro. Come ricorda Salvatore Natoli, “la sofferenza è una recessione di comunicazione: il sofferente tende a una comunicazione di tipo estremo, o il silenzio o l’urlo, ed entrambe anche se in modo diverso, tendono alla morte”. Negli abissi del mare ovvero nella profondità del proprio spazio interiore, il vuoto prende la forma luminosa del ricordo e l’uomo vuole perdervisi dentro. L’abisso come amplificatore della coscienza, da dove comunicare empaticamente con la persona con cui condividiamo l’amore e il dolore, comunicare come il neonato fa con la propria madre, attraverso il cordone ombelicale. Ancora una volta la luce ci riporta ai video di Bill Viola, e rappresenta quella forza superiore che si manifesta agli uomini inaspettata e preannuncia il cambiamento. Un video drammatico e intenso, con una speranza finale di rigenerazione che è la risposta agli interrogativi esistenziali dei protagonisti. Il video è stato realizzato interamente alla Spezia grazie all'aiuto fattivo della Marina Militare in ambienti davvero difficili e angusti come camere iperbariche e capsule per immersioni profonde custodite all’interno dell’Arsenale Militare.

3.2.L'arte della superficie. Media buildings e videomapping teatrale Prima era la videoproiezione. Poi il digital mapping ha oscurato tutto il resto: architectural mapping, facade projection, 3D projection mapping, videoprojection mapping, display surfaces, architectural Vj set sono alcune delle definizioni usate per questi nuovi formati artistici. L’ambito è quello della cosiddetta augmented reality, una sovrapposizione di strutture materiali con un rivestimento virtuale che ne modifica la percezione visiva. Sulla base di questi esperimenti di realtà aumentata sono state create opere video artistiche architetturali intrinsecamente notturne e spettacoli teatrali con scenografia/attore virtuale che prevedono una mappatura (mapping) 2D, 3D e persino 4D di grande realismo e una proiezione su enormi superfici: pareti di palazzi, castelli, torri ma anche fondali teatrali. Animazione, musica, sperimentazioni video-grafiche e interattività si prestano allo sviluppo di oggetti multimediali e artistici sempre nuovi. Questa tecnica aggiunge un’interazione ardita tra la solidità dell’architettura e la fluidità delle immagini in movimento. Se lo street artist americano Julian Beever -ribattezzato familiarmente Pavement Picasso - usa il gessetto per creare effetti tridimensionali illusionistici sul pavimento delle strade (3D street art), oggi 43


44

è la tecnologia video quella in grado di ingannare l’occhio e farci credere di vedere quello che non c’è. Per l’Italia sono specializzati in questo campo Apparati Effimeri (creatori del visual di Madre assassina per Teatrino Clandestino), Roberto Fazio, Luca Agnani, Area Odeon, Claudio Sinatti, Enzo Gentile/Giacomo Verde di White Doors Vj e Insynchlab. Nel mapping internazionale operano i tedeschi Urban Screen, architetti specializzati in allestimenti digitali e installazioni anche in aree urbane. Nati come gruppo nel 2008 ma già attivi sin dal 2004 con sede a Brema, lavorano nel campo dell’intrattenimento, della pubblicità e dello spettacolo usando i nuovi media digitali e le videoproiezioni. Aperti alla collaborazione con artisti che lavorano nell’ambito della motion graphic e del video, hanno creato un nuovo genere di arte pubblica rigorosamente digitale. L’operazione artistica che inaugurano con tecniche e programmi creati appositamente prevede un preciso mapping della superficie parietale e la proiezione di un rivestimento digitale video o animato, perfettamente sagomato sullo sfondo architettonico: questa proiezione dà vita a straordinari eventi ed effetti tridimensionali, improbabili quanto fantasmagorici. 3.2.1. Dal digital signage agli urban screen. Vengono chiamate “ipersuperfici”, “media facciate interattive” quelle pareti architettoniche permanenti o temporanee, destinate a ospitare superfici luminose e colorate, megaproiezioni video e schermi al plasma: gigantesche proiezioni con immagini e scritte a LED fanno parte del paesaggio e dell’arredo metropolitano e costituiscono ormai, l’armamentario basico della pubblicità. Nella definitiva mediatizzazione del contesto urbano le insegne digitali (digital signage) raggiungono ormai formati terracquei. La dimensione esperienziale del public space, della piazza, delle stazioni, dei metrò attraverso schermi multidimensionali, secondo Simone Arcagni, si lega a quella più intima, individuale, televisiva: «media, urbanistica, performance concorrono a realizzare una nuova esperienza spettatoriale, in parte anche cinematografica» . Urban screens, architectural mapping, facade projection, 3D projection mapping, videoprojection mapping, display surfaces, architectural Vj set, sono alcune delle definizione usate, e l’ambito è quello della cosiddetta Augmented Reality (ma Manovich preferisce parlare di Augmented Space perché c’è una sovrapposizione di elementi elettronici in uno spazio fisico), una tecnica che fa interagire la realtà e la sua ricostruzione digitale e ne modifica la percezione visiva. Sulla base di queste esperienze di Realtà Aumentata sono state create opere video artistiche architetturali e spettacoli teatrali con scenografia/attore virtuale che prevedono una mappatura (mapping) 2D, 3D di grande realismo e una proiezione su enormi superfici: pareti di palazzi, castelli, torri ma anche fondali teatrali. È una nuova arte mediale, un’arte media-performativa. I confini del teatro si allargano: l’ambiente non è più lo sfondo, è l’opera. Animazione, musica, sperimentazioni video-grafiche, live performance e interattività si prestano allo sviluppo di un nuovo formato multimediale artistico dall’effetto sorprendente. Siamo arrivati oggi alla terza fase del videomapping architettonico: dalla proiezione che cercava uno sguardo passivo dello spettatore, si è arrivati all’interattività con Klaus Obermaier e Nuformer. Il corpo prima di essere quello dell’attore, è dello spettatore e 44


45

come in ogni installazione interattiva la superficie come già ricordava Anne Marie Duguet diventa un dispositivo per la performance. L’estetica del meraviglioso, ovvero quella che Andrew Darley nel suo libro Digital Culture: Surface, Play and Spectacle in New Media Genres definisce l’“estetica della superficie”, è alla base di queste forme spettacolari legate alla cultura digitale e nello specifico al videomapping: la proiezione architettonica reclama uno sguardo panoramico e avvolgente nei lavori di Urban Screen, Nuformer, Macula, Apparati Effimeri, Visualia, AntiVj, Architecture 1024, Obscuradigital; scrive Giovanni Boccia Artieri: «è così che l’intreccio tra la forma della spettacolarizzazione e la realtà tecnologica del medium riprende le forme del meraviglioso presenti nelle modalità ottocentesche di intrattenimento di massa consentendone anche una ridefinizione dello spazio urbano: effetti speciali visivi e immersivi dove talvolta la forma conta più del contenuto, dove sono i giochi di superficie ad essere rilevanti» .Si tratterebbe di un’estetica, quindi, che ha un gran debito nei confronti dei panorama e diorama e delle diverse fantasmagorie della cultura popolare ottocentesca ma anche degli scorci prospettici in pittura, del quadraturismo, delle tecniche visive di sfondamento volumetrico. Si può dire allora che il videomapping e l'architectural mapping sono la prosecuzione ideale, in epoca di Realtà Aumentata e di dispositivi immersivi, delle macchine ottiche e degli esperimenti anamorfici del Seicento. Come ci ricorda Thomas Maldonado, la civiltà occidentale in fondo è diventata una produttrice e consumatrice di trompe-l'œil, tecnica che si è emancipata dai vincoli del virtuosismo artigianale per avvalersi di tecnologie digitali la cui resa tende oggi sempre più al realismo: La nostra è stata definita una civiltà delle immagini […] questa definizione sarebbe più vera, se aggiungessimo che la nostra è una civiltà in cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-l'œil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica […] la conferma più incisiva viene, oggi, dall'avvento della grafica computerizzata, soprattutto se si pensa ai suoi ultimi sviluppi finalizzati alla produzione di realtà virtuali.

3.3.Reale o virtuale? Dal monumentismo prospettico… L’illusione percettiva, nei casi più riusciti di videomapping, è quella di una “architettura liquida”, mobile, che aderisce come pellicola o si stacca dalla superficie vera. Frammenti di superfici come fossero mattoncini di Lego vanno a creare un’ illusione ottica di forte impatto, il tutto sotto gli occhi del pubblico inconsapevole o del passante, che non distingue più tra la trama architettonica vera e propria e quella virtuale. Subito acquisita dai grandi marchi internazionali per la pubblicità e i lancio di nuovi prodotti, la tecnica fa intravedere anche un possibile utilizzo performativo digitale, che permette di unire video art, animazione, installazioni, graphic art, light design e teatro dal vivo. Facciate di case e chiese con i singoli elementi architettonici che si disgregano, diventano quadri/pitture in movimento, arricchiti di macchie di luci e di colore che si modificano a ritmo di musica, personaggi digitali che si arrampicano su finestre, portoni, tetti: è una nuova arte mediale, una arte 45


46

media-performativa. I confini del teatro si allargano: l’ambiente non è più lo sfondo, è l’opera. La tecnica è quella del mapping and masking, che sfrutta la predistorsione dell'immagine o del filmato per farlo apparire non distorto sulla superficie da mappare. La proiezione deve essere prima di tutto perfettamente omografa: due piani risultano essere omografici quando gli elementi geometrici dell'uno corrispondono biunivocamente a quelli dell'altro. Qualunque alterazione involontaria della distanza e dell’angolo di incidenza del fascio luminoso implica modificazioni dimensionali e prospettiche dell’immagine, e conseguentemente irregolarità geometriche e defocalizzazioni più o meno estese dell’immagine proiettata. E’ necessario considerare inoltre, la posizione degli spettatori (max + o 15°) rispetto alla proiezione per ridurre gli effetti di percezione innaturale del 3D (che sono in 2D...). Siamo di fronte a una rinnovata “macchina di visione”: in fondo le video proiezioni in mapping si basano sullo stesso principio su cui erano fodate anche le “visioni ineffabili” del Cinquecento, quelle cioè, soggette all’anamorfosi, forzatura estrema della prospettiva lineare rinascimentale. Nelle opere anamorfiche, la realtà può essere percepita solo attraverso uno specchio deformante, mentre il mapping video non è che una maschera che deforma/crea una realtà inesistente. La storia dell’arte ci ha fatto conoscere non solo la prospettiva esatta “all’italiana”, ma anche gli scorci, gli “sfondati prospettici”, la concatenazione dei piani e i punti di vista multipli che pongono in pittura il problema della profondità – l’espressione piana della terza dimensione. Per dare spessore storico-artistico a questa nuova tecnica video di illusione tridimensionale sopra un’ architettura, si potrebbero citare la prospettiva monumentale e le architetture dipinte barocche (il cosiddetto quadraturismo, il “lavoro di quadro” secondo l’espressione del Vasari con riferimento alla rappresentazione di finte architetture in prospettiva che “sfondano” i limiti dello spazio reale, ingannando l’occhio, quella che Omar Calabrese definisce la tripla spazialità nella pittura) e il trompe-l’oeil. La suggestione, la costruzione fittizia dello spazio, l’unione del fondo al primo piano e il conseguente artificio illusionistico sono alla base dell’arte monumentale: dal Vasari degli Affreschi della Cancelleria al Tiepolo degli affreschi a Palazzo Labia, dal Veronese della Cena in casa Levi al Michelangelo della Cappella Sistina, la pittura si unisce all’architettura e si fonde con essa. Così spiega Charles Bouleau ne La geometria segreta dei pittori: La prospettiva monumentale è l’insieme delle compatibilità imposte a un’opera dal posto che essa occupa in un monumento. Occorre che non vi sia conflitto ma armonia tra l’opera rappresentativa istoriata o meno e il monumento che è anch’esso un’opera. Il monumento ha diritto al rispetto delle sue pareti, delle sue proporzioni, al rispetto della sua scala. Le pitture non devono distruggere, con le illusioni che fanno nascere, la superficie murale; e d’altra parte gli scorci non devono nuocere alle pitture. Ripercorrendo la storia del teatro, è impossibile evitare di citare le tecniche di raffigurazione pittorica dello spazio con lo sfondo dipinto prospetticamente, le scenografie illusionistiche del Cinquecento e del Seicento e relativa trattatistica: dai disegni di Baldassarre Peruzzi per 46


47

la Calandria (1514) alle scene-tipo dipinte del Serlio e ispirate alla classicità per la scena comica, tragica e satirica (1545), alla sezione teatrale dell’opera Perspectivae libri sex di Guidubaldo (1600) ai libri di Andrea Pozzo (1693) e di Ferdinando Galli Bibbiena (1711), passando per la celeberrima Pratica di fabbricar scene e machine ne’ teatri di Nicolò Sabatini (1638)48. Ulteriore dimostrazione ci viene proprio dal bozzetto fatto da Baldassarre Peruzzi sempre per la Calandria, nella sua messinscena romana del 1514. Non vi è certezza che quello che vediamo nel bozzetto sia identico a quello che videro gli spettatori in quell'occasione, ma il fatto stesso che Peruzzi abbia pensato a una scena di questo tipo implica una prima applicazione del modello prospettico a teatro. Il paesaggio urbano sfumava in prospettiva verso il fondo dipinto, ma le case in primo piano erano costruite. La scena dipinta e sviluppata in larghezza lasciava il posto ad una che si sviluppava in profondità: La scenografia del Peruzzi può quindi essere ritenuta il passaggio dalla dimensione della scena come quadro prospettico con due quinte laterali in primo piano a quella, sempre a fuoco unico e lontananza limitata, ma sviluppata in profondità sul palco, su quinte successive e simmetriche, collocate in prospettiva lungo le due diagonali assiali.49

3.4. Ai fondali teatrali Due esempi ci illustrano il tentativo da parte dei registi contemporanei di restituire l’illusione tridimensionale delle immagini a teatro: - il cubo progettato da Robert Lepage per Andersen Project, un dispositivo concavo che accoglieva immagini in videoproiezioni le quali grazie al rialzamento della struttura, sembravano avere corporeità tridimensionale - la gabbia prospettica dell’Ospite dei Motus, una scenografia monumentale che incombe e schiaccia i personaggi costituita da un piano inclinato chiuso su tre lati composti da altrettanti schermi. L’ingegnosità di queste tecniche permette, in entrambi i casi, un’artigianale ed efficace integrazione di corpo e immagine grazie a un leggero rialzamento centrale della struttura, restituendo l’illusione di volumetria e profondità delle immagini proiettate. La scena approntata per Andersen project ha come centro un dispositivo a panorama, rivestito di materiale proiettabile bianco, con una pendenza di 30° che permette all'attore di salire leggermente andando verso il fondo; la figura umana viene immersa totalmente nei video-fondali, grazie all'effetto di profondità della struttura panoramica. Per Motus il fulcro scenografico è dato da una pedana di metallo lucido che si allunga nella profondità del palcoscenico, leggermente in pendenza, una piattaforma che rimandasse al concetto di deserto, un deserto della modernità, dove i corpi degli attori potessero vivere una solitudine profonda 48

Su questo cfr. F. Marotti Lo spazio scenico. Teorie e tecniche scenografiche in Italia dall’età barocca al Settecento, Roma, Bulzoni, 1974. 49 F. Perrelli, La storia della scenografia dall'antichità al Novecento, Roma, Carocci, 2002, p. 59.

47


48

e agghiacciante"50Siamo giunti a Pasolini attraverso Teorema, un romanzo/film di enigmatica forza, il primo suo scritto che racconta una storia "borghese". E L'Ospite è il primo spettacolo di Motus che si appoggia ai teatri, che usa le tecniche della macchineria classica, e non può essere presentato che in grandi teatri borghesi e burocratizzati.51 Tre giganteschi schermi bianchi portano dentro la psicologia della storia – la desertificazione della borghesia, il suo immobilismo. Il trittico video con tutta la sua imponenza, rilascia l'illusione di uno spazio tridimensionale, di una camera ottica, di un'enorme casa senza la quarta parete a cui è affidata la cronaca in immagine di una famiglia della ricca borghesia industriale. La scatola scenica è chiusa su tre lati da altrettanti pannelli rimovibili di colore bianco, adatti ad essere proiettati, su cui si mostrano le immagini riprese da Motus. Sul proscenio è collocata una Alfa Romeo Giulia costruita in vetroresina che sale e scende sul proscenio, "come tassello di un rebus e come vera e propria metafora dello sguardo, del suo [di Pasolini, N.d.A.] sguardo in corsa"52, lo stesso con il quale osservava le periferie romane che attraversava. Siamo dentro la cattedrale gotica dove si venera un'icona preziosa: l'immagine rassicurante e venerabile della sacra famiglia borghese. Pasolini parlava del suo film Teorema come “nato su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete (il film omonimo). In tale natura anfibologica, non so sinceramente dire quale sia prevalente, se quella letteraria o quella filmica”. L'ospite vìola questo interno, questa stanza neutra, piatta, costruita secondo un asse prospettico perfettamente centrale e ne sconvolge le regole: le inquadrature, i campi, le proporzioni, ne mette in luce le quintature, la maschera posticcia, mostra il graticcio, i cavi, fa saltare le valvole di sicurezza, scardina l'apparente tranquillità, che ha la forma di un fondale teatrale dipinto introducendo nella finzione (ovvero nel film) l'evento inatteso e liberatorio. Vanificata l'illusione, rimane la realtà nella sua veste più tragica, una volta constatata l'insofferenza dei personaggi verso la propria nuova condizione e diventati tutti “casi di coscienza” (Pasolini). La scena si fa leggere per scansioni verticali e orizzontali (come fa il pennello elettronico del video) perché ha varie profondità e altezze di azione: una specie di passerella-giardino in posizione ribassata con erba riportata, accudito dalla serva (che ascenderà in alto con i tiranti del teatro), lo spazio anteriore entro l'ambito dello schermo leggermente rialzato, in cui le immagini dei corpi a dimensione naturale si mescolano con chi lo percorre ed infine la parte dietro gli schermi, che unisce in un effetto chromakey e dissolvenza, corpi, ombre, luci e immagini retroproiettate. Ricordava l'artista video Bill Viola che la stanza a sei facce cinta da quattro mura non è altro che “la distillazione archetipica del mondo mentale che proprio la prospettiva di Brunelleschi, un'invenzione urbana, articolerebbe ulteriormente. La mente non soltanto è confinata nello spazio tridimensionale, ma lo crea”. Come un sipario, un velario scende sulla scena a velare e svelare i personaggi nell'intimità della loro anima, turbata dal masochistico rapporto 50

Ivi, p. 153. Motus, Io vivo nelle cose. Appunti di viaggio da “Rooms” a Pasolini, Milano, Ubulibri, 2006, p. 152. 52Ibidem. 51

48


49

con l'Ospite, figura mistica al limite tra angelico e demoniaco che scardina i ruoli e le personalità acquisite attraverso il rapporto sessuale. Mentre i personaggi si contorcono sulla pedana metallica, in preda agli spasmi di un'istintività che riemerge prepotentemente, i tre schermi alle loro spalle accolgono le immagini di diversi paesaggi, dalle lande desolate e sabbiose alla villa bianca e immacolata nella pianura padana. La loro presenza non serve per rendere più realistica la storia che si sta raccontando, ma per dare voce a un mondo di natura non fisica, spirituale, quello dei paesaggi interiori dei personaggi; le immagini viaggiano su un piano talvolta simbolico e metaforico, così come la figura dell'ospite. 3.5.Al videomapping La tecnica del videomapping sta suscitando grande interesse generale e praticamente non c’è ormai grande evento, notte bianca, celebrazione di centenario che non preveda un videomapping. Il videomapping è inoltre diventato un passaggio “obbligato” per lanciare grandi marchi: si è passati dai manifesti pubblicitari inquadrati e stampati alle insegne al neon fino al digital signage (la réclame in formato elettronico, a led su schermi LCD o al plasma su touch screen in spazi pubblici). Spesso si tratta di eventi non solo finanziati ma promossi da grandi major come Toshiba, Nokia, Sony, Samsung, LG, per mostrare la potenza dei loro proiettori (considerato che ovviamente i principali fruitori di proiettori da decine di migliaia di lumen sono i mega-eventi da stadio, concerti e promotional). Fondali live con maxi schermo a led per concerti in facciate di palazzi sono stati usati in piazza Duomo nel 2008, in occasione dell’apertura del Salone del Mobile con il concerto di Christian Fennesz con i visuals di Giuseppe La Spada. L’evento era firmato dalla società italiana Urban Screen Spa, assegnataria a Milano del primo progetto di medializzazione urbana in Italia con una mediafacciata di 487 metri quadri (cantiere Arengario, piazza Duomo Milano, progetto Mia, Milano In Alto). Si sono poi moltiplicati i festival internazionali dedicati al genere, come il Mapping Festival di Ginevra, Urban Screens a Caceres in Spagna e il Kernel a Desio. Il fenomeno, che sta assumendo proporzioni sempre più vaste e una diffusione internazionale, è stato anche oggetto di conferenze internazionali organizzate dall’International Urban Screen Association, eventi (a Manchester e Amsterdam) e una pubblicazione liberamente scaricabile dalla rete dal sito Networkcultures.org. Al Lumiére Festival di Lyon il gruppo 1024 Architecture si fa notare perché fa letteralmente indossare una maschera al palazzo. Al Festival di Kernel è tutto un susseguirsi di crolli, crepe e intrusioni vegetali e fantascientifiche nella facciata di Palazzo Tittoni a Desio. Anche Studio Azzurro ha realizzato nel novembre 2011 un videomapping dal titolo Risveglio, allegoria di figure e musica a Milano in piazza Scala: in occasione dell’inaugurazione del Polo museale “Gallerie d’Italia”, dedicato all’Ottocento, il mapping ha coinvolto Palazzo Beltrami, Teatro alla Scala e Palazzo Marino. Coerentemente con la poetica di Studio Azzurro, le figure delle pitture si animano, fluttuano, escono dal quadro per invitare la gente a entrare nel museo. White Doors Vj usa la superficie architettonica mappata come “luogo” per un live videoperformativo, in cui Giacomo Verde agisce in diretta a ritmo di musica, conferendo effetti digitali su forme e oggetti videoripresi che si mescolano al contenuto del videomapping. E’ una significativa 49


50

variante dei suoi “videofondali” live realizzati per reading poetici, eventi coreografici o sonori. Un vero inganno per gli occhi è invece, questo evento berlinese, un mapping come un film 3D con il palazzo che diventa un robot, un cubo di Rubik, un Transformer, una reggia di ghiaccio53.

3.6.Mappando oggetti. Si può mappare qualunque cosa, non solo superfici parietali, ma anche (e più agevolmente) oggetti piccoli, pezzi di arredamento, persino manichini. E’ dunque possibile usare il mapping per la scenografia, i costumi, l’interior design, gli show room. Anche l’installazione artistica cambia veste per dare vita a quella che potremmo definire con un ossimoro, la moving installation, versione hi tech delle videosculture di Tony Oursler. Originale e inquietante la macchina umana pensata per l’installazione realizzata con la tecnica del mapping al Place des Arts dal titolo Locomotive del gruppo canadese Departement: un groviglio di corpi vanno a formare un ingranaggio corporeo dentro uno schermo a mosaico. La serie Sony Great Films Fill Rooms, che trasporta i personaggi della storia in universi lontani solo modificando videodigitalmente gli oggetti presenti in una stanza, sta spopolando in rete. Ovviamente qualunque oggetto può mutare forma con programmi di animazione e dare vita a video o film: la differenza è il live. Nei primi mesi del 2011 Urban screen ha progettato la scenografia per un'opera lirica, Idomeneo, re di Creta di Mozart, per il Theater Bremen. Il libretto dell'opera si apre con il giuramento di Idomeneo a Nettuno affinché lo salvi da un naufragio, in cambio del quale sacrificherà la prima persona incontrata una volta sbarcato. Sfortunatamente, questa persona è Idamante, suo figlio, che è combattuto per l'amore che prova per Ilia, prigioniera troiana mandata sull'isola da suo padre. Per la scenografia sono state realizzate due strutture poligonali di legno, poi verniciate di bianco, con un'intelaiatura metallica a sostegno, una destinata ad essere appesa alla graticcia, una posizionata sul palco; quest'ultima è composta da cinque parti distinte dotate di ruote che possono essere utilizzate separatamente, spostate sul palcoscenico dagli attori, oppure ambedue possono essere unite dando vita a un unico blocco composto di diversi piani, che ricorda una scogliera. 53

I software più usati per il videomapping sono: vvvv (V four), processing (open source); KPT (free), Isadora, Flash Adobe,Cinema 4D, MAX/MSP, Pure data (open source), Jitter, OpenFrameworks (open source). Per il 3D: Blender (open source), 3D Studio Max. Processing è un linguaggio di programmazione basato su Java, a sua volta erede del progenitore di tutti i linguaggi a oggetti – il C – con cui è possibile sviluppare applicazioni visuali molto suggestive, gestire l’interazione suoni-ambiente e creare simulazioni realistiche per giochi o contenuti interattivi. Possiede una sintassi estremamente lineare, anche se può arrivare ad alti livelli di complessità, in termini di prodotto. E’ particolarmente indicato per il multimedia e viene distribuito con licenza open source. Il linguaggio, che ha valenza multipiattaforma (Windows, Mac, Linux, …), s’avvale di un’estesa community internazionale, in cui è possibile sperimentare un confronto continuo e condividere i risultati raggiunti. VVVV (convenzionalmente denominato V4 o “V four”) è un altro ambiente per la programmazione multimediale dall’utilizzo free per uso non commerciale. Gestisce grafica, audio e video in tempo reale attraverso un’interfaccia visiva a diagramma di flusso, che non richiede la scrittura di codice e rappresenta icone-oggetto, dotate di proprietà interattive e modificabili. E’ un modo di programmare per “nodi linkati” d’approccio intuitivo, particolarmente adatto a chi è abituato a trattare rappresentazioni visive della comunicazione.

50


51

Queste due forme prendono vita grazie a delle proiezioni tridimensionali che si adattano perfettamente ai profili multisfaccettati, grazie all'uso di una procedura brevettata da URBANSCREEN chiamata Lumentektur; si tratta di un software che misura l'oggetto e costruisce una maschera che si adatta perfettamente alla forma su cui si vuole proiettare..

3.7.Dal cubo alle cattedrali A inaugurare il genere “videomapping” sono stati gli Urban Screen, quattro anni fa, con il loro 555 Kubik. Un edificio cubico ospita una mano gigantesca e una tastiera, mentre i diversi quadri della superficie fuoriescono con un gioco geometrico assai intrigante. In questo ambito si collocano anche Rose Bond, Fokus Productions,Telenoika, Paradigma, AntiVJ, Obscura Digital (che hanno creato sia il mapping per l’anniversario della Coca Cola, sia per un evento di interazione ispirato al mondo di Facebook in occasione del meeting degli sviluppatori del social network). Sono stati proprio gli Obscura Digital, dopo il lavoro per l’Opera House di Sidney, a realizzare la più spettacolare videoproiezione mai realizzata, quella sulla Gran Moschea di Abu Dhabi per celebrare l’Unione degli Emirati Arabi. I numeri parlano da soli: 44 proiettori per un totale di 840.000 lumen hanno coperto una superficie larga 180 metri e alta 106. I budget utilizzati dalle grandi società non sono però ovviamente, alla portata della maggior parte degli artisti indipendenti. Occorre quindi puntare sulle idee innovative per sopperire a questo limite. La videoproiezione architettonica in spazi chiusi, meglio se interattiva, è una grande occasione che artisti e scenografi hanno a disposizione per rappresentare le loro idee. Il videomapping può essere applicato in spazi chiusi, in teatri attrezzati, senza dover utilizzare proiettori dal costo di un appartamento: in situazioni del genere, le emozioni e le idee possono prevalere sul gigantismo tanto di voga in questo momento. Ecco che il mapping viene applicato alla vj culture, per i club, le discoteche e altri locali affollatissimi, dove la musica techno si accompagna sempre più spesso con il video live. A Ibiza il gruppo Palnoise intrattiene il pubblico con un mapping astratto collegato allo scatenato ritmo di un DJ. Ma gli audiovisual mapping più spettacolari sono quelli di Amon Tobin: le sue performance sono caratterizzate da una struttura geometrica posta al centro del palcoscenico, sulla quale vengono proiettate delle immagini. L’impatto visivo offre un ottimo supporto al suo particolare sound. Il gruppo Le Collagiste VJ, come dice il nome, propende per soluzioni spettacolari di VJ mapping54. Il pubblico è particolarmente attratto da tali forme di spettacolo visivomusicale, non solo perché rappresenta una novità ma anche perché rimane affascinato dagli stravolgimenti della sua percezione, dalla creazione di oggetti “impossibili”, e dalla precisa sincronia tra suono e immagini. Il passaggio successivo è stata l’aggiunta dell’interazione con il pubblico: un esempio di interactive projection mapping è Dancing House, a cura dell’artista austriaco Klaus Obermaier/Exile per il Lichtsicht, (Bad Rothenfelde, Germania). Roberto Fazio con Nicola Saponaro sta 54

Rimandiamo al canale video di Vimeo dedicato al videomapping con aggiornamenti continui: http://vimeo.com/channels/ilovemapping; e naturalmente ai numerosi blog, siti e “tutorial” in rete che spiegano il procedimento e il funzionamento dei vari software.

51


52

sperimentando l’interactive architectural mapping usando vvvv. L’interazione avviene attraverso il movimento umano letto dalla Kinect, ma è possibile interagire anche parlando o cantando da un microfono in questo mapping di 1024 architecture per il Festival Lumiére di Lyon, Teatro dei Celestini. E’ anche possibile usare un IPAD secondo Nuform: le persone possono scegliere colore, effettistica luminosa e altri prodigi da proiettare sui palazzi. NuFormer, società che ha sede nei Paesi Bassi, è specializzata nella comunicazione digitale, motion graphics, film digitali e proiezioni 3D per eventi commerciali: straordinariamente d’effetto il loro Projection on Buildings. Il video della facciata del palazzo che sembra sfaldarsi sotto gli occhi del pubblico o riempirsi di palline colorate ha fatto il giro dei siti di arte digitale, decretando il successo di questa specialissima nuova forma d’arte. Così Rob Delfgaauw di Nuformer: Abbiamo richieste per spettacoli, performance, eventi e concerti. Siamo sviluppando una tecnica per usare proiezioni 3D all’interno specialmente per teatri in occasione di concerti. Attualmente la nostra ricerca riguarda come trovare la modalità più adatta per unire le proiezioni 3D con l’interattività e comunicare l’esperienza al pubblico. Dal momento in cui c’è abbastanza buio e la luce d’ambiente è bassa, noi possiamo proiettare indifferentemente all’esterno o in un teatro all’interno. Gli artisti hanno di fronte un nuovissimo modo e un nuovo ambiente con cui esprimersi. Prova a considerare un enorme edificio come se fosse il fondale animato di un palcoscenico. E’ impressionante. Soprattutto se il contenuto viene generato in tempo reale.55

3.8.Interaction design per il teatro e la performance Vorremo soffermarci proprio sull’“è impressionante” di Rob Delfgaauw, con alcuni esempi che dimostrano le potenzialità del mapping teatrale. L’utilizzo nel teatro riguarda non solo le scenografie (si proiettano ambienti digitali oppure le videoproiezioni lambiscono completamente i volumi della scena) ma anche l’interazione di oggetti e spazio (e grafiche e video) con gli attori in scena. I nuovi programmi svincolano l’attore da posizioni preimpostate e da movimenti obbligati, lo liberano dai lacci delle armature protesiche a sensori e dai cavi di collegamento: l’attore è così libero di agire, mentre è il sistema (vero co-protagonista) a “riconoscerlo”, a “seguirlo” e a rispondere con un feedback di qualunque genere, audio e video. Un procedimento di creazione di segni grafici realizzati in diretta e interattivi con i danzatori, come fosse un disegno animato, è quello della compagnia Adrien M. e Claire B per Cinématique: lo spazio scenico è un mondo di oggetti, grafica e segni virtuali (lettere, punti, linee) che appaiono e scompaiono, dove tutto diventa mutevole intorno ai performer e persino il pavimento sembra ingoiarli dentro. Il sistema interagisce attraverso una webcam, con i movimenti dei ballerini e con la luce56. Il cuore della coreografia è il programma originale E-motion creato dal fondatore del 55

Intervista di Anna Maria Monteverdi/Enzo Gentile, 2010 su www.digicult.it. http://www.am-cb.net/projets/cinematique Lo spettacolo, dopo il debutto nel 2010, è arrivato nel 2011 anche al Festival Prospettiva di Torino a cura di Fabrizio Arcuri. 56

52


53

gruppo Adrien Mondot nel 2006. Il software E-motion riconosce i movimenti di una persona (a 60 frame per secondo, per una maggiore fluidità) e li fa interagire con figure, sfondi, oggetti animati al computer in accordo con le leggi fisiche (massa, gravità, velocità). Utilizza un protocollo standard che si chiama OSC (il successore del MIDI) per lo scambio di dati tra le periferiche e il pc (wiimote, webcam, sensori...). Rispetto ad altri software non richiede grande capacità di programmazione, è compatibile con Quartz composer (MAC) ed è particolarmente ottimizzato per la danza e dove il movimento rappresenta una priorità. Insectione di Matilde De Feo: un significativo progetto di interaction design è quello ideato dall’artista performativa e video Matilde De Feo per la Fondazione D’ARS di Milano (progetto di residenza artistica e produzione 2011 lanciato da Melting Pot-cantiere creativo diretto da Cristina Trivellin). Il titolo è Insectione, installazione e performance interattiva realizzata dall’artista napoletana con Tommaso Megale, Davide Todaro, Manuel Buscemi per la parte tecnica interattiva e la gestione del software. Un insetto (proiettato sulla parete) si muove in base al movimento dell'attore, in tempo reale in “circuito aperto” (cioè senza una regia preregistrata), grazie al tracciamento di una webcam. Si capovolgono le regole del normale comportamento uomo-insetto e l'attore viene inseguito da un fastidioso sciame. La parte performativa consistite principalmente nell'interpretazione dell'attrice che gestisce lo spostamento degli insetti digitali attraverso i propri movimenti di allontanamento/avvicinamento dallo schermo di proiezione. Ancora in forma non definitiva, la performance mette in luce le mille possibilità narrative di un programma aperto e dell’interazione in tempo reale tra attore e dispositivo. Il sistema interattivo è composto per la parte hardware da una webcam, un proiettore (attuatore), due casse attive (attuatori); per quanto riguarda il software, il sistema operativo è Ubuntu Studio. L'interazione quindi la cattura ed il processamento delle immagini in ingresso dal sensore viene gestito da Pure Data. Le grafiche vettoriali sono invece gestite da Processing. Così Matilde De Feo, animatrice di Maldè, ci spiega da dove nasce il progetto e la sua estensione dal formato installattivo a quello performativo: Il concept di Insectione nasce nel 2008, quindi un paio di anni prima dalla sua vera realizzazione, pienamente nello spirito di ricerca di mald'è che cerca di mettere in relazione le arti visive a quelle sceniche. Mi piaceva l'idea di lavorare sul concetto di malattia della forma, sulla normopatia che ci separa dalle forme instabili. Partendo quindi da un saggio di Evelyne Grossman, La Défiguration. Artaud-Beckett Michaux, ho sviluppato questo tema, ed è nato un lavoro sul rapporto uomo/insetto. Insectione si propone di gettare, attraverso l'interazione, un ponte tra mondo umano e reame degli insetti, di de-figurare le forme stabili in cui l'uomo facilmente si riconosce. Nella performance, nata successivamente e in coda all'installazione, gli insetti immateriali interagiscono e si muovono con l'attore grazie al tracciamento di una webcam, in tempo reale, in un circuito aperto, senza una regia preregistrata. I corpi immateriali si muovono come corpi reali in un contesto performativo e in una drammaturgia insolita e innovativa, forzando l'incontro tra le specie. L'avvicinarsi dell'attore-uomo non provoca la fuga dell'insetto, ma il suo moltiplicarsi e dilagare. Il flooding della psicologia comportamentista, l'inondazione, e la sovraespozione del 53


54

soggetto all'agente fobico permette la desensibilizzazione, il superamento della malattia della forma. Il lavoro nasce come installazione ma il suo scopo e obiettivo ultimo è lo spettacolo dal vivo, la performance, l'interazione con i corpi degli attori. Mi piace immaginare uno spettacolo che si scrive sulla scena grazie all'interazione con questi corpi immateriali, programmati per muoversi con gli attori con un certo margine di improvvisazione. E' l'attore, attraverso il tracciamento della webcam a decidere l'azione dell'insetto, l'attore è quindi anche autore della performance. Con Processing tutto questo è possibile. La prossima tappa è sviluppare la performance fino a 25/30 minuti, partendo dai primi 10 minuti costruiti a Milano, pensando sempre ad una scrittura scenica che parte proprio dall'interazione (dalla tecnologia interattiva) per costruire una storia. Sto cercando in questi mesi spazi e mezzi per sviluppare questo tipo di ricerca, magari un laboratorio più o meno stabile centrato su questo tipo di lavoro. Napoli, la città dove vivo più spesso, non è attenta o molto sensibile ai nuovi linguaggi. mald'è cerca un posto buono, da qualche parte per proseguire il lavoro con Insectione57. Tommaso Megale ha curato l’aspetto tecnico: “Sia Pure Data che Processing, sono tool di programmazione facilitata, che permettono di creare con un buon margine di elasticità ciò di cui si ha bisogno. Considerando poi che si tratta di tecnologie libere la possibilità di modificarle per i propri scopi da molta libertà. La potenza di processing è limitata perché si basa su java, un linguaggio ad alto livello che per essere compatibile con tutti i sistemi operativi deve essere decodificato e ricodificato da una java virtual machine che appesantisce58”

3.9. Rimediando il teatro di Beckett con il video. Come hanno trattato o interpretato la materia e le visioni beckettiane gli artisti multimediali nelle loro installazioni, videoperformance e spettacoli tecnologici? E' opinione comune che sia la stessa poetica di Samuel Beckett, così radicalmente altra rispetto ad una scrittura drammaturgica tradizionale, oscillante e sospesa in un tempo a-dimensionale, nella rinuncia all’illusione della comunicazione, nella negazione della possibilità di un raccontare, nell'inutilità di ogni agire, ad aprirsi ad apporti creativi altri, offerti dalla specificità del mezzo video e filmico. Ersilia D'Alessandro ha parlato di una loro “vocazione cinematografica”, Avantaggiato di un Beckett “ultramediale”59. Non è solo il Beckett filmico e tele teatrale (da Film con Buster Keaton ai tele play ai radiodrammi: Ghost trio, Quad, But the cloud, Di’Joe) ad aver offerto notevoli spunti ad artisti video, quanto alcuni testi brevi che hanno avuto rarissime rappresentazioni teatrali per l’oggettiva impossibilità di messa in scena. Si può parlare effettivamente, di una “vocazione all’immagine” di alcuni testi corti di Beckett (scritti dal 1963 al 1982) che, più ancora della nota 57

Intervista a Matilde De Feo di Anna Maria Monteverdi in www.ateatro.it n.137.31 Intervista a Tommaso Megale di Anna Monteverdi in www.ateatro.it n.137.31 59 L. Avantaggiato, MultiBeckett. Samuel Beckett tra vecchi e nuovi media, in “Biblioteca teatrale”, n. 81-82, 2007. 58

54


55

produzione teatrale (Finale di partita, Aspettando Godot, Giorni felici) hanno offerto un ambito straordinario di sperimentazione video artistica (video creativa o video teatrale). Si tratta di prose e testi teatrali dal minimo ingombro che si offrono quali rapide illuminazioni, pennellate di spessore concettuale e di esasperata bellezza. Per queste densissime miniature, di fulminante respiro, Beckett creò il neologismo di dramaticules a sottolineare la compressione drammatica che le sostanzia e la decaduta pretesa di qualsiasi io autoriale: Play, Come and Go, Breath, Catastrophe. Dello stesso periodo (dal 1963 al 1972) sono alcune prose brevi in cui lo scrittore irlandese abbandona definitivamente la forma narrativa dei romanzi “adulti”, ritorna in parte al francese degli esordi, e imprime alla scrittura una vera e propria torsione sottrattiva (Trilogy, Not I, Comment c’est, All the strange away). Pensiamo a Non io, monologo torrentizio dell'unico personaggio Bocca, in cui la testa della protagonista, come decollata, illuminata da un violento fascio di luce, secondo le indicazioni dell’autore, si staglia su un fondale di fitta e impenetrabile oscurità. Nei brandelli sconnessi del veloce monologo, affiorano frasi di una memoria drammatica che la protagonista assicura non appartenerle. Il passato che la donna maledice, spesso con toni di oscena e blasfema ferocia, è il ricordo di un dolore cosmico senza rimedio. Pensiamo, poi, alla assenza pressoché assoluta di azione contenuta in Come and Go (la versione breve e al femminile di Aspettando Godot, in cui tre donne anziane sedute in una panca, sono in attesa di qualcosa da moltissimi anni e mantengono dei segreti che si sussurrano alternativamente all’orecchio) in cui emergono solo gli sgargianti colori precisamente individuati da Beckett per le vesti delle donne. In Breath Beckett arriva a immaginare una sola situazione scenica della durata programmata di 35 secondi. Testi quindi, quasi refrattari alla scena, persino restii anche alla forma libro e che prevedono sotterraneamente, un linguaggio altro rispetto alla letteratura e al teatro. Mi riferisco per esempio, a Play e alla dinamica convulsa del racconto di un tradimento, scritto per tre personaggi secondo una logica da montaggio alternato. Il racconto prevede non “non stop”, un circuito infinito di parole (Repeat again è l’indicazione di Beckett per gli attori, quando ciascuna delle loro versioni termina). E’ evidente quindi, un processo di definitiva spoliazione poetica, di scarnificazione linguistica in cui la parola sopravvive come reperto estremo, come elemento residuale di una comunicazione di per sé lacunosa e intermittente: questa è stata la fonte di ispirazione per un gruppo nutrito di artisti legati al video teatro, per la “nuova ondata anni Novanta” e per la nuovissima generazione di artisti multimediali che usano il video per produzioni creative autonome. Il video sembra offrire una sorta di rimedio, un risarcimento, una soluzione creativa alternativa per visualizzare in forma di immagine, quell’universo beckettiano fatto di sintetiche o scarnificate partiture che hanno la densità e la forza della parabola. Si tratta talvolta di pochi suggerimenti scritti da Beckett più che di trame con indicazioni di movimento che implicano, sul piano della regia video, inquadrature e montaggio di grande precisione, costruite sull’attesa e sull’assenza, lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa, sempre presente come “occhio belva” incarna un ruolo: quello della coscienza o della morte che incombe. 55


56

Anche in questi testi presi in esame, come nella più ampia produzione teatrale matura, le figure di Beckett sono in una condizione di immobilità (in Play dentro urne), di scacco, di prigionia soffocante autoindotta (All the strange away), in silenzio, in attesa, protesi verso il nulla. Atterrano nel fango (Come è), si rialzano ogni volta per riprendere l’andatura vacillante, inforcano le stampelle, si spostano su sedie a rotelle o sedie a dondolo (Passi), strisciano, annaspano, si osservano invecchiare e marcire (Come and go), si guardano andare in pezzi, tragici testimoni di un vuoto mai definitivo, mai risolutorio (“la morte stenta ad arrivare”). Il corpo umano è accecato dalla luce abbagliante (All the strange away) imprigionato in una scatola di cui si danno ossessivamente le dimensioni, o di un sacco dove condividere vita e punizioni reciproche (Come è). Trasposte sul monitor queste partiture visuali accentuano i ruoli dei personaggi nella loro fissità spaziale e esasperano la condizione di ripetitività della loro esistenza senza via di fuga (Play) grazie a loop e ralenti, piani sequenza silenziosi e incombenti, primi piani soffocanti. A Breath, sorta di grado zero della scrittura, testo-lampo della durata obbligata di 35 secondi, con luce intermittente e null’altro in scena se non cumuli di spazzatura, si ispira l’artista greco Nikos Navridis per l’omonima installazione video esposta alla 51a Biennale di Venezia e Damien Hirsch. David Mamet e William Kentridge guardano invece, a Catastrophe (1982, dedicato al drammaturgo ceco Vaclav Havel) per il loro omaggio video a Beckett. Un attore (Protagonista) è in piedi su un podio mentre, con l’aiuto di un Assistente, un Regista lo prepara per uno spettacolo teatrale che sembra non consistere in null’altro che nella sua stessa apparizione fisica. Viene trattato come un oggetto, spogliato, messo in posa. Della sua volontà non si tiene conto ed è a tutti gli effetti un manichino nelle loro mani, trattato come una vittima degradata e umiliata. Ma la fine è particolare: il regista chiede di illuminarlo per avere la sua “catastrofe” o conclusione. Mentre la luce è tutta su di lui, anziché rimanere immobile come da copione, l’Attore alza la testa spegnendo lo scroscio di applausi. Proprio con questo gesto finale egli riafferma, a un passa dal baratro, la sua dignità. I tre personaggi corrispondono ai tre ruoli nel potere di uno Stato: un dittatore, un servo che obbedisce ed esegue gli ordini, il popolo che subisce e poi si ribella. Il teatro svela la gerarchia della società. Il cortometraggio di Mamet con l’interpretazione di Harold Pinter (Director), Rebecca Pidgeon (Director’s Assistant) e con l’ultima toccante apparizione di John Gielguld (Protagonist) fa parte del progetto Beckett on film (2000) prodotto da RTE, Channel 4 e Irish Film Board, presentato al 57° Festival del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori. La storia si svolge dentro un teatro tra ombre inquietanti e fari di scena. L’anziano attore ha ancora la forza, nel finale, di ribellarsi. Monument (3’,1990) di William Kentridge è il secondo cortometraggio della saga di Soho Eckstein. La tecnica di animazione usata è quella usuale di Kentridge, lo stop motion, ovvero una successione di immagini filmiche di fasi diverse del disegno a carboncino realizzato appositamente per raccontare la storia. In questa come in altri episodi della saga, la tematica affrontata è quella della storia postcoloniale del Sudafrica, degli orrori del capitalismo e dell’apartheid, complice questa volta, la simbolica trama beckettiana della relazione di potere tra Regista-Attore-Assistente. Monument è stata esposta come installazione alla Tate Gallery. 56


57

Nel 1968 Bruce Nauman, esponente dell'area concettuale americana e tra i pionieri della videoarte statunitense insieme con Dan Graham e Peter Campus, crea Beckett Walk o Slow Angle Walk. Si tratta di un'opera videoperformativa che mostra il dispositivo video nella duplice funzione di processo e immagine spazializzata. In Beckett walk una telecamera fissa collegata a un monitor per ciascun lato di uno spazio architettonico quadrato che si sviluppa in altezza, riprende dall’alto la persona che ne percorre il perimetro. I suoi movimenti non sono naturali: Nauman realizza una sorta di happening o performance mediatica ripetitiva, a loop: il performer con le mani dietro la schiena alza una gamba a 45 gradi e la lascia poi ricadere a terra con grande rumore. Comportamenti bizzarri, rovesciamenti del corpo che vengono ritagliati nella scatola del monitor e che contrastano con quel geometrico percorso obbligato che regolamenta il suo tracciato nello spazio. Come ricorda Valentina Valentini: “Non è gratuito il riferimento a Beckett, che è stato un incontro importante per Nauman, perché in entrambi il linguaggio è un elemento che trova in se stesso il proprio fondamento, non sta al posto di..., non è uno strumento espressivo legato alla dimensione soggettiva e intersoggettiva di locutori e perlocutori”60. Natalia Antonioli regista teatrale toscana con un background di studi filosofici, ha percorso per un'occasione specifica nel 1999 (il Premio Autore Donna) l'itinerario beckettiano con una serie di installazioni video e sonore che risultarono vincitrici della sezione Nuove Proposte. L'autrice nel catalogo curato da Marina Corgnati, le definisce “microregie”, concertazioni installattive dalla durata minima, quasi istantanea, seguendo scrupolosamente le indicazioni beckettiane per i suoi dramaticules. Passi è realizzato come un tracciato di scritte bianche con correttore (frasi dal testo stesso di Beckett) su materiale plastico scuro posto a terra a formare gli otto numeri del gioco infantile della campana. Il gioco non termina mai perché ricomincia sempre, e così è per la voce registrata associata all’installazione: un cadenzato ripetere delle parole beckettiane per bocca di bimba. Tra le installazioni spicca senz’altro la resa video-letterale di Ohio Impromptu. Il tavolo con due sedie e due monitor propone un dialogo impossibile e infinito tra Ascoltatore e Lettore, tra Io e Non io: un interlocutore assente – simboleggiato dalla neve del televisore non sintonizzato - e un video-braccio che comanda ma dà regole non ascoltate. In tutte le installazioni i frammenti del testo originario sono sparsi in forma di sasso o cemento inciso (Giorni felici III), di carta ghiacciata (Quella volta), accartocciata, di ritagli di singole minuscole lettere ricomponibili a scelta da chiunque secondo il meccanismo della casualità. Il teatro è dietro un’unica immagine che condensa, “ghiaccia” quell’istante, “quella volta” e si concede ma per tracce fossili, all’archeologo-visitatore. Metronomi a battere il tempo per nessun strumento, voci inabissate che si disperdono dentro coni metallici, vetri che accolgono bocche afone, corpi smembrati dall’occhio della telecamera, dondoli dal movimento inarrestabile, giochi della morte e giochi dell’infanzia. I monitor isolati, gli oggetti casuali, le sequenze narrative monche sono lì a sostituire attori e trama e a testimoniare un’assenza imprecisata o un’attesa infinita. L’installazione è infatti, una scena provvisoriamente abbandonata, laddove una presenza umana si è dileguata e ha lasciato ombre elettroniche e 60

V. Valentini, Corridoi, labirinti, soglie: come mettere in gioco lo spettatore, in Dal vivo, Roma, Graffiti , 1996.

57


58

guanti in lattice, borsetta, ombrellino e collana di perle. Nella dimensione irricostruibile e indecifrabile del luogo e della storia, nella negazione del tempo e contemporaneamente nella resa di “creature in fuga”, il senso di un Beckett messo per una volta in mostra e non in scena. Studio azzurro nel 2004 ha firmato le scenografie digitali per Neither. All’opera musicale per soprano e orchestra concepita da Morton Feldman nel 1976, Beckett aggiunse su commissione dello stesso compositore, il libretto. Feldman chiese infatti a Beckett per l’opera, la “quintessenza” della sua poetica, che fu prontamente consegnata in forma di un pugno di righe come una sorta di suprema astrazione o distillato del suo pensiero, intorno al tema universale dello stare al mondo, in una condizione sempre oscillante tra l'io e il non io. Studio Azzurro sceglie una dimensione evocativa quasi surreale, sorretta da pochi oggetti in formato video digitale, che rimandano al mondo beckettiano: un dondolo, l'uccello in gabbia, un uomo nel letto, l'albero, le scale, una porta semiaperta che non è retta da alcun muro, una lama di luce in un palcoscenico vuoto, quel teatro secondo le stesse parole di Paolo Rosa, simbolo di nessun luogo e insieme crogiuolo di tutti i luoghi possibili. Waiting for Godot sbarca su Internet nel 1997. Presentato al Digital Story Telling Festival. Waiting for Go.com è uno spettacolo di teatro on line con uso delle chat room e con personaggi interpretati da utenti collegati in quel momento; icone grafiche rappresentano non solo Didi e Gogo (Estragone e Vladimiro) ma anche altri personaggi improbabili come Mister Muscle, che si inseriscono ogni qual volta entra un nuovo utente; Waiting for Go.com ha un suo ambiente visivo offerto dalla piattaforma Palace.com che non è altro che il palcoscenico virtuale della rappresentazione. Del testo non rimane pressoché nulla se non alcune suggestioni dei personaggi. Il pubblico era costituito anche dagli spettatori reali del festival grazie a video-proiezioni. Nel resoconto on line sul sito della compagnia, dal titolo Clicking for Godot l’autore Scott Rosenberg esalta la nascita di un genere, il digital puppet theatre in un nuovo teatro on line, le cui modalità di (non) comunicazione rimanderebbe proprio al tema dell’assenza in Beckett: In Aspettando Godot nulla accade per due volte in ciascuno degli atti. Nelle chat rooms nulla accade la maggior parte delle volte, le persone si ritrovano ogni sera e aspettano per lo più che accada qualcosa, che qualcuno dica qualcosa di interessante, che un diversivo gli aiuti a passare il tempo. L’artista multimediale e musicista Roberto Paci Dalò creatore della compagnia Giardini Pensili si è dedicato a Beckett in un paio di occasioni: la prima volta con l'installazione visiva e sonora Beck/ett realizzata a Castel Sant’Elmo per la grande mostra dedicata al Living Theatre e curata dalla Fondazione Morra, con la voce campionata di Julian Beck. Nel 2006 ha dato vita a uno spettacolo videopoetico (altrimenti definito dall’autore “esecuzione scenica”) di notevole valore a partire dall’ultima produzione poetica di Beckett e interpretato da Gabriele Frasca e Patrizia Valduga, a loro volta poeti (e traduttori) in scena insieme a una giovane attrice francese, Caroline Michel. Qual è la parola si regge su atmosfere rarefatte, trasparenze, voci sussurrate o disperse, parole inanellate a suoni e immagini evocative, in una composizione fragilissima e intensa, sottoposta a un trattamento digitale in 58


59

diretta. Proprio il digital live è quella modalità - più volte sperimentata da Giardini Pensili - che rende la tecnologia stessa significativo evento poetico in sé. Un originale omaggio in video ispirato a Not I, monologo del 1972 di Beckett, è quello di Mald’è, giovane compagnia campana video/teatrale di Matilde de Feo e Mario Savinio. Il video di 11’ (che ha una forte pregnanza visiva, e aderenza alla poetica beckettiana e un’ottima realizzazione tecnica), è una cascata ininterrotta di parole dallo strano personaggio di Bocca (interpretata dalla stessa De Feo). Bocca va a occupare un angolo di un ambiente elettronico caratterizzato da un biancore abbagliante e da cui emergono a tratti, segni grafici esplosi e frammentati, fonemi vomitati, risucchiati e poi sparsi ancora nel vuoto elettronico. Dalla bocca “reale” ma isolata dal contesto corporeo, si passa a quella digitale, una macchia rossa che mentre parla si sfalda, si sdoppia, si sovrappone in un’infinita metamorfosi elettronica. Riconoscibile sempre più a stento come un organo fisico scompare affogato nel bianco, quel bianco accecante che domina molta parte della produzione beckettiana. Atto senza parole I di Carlo Caprioli e regia di Enrico Maria Lamann è stato presentato a Film Maker di Milano e al Lodi Film Festival del 2005. Carlo, figlio di Vittorio Caprioli interpreta col video quell’invisibile potere che regge i fili, guida gli oggetti della sopravvivenza e quindi il destino dell’uomo nel deserto in cerca dell’acqua continuamente sottratta. E’ un’entità lontana che governa gli eventi muovendoli virtualmente da un non meglio precisato mondo parallelo fantascientifico, indossando data glove e virtual eyes. I limiti spaziali non oltrepassabili dall’uomo sono dati dal campo stesso dell’inquadratura. L’uomo è prigioniero dentro il video, dentro la scatola quadrata del monitor. Da lì il protagonista non può uscire, prigioniero senza scampo in un deserto bianchissimo e in uno schermo al plasma. La luce bianca torna ancora a infierire e annulla i contorni delle cose, disintegrando qualsiasi apparenza antropomorfa nel muto deserto siderale materializzato da Beckett in All strange away. A questo si ispira il video di Motus A place (that again). La compagnia si cimenta in un tratteggio di corpi evanescenti come ectoplasmi che nella loro liquefazione di fronte al bianco totale, diventano figure simili alle pitture di Bacon. E’ in scena e in video l’ossessione della fine descritta esemplarmente con un minimalismo d’immagine agghiacciante. Dalle note della produzione video di MOTUS: Azione. Un luogo, ancora quello. Mai un’altra domanda. Un luogo. Poi qualcuno, ancora quello. Ancora le sue scarne parole che ci perseguitano come quella luce abbagliante che invade e folgora. Ovunque. Ancora quello spazio vuoto. Bianco assoluto. Dove tutto si vede. In cui tutto precipita. Senza alternative. All strange away. Diabolico tentativo di fermare il tempo, di dilatare l’istante del trapasso, definitivo, verso il momento in cui “nessun rumore di respiro è percepibile”. Immagina solo carne silenziosa. Mangiata dallo sguardo. Occhio belva. Che cerca negli angoli senza ombra. Il video indaga nelle pieghe della pelle. Con rigore scientifico. Espone. Così è la morte o meglio, così è la caduta secondo BECKETT. Il bianco elettronico è il non luogo beckettiano. Dove affogano i pensieri sessuali, le memorie del personaggio. Come ricorda Mussapi “nell’antinferno beckettiano non c’è grido, non c’è richiesta di ascolto, 59


60

perché tutto avviene dopo il corso del tempo, di cui sussistono illusorie dilatazioni dell’istante, spasimi molecolari della durata, movimenti microscopici di una immobilità ormai in fase di definitivo assestamento come lava ormai solidificata”61.

BIBLIOGRAFIA

Altarelli L., Light City. La città in allestimento, Roma, Meltemi Editore, 2006. Altarelli L., R. Ottaviani (a cura di), Il sublime urbano. Architettura e new media, Roma, Mancosu Editore, 2007. Amendola A. , Frammenti di immagine. Scene, schermi, video per una sociologia della sperimentazione, Napoli, Liguori, 2006. Aukstakalnis S., Blatner D., Miraggi elettronici. Arte, scienze e tecniche di realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 1995. Baltrušatis J., Anamorfosi o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Milano, Adelphi, 1969. Balzola A., Monteverdi A. (a cura di), Le arti multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche del nuovo millennio, Milano, Garzanti, 2004. Bolter J.D., Grusin R., Remediation: competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 2003. Cruciani F., Lo spazio del teatro, Roma-Bari, Laterza, 2004. Darley A., Videoculture digitali: spettacolo e giochi di superficie nei nuovi media, Milano, Franco Angeli, 2006. Fouquet L., Robert Lepage: l’horizon en images, Quèbec city, 2005, L’instant même, Flusser V., La cultura dei media, Milano, Bruno Mondadori, 2004. Gemini L., L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, Milano, FrancoAngeli, 2003. Krauss R., Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Milano, Bruno Mondadori. Maldonado T., Reale e virtuale, Milano, Feltrinelli, 1992. Mancini F., Scenografia italiana. Dal Rinascimento all'età romantica, Milano, Fabbri, 1966. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2001. - The Poetics of Urban Media Surfaces, in Firstmonday.org, n.4. Numero speciale su Urban Screens, 2008. Mastropasqua F., Il teatro dei Philosophes, in Il Teatro. Collezione dell’Encyclopédie, Milano, Mazzotta, 1981. -Metamorfosi del teatro, Napoli, Esi, 2000. Menduni L., I media digitali. Tecnologie, linguaggi, usi sociali, Roma-Bari, Editori Laterza, 2007. 61

L. Mussapi, Postfazione a Beckett, S. ,Quello che è strano via

60


61

Monteverdi A.M., La maschera volubile. Frammenti di teatro e video, Corazzano, Titivillus, 2000. - Il teatro di Robert Lepage, Pisa, Bfs, 2004. -Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro e digitalità, Milano, Franco Angeli, 2011. Motus, Io vivo nelle cose. Appunti di viaggio da “Rooms” a Pasolini, Milano, Ubulibri, 2006. Niccol A., Lo spazio scenico. Storia dell'arte teatrale, Roma, Bulzoni, 1966. Perelli L., Public Art. Arte, interazione e progetto urbano, Milano, Franco Angeli, 2006. Perrelli L., Storia della scenografia dall'antichità al Novecento, Roma, Carocci, 2002. Ponte di Pino O., Monteverdi A. (2003), Il meglio di ateatro, Il principe costante, Milano. Ponte di Pino O., Monteverdi A.M. (2004), Dossier Ateatro.it, in «Teatro e storia», n. 25. Puliani M., Forlani A., PlayBeckett. Visioni multimediali nell’opera di Samuel Beckett, Halley ed. Matelica (Mc), 2006. Quinz E. (a cura di), Digital Performance, Parigi, Anomos, 2002. Ripellino A.M., Il trucco e L’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, Torino, Einaudi,1965. Rossi, P. I filosofi e le macchine (1400-1700), Milano, Feltrinelli, 2002. Schechner R., La cavità teatrale, Bari, De Donato, 1968. - La teoria della performance 1970-1983, Bulzoni, Roma, 1983. Sinisi S., Innamorati I., Storia del teatro. Lo spazio scenico dai Greci alle avanguardie storiche, Milano, Bruno Mondadori, 2003. Svoboda J. (1995), I segreti dello spazio teatrale, Milano, Ubulibri, 1995. Zorzi E.G. (a cura di) Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Firenze, Leo S. Olshki, 2001. Zotti Minici C.A., Dispositivi ottici alle origini del cinema. Immaginario scientifico e spettacolare nel XVII e XVIII secolo, Bologna, CLUEB, 1998.

Saggi e articoli. AA.VV, Urban Screen: Discovering the potential of outdoor screens for urban society, in Firstmonday.Org, Special Issue n° 4, 2006. Altarelli L., Luci della città. Dall'Eden elettrico del moderno all'Eden elettronico della contemporaneità, in Luce, Marzo 2009. Avantaggiato L. , MultiBeckett. Samuel Beckett tra vecchi e nuovi media, in “Biblioteca teatrale”, n. 81-82, 2007. Baugh C, Carver G., Fergusson, C. Gordon Craig and improvements in stage scenery, in “Scenography International” n. 1 Colini L., Tripodi L., Urban Screens, in Digimag.it n° 27, Marzo 2007. Crossing: architettura e tecnologie, n°1, Dic. 2000, numero monografico Media Buildings. Innes C., Gordon Craig in the Multimedia Postmodern World, in www.moderndrama.ca Mancuso M., Meta design, spazi liquidi e le città di domani, in www. Digimag.it n° 29, Novembre 2007. McQuire S, Papastergiadis N, Cubitt S., Public Screens and Transformation of PublicSspace, in www.refractory.org, Marzo 2008. Monteverdi A.M., La scena trasformista di Lepage, in “Teatro e storia”, n. 25, Bulzoni, Roma Oddo F., Nuove prospettive di comunicazione nello scenario urbano, in www.Architecture.it, v. 4.2. Schielke T., Facciate mediatiche. Quando gli edifici cominciano a twittare, in Digimag.it n° 61, Febbraio 2001.

61


62

Somaini A., Disciplina e antidisciplina. Forme mediali della sorveglianza nell'arte contemporanea, in Comunicazioni Sociali, n.3 (2009), numero monografico Traccia, a cura di F. Casetti. Verschuren, K., William Kentridge: Complexity and intimacy. Redefining political art in the South African late- and post-apartheid context, www.creativeafricanetwork.com

62


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.