Memorie di una prostituta
Anne Smith
Prima edizione italiana, settobre 2012 Prima edizione spagnola, agosto 2011 Secondaedizione spagnola, aprile 2012 © Anne Smith, 2011, 2012 © In questa edizione, SEPHA Edición y Diseño, SL., 2012 Biedmas, 4 29008 Málaga www.editorialsepha.com pedidos@editorialsepha.com Raccolta: Anécdota Direttore editoriale: Gonzalo Sichar Moreno Traduttori: Yara Nicolini e AlessandroLepri Correzione: TizianaLaccarino Collaborazione: Associazione OLTRECONFINE onlus, ci occupiamo di vittimedellatratta e dellosfruttamentosessuale, in Provincia di Varese e nellezone di Monza-Brianza, Como, Varese e Legnano. Ogni forma di riproduzione, distribuzione, comunicazione pubblica o la trasformazione di questo lavoro può essere fatta solo con il consenso dei loro proprietari, salvo esentati dalla legge. Vai a CEDRO (Centro Español de Derechos Reprográficos, www.cedro.org) se avetebisogno di fotocopia o scansione di un frammento di questo lavoro. Questo libro è stato stampato e seguenti regolamenti: UNE - EN - ISO - 14001 di gestione ambientale UNE - EN - ISO - 9001 di gestione dellaqualità ISBN: 978-84-939927-2-9 Depósito legal: MA 443-2012 Stampa Asociación Pro Personas con Discapacidad Intelectual Printed in Spain – Stampato in Spagna
A Laura e Moreno.
PREFAZIONE “Non auguro a nessuna donna di vivere ciò che io ho vissuto, passare attraverso quello per cui son passata io. Chiedo a Dio di proteggere le donne che continuano a esercitare la prostituzione. Ai politici, che regolarizzino il lavoro più antico del mondo così che queste donne possano esistere per la legge e avere i propri diritti… Alla società chiedo di essere meno ipocrita perché abbiamo tutti figlie, madri, sorelle: che la gente smetta di vedere le prostitute come animali, come una malattia, come un’anomalia sociale… Alle madri chiedo di educare meglio i propri figli ed insegnare loro a rispettare una donna fin da piccoli, per il semplice fatto che una donna ha il dono del miracolo supremo, il dono di poter dare la vita.” Nel libro Memorie di una prostituta la scrittrice Anne Smith presenta la storia di Anastasia, giovane donna brasiliana dal passato difficile, che a malincuore parte per la Spagna per lavorare come prostituta nel tentativo di dare un futuro ai propri figli. Le vicende di Anastasia si susseguono in un’escalation di deperimento e abnegazione del corpo costretto a sopportare violenze indicibili e dell’anima sotterrata da umiliazioni e insulti perpetrati dai clienti dei night club in cui la donna lavora. Proprio quegli uomini che nella società bene - altra da quella in cui vengono relegate le prostitute - si mostrano come mariti e padri perfetti ma in verità sfogano perversioni e stress su delle donne considerate solo merce. Quegli stessi uomini - spagnoli, francesi, italiani - che nei loro governi neppure contemplano la possibilità di tutelare queste donne e il loro lavoro. Il libro di Anne Smith è anche questo: un potente grido d’accusa e denuncia contro i governi del Primo Mondo che tanto si ritengono all’avanguardia ma che mancano di sensibilità e cura dell’essere umano, che marciscono nell’ignoranza e nei pregiudizi. Una voce fuori dal coro di falso perbenismo che urla le verità celate e mai dette sulla prostituzione. Memorie di una prostituta è anche un percorso di vita, un dialogo continuo con il proprio essere più profondo, con la propria situazione di donna come elemento della moderna e riprovevole tratta di donne dai Paesi del Terzo Mondo. Un percorso metaforicamente rappresentato dal cammino di Santiago, affrontato dalla protagonista per riappacificarsi con se stessa e con il mondo. In questo continuo avvicendarsi di fatti e pensieri vengono affrontati temi più che mai importanti quali il razzismo, ancora oggi purtroppo ampiamente diffuso; l’immigrazione clandestina, della quale in realtà non si conosce molto e bene e che piega i clandestini sotto il peso dell’ansia e della paura di essere rimandati in patria senza aver fatto niente di male e senza aver guadagnato nulla per le proprie famiglie; il rapporto con gli uomini occidentali che si dimostrano distaccati e calcolatori, incapaci di considerare una persona per ciò che è e non per ciò che fa per guadagnarsi da vivere; il legame con un Dio tanto adorato quanto assente che non mostra la sua presenza né il suo sostegno quando ve n’è più bisogno; la grande considerazione per la famiglia in ogni sua forma, per gli affetti sinceri che purtroppo vengono a mancare per chi svolge un mestiere definito moralmente discutibile. Molto interessante è anche leggere della cultura brasiliana di cui le pagine del libro sono impregnate e immedesimarsi nel modo di pensare di persone provenienti da differenti parti del mondo; conoscere le implicazioni magiche di tradizioni tanto antiche quanto affascinanti. Il mondo della prostituzione appare per ciò che: intriso di rapporti multietnici dove vigono leggi mafiose e regole non scritte, ben lontano da quello che si mostra alla luce del sole, un mondo
sepolto nella vergogna da coloro che si ostentano artefici dei beni dell’umanità quali la Chiesa e le istituzioni. La cosa che fa più male è che la storia di Anastasia è ispirata a fatti realmente accaduti per cui non si potrà dire che sia esagerata o non veritiera, che non rispecchi i sentimenti e gli stati d’animo di molte donne che soffrono in silenzio e muoiono nell’ombra sommerse dalla depressione, dall’alcol e dalle droghe utilizzate per sopportare le violenze. Un continuo circolo vizioso che come dice l’autrice non ha nulla del vivere quanto piuttosto è un “morire a poco a poco”. Memorie di una prostituta rappresenta la voce di queste donne raccolta da chi ha conosciuto il loro mondo e si assume la responsabilità e il coraggio di denunciare ogni cosa al mondo, all’opinione pubblica, affinché tutti possano “vedere” e “sentire”, affinché non vi sia più la giustificazione io non lo sapevo. Ilaria Goffredo
RINGRAZIAMENTI
Il cammino che ho percorso è stato interminabile, triste e pericoloso, ho conosciuto persone di tutte le classi sociali, dai diversi profili psicologici, ognuna con le sue paure, i suoi traumi e le sue tare psicologiche… molti ancora non sapevano che le loro anime si erano perse nell’orizzonte. Ho imparato a non giudicare nessuno, perché non tutti hanno la capacità di raziocinio e di vedere le stesse cose come noi le vediamo. Esistono persone che hanno il dono della forza e dell’autosuperamento ed esistono persone che sono totalmente fragili… Sono orgogliosa di me stessa per avere incrociato queste terre difficili e strane della prostituzione ed esserne uscita senza lasciarmi corrompere dalle droghe, dalla lussuria e dall’invidia. La mia anima è rimasta intatta, i miei valori e i miei principi non sono cambiati, al contrario si sono rinforzati. E’ più importante saper uscire, che entrare in questo piccolo e meschino mondo quale quello della prostituzione. Ringrazio tutti coloro che hanno incrociato il mio cammino. Se mi hanno portato esperienze buone o cattive non importa, perché mi hanno lasciata più forte, ed ogni volta che sono caduta mi sono rialzata, una volta ed un’altra ancora… A tutti coloro che mi hanno teso una mano: può essere che non si ricordino più di me, ma io sì, mi ricordo di loro e li porto nel cuore. Ai miei figli, che mi hanno tenuto sulla buona strada; “loro non sanno la verità, ma per fare del bene non è necessario sapere”. A mia madre che dopo tutto, è diventata il mio braccio destro. Non è mai tardi per tornare a cominciare; la cosa più bella in un essere umano è la capacità di pensare, ricominciare, perdonare, cominciare, io chiamo ciò risurrezione. Ho imparato e conosciuto la parola risurrezione, in questo cammino sono morta e resuscitata più di un milione di volte. Un ringraziamento speciale alla scrittrice Isabel Pisano, che mi ha ispirata ed incentivata a pubblicare questo libro, la porto nel cuore. Molte volte ho creduto di non essere degna di parlare con Dio in quanto prostituta, provavo vergogna nel voler volgermi verso di Lui, mille volte ho chiesto perdono, mille volte ho ringraziato la sua protezione, più di mille volte mi sono inchinata di fronte a Lui abbassando la mia testa. Dedico questo libro a tutte le Maddalene che sono nel mondo e l’unica cosa che chiedo a Dio è che le protegga, le benedica, e che guardi i loro figli, perché è ciò di più prezioso che hanno al mondo e ciò per cui danno il sangue.
EQUILIBRIO Sono la luce, sono l’oscurità. Sono la vita e la morte. Sono il soffio della speranza. Sono la madre, la sorella, sono la figlia. Sono la lama che taglia, sono quella che dà la vita. Sono la strega, la pagana…Sono la Santa. Sono quella che ama. Sono la padrona di tutta la tenerezza. Sono la signora di tutta la seduzione. Sono la dea della bellezza. Sono quella che ti abbraccia. Sono quella che ti toglie dal giudizio. Sono quella che ti dà il cielo. Sono la prostituta. Sono il profano ed il sacro. Sono le migliaia di Maria. Sono le migliaia di Maddalena. Sono quella che asciuga le tue lacrime. Sono comprensione. Sono la dolcezza e l’equilibrio del mondo. Sono un porto sicuro. Sono la forza della natura. Sono una donna.
19 settembre 2000
Quando ero una bambina desideravo essere la Donna Meraviglia per salvare le persone, dopo ho desiderato essere un buona avvocatessa per poter fare giustizia, ho desiderato di proseguire come ballerina, ho voluto studiare teatro e ho sognato Hollywood, ho sognato di essere la moglie di Superman. Ho sognato una vita tranquilla e normale, un’infanzia felice e un’adolescenza magica, un marito e dei figli. Ho sognato di essere una madre meravigliosa. Sogni normali di bambine normali. Questi sogni erano così reali, avevano sentimenti, odori, colori, suoni e sensazioni così forti che sembrava impossibile che i miei desideri non si realizzassero. Ma nella vita succedono cose che non si è in grado di controllare, sono fattori esterni che non so come chiamare: se casualità o destino. Abbiamo molte strade da scegliere lungo tutta la nostra vita, ma arriva sempre un momento in cui esiste solo una scelta, e tornare indietro è impossibile perché non c’è più niente e proseguire, andare incontro all’ignoto, non ci spaventa quando non abbiamo più niente da perdere. Era un giorno piovoso, grigio e freddo, ma io non sapevo cos’era più freddo: se il tempo o la mia anima che si perdeva nell’incertezza di un futuro scuro e sconosciuto. Non pensavo, agivo soltanto. Era tutto così confuso e così limpido allo stesso tempo, un vuoto, una sensazione di esistere e non esistere. Un respirare profondamente senza guardare indietro. Era così, come mi sentivo. Quella mattina mi svegliai, mangiai ciò che era avanzato dal giorno prima e lasciai le chiavi a Lia, la ragazza con cui dividevo l’appartamento. Dovevo uscire di corsa per andare in banca a pagare le tasse e andare alla polizia per fare il passaporto. La banca apriva alle 10:00 e alle 11:30 avrei mangiato con i miei figli per salutarli, il passaporto sarebbe stato pronto alle 13:00 e l’aereo partiva alle 14:30. L’aeroporto era lontano, dall’altra parte della città. La valigia era già pronta, dato che non avevo molte cose da sistemare. Non avevo molto da portare. Le cose più importanti da portare erano i miei ricordi, ma i ricordi non occupano spazio. Feci tutto ciò che avevo da fare e mi recai al centro commerciale dove avrei incontrato i miei figli. Yuri aveva 7 anni e Johann solo 5. Questa è la parte più difficile, i saluti, io non sapevo esattamente cosa stava succedendo e immagino che loro ancor meno. Questa è anche la parte più dolorosa da evocare e scrivere, non mi sono mai dimenticata di questo giorno. Non potevo dir loro quando sarei tornata. Non sapevo nemmeno dove stavo andando ed ancor meno quando sarei tornata. Era un salto nel buio, un atto di disperazione. Ero completamente sola in quel momento della mia vita e immaginavo che questa solitudine mi avrebbe accompagnata per tanti anni. Comprai un palloncino per ognuno, mi ricordo che il colore del cordoncino al braccio di Johann era lilla e molto lungo, lo tagliai e lo legai al suo piccolo polso, il pezzetto avanzato lo legai alla mia borsa ed è rimasto con me fino ad oggi. Passeggiammo un po’ nel centro commerciale e ci sedemmo a mangiare, comprai uno spuntino per ciascuno, delle patatine fritte e una bibita gassata. «Tutto bene?». «Sì, mamma». «E tu, Johann, amore mio?». «Anch’io, mamma».
«È buono lo spuntino?». «Sì, molto. E a Johann piacciono le patatine fritte, mamma!». «Sì, si nota da come le mangia». «E tu, mamma, non mangi niente?». «No, non ho fame». Yuri mi tese le mani per offrirmi alcune patatine. «Mamma, prendi, provale; sono buone queste patatine fritte». «No, grazie Yuri. Mangiale tu, amore mio, che ne hai bisogno per crescere forte, bello e intelligente». La verità è che avevo fame, ma mi mancavano i soldi anche solo per comprare uno spuntino del costo di 5 reais, non avevo soldi nemmeno per prendere il pullman e andare a casa a prendere la valigia ed andare all’aeroporto. Non avevo scelta, avevo perso tutto, anche la cosa più importante: i miei figli vivevano già col padre da cinque mesi. «Mi piacerebbe dirvi qualcosa di molto importante». «Sì, mamma. Riguarda il viaggio, non è vero?». «Sì, riguarda questo. Vorrei spiegarvi perché devo andare così lontano e vorrei chiarire bene che non vi sto abbandonando, che non lo farò mai e mai lo farei, perché vi amo molto, perché siete la ragione della mia esistenza, della mia vita, senza voi io non sono niente. Niente ha senso senza di voi, niente. Le cose qui si sono messe molto male per me, non ho una casa da darvi, non ho niente da offrirvi. Solamente il mio amore, ma ciò non è sufficiente per due bambini che stanno crescendo. Voi avete bisogno di cibo, vestiti, scuola, assistenza sanitaria e io qui non ho ottenuto nulla e non mi sembra che le cose miglioreranno. E’ per questo che vado in Spagna a lavorare e tentare di darvi tutto ciò di cui avete bisogno. So che è lontano e non so quando potrò tornare, ma vi dico che non appena possibile, tornerò, e vi prometto che chiamerò tutte le settimane. Vi amo più di ogni altra cosa». «Anche noi ti amiamo mamma, molto». «Molto quanto?». «Più di tutte le stelle messe insieme nell’universo». «Anch’io… ma vi voglio chiedere una cosa». «Dicci, mamma». «Per favore, prendetevi cura uno dell’altro, amatevi e rispettatevi sempre, perché io sarò lontana e non potrò prendermi cura di voi come vorrei e come una mamma dovrebbe fare. Voglio che ascoltiate e rispettiate vostro padre, i vostri nonni e i vostri zii, che non vi dimentichiate tutto ciò che vi ho insegnato: amare e rispettare le persone. Perché ci guadagniamo sempre quando siamo bravi, anche se sembra che a vincere siano i malvagi, il bene vince sempre; non abbiate vergogna nel dimostrare i sentimenti, nell’abbracciare e dire “ti amo”. Non abbiate vergogna a dire “non lo so”, l’umiltà è una delle cose più belle. Abbiate coraggio di ammettere i vostri errori e tentare di nuovo, non abbiate vergogna di chiedere perdono o scusa. Studiate, apprendete nuove cose, perché ciò che sappiamo, ciò che è dentro la nostra testa, nessuno ce lo può togliere». «Mi piace studiare», disse Yuri. Li guardai con tenerezza, con un’espressione di orgoglio e continuai: «Siate prudenti perché non tutte le persone sono come noi o pensano come noi, esiste anche gente cattiva al mondo, purtroppo è così. Pregate tutte le sere prima di addormentarvi, Dio vi ascolterà e vi proteggerà sempre, pregate per i vostri angeli custodi e ringraziate, perché loro sono come le madri: si prendono sempre cura dei figli. Voglio che siate fieri, giusti e corretti. Non dimenticatevi mai di ringraziare per ogni giorno che è passato, brutto o bello che sia, perché sempre si impara
qualcosa. Ascoltate sempre i vostri cuori: non si sbaglia mai. Sarò lontana ma voglio che sappiate che la distanza separa due corpi ma non due anime; per questo sappiate che il mio cuore e la mia anima saranno sempre qui con voi». La maggioranza delle persone sottostima l’intelligenza dei bambini e crede che non siano capaci di capire le cose, sbagliando. I bambini sono sensibili e capaci tanto quanto noi. Ho sempre avuto con loro dialoghi maturi, dando loro esempi adatti al loro livello di comprensione, ho sempre amato e rispettato i miei figli, sono sempre stata contraria all’educazione rigida, punitiva e severa. Ho imparato molto con loro e la preoccupazione più grande era il danno che avrebbe potuto provocare la mia assenza nelle loro vite, avevo paura di parlare da madre. «Anche noi saremo con te, mamma, e ti ameremo sempre». «Lo so». «E non preoccuparti, mamma, mi prenderò cura di Johann e lui di me, non mi scorderò tutto ciò che ci hai insegnato». «Si è fatto tardi, il papà è già arrivato e dobbiamo andare; i fine settimana che passavate con me ora li passerete con lo zio Riccardo, va bene?». «Sì, mamma, buona idea». Yuri è sempre stato più chiacchierone, molto maturo per la sua età. Johann era più calmo: aveva il carattere di mia nonna, parlava poco, ma quando parlava… Era intelligente, diretto e rigido. Ricordo i suoi sguardi, che mi facevano capire quanto il suo cuore sapesse ciò che stava per accadere e la difficoltà di questa separazione, avevo un nodo in gola. Dopo dieci anni, mentre scrivo questa storia sento ancora lo stesso nodo in gola che mi stringe. Non volevo che i miei figli perdessero il contatto ed il calore umano della nostra famiglia, per me questo era molto importante, perché la famiglia del mio ex marito è tedesca; sono freddi e calcolatori. Non volevo che i miei figli fossero educati da questo tipo di persona, che sembrano vivere in un altro pianeta, distanti da tutto ciò che è il calore umano, l’umiltà, la solidarietà, l’amore e la semplicità brasiliana che capisce solo chi ci è stato. Erano brave persone, responsabili, lavoratori e studiosi, ma mancavano le due cose principali: il calore umano e la sensibilità. Salimmo in macchina, chiesi al mio ex marito di portarmi fino a casa di mia madre, perché ero già in ritardo. «Grazie, Hans, per avermi dato un passaggio e per prenderti cura dei ragazzi, appena posso li chiamerò». «Va bene, buon viaggio». «Grazie; e voi, non dimenticatevi di ascoltare il papà, di obbedire, di lavarvi i denti e di pregare tutte le notti prima di andare a nanna. Vi amo». Li abbracciai e dissi loro che li amavo come facevo sempre, ma in quel momento era diverso. Mentre li abbracciavo, mi sentivo in un’altra dimensione, era come se in quel momento non esistesse nient’altro, solamente noi, che diventammo una cosa sola. Rimasi a guardare la macchina finché scomparve, le lacrime scendevano sul mio volto involontariamente. Adesso era tutto o niente. Presi il cellulare e chiamai Val, avevo lasciato alcune cose da lei da portare, perché dove stavo vivendo non c’era modo di lavarsi o cucinare: la verità è che non c’era niente, dormivo per terra su un vecchio materasso, che era l’unica comodità nei due metri quadri dove vivevo, non avevo nemmeno la luce. Lia, l’altra ragazza, aveva portato con sé le chiavi nel caso fosse arrivata prima di me, ma non era ancora arrivata e non potevo entrare per cambiarmi i vestiti. «Val, dove sei?». «A casa, solo che le tue cose non si sono asciugate bene».
«Ma non posso più aspettare, devo prenderle con il passaporto e andare all’aeroporto». «Non so se arriverai in tempo». «Devo rompere la finestra per prendere la valigia, ho lasciato il telefono dentro, fammi il favore di consegnare chiavi e cellulare a mia madre». «Sì, lo faccio, tranquilla, ma chi ti porta all’aeroporto?». «Walmor, il marito di Silvia, non ho nessun altro da chiamare e non ho soldi per il taxi». «Sì, ma chiamalo adesso!». «Sì, lo chiamo adesso…Che il Signore sia con te». «Prenditi cura di te e non dimenticarti di farci avere tue notizie». Silvia era la proprietaria del night club dove lavoravo come stripper e dove ho abitato per un po’ di tempo, perché non sapevo dove andare. Erano molto bravi con me, quando non avevo un posto dove vivere, mi lasciavano dormire e mangiare lì. Lavoravo tutte le notti tranne la domenica, lì rincontrai Val e conobbi Lia e anche Sabrina. Lia veniva chiamata “madre natura” perché amava gli animali. Un giorno comparve con un gatto malato, un’altra volta con un criceto… Silvia era molto brava, lasciava che Lia rimanesse con gli animali, sembrava più una casa d’accoglienza. Val era stata mia alunna: insegnavo educazione fisica nel 1994. Penso che molte ragazze finiscano nel mondo della prostituzione, perché non hanno dove andare: la maggioranza non ha una famiglia e quelle che ce l’hanno è come se non l’avessero. Non so… molte volte penso che esistano delle comunità naturali che non possono essere chiamate famiglie, è un peccato che sia così. Quelle che non sanno ballare come me, non hanno altra possibilità. Lasciai due università perché non potevo permettermi di pagarle, è una cosa molto triste e la maggior parte di queste ragazze sa appena leggere e scrivere. Già è difficile avendo studiato, immaginatevi senza. In un Paese con duecento milioni di abitanti dove il ventinove per cento della popolazione è analfabeta, dove i politici guadagnano più dei parlamentari dell’Unione Europea e dei diciassette Paesi, incluso quelli del G8 (Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Canada e Russia), questo è veramente una vergogna. Un Paese con così tante risorse naturali vive una diseguaglianza enorme, dove lo stipendio base di un lavoratore è fra i più bassi del mondo. «Ciao Silvia, sono io, Anastasia». «Sì, dimmi, come stai? Sei pronta?». «Sì, ma ho bisogno di aiuto. Tuo marito può farmi il favore di portarmi all’aeroporto? Non so come raggiungerlo e devo ancora passare in polizia a prendere il passaporto». «A che ora hai il volo?». «Alle 14.30». «Ma sei in ritardo, è già l’una e l’aeroporto è lontano». «Si, lo so». «Preparati che sta arrivando». «Grazie, mille grazie». «Non c’è di che, prenditi cura di te e fai buon viaggio. Se hai bisogno di qualcosa, sappi che siamo qui. Che il Signore sia con te». «Grazie, grazie mille. Che Dio ti benedica». Ruppi la finestra, entrai e mi cambiai i vestiti, presi la valigia: la mia amica non era arrivata in tempo. Solo Dio sapeva quando avrei rivisto i miei figli, la mia famiglia e le mie amiche. Ci fermammo in polizia e presi il passaporto, ci dirigemmo verso l’aeroporto ed arrivai appena in tempo. Salutai Walmor e lo ringraziai del favore. Lì conobbi la ragazza che avrebbe viaggiato
con me, si chiamava Karina ed era in compagnia di Sonia, che era colei che reclutava le ragazze e le mandava in Spagna. «Ciao, sei Sonia? Sono Anastasia». «Sì, sono io. Pensavo non venissi, ero già preoccupata». «Ho avuto complicazioni, ho appena ritirato il passaporto». «Guardate, questi sono i dollari per poter passare. Lei è Karina, e viaggerà con te». «Ciao, come va? Sono Anastasia». «Piacere. Sono un po’ in ansia per l’aereo, non ci sono mai salita prima d’ora. Ho un po’ di paura». «Karina ha i numeri da chiamare quando arriverete a Barcellona. Non restate molto in aeroporto, quando arriverete ci sarà un uomo ad aspettarvi, chiamate i numeri che vi ho lasciato: se al primo non risponde nessuno tentate l’altro, quello di Sabrina; se la polizia vi chiede qualcosa, dite che state andando a trovare un’amica che ha appena partorito. Passate separate attraverso i controlli, ognuna per un passaggio diverso, affinché non sospettino niente». «D’accordo. E dove andremo?», chiese Karina. «Non lo so, loro hanno tanti Night». «Perché io voglio andare dove sta Sabrina, e tu Anastasia?». «Anch’io». «Sonia, come sta Sabrina?» «Sta bene. Sta guadagnando tanto. E’ contenta». «Adesso andate che il volo parte tra poco. Non dimenticatevi: dovrete fare due scali, prima a San Paolo e poi a Parigi». «A Parigi?». «Sì, perché di là è più facile passare. La polizia francese non controlla molto». «Ciao Sonia». «Ciao, abbiate cura di voi e buona fortuna». «Grazie». Karina e io ci imbarcammo, occupammo i nostri posti, lei sembrava molto nervosa mentre io ero anestetizzata. La polizia francese aveva la fama di essere più blanda con chi passava di lì solo per uno scalo e con destinazione ad un altro Paese. Questo era un trucco e dato che i tedeschi, i portoghesi e gli inglesi erano più severi, si passava per Parigi. Non avevo avuto ancora il tempo per pensare a tutto ciò che stava succedendo, non sapevo nemmeno la città dove sarei finita e nemmeno se era vero che Sabrina stesse bene. Era partita più o meno da quattro mesi per la Spagna, l’avevo conosciuta qualche mese prima, forse due. Prima di partire mi disse che, se avessi voluto un buon posto dove lavorare, mi avrebbe raccomandata ad un’amica e mi diede il numero di Sonia. Io non ho più avuto sue notizie. Un giorno chiamai questa donna, Sonia, per sapere qualcosa di Sabrina. Seppi che stava bene e guadagnava parecchi soldi. Mi chiese chi fossi, risposi che ero una sua amica e mi chiese se ero io ad aver detto a Sabrina che volevo andare in Spagna, risposi di sì. Mi chiese quando mi sarebbe piaciuto partire e le risposi che avrei accettato il prima possibile, volle sapere il mio nome completo e mi disse di richiamare la settimana seguente, così feci. Ma al momento di chiamare per sapere quando sarebbe stato pronto il biglietto, mi disse che era già stato comprato e avrei viaggiato due giorni dopo. Pensavo che ci avrebbe messo un po’ di più, un mese più o meno, non immaginavo che sarebbe stato tutto così rapido. Non ebbi tempo per pensare, mi ci buttai, non avevo niente da perdere in quel momento.
«Ciao Sonia, sono Anastasia, come stai?». «Ho già chiamato e parlato con loro, ho già il biglietto in mano, parto tra due giorni». «Ma come? Se ancora non hai il passaporto e nemmeno i soldi per farlo!». «Non si riesce in qualche modo?». «Non so, non credo. Si può cambiare la data del volo per lunedì?». «Può darsi». «Così avrei il tempo di fare il passaporto e parlare alla mia famiglia». «Chiamami domani per confermare la data del cambio». «Ok, domani ti chiamo, grazie». Io non guadagnavo molto ballando, i giorni in cui non c’era gente non si ballava e, di conseguenza, non mi pagavano. E l’unica cosa che mi restava da fare, a parte ballare, era bere qualcosa coi clienti. Feci amicizia con un signore molto gentile, per caso. Lavorava nella segreteria di Educazione dello Stato ed era l’ex marito della direttrice di una scuola in cui mia madre aveva insegnato. Mia madre fu licenziata dal lavoro, perché considerata inadatta psicologicamente e fu messa in pensione, era una grande educatrice. Si preoccupava per i suoi alunni. Ebbi molti fratellastri, che non erano di sangue, erano gli alunni che mia madre portava a casa perché i genitori erano così poveri da non potersi prender cura di loro, noi non eravamo ricchi ma, col poco che avevamo, cercavamo di aiutare gli altri. Mia madre diceva sempre “nessuno è così povero da non avere niente da dare”. Ho dovuto raccontare il perché ero finita lì, lui conosceva la mia famiglia e sapeva che avevo studiato. Rimanemmo d’accordo che sarebbe tornato quella settimana per andare a pranzo assieme, gli avevo raccontato della possibilità di partire, mi disse che mi avrebbe aiutato coi documenti, dato che erano cari. Per quanto riguarda la mia famiglia, non pensavo di parlargliene, perché non avevano soldi da darmi. Non avevo nessuno, mi restava solo che pregare ed aspettare l’arrivo di Sergio, che mi chiamò per dirmi che quella notte non poteva passare e che sarebbe arrivato giusto il giorno prima della mia partenza. Quei giorni furono molto strani, tentai di passare la maggior parte del tempo con i miei figli, ma era difficile, dato che dove vivevo non c’era la luce, il gas e nemmeno il frigorifero, era impossibile starci con due bambini piccoli. Dovetti chiedere ad una zia che mi lasciasse stare da lei durante i fine settimana. Mi spostavo a piedi per risparmiare. Mia madre non voleva più vedermi dopo aver saputo che io facevo streaptease. I miei fratelli vivevano ognuno per conto proprio. Mio fratello andò a vivere con la sua fidanzata. Mia sorella viveva a casa di sua nonna con la figlia piccola di appena quattro anni. Non avevo nessun posto dove andare perché mio padre non era il mio padre biologico, e nonostante mi avesse cresciuta da quando avevo due anni, in fondo non mi aveva mai accettata come un membro della famiglia; i legami di sangue contano molto più degli anni di convivenza, e in questi momenti a loro non importa se li hai aiutati o se per te loro sono la tua unica famiglia. Mi sentivo sola, una estranea dentro la mia famiglia. «Anastasia». «Sì, dimmi mamma». «Ieri ti ho vista camminare per la strada, in centro». «Sì, verso dove?». «Quando stavi andando a lezione di informatica». «Sì, dopo il lavoro». «Camminavi per strada come se non avessi nessuno al mondo». «E’ così che mi sento, qui in casa e dovunque vada».
Mia madre sapeva di cosa stessi parlando, ma non fece mai niente per cambiare questa situazione o per aiutarmi ad uscire da quella prigione in cui ero finita. Non mi sono mai sentita parte della famiglia, mi sono sentita sempre sola e ho sopportato molte cose senza aver nessuno su cui appoggiarmi o che mi ascoltasse. Ed è per questo che ancor oggi mi risulta difficile parlare dei miei sentimenti o chiedere aiuto, mi sono abituata a stare da sola e a far tutto da sola. Ho avuto poche amiche a cui non ho mai raccontato dei miei problemi. Prima di entrare nel mondo della prostituzione si potevano contare sulle dita di una mano gli uomini con cui ero andata a letto. La famiglia si era rotta con la separazione dei miei genitori, eravamo tutti distrutti psicologicamente ed economicamente, perché mio padre aveva lasciato a mia madre dei debiti enormi. Fu duro per noi, più duro di qualunque altra separazione, per il modo in cui si lasciarono: lui la lasciò per l’ex fidanzata di mio fratello, di suo figlio. Non so cosa sia passato per la testa ed il cuore di mio fratello, ma immagino la sua sofferenza ed il suo disgusto e visto che io, mia madre e mia sorella eravamo distrutte, immagino che lui si sentisse mille volte peggio. Facevano venticinque anni di matrimonio… si ruppe tutto: la famiglia, i cuori, i beni, tutto... la casa in cui eravamo cresciuti non ci apparteneva più, ma i nostri ricordi sì, e questo nessuno ce li poteva togliere. Riaprimmo la floricoltura di mia madre per tentare di uscire dai problemi economici, ma le cose non andarono bene: i fiori sono prodotti deperibili ed è facile andare in perdita. L’unica cosa che ci riuscì fu di accumulare più debiti. Lavorai come domestica, cuoca in un ristorante, insegnante di ginnastica in una palestra e di danza. Feci di tutto e non riuscii ad ottenere un posto come professoressa, tutte le porte si chiusero e l’unica cosa che mi rimase era ballare come stripper... Questo fu il mio biglietto per la Spagna… così sono finita dentro quell’aereo. «Karina, come stai?». «Male, Anastasia, ho la nausea». «Tranquilla, passerà». «Chiederò un bicchiere di vino, così mi calmo». «Calmare non lo so, ubriacarti di sicuro». «Con una o due di queste bottigliette di vino, non ci credo». «Io sì che ci credo perché, non so se lo sai, bere due bottigliette di vino dentro l’aereo equivale a quattro, perciò stai attenta». «E’ vero?». «Sì che lo è». «Non lo sapevo». «Adesso lo sai; credo che stiamo atterrando a San Paolo». «Sì è vero, saranno quarantacinque minuti che siamo in volo». «Questo è stato veloce, ma credo che il prossimo ci sembrerà un’eternità». Facemmo scalo a San Paolo, eravamo nervose all’idea di dover passare i controlli; Karina mi tormentava con la preoccupazione di perdere le valigie. Facemmo il check-in, passammo i controlli della polizia federale senza alcun problema, grazie a Dio salimmo sull’aereo e ci sedemmo. Cercavamo di parlare poco, perché c’erano molti nostri connazionali; quando parlavamo di argomenti legati al club, lo facevamo a bassa voce. «Karina, sei mai riuscita a parlare con Sabrina?». «Sì, due volte. Mi disse che lei e Natalia, la bionda che è partita con lei, stavano bene». «Ah sì, mi ricordo di aver visto Natalia». «Mi ha detto che stanno in un club molto bello vicino alla spiaggia».
«Anastasia, tu vai per ballare, giusto?». «Sì, mi piace ballare, ma là a Blumenau non c’è più niente da fare». «Ti capisco perfettamente… disperazione…». «Sì, disperazione… lasciare i nostri figli è l’ultima cosa». «Io ho un figlio e una figlia, ma mio figlio praticamente non è più mio». «In che senso?». «L’ha cresciuto mia sorella fin da piccolo, lui la chiama “mamma”». «Mi spiace Karina... davvero». «Non ti preoccupare, ci sono abituata». Non sapevo cosa passava per la testa di Karina, ma sentivo dalla sua voce che di suo figlio piccolo non le importava più tanto, e ciò è molto triste. Io non potrei tenere un figlio con me ed un altro lasciarlo a chiunque sia, mi farebbe troppo male, non dormirei in pace, i miei figli sono la cosa più importante per me e la cosa più bella della mia vita, due figli meravigliosi dal carattere dolce, educati, amabili e buoni di cuore. Nonostante la loro età, avevano già capito il concetto di giustizia dentro il loro mondo, dentro il loro livello di comprensione, che era molto grande. Abbiamo il difetto di sottostimare la capacità dei bambini quando si tratta di capacità di raziocinio, analizzare e tirare conclusioni. Mi son sempre preoccupata di dar loro una buona educazione, ma non con l’intenzione di volermi sentire dire dalle persone: guardali! Che belli! Come sono educati! No: li ho educati per l’amore che nutro per loro, affinché imparassero a vivere in società, e non soffrissero le conseguenze di una cattiva educazione impartita loro dal loro padre e da me. Per lo meno, in termini di educazione, Hans e io la pensavamo uguale, grazie a Dio! Perché altrimenti avremmo potuto far impazzire i nostri figli e non lo volevamo. Prima di tutto venivano loro e poi le nostre differenze. Ho sempre rispettato i bambini, mi è sempre piaciuto ascoltarli. Sono incredibili, un universo molto particolare, speciale, pietre preziose da affinare con tutto l’amore, il rispetto, l’affetto… educare è sinonimo di amare. «Anastasia, ti piacciono i bambini?». «Sì, molto, ho lavorato diversi anni per i bambini ed ho imparato tanto da loro e con loro». «Sei insegnante?». «Sì, di educazione speciale, ho cominciato a sedici anni, ho vinto un concorso. I miei genitori hanno dovuto firmare un’autorizzazione perché io potessi lavorare». «Ma perché?» «Erano bambini con problemi psicologici, ragazzi delle periferie, delinquenti». «Ma questo è molto duro». «Sì, è duro e difficile. Sono finita a fare una terapia con uno psicologo e prendere antidepressivi e ansiolitici». «Mio Dio, non farei mai un lavoro del genere, per fare questa fine poi?». «E’ un dono, è amore… Diversamente, non vale la pena né per te né per i bambini». «Sono preoccupata». «Di cosa?». «Sono preoccupata per le mie valigie, e se le perdono?» «Non credo. Sebbene a mio padre persero la valigia in uno dei suoi viaggi, proprio quella con dentro i regali». «Visto? Non te l’ho detto?» «Tranquilla, arriveremo sane e salve e le valigie saranno lì ad attenderci». Pranzammo, scambiammo quattro chiacchiere e dormimmo. Io non avevo alcuna
aspettativa, era come se fossi sospesa nel tempo; una sensazione che rivivo in questo momento ma, così, è difficile da descrivere; per chi non aveva niente da perdere era normale sentirsi così. Era l’unica porta in quel momento, l’unica speranza di una vita migliore che mi permettesse di stare vicino ai miei figli di nuovo e poter offrire loro qualcosa. In passato, io e la mia famiglia avevamo avuto problemi economici, ma non ho mai immaginato di arrivare al punto di non avere assolutamente nulla da offrire. L’unica cosa che avevo erano vestiti vecchi e la mia fede… non avevo nemmeno più i miei figli… questo era molto triste, un vero incubo, non avere nemmeno da mangiare. Oggi vedo che ciò che ho fatto è stato un atto di disperazione, non sapevo nemmeno il nome della città dove sarei andata, non conoscevo nessuno a cui dire “ho un’amica che mi aspetta”, non sapevo niente, era come entrare in una stanza buia senza conoscerla. Finalmente arrivammo a Parigi, annunciarono che mancavano solo pochi minuti all’atterraggio. «Anastasia, hai sentito la turbolenza?». «No, non ho sentito niente». «Per Dio, hai dormito come un sasso». «Ero troppo stanca, erano giorni che non dormivo. Cosa vuoi che faccia? Se l’aereo cade, cade e punto». «Hai ragione, ma io sono quasi morta di paura… mi è quasi venuto un infarto». «E’ finito. Adesso manca solo uno scalo; perciò cerca di star tranquilla», sorrisi. «Tu ridi, io giuro che non torno in Brasile prima di cinque anni». «Stai scherzando? E i tuoi figli?». «Non sto scherzando… non moriranno se per cinque anni non mi vedono». «Per favore, Karina, io sì che muoio se sto lontana da loro. Ancora non ci credo che li ho lasciati lì, ma ti giuro che alla prima opportunità tornerò a vederli». Facemmo colazione, atterrammo a Parigi più o meno con un’ora di ritardo. Perdemmo l’aereo per Barcellona. L’aeroporto Charles de Gaulle è enorme, non sapevo nemmeno una parola di Francese e tanto meno Karina. Quando arrivammo, vedemmo un ufficiale che parlava Portoghese e portava uno stemma con la bandiera del Brasile. Rimasi stupita dalla buona organizzazione della Air France. Riprogrammarono il nostro volo alle otto di sera. Passammo praticamente tutto il giorno in aeroporto, camminando e guardando le vetrine. Era tutto bello. Eravamo stanche del viaggio. Finalmente prendemmo il volo per Barcellona. Più passava il tempo e si avvicinava l’ora dell’arrivo, più diventavo nervosa. Atterrammo infine a Barcellona. Andammo a recuperare i bagagli. «Ah! Guarda Anastasia! La mia valigia! Grazie al cielo!». «Sì, ma non vedo la mia. Tu che eri così preoccupata! La tua valigia è qui e la mia sembra si sia persa». «Cosa fai adesso?». «Beh, parlare con gli addetti ai bagagli». Parlai con loro con un po’ di difficoltà, ma mi compresero. Diedi loro il numero di telefono di Sabrina per rintracciarmi. Descrissi la valigia e compilai la denuncia ufficiale. Rimasi solo con i vestiti che indossavo e senza soldi; in realtà soldi ne avevo: un real in tasca, che è praticamente come non avere soldi. Ero triste perché conservavo nel bagaglio l’unica foto che avevo portato dei miei figli e di mia nipote, era il mio unico ricordo: una foto in color seppia dei tre insieme, senza camicia, realizzata con una reflex di marca Zenit, vendetti un frigorifero per comprarla e fare il mio primo corso di fotografia. Aveva una buona lente. Quando avevamo la floricoltura a Blumenau, ci occupavamo delle decorazioni floreali nelle chiese per i matrimoni e
io fotografavo le cerimonia e la festa; non ero conosciuta come fotografa ma guadagnavo discretamente ed i miei lavori erano apprezzati. Senza dubbio era difficile competere con i professionisti famosi, che avevano studiato e possedevano strumenti migliori dei miei. Dovetti lasciare la fotografia quando la mia macchina si rovinò e non avevo abbastanza soldi per sostituirla: ero in spiaggia a fotografare Johann seduta sul bagnasciuga, arrivò un’onda che lo travolse, corsi in suo aiuto e la macchina si bagnò; la portai a riparare ma non ci fu nulla da fare. Karina ed io ci dirigemmo verso l’uscita. «Karina, non mi sembra ci sia nessuno ad aspettarci». «Nemmeno a me». «La polizia sta iniziando ad osservaci, comportiamoci come se nulla fosse». «E come? Con che naturalezza? Non sappiamo dove andare!». «Com’era l’uomo che ti ha detto Sabrina? Ti ha fatto una descrizione?». «Sì, ha detto che è magro, vecchio, coi capelli grigiastri e alto». «Ottima descrizione, Karina, qui persino la polizia assomiglia a questa descrizione… E’ meglio chiamare». «Sì, guarda, c’è un telefono pubblico lì». «Ma come funziona? Mi sembra con monete o gettoni, non so». «Non lo so, Anastasia, chiedi a qualcuno». «Aspetta, chiedo a quel signore nell’altra cabina, arrivo». Che confusione. Dovemmo cambiare i dollari con le pesetas, per poi cambiarle in monete e poter chiamare. Non funzionava con gettoni ma con le monete… Alla fine riuscimmo. «Questo è il numero di quel Juan che avrebbe dovuto venire a prenderci. Prova tu, Anastasia, che io non ho il coraggio». «Va bene, ci provo io… non risponde nessuno». «Prova ancora una volta». «Ok, niente. Dammi l’altro numero, quello di Sabrina». «Tieni, è questo». «Sì? Pronto?». «Ciao, sono io Sabrina: Anastasia, la ragazza che è partita con Karina. Ti ricordi di me?». «Sì, mi ricordo ma non sapevo che saresti venuta con lei!». «Siamo venute assieme. Siamo all’aeroporto e non c’è nessuno ad aspettarci… Abbiamo provato a chiamare il numero di questo tale Juan ma non risponde nessuno». «Aspetta un attimo che parlo con Wlad, l’incaricato». «Aspetta! Sabrina, com’è che si chiama la città dove ti trovi?». «Benicassim, una spiaggia molto bella». «Ma vicino a dove?». «Penso al Portogallo». «Portogallo? Ok, vai a parlarci, la polizia ci sta guardando male». «Va bene, non riagganciate». «Va bene, aspettiamo». Aspettammo un po’, poi cadde la linea. Chiamai di nuovo: «Sabrina, hai parlato con lui?». «Si, è che si sono dimenticati che sareste arrivate oggi. Wlad sta tentando di risolvere la questione, dice di richiamare tra dieci minuti». «D’accordo, ti richiamo, a presto. Karina, dobbiamo richiamare tra dieci minuti. Sono
preoccupata, la polizia continua a guardarci. Quest’uomo di cui parlavamo che non è venuto a prenderci… siamo sole qui senza conoscere nessuno e senza soldi». «Abbiamo i dollari». «Sì, ma dobbiamo ridarli». «Non ridarò niente». «Ma sei matta?! Con questa gente non si può scherzare». «Non li temo». «Io sì, e oltretutto posso immaginare quanto ci chiederanno per il biglietto… più del normale». «Sì, hai ragione». «Bene, chiamiamo. Vediamo che succede». «Ciao, Sabrina. Hai parlato con lui?». «Dice che dovrete dormire a Barcellona, a casa di una ragazza russa. Prendete un taxi, avete modo di annotare l’indirizzo?». «Sì, aspetta. Karina, dammi carta e penna». «Tieni». «Dimmi, Sabrina». «Via primavera n. 37°, 3°, 1°». «3° 1°?». «Significa terzo piano, porta uno». «E come si chiama la ragazza?». «Olga. Vi aspetterà sotto casa. Adesso prendete un taxi e uscite in fretta dall’aeroporto». «Ok, adesso ce ne andiamo. Ma dì all’incaricato che vogliamo restare lì dove sei tu. Di non mandarci da un’altra parte». «Ci parlerò. Abbiate cura di voi». «Baci. A domani». «A domani. Sono felice che siate arrivate». «Anche noi. Domani parliamo meglio, baci». Prendemmo un taxi e raggiungemmo Olga. Barcellona mi sembrava cinematografica, con le sue luci gialle e calde, gli edifici antichi. Non ci mettemmo tanto ad arrivare, Olga ci stava aspettando davanti al palazzo. Era alta, magra, coi capelli biondi e corti e occhi azzurri, aveva un sorriso amabile. Pagammo il taxi e scendemmo. «Ciao, sono Anastasia, piacere. Lei è Karina». «Sono Olga, piacere». Ci fece cenno di entrare, salimmo nell’ascensore; l’appartamento era grazioso, non molto grande ma aveva due stanze, una sala da pranzo, la cucina, un’altra sala e il bagno. «Olga, dove lasciamo le valigie?» Ci condusse in camera. «Tu non parli Spagnolo?», chiesi. «No». «Nemmeno noi... Inglese?». «No». «Solo Russo?» «Sì». «Santo Cielo, Karina. Lei non parla nessuna Lingua e nemmeno noi!». «Ci capiremo con la mimica».
«Sì, non ci resta altro da fare». Immaginatevi la situazione. Due brasiliane che non parlavano Spagnolo con una russa che non parlava altro che la sua Lingua. Venni a sapere poi che Olga era arrivata da solo due mesi in Spagna, ma non si era adattata al lavoro. La tolsero dal club e divenne la fidanzata di Juan. Viveva in quell’appartamento, era molto timida, educata, gentile, si vedeva che non poteva essere una prostituta, era troppo fragile. Avrebbe sofferto tanto a fare questo lavoro. Ci preparò tutto: il letto, il cibo, anche nel momento dei saluti ci aspettava con la colazione pronta ed un sorriso meraviglioso. Ci capivamo bene, non era necessario saper parlare la stessa Lingua per essere gentili, amabili ed aiutare il prossimo, tentò di dirmi che il mio nome era russo e io capii; non capiva com’era possibile che una brasiliana avesse un nome russo, era ammirata e felice. «Anastasia». «Si?» «Usciamo un po’?» «Sì, proviamo a chiamare Sabrina per sapere quando ci vengono a prendere». «Sì, ma tu fai attenzione, perché io mi perdo persino dentro una stanza». «Che esagerata che sei». «E’ vero». «Tranquilla, non andiamo lontano, stiamo nelle vicinanze. Ho bisogno di andare in una farmacia per comprare prodotti per l’igiene personale. Per lo meno questo, visto che non ho vestiti e sono senza niente». «Sì, è vero… come farai?». «Non so, quando arriverò al club parlerò con qualcuno che mi aiuti». «Anastasia, qui è tutto vecchio!» «Non è vecchio, è antico». «Non fa differenza… Guarda! Lì c’è un telefono!». «Bene, vado a chiamare e sentire cosa ci dicono». «Ciao Sabrina, come va?» «Stanca, e voi?» «Bene, nonostante tutto. Hanno perso la mia valigia, stiamo andando a comprare alcune cose che mi servono». «Vedete di non spendere tanto, ok?». «Sì, lo so… A che ora hanno detto che ci sarebbero venuti a prendere?». «Mi hanno detto alle 14:00». «Saremo pronte». «Ci vediamo questo pomeriggio. Non vedo l’ora di vedervi. Vi devo raccontare tante cose». «Anche noi. Un bacio, abbi cura di te». «Anche tu». Trovammo una farmacia e comprai uno shampoo ed uno spazzolino da denti. Entrammo in una profumeria e Karina impazzì nel vedere tutti i tipi di profumo in vendita. Dopo entrammo in un negozio di alimentari perché Karina voleva mangiare qualcosa e rimase sbalordita nel vedere in vendita solo cose dolci come i croissants… In Brasile negli alimentari si trova di tutto, cose dolci e salate. Mangiò qualcosa e comprò un profumo abbastanza caro, anche se l’avevo avvisata sul fatto che era superfluo e stavamo usando i dollari che avremmo dovuto ridare da lì a poco, ma lei rispose che non avrebbe ridato né i soldi che vi avevano prestato né quelli avanzati. Notai
che agiva un po’ irresponsabilmente e più tardi ne ebbi la conferma. Molte volte bastano poche ore per capire com’è una persona. Tornammo all’appartamento, visto che non avevamo niente da fare, ma solo aspettare. Olga ci preparò del cibo russo, non mi ricordo come si chiamava, ma era molto buono. Erano le due di pomeriggio e nessuno era ancora arrivato a prenderci. Alle sei del pomeriggio chiamarono al cellulare di Olga per dire che sarebbero arrivati a prenderci di sera, dopo le nove; io ero impaziente e preoccupata. Non avevo vestiti, non sapevo che fine avrei fatto… non sapevo nemmeno se sarei stata ancora una stripper. Senza soldi e senza sapere l’ammontare del debito contratto, era troppo tardi per pentirsi. Finalmente arrivò Juan. «Ciao, come va?». «Bene». «Bene, io sono Juan». «Io sono Anastasia e lei è Karina». «Prendete le vostre cose e andiamo». «Andiamo dove?». «A Benicassim, si trova a Castellón de la Plana». «E’ molto lontano da qui?». «No, tre ora circa in macchina». Salutammo Olga, non avremmo avuto più notizie di lei né l’avremmo più rivista. Prendemmo le nostre cose, entrammo in macchina e partimmo in direzione di Benicassim. «E voi? Non parlate Spagnolo?». «No, ma lo voglio imparare. Capisco, quando parli piano. Tu mi capisci?». «Sì, sono abituato all’accento brasiliano, ormai. Non ti preoccupare». «Grazie». «Molto bene! E tu Karina?». «Io no. Non mi sento obbligata ad imparare una Lingua che non mi piace; sono qui solo per i soldi». «Ma è molto importante saperla per comunicare coi clienti, per capirsi meglio». «Sono loro che si devono sforzare per capirmi; io son qui solo di passaggio». «Karina, tu sei voluta venire qui e sei tenuta ad imparare. Nessuno ti ha rapito da casa per portarti qui», dissi. «No, Anastasia, non sono d’accordo con te». «Ma tu non puoi venire qui ad imporre la tua cultura. Questa è una stupidaggine! Ciò che devi fare è approfittare dell’occasione ed imparare ciò che puoi con loro». «Karina, io sono d’accordo con Anastasia, a parte che siete brasiliane ed il Portoghese assomiglia molto allo Spagnolo, poi io vi capisco perfettamente e voi mi state capendo». «Juan, credi che ci impiegheremo molto ad imparare?». «No, Anastasia, non credo. Con un po’ di volontà imparerete rapidamente». Il viaggio durò più o meno tre ore in macchina, ma a me sembrò un’eternità. Juan era una specie di addetto fac-totum che portava le ragazze da un club all’altro e risolveva i problemi. Finalmente arrivammo e lui ci lasciò al club dove si trovava Sabrina. Si chiamava Lambada, come il nome di un ballo brasiliano, allegro e sensuale. C’erano otto brasiliane e tre colombiane. Il club aveva un’entrata discreta, era al piano inferiore di un edificio residenziale con un portinaio in divisa all’ingresso. «Ciao, sono arrivate le ragazze nuove», disse Juan al portinaio. Entrammo nel club. Era bello ed
arredato con buon gusto. Le ragazze avevano un bell’aspetto, indossavano vestiti lunghi ed eleganti, non era il classico bordello che noi tutte avevamo in mente, con donne volgari e di cattivo gusto. Cercai Sabrina con lo sguardo ma non la trovai. Ci vennero incontro un uomo e una donna. «Ciao, sono Lilian, e lui è Wlad, lavoriamo qui. Come vi chiamate?». «Karina». «Anastasia, piacere». «Bene, venite con noi e vi spiegheremo, più o meno, come funzionano le cose». Seguimmo Lilian che ci invitò a sederci su dei puffs in fondo al locale, per bere qualcosa. Lei era brasiliana, era stata sposata col proprietario del club che si chiamava Paco, aveva avuto due figli da lui, un maschio ed una femmina. Non era una donna molto alta; era bella, magra, coi capelli neri lisci e due occhi molto espressivi, era molto dolce e simpatica. C’era anche un cameriere di nome Javier; anche lui sembrava simpatico e rispettoso nei confronti delle ragazze. «Lilian, mi piacerebbe sapere quanto dobbiamo ridare per il biglietto aereo». «Tranquilla, Anastasia, non so dirti quant’è perché l’ha comprato Wlad. Devo chiedere a lui». «Non è per qualcosa… è che come prima cosa vorrei pagare il biglietto e cominciare a mandare soldi a casa». «Un attimo che chiedo, torno subito». «Karina, cosa ti pare?» «Non so, Anastasia. Sabrina mi ha detto che si guadagna bene qui». «Sì, ma non ci sono molti clienti». «E’ vero». «Ragazze, ho parlato con Wlad, mi ha detto che deve prima parlare con il proprietario». «Lilian, dov’è Sabrina?». «Non siate preoccupate, è impegnata con un cliente ora, presto sarà qui. Siete stanche del viaggio?». «Sì, molto». «Avete figli?». «Io due maschi». «Io una femmina». «Sentirete molta nostalgia». «Sì, è vero». «Bene, Lilian, come ripagheremo il volo?». «Come sei ansiosa, Anastasia! Non preoccupatevi, potete pagare poco alla volta. Dato che qui si salda alla fine della serata, le ragazze di solito lasciano un po’ di soldi per il costo del biglietto e si tengono qualcosa per le spese personali». «Ah! Bene, meglio così. Ci vuole tanto per finire di pagare?». «No, si paga in fretta. Ci sono ragazze che saldano in due settimane». «E quanto pagano per gli spettacoli di streptease?». «Ventimila pesetas. Qui quasi non si balla». «Perciò ci metterò tanto a pagare il biglietto». «Ma Anastasia, puoi entrare coi clienti così ci metterai meno ad estinguere il debito». «Ma io non l’ho mai fatto! Non ho mai lavorato come prostituta!». «Ma se vuoi uscire da qui, devi imparare». Quelle parole mi echeggiarono in testa come una bomba che mi distrusse dentro. In quel
momento la mia anima si fuse e la mia mente si zittì. Ma ormai ero lì. Non vedevo il mio futuro con chiarezza. Non riuscivo a pensare a niente, sentivo solo un vuoto che mi consumava, un vuoto che mi accompagnò per molti anni. «Karina, e tu hai mai fatto questo lavoro?». «Io, sì, da un po’ di tempo. Non ho problemi». «Vi dico: la prestazione da trenta minuti vale diecimila pesetas, seimila per la casa e quattromila per voi. Quarantacinque minuti valgono quattordicimila, ottomila per la ragazza. Un’ora ventimila, quattordicimila li tiene la ragazza. La suite vale ventiseimila, di cui diciottomila vanno alla ragazza. I drinks costano cinquemila, lo champagne piccolo costa dodicimila, mentre la bottiglia viene venticinquemila; per tutto il resto il cinquanta per cento va alla casa, ci sono drinks analcolici per le ragazze astemie. «Io li voglio alcolici altrimenti non riuscirei a lavorare». «Bene Karina, a te che piace bere ti dico che la casa dà due drinks alcolici per ogni ragazza e se lei vuol bere di più deve farseli offrire dai clienti. Acqua, succhi e bibite gassate analcoliche sono gratis». «Ci sono molte cose da imparare». «Non preoccuparti, Anastasia, imparerai in fretta e ti ci abituerai». «Spero di sì», ma non mi ci sono mai abituata. «Bene, arriva Sabrina. Vi lascio, così potrete parlare liberamente. Oppure volete andare all’appartamento per dormire?». «No, Lilian, voglio restare qui ad osservare. Andremo quando se ne andranno quasi tutti». «Come volete, Anastasia». «Cosa ti sembra Karina?». «Per me possiamo restare». «Ok». «Ciao Sabrina, come sei bella!». «Ma va! Sono ingrassata un po’». «Non è vero! Anastasia ha ragione! Ti trovo bella e in forma». «Grazie, Karina. Com’è andato il viaggio?». «Sfiancante, e come se non bastasse mi hanno perso la valigia: non ho vestiti». «Non angosciarti, ti daremo qualche vestito finché non potrai permetterti di comprarli e troverai la tua valigia». «Grazie davvero». «Sabrina, dovrai insegnarci, perché io non so niente e tanto meno Karina». «Non preoccupatevi, lo Spagnolo è facile da imparare. Bisogna solo chiedere ai clienti se vogliono salire o ti pagano da bere». «Salire?». «Sì, qui si dice salire o “follar”. Non si toccano i soldi finché non finisce la serata. I clienti pagano all’addetto, il quale ti consegna un foglio per segnare il tempo che resti in stanza, il foglio va consegnano alla mami che verifica il tempo impiegato». «Mami?». «Si, è la ragazza incaricata di pulire le stanze e tenere sotto controllo il tempo. Quando questo finisce, la mami bussa alla porta e se il cliente vuole restare di più deve pagare ancora». «E come sono gli uomini qui?» «C’è di tutto. Persone educate e maleducate; sono freddi, europei, e l’igiene personale lascia a
desiderare». «Cos’è che mi stai dicendo?». «Sì, Anastasia, poi mi saprai dire se non è vero. Ce ne sono alcuni che non hanno proprio l’abitudine o non sanno lavarsi il pene». «Per carità!». «E la bocca e le ascelle… non farmi parlare…». «Ed è vero che si lavora bene?». «Si guadagna come in Brasile, ma qui c’è molto lavoro per cui alla fine guadagni di più rispetto alla quantità di prestazioni, perché il cambio è uno a uno». «Come?». «Diecimila pesetas sono cento reais. Qui il cibo è carissimo. Carne, frutta, verdura, tutto caro! L’affitto, la luce, l’acqua, si deve risparmiare molto». «In quanto tempo hai ripagato il biglietto aereo?». «In due settimane, ma si lavorava molto, adesso così così». «E quanto l’hai pagato?». «Cinquantamila pesetas». «Sì?». «Sì, davvero». «Allora si lavora bene qui». «Chiaro, e loro hanno altri Night dove si lavora altrettanto bene». «Ma vogliamo lavorare qui con te». «Lo dirò a Wlad, non vi preoccupate». «E dove dormiremo?». «Dormirete con noi nell’appartamento, lo dirò a Wlad». «Grazie, così è meglio». «Nell’appartamento abitiamo in tre, ma Marcia se ne andrà tra qualche giorno; Karina dormirà con me e tu, Anastasia, con Luana; è una brava ragazza, di Curitiba, ti piacerà». «Ok, non c’è problema. Chi di voi può prestarmi qualche vestito per dormire?». «Non ti preoccupare. Domani parleremo con Wlad riguardo alla valigia, così ti aiuterà a recuperarla». «Grazie». «Ora vado, è arrivato un mio cliente. Dopo ci sarà modo di parlare». «D’accordo. Buona fortuna». «Grazie». Sabrina si allontanò, si diresse verso il cliente e lo salutò, lui non ci mise molto ad offrirle da bere. C’erano alcune ragazze che ci guardavano male, squadrandoci dalla testa ai piedi. Rimasi a guardare come lavoravano le ragazze: non appena arrivavano gli uomini, subito qualcuna di loro ne abbordava uno, scambiavano qualche parola e se il cliente non voleva stare con lei ne arrivava subito un’altra e così via finché ce n’era una che gli piacesse. L’ambiente era piacevole, tranquillo, pareva un bar normale, ma col passare dei giorni capii meglio ciò che mi circondava e vidi cose assurde e ripugnanti. Finalmente la notte finì. Quel giorno chiusero alle quattro perché non c’era molto movimento. Secondo Sabrina chiudevano alle cinque o alle sei di mattina, talvolta perfino alle otto. L’addetto al locale portava tutte le ragazze a casa ed il giorno seguente le andava a riprendere per portarle al club. «Anastasia e Karina, oggi dormirete qui e domani vedremo dove andrete ad abitare».
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