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ALFONSO FEMIA

DA SEMPRE ATTENTO AL RAPPORTO FRA IL PROGETTO E I LUOGHI, ALFONSO FEMIA RIMARCA L’IMPORTANZA DI UNA ARCHITETTURA NON FOCALIZZATA SOLO SULL’ESTETICA, MA AL CONTRARIO CAPACE DI DIALOGARE E CONTAMINARSI CON IL TERRITORIO

txt Claudio Moltani ph Stefano Anzini e Luc Boegly

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Alfonso Femia è stato fra gli ideatori e promotori di All Around Work, la manifestazione che si è da poco svolta a Milano, nella quale si sono confrontati studi di architettura e di ingegneria, general contractor, produttori di arredamento per uffici e di tecnologia per capire e analizzare il presente e disegnare il futuro degli ambienti lavorativi. Ci è quindi sembrato l’interlocutore ideale per parlare, trasversalmente, di progetto, architettura e workspace. Perché, come lui stesso ha detto in apertura della manifestazione: “Occorre un ripensamento totale dell’office, nelle sue strategie, nei dispositivi, nel rapporto con gli insediamenti e le città… occorre capire che, in epoca post lockdown, siamo su una pagina nuova di un nuovo libro”.

Smart working, home work, coworking, uffici di prossimità. A breve e medio periodo, dal tuo punto di vista, cambierà qualcosa nel mondo office?

Credo che, per quel che riguarda l’architettura in sé, non vi sarà nessun cambiamento a breve. Bisogna però ragionare, fin da subito, su come si fa una città, e sul concetto stesso di città, perchè veniamo da un periodo dove è stata vissuta e interpretata in modo molto, troppo lontano dalla realtà. Come se un prodotto appena superato da una nuova tecnologia, o anche dall’effimero di una moda, continui a venire venduto perché bisogna finire le scorte di magazzino. Invece le città devono evolvere, anche con i processi lenti che caratterizzano l’evoluzione. Il tema è capire se e come i punti di equilibrio fra i vari aspetti e le diverse necessità possano ridurre la bulimia del mondo office, che troppo spesso si manifesta con la costruzione di nuovi uffici - vere e proprie bolle economiche - e con l’abbandono di edifici che, invece, hanno ancora molto da dire.

Le aziende come stanno affrontando questi temi?

Le aziende ormai hanno capito che lo smart working, in tutte le sue declinazioni, è una modalità che funziona, offre risultati e garanzie, e per di più permette notevoli risparmi sulle spese fisse. Dunque, le aziende stanno iniziando a comprendere che c’è un problema di spazi e della loro sovrabbondanza. Sicuramente le modalità di coworking sono più che interessanti, così come gli uffici di prossimità, che potrebbero essere “elementi di quartiere”

che riducono, anche, i tempi di mobilità fra abitazione e lavoro. Nuove modalità di lavoro e nuovi luoghi deputati al lavoro che risultano validi per diverse generazioni, che hanno esigenze e budget molto diversi. È un tema mai seriamente affrontato in Italia, ma si dovrebbe iniziare a ragionare sul rapporto fra studentati, pensioni, abitazioni, dove “qualcosa” che nasce come ufficio può anche trasformarsi in una residenza. Detto questo, occorre chiarire che la città non è in crisi. È fragile, questo sì, perché da troppo tempo è rimasta solo una città e non un insieme di cittadini, perché si è estremizzata l’idea (folle) di una crescita continua.

Carlo Ratti dice che “gli edifici sono un faro per l’innovazione, dove si stabiliscono quei legami deboli tra conoscenze casuali che sono cruciali per produrre nuove idee”… che ne pensi?

L’edificio non è mai solo l’involucro in sé. Un’idea di architettura che si apre e chiude attorno all’edificio non mi appartiene. L’architettura deve saper dare delle risposte al contesto, alla socialità, ai temi attuali, che fra l’altro in questo particolare momento storico sono molto comuni e vicini al di là della distanza fisica. Ogni volta, l’edificio è un’occasione narrativa inserita in un processo culturale. Un progetto è, o dovrebbe essere, un atto di responsabilità nei confronti della gente comune, un atto che mette a disposizione elementi quali la luce, gli spazi e la loro suddivisione. È quello che abbiamo cercato di fare, per esempio, nella realizzazione della sede di Roma della BNL, dove la committenza era una banca che

aveva, in definitiva, solo bisogno di uffici. Noi abbiamo cercato di far dialogare fra loro la luce, il tempo, il contesto, mettendoli in relazione con la materia e la forma. Abbiamo scelto uno spartito compositivo in grado di generare stupore, grazie alla metamorfosi dell’edificio, che sarà percepito in modi sempre diversi per la sua capacità di reagire alla luce nelle differenti ore del giorno. Gli edifici non devono essere introversi, non devono avere successo solo per la loro estetica. Anche la sede di Dallara ritengo possa essere un ottimo esempio di dialogo con il territorio. Qui abbiamo progettato tre diverse aree: l’Educating, dove si svolgono le attività complementari all’esposizione Museo, il Learning, dove si tengono i corsi di un master universitario legato al motor sport, e l’area Living, con tutta l’attività espositiva e museale legata alle macchine.

Questa narrazione si svolge anche attraverso i materiali? Anche perché tu parli spesso di materia, e non di materiali…

In francese Matériel e Métier rimandano immediatamente a una radice comune, sono termini che anche etimologicamente parlano di artigianalità, di territori comuni. La materia è una filiera di pensiero, e qui veniamo all’aspetto del tempo. Occorre tempo (tanto!), prima per pensare e poi per concretizzare un progetto. Non possiamo “perdere” quel plus che è il tempo, perderemmo altrimenti anche il concetto stesso di materia. Trovo interessante quel che sta avvenendo in Cina, un paese certamente contraddittorio ma ricchissimo di cultura, di mestieri, di tradizioni. Trovo che in Cina si stiano muovendo bene su questo doppio binario, stanno ragionando e lavorando in modo propositivo, anche poetico. Ecco,

la materia è un atto di responsabilità verso il territorio. È un approccio mentale, l’idea dalla quale partire per strutturare un progetto.

Prima parlavi di edifici che hanno qualcosa da dire… tu sei sempre molto attento al recupero architettonico

Lavorare sul recupero, sulla valorizzazione del passato, sul preesistente vuole dire rispettare quel fattore tempo di cui parlavamo prima. Significa lavorare su tracce, su metamorfosi, su un nuovo ruolo della definizione degli spazi, della luce. Significa partire dal passato per arrivare al futuro. Senza fretta.

Sempre a proposito di spazi di lavoro, parliamo anche del “tuo” workspace - Atelier(s) - suddiviso in tre città. Perché questa scelta?

L’Atelier(s) è unico, è presente e opera in tre città - Milano, Genova e Parigi - da quasi 15 anni. La modalità di lavoro prevede lo sviluppo di un singolo progetto in almeno due atelier. Siamo presenti in queste tre città perché sono diverse ma complementari fra loro, proprio sui temi che ci interessano e caratterizzano il nostro lavoro. Adesso siamo ben rodati, e questa distanza puramente fisica è stata nel tempo introiettata da tutti i team. In questo particolare momento, poi, l’essere abituati al lavoro a distanza ci ha permesso di non avvertire nessun problema nella comunicazione digitale. Siamo abituati a lavorare in un concept di libertà, disponibilità e condivisione di ogni singolo team, di ogni singola persona. D’altronde, non è il luogo fisico che determina i risultati, è l’uomo che deve sapersi muovere fra respon-

sabilità, gestione, condivisione. Abbiamo tranquillamente anticipato ogni decreto che, via via, imponeva limitazioni al movimento delle persone, e se possibile, il senso di responsabilità verso il progetto comune è aumentato ancora di più.

Ma perché la scelta è caduta proprio su queste tre città?

Per quanto riguarda la scelta di operare in queste tre città, sono nato in Calabria e vissuto a lungo in Liguria, e Genova è nel mio cuore. Una città che non si apre immediatamente, non si fa piacere subito da tutti, bisogna prima che fra Genova e te si stabilisca un contatto. Ma in definitiva, che cosa è l’architettura se non un continuo dialogo fra la/le città e i luoghi, la materia, la storia? Milano, invece, non è arroccata fra monti e mare, è distesa in pianura, orizzontale tanto quanto Genova è verticale. È una città dove viene esaltata la dimensione, la luce. E possiede una straordinaria cultura industriale. Infine, Parigi… un’anima mediterranea dove è possibile provare, sperimentare. Anch’essa si fa aspettare, ma poi, una volta che instauri un contatto, ti offre tutte le possibilità. Una situazione che ricorda un po’ le Città Invisibili di Calvino. Viste da fuori, mi rendo conto che potrebbero sembrare delle filiali, ma io suggerisco di interpretare le tre città e i tre Atelier(s) come altrettante dimensioni artigianali, attente al quotidiano, che si travasano e contaminano a vicenda, fra loro e fra le loro città, che ne indagano i confini e ne scoprono le ricchezze e le potenzialità. |end

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