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stampa DALLA SOLIDARIETÀ ALLA SOVRANITÀ L’Unione europea nella morsa dell’egemonia tedesca inacce e ricette agrodolci: il negoziato sul bilancio 20142020 dell’Unione europea divide i ventisette. M Ma, se a fare notizia è soprattutto la volontà da parte britannica di ottenere uno «sconto», è in realtà il progetto europeo nel suo complesso a vacillare. I paesi del nord, intenzionati a tagliare ulteriormente un budget già ridotto all’1% del prodotto interno lordo dell’Unione, fronteggiano quelli del sud, che, in nome dell’aiuto reciproco, reclamano più risorse. A condurre le danze, però, è ancora una volta Berlino. di Perry Anderson* onsiderati i nomi di certi vincitori del premio Nobel per la pace – Menachem Begin, Henry Kissinger e C Barack Obama –, come non pensare alla battuta dello scrittore Gabriel García Márquez, secondo il quale a quest’onore sarebbe più appropriato dare il nome di Nobel per la guerra? Ora, benché meno all’insegna del bellicismo, non manca di offrire spunti per la satira neppure quest’anno. La fortunata Unione europea è stata infatti gratificata con quello che potremmo definire il premio Nobel per il narcisismo. Ciò nonostante, contiamo sul fatto che Oslo possa superare se stessa, con la speranza magari che l’anno prossimo il comitato per il Nobel faccia ciò che è giusto e si attribuisca direttamente il premio. Tuttavia, l’onore conferito a Bruxelles e a Strasburgo – che se lo disputano – giunge a proposito. I primi anni del nostro secolo hanno visto la vanità degli europei crescere sempre di più. Una presunzione che si faceva sentire nell’affermazione per cui l’Unione offriva un «modello» di sviluppo sociale e politico, secondo la formula lanciata dallo storico britannico Tony Judt e ripresa da altrettanti pilastri della saggezza europea. Dal 2009, però, le lacerazioni nella zona euro hanno apportato un amaro contrappunto a tali eccessi di autocompiacimento. Ma essi sono per questo spariti? Sarebbe prematuro pensarlo, a giudicare almeno dall’augusto esempio fornito dal recente libro del filosofo tedesco Jürgen Habermas sull’Unione europea (1), che fa seguito al suo Ach, Europa (2008). La gran parte di tale volume, un articolo intitolato «La crisi dell’Unione europea alla luce di una costituzionalizzazione del diritto internazionale», illustra infatti come meglio non si potrebbe che cosa sia l’introversione intellettuale. La sessantina di pagine contiene un centinaio di citazioni, i tre quarti delle quali rinviano ad autori tedeschi, e per la metà firmate da lui stesso e da tre suoi colleghi – ringraziati per il loro aiuto. Le altre citazioni riguardano unicamente alcuni autori angloamericani, con al primo posto (un terzo dei riferimenti) il suo ammiratore britannico, il politologo David Held, messosi recentemente in luce nel corso dell’affare Gheddafi (2). Un’ingenua esibizione di provincialismo in cui nessun’altra cultura europea trova diritto di cittadinanza. Il soggetto dell’articolo è ancora più sconcertante. Nel 2008, Habermas aveva duramente criticato il trattato di Lisbona in quanto non apportava alcun rimedio al deficit democratico dell’Unione e non offriva alcun orizzonte morale e politico. La sua adozione, scriveva, non poteva che «approfondire l’abisso esistente tra le élite politiche e i cittadini (3)», senza fornire all’Europa un qualunque orientamento positivo. Ciò che ci voleva, al contrario, era un referendum a livello europeo che dotasse l’Unione di un’armonizzazione sociale e fiscale, di strumenti militari e, soprattutto, di una presidenza eletta direttamente, che, unica a poterlo fare, avrebbe salvato il continente da un avvenire «dettato dall’ortodossia neoliberista». Considerando quanto tale entusiasmo di Habermas in favore di un’espressione democratica della volontà popolare (di cui non aveva dato il minimo segnale nel suo paese) contrastasse con le sue posizioni tradizionali, avevo supposto che una volta ratificato il trattato di Lisbona avrebbe finito probabilmente per sostenerlo con discrezione (4). Verso un paradiso senza eguali Una previsione che si è rivelata addirittura inferiore alla realtà.
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Habermas infatti non ha soltanto fatto proprio il trattato, ma se n’è proclamato araldo. Adesso ha scoperto che lungi dall’approfondire qualsivoglia abisso tra élite e cittadini, il trattato non è niente di meno che l’atto di un avanzamento senza precedenti sul cammino della libertà umana, che rinforza le fondamenta di una sovranità europea radicata insieme nella cittadinanza e nei popoli (e non negli stati) dell’Unione, e che è la matrice luminosa da cui nascerà il parlamento del mondo futuro. L’Europa di Lisbona, promuovendo un «processo di civilizzazione» che pacifica le relazioni tra gli stati, e limitando l’uso della forza alla repressione di coloro che violano i diritti umani, schiude il cammino che conduce dalla nostra «comunità internazionale» di oggi – indispensabile, anche se ancora imperfetta – alla «comunità cosmopolita» di domani, una specie di Unione allargata che abbraccerà fino all’ultima anima sulla terra. È dunque grazie a simili slanci estatici che il narcisismo dei decenni passati, invece di affievolirsi, ha raggiunto un nuovo parossismo. Benché il trattato di Lisbona non parli dei popoli ma degli stati europei, nonostante sia stato adottato per aggirare la volontà popolare già espressa in tre referendum e consacri una struttura priva del consenso di coloro che le sono soggetti, e sebbene, lungi dall’essere un santuario dei diritti umani, l’Unione che regola sia parte in causa in atti di tortura e di occupazione – senza che i suoi rappresentanti più illustri dicano una parola –, ciò non impedisce un’autocelebrazione beata. Un’intelligenza individuale non equivale però mai a una mentalità collettiva. Insignito di più premi europei di quanto un maresciallo dell’era brezneviana non lo fosse di mostrine, Habermas è probabilmente vittima della sua stessa eminenza: prigioniero, come, prima di lui, il filosofo americano John Rawls, di un universo mentale popolato quasi esclusivamente di ammiratori e discepoli, e sempre meno capace di dialogare con posizioni che si discostino dalla sue per più di qualche millimetro. Spesso salutato come il successore contemporaneo di Immanuel Kant, rischia piuttosto di trasformarsi in un moderno Gottfried Wilhelm Leibniz, dedito a edificare a colpi di serafici eufemismi una nuova teodicea, nella quale i mali della deregolamentazione finanziaria concorrono ai benefici del risveglio del cosmopolitismo (5), e in cui l’Occidente inaugura la via della democrazia e dei diritti umani verso l’Eden finale della legittimità universale. Comunque, sia in ragione della sua distinzione che della corruzione che ha riguardato il suo lavoro, Habermas rappresenta ormai un caso a sé. Non è scomparsa però l’abitudine di fare dell’Europa il punto di arrivo del mondo, senza nemmeno sapere granché della vita culturale e politica che vi si svolge; e le tribolazioni della moneta unica non basteranno certo a scuoterla. Inutile insistere sullo smarrimento nel quale la crisi dell’euro ha gettato l’Unione. L’Europa è vittima della recessione più profonda e più lunga mai patita dal continente dalla fine della seconda guerra mondiale. Volendo comprenderne le cause, bisogna valutare l’impatto della dinamica di fondo che opera nella crisi della zona euro. Per dirla in maniera semplice, essa è il risultato di due incidenti, indipendenti l’uno dall’altro, e dagli effetti convergenti. Il primo è l’implosione generalizzata del capitale fittizio, grazie al quale i mercati hanno funzionato nel mondo sviluppato durante il lungo ciclo di finanziarizzazione iniziato negli anni ’80, nel momento in cui la profittabilità dell’economia reale andava riducendosi per la pressione della competizione internazionale e i tassi di crescita calavano da un decennio all’altro. Un rallentamento i cui meccanismi, interni allo stesso capitalismo, sono stati magistralmente descritti da Robert Brenner nella sua imponente storia del capitalismo avanzato dopo il 1945 (6). I suoi effetti sulla crescita esponenziale del debito privato e pubblico, che non solo rafforza i saggi di profitto, ma indebolisce anche le resistenze elettorali, sono stati invece analizzati recentemente da Wolfgang Streek (7). L’economia americana illustra questa dinamica con una chiarezza paradigmatica. Ma la stessa logica si applica al sistema nel suo complesso. In Europa, tuttavia, se n’è imposta un’altra, con la riunificazione tedesca e il progetto di unione monetaria del trattato di Maastricht e quello del patto di stabilità, entrambi ritagliati sulle esigenze tedesche. La moneta comune sarebbe stata posta sotto la tutela di una banca centrale di concezione hayekiana (8), che non avrebbe dovuto rendere conto né agli elettori né ai governi, ma che avrebbe avuto l’unico obiettivo di mantenere la stabilità dei prezzi. A sovrastare la nuova zona monetaria, vi sarebbe stata poi l’economia tedesca, ormai estesa ai paesi dell’Est, e nella posizione di disporre dunque, appena al di là dei suoi confini, di un vasto serbatoio di manodopera a buon mercato. Gli elevati costi della riunificazione hanno però depresso la crescita
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della Germania. Per compensare questo squilibrio, il capitalismo tedesco ha quindi messo in atto una politica di repressione salariale senza precedenti, che i sindacati tedeschi, di fronte alla minaccia di un’accentuazione della delocalizzazione verso la Polonia, la Slovacchia e oltre, hanno dovuto accettare. Le conseguenze economiche per l’Europa del sud erano totalmente prevedibili (9). Da una parte, grazie all’aumento della produzione manifatturiera e alla discesa relativa del costo del lavoro, le industrie esportatrici tedesche sono diventate più competitive che mai e in grado di razziare una parte sempre maggiore di mercati della zona euro. Dall’altra, alla periferia dell’area della moneta unica, la corrispettiva perdita di competitività delle economie locali è stata anestetizzata dall’afflusso di capitali a buon mercato a tassi d’interesse fissati in maniera virtualmente uniforme in tutta l’unione monetaria, conformemente alle regole dettate dalla Germania. Quando però la crisi generale di iperfinanziarizzazione scoppiata negli Stati uniti ha colpito l’Europa, la credibilità di questo debito periferico è tracollata, ingenerando il timore di una bancarotta a catena degli stati. Mentre negli Stati uniti piani pubblici e massicci di salvataggio potevano scongiurare il fallimento delle banche, delle compagnie di assicurazione e delle società insolventi, e l’emissione di moneta da parte della Federal Reserve poteva contenere la contrazione della domanda, nella zona euro, a rendere impossibile la messa in opera di una soluzione provvisoria di questo genere, c’erano due ostacoli. Non soltanto gli statuti della Banca centrale europea, sanciti nel trattato di Maastricht, le vietavano formalmente di riacquistare il debito dei paesi membri, ma mancava anche una Schicksalsgemeinschaft – quella «comunanza di destini» della nazione weberiana (10) – che legasse governanti e governati in un ordine politico comune, in cui i primi paghino a caro prezzo la loro totale ignoranza dei bisogni esistenziali dei secondi. Dal simulacro europeo di federalismo non si poteva realizzare un’«unione dei trasferimenti» sul modello americano. Così, quando la crisi è esplosa, la coesione della zona euro poteva derivare solamente non dalla spesa sociale ma da un diktat politico: la messa in campo da parte della Germania, alla testa di un piccolo blocco di stati nordici, di programmi draconiani di austerità – impensabili per i suoi cittadini – diretti agli stati del sud, ormai incapaci di rilanciare la propria competitività a mezzo della svalutazione. Sotto una pressione così intensa, i governi dei «piccoli» paesi sono caduti come birilli. In Irlanda, in Portogallo e in Spagna, i regimi in carica all’inizio della crisi sono stati spazzati via in occasione di elezioni che hanno installato dei successori inclini ad incrementare la dose dei rimedi drastici. In Italia, logoramento interno ed interventi esterni si sono combinati nel rimpiazzare un governo voluto dal parlamento con un governo di «tecnici», senza nemmeno ricorrere alle elezioni. In Grecia, un regime imposto da Berlino, Parigi e Bruxelles ha ridotto il paese in una condizione che ricorda quella dell’Austria nel 1922, quando a Vienna le potenze dell’Intesa insediarono un alto commissario – sotto l’egida della Società delle nazioni (Sdn) –, affinché gestisse l’economia del paese secondo il suo volere. L’uomo scelto per questo incarico fu il sindaco di destra di Rotterdam, Alfred Zimmerman, un fautore della repressione di un tentativo olandese di assecondare la rivoluzione tedesca del novembre 1918. A Vienna, dove rimase nelle sue funzioni fino al 1926, «criticò incessantemente il governo, evidenziò le sue insufficienze, pretese sempre più tagli, sempre più sacrifici, da tutte le classi della popolazione», e, incalzando l’esecutivo «affinché stabilizzasse il bilancio a un livello considerevolmente più basso», affermò «che il controllo sarebbe continuato finché tale risultato non fosse stato raggiunto» (11). In tutti i paesi in cui sono state somministrate, le misure tese a restaurare la fiducia dei mercati finanziari nell’affidabilità dei governi locali si sono accompagnate anche alla riduzione delle spese sociali, alla deregolamentazione dei mercati e alla privatizzazione dei beni pubblici: ossia al repertorio neoliberista classico, corredato da un’accresciuta pressione fiscale. Per vincolarli, Berlino e Parigi hanno deciso di imporre l’obbligo del pareggio di bilancio nella costituzione dei diciassette membri della zona euro – una nozione che negli Stati uniti è da tempo screditata come l’idea fissa di una destra folle. Un nuovo «rapporto speciale» Le pozioni escogitate nel 2011 non guariranno i mali della zona euro. Le distanze tra i tassi d’interesse sui debiti sovrani non torneranno mai ai livelli precrisi. E il debito che si accumula non è soltanto pubblico, tutt’altro: secondo le stime, i crediti bancari a rischio raggiungerebbero i 1.300 miliardi di euro. I problemi sono dunque più profondi, i rimedi più fragili e coloro che li somministrano più deboli di
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quanto non ammettano i circoli ufficiali. Mentre è evidente che lo spettro dei default di pagamento non è affatto sfumato, gli espedienti improvvisati da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy rischiano di non durare. La loro partnership, effettivamente, non è mai stata equilibrata. «Possiamo attenderci che la potenza tedesca si eserciti nelle forme più brutali, nemmeno attraverso l’alta autorità della Banca centrale, ma direttamente tramite il mercato», scrivevamo prima dell’irruzione della crisi (12). La Germania, che, più di ogni altro stato, è stata la maggiore responsabile della crisi dell’euro, a causa della sua politica di repressione salariale all’interno e di capitali a buon mercato all’esterno, è stata anche il principale architetto dei tentativi di farne pagare il conto ai più deboli. In questo senso, è giunta l’ora di una nuova egemonia europea, e, insieme ad essa, ecco che è apparso puntualmente anche il primo manifesto in favore di una sovranità tedesca sull’Unione. In un articolo pubblicato su Merkur, la più importante rivista d’opinione della Repubblica federale, il giurista di Costanza Christoph Schönberger spiega che il tipo d’egemonia che la Germania è destinata ad esercitare in Europa non ha niente a che vedere con il deplorevole «slogan di un discorso antimperialista alla Gramsci». Essa deve essere piuttosto intesa nella rassicurante accezione costituzionale datale dal giurista Heinrich Triepel, vale a dire come la funzione di guida che viene attribuita allo stato più potente all’interno di un sistema federale, sull’esempio della Prussia nella Germania del XIX e XX secolo. L’Unione europea corrisponde esattamente a questo modello: un consorzio essenzialmente intergovernativo riunito in un Consiglio europeo, le cui deliberazioni sono necessariamente «insonorizzate» e del quale solo la fantascienza può immaginare l’evoluzione un giorno nel «fiore blu della democrazia, depurata da ogni residuo istituzionale terreno» (13). Poiché però gli stati rappresentati nel Consiglio europeo sono fra i più vari per peso e dimensioni, sarebbe irrealistico pensare che possano coordinarsi su un piede di parità. Per poter funzionare, l’Unione richiede che lo stato più forte in termini di ricchezza e popolazione le dia coesione e orientamento. L’Europa ha bisogno dell’egemonia tedesca, e i tedeschi devono smetterla di essere timidi nell’esercitarla. La Francia, il cui arsenale nucleare e seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Onu) non contano più molto, dovrebbe quindi conformemente rivedere le sue pretese. La Germania dovrebbe trattare la Francia alla stesso modo in cui Otto von Bismarck trattava la Baviera, in quell’altro sistema federale che fu il secondo Reich, gratificando cioè il partner di minoranza con favori simbolici e contentini burocratici (14). Ma la Francia accetterà così facilmente di essere ridotta allo status della Baviera all’interno del secondo Reich? È tutto da vedere. Del resto, l’opinione di Bismarck sui bavaresi è ben nota: «A metà strada fra un austriaco e un essere umano». Sotto la presidenza Sarkozy, al tempo in cui Parigi aderiva alle priorità di Berlino, l’analogia non sarebbe sembrata forse così insolita. Ma oggi sarebbe probabilmente più convincente un altro parallelismo, più contemporaneo. L’ansia che mostra la classe politica francese di essere sempre associata ai programmi tedeschi nell’Unione rinvia sempre più a un altro «rapporto speciale»: quello degli inglesi che si aggrappano disperatamente al loro ruolo di spalla degli Stati uniti. È legittimo domandarsi per quanto tempo ancora questa subordinazione autoimposta della Francia potrà resistere senza provocare la minima reazione. Le spacconate di Volker Kauder, segretario generale dell’Unione cristiano democratica (Cdu) di Germania, secondo cui «l’Europa parla ormai tedesco», sembrano più adatte a suscitare risentimento che accondiscendenza. Un fatto però è certo: nonostante i lunghi anni trascorsi, a causa soprattutto della notevole distorsione che muove il sistema elettorale francese, non c’è classe politica nell’Unione che abbia un punto di vista più unanimemente conformista sulle cose di quella francese. Aspettarsi da Hollande un po’ più d’indipendenza economica e strategica sarebbe la vittoria della speranza sull’esperienza. Per lo stesso motivo, non c’è paese in cui il solco tra opinione popolare ed esortazioni ufficiali sia rimasto più profondo. Hollande è arrivato al potere come Mariano Rajoy in Spagna, senza alcun entusiasmo da parte dei suoi elettori, ma come l’unica soluzione a portata di mano; e potrà essere altrettanto rapidamente indebolito, una volta instaurata l’austerity. All’interno del sistema neoliberista europeo, di cui Hollande è divenuto l’amministratore francese, è solo in Grecia che per ora si sono prodotte agitazioni popolari significative – anche se la Spagna è attraversata da alcune scosse premonitrici. Altrove invece, le élite devono ancora misurarsi con le masse. Non è affatto detto, certamente, che
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perfino le prove più dure riescano a scatenare le reazioni dei popoli piuttosto che avere l’effetto di paralizzarli, come dimostra il caso dei russi sotto il catastrofico governo di Boris Elstin. Ma i cittadini dell’Unione sono meno avviliti, e, per poco che le loro condizioni di vita possano nettamente peggiorare, la loro pazienza rischia di essere più limitata. Dietro ogni scenario resta una triste realtà: anche se la crisi dell’euro potesse essere risolta senza che i più deboli ne soffrano – cosa di per sé molto improbabile –, la contrazione di fondo della crescita non ne sarebbe eliminata. note: * Storico. Autore del saggio Le Nouveau Vieux Monde. Sur le destin d’un auxiliaire de l’ordre américain, Agone, Marsiglia, 2011. (1) Jürgen Habermas, Zur Verfassung Europas, Suhrkamp, Francoforte, 2011. Tradotto in italiano con il titolo Questa Europa è in crisi, Laterza, RomaBari, 2011. (2) Held è stato il responsabile e il relatore di tesi di Saïf alIslam Gheddafi alla London School of Economics (LSE). Quando il suo paese decise di fare una grossa donazione alla scuola, il figlio dell’ex Guida della rivoluzione libica ottenne un dottorato per una tesi che non aveva mai scritto. All’indomani dello scandalo, Held dovette abbandonare la LSE e il direttore rassegnare le dimissioni. (3) Jürgen Habermas, Ach, Europa. Kleine politische Schriften XI, Suhrkamp, 2008, p. 105. (4) Cfr. Le Nouveau Vieux Monde, Agone, Marsiglia, 2011, p. 651655. Nel 2005, l’intervento appassionato di Habermas nella campagna referendaria francese sul trattato costituzionale europeo, e la sua predizione di una catastrofe qualora fosse stato rigettato, si accompagnò al silenzio più totale sull’assenza di ogni consultazione popolare in Germania, come del resto era già stato anni prima con il trattato di Maastricht. (5) «The cunning of economic reason», Zur Verfassung Europas, op. cit., p. 77. (6) Robert Brenner, The Economics of Global Turbulence, Verso, New York, 2006. Per prolungare questa storia fino alla crisi del 2008, cfr., dello stesso autore, «L’économie mondiale et la crise américaine», in Agone, n° 49, «Crise financière globale ou triomphe du capitalisme?», Marsiglia, 2012. Cfr., nella New Left Review, n° 54, Londra, novembredicembre 2008, p. 4985, i contributi ad un convegno sui lavori di Brenner da parte di vere e proprie autorità sulla «sfera anglofona», l’Europa e il Giappone come Nicholas Crafts, Michel Aglietta et Kozo Yamamura. (7) Si legga Wolfgang Streeck, «La crisi del 2008 è iniziata quarant’anni fa», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2012. (8) Dal nome dell’economista liberale austriaco Friedrich Hayek (18991992), insignito del premio Nobel per l’economia nel 1974. (9) Per le cifre sul costo dei salariali tedeschi tra il 1998 e il 2006, e una proiezione rispetto alla loro incidenza sulle economie del sud Europa, cfr. Le Nouveau Vieux Monde, op. cit., p. 8182. (10) Concetto utilizzato in particolare dal sociologo tedesco Max Weber (18641920). (11) Cfr. Charles A. Gulick, Austria from Habsburg to Hitler, University of California Press, Berkeley, 1948, vol. I, p. 700. (12) Le Nouveau Vieux Monde, p. 82. (13) Presa a prestito dal poeta Novalis, che ne faceva la metafora dell’aspirazione umana all’infinito, la locuzione «fiore blu» è ormai proverbiale in Germania. (14) Christoph Schönberger, «Hegemon wider Willen. Zur Stellung Deutschlands in der Europäischen Union», Merkur, n° 752, Stoccarda, gennaio 2012, p. 18. Triepel, che fornisce a Schönberger il modello concettuale, non era soltanto un fervente ammiratore del governo tedesco sotto la dominazione prussiana rappresentata da Bismarck, ma, nel 1933, salutò la presa del potere da parte di Adolf Hitler come una «rivoluzione legale», terminando la sua opera sull’egemonia (1938) con un elogio del Führer, definito l’uomo di stato che, grazie all’annessione dell’Austria e dei Sudeti, aveva finalmente realizzato l’antico sogno tedesco di uno stato totalmente riunificato (Die Hegemonie. Ein Buch von führenden
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Staaten, Kohlhammer, Stoccarda, 1938, p. 578). (Traduzione di Fran. Bra.)
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