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In viaggio
C’ERA UNA VOLTA
MESSICO...
In
Nonostante la distanza tra aeroporto (in pieno centro) e appartamento prevedesse 15 minuti di auto, il tipico traffico del posto ci ha bloccati per tre quarti d’ora, ben spesi a scrutare subito quell’assurda città. Valeria De Meo
persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le Lnotoepersone . Inizio con questa citazione di John Steinbeck, scrittore americano del XX secolo, perché prima di
raccontare e voi di leggere il mio diario di viaggio, è importante capire quanto rischiamo di essere incompleti e ottusi senza mettere il naso fuori dalla nostra casa. Io sono stata in Messico circa sette mesi fa. Del paradiso variopinto che mi attendesse non ne ero certa. Scelsi l’America Centrale per due motivi: il primo era visitare una vecchia amica friulana residente a Città Del Messico da più di tre anni; il secondo era fare un viaggio intercontinentale, di almeno 15 ore di volo per sopperire al fatto di essere stata assente dai cieli da troppo tempo. Comprai il biglietto via web: andata e ritorno per Città del Messico con scalo a Madrid, partenza il 30 marzo, rientro in Italia il 12 aprile. La realtà è stata un po’ più movimentata però: sono sì partita da Foggia il 30 marzo alle 11 ma per arrivare via autobus
a Napoli; da lì treno verso Roma Termini; poi ancora treno verso Fiumicino; attesa di 3 ore e volo pe r Madrid; arrivata in Spagna nuova attesa di due ore e partenza, dopo mezzanotte, per la tappa finale. Questi i rischi del turista fai da te, rischi che corro sempre molto volentieri. Atterro a Mexico Districto Federal, alle 5.05 del mattino ma che per il mio ritmo biologico equivalevano alle 13.05, essendoci 8 ore di differenza. Confusa, stanca e sfinita dalla fila per il controllo passaporti e dai problemi che l’ufficio immigrazione voleva crearmi per un pezzo di parmigiano nella valigia (a quanto pare è vietato importare prodotti di origine animale!), finalmente esco dalla zona off limits e scorgo loro, ancora un po’ assonnati: Mara, la sopraccitata amica friulana e il suo compagno, messicano doc, Abel. Il tempo di baci e abbracci e di cambiare i miei euro in convenientissimi pesos, che partiamo con il loro maggiolino verso casa, con l’intenzione di recuperare un po’ di riposo.
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Nonostante la distanza tra aeroporto (in pieno centro) e appartamento prevedesse 15 minuti di auto, il tipico traffico del posto ci ha bloccati per tre quarti d’ora, ben spesi comunque a scrutare subito quell’assurda città: una megalopoli di 25 milioni di abitanti, 2240 metri di altitudine (ero in montagna senza saperlo), con grattacieli da una parte e case di cartone dall’altra, con lo smog appestante nell’aria e polmoni verdi come il parco di Chapultepec, con la criminalità dilagante ma anche la generosità tipica della gente del luogo. Posata la valigia, alla fine ho preferito accompagnare Mara all’istituto di cultura italiana a Coyoacàn, dove avrebbe tenuto due ore di lezione di lingua. Si trattava della 16esima delegazione della città, situata a sud e caratterizzata da un gran fermento culturale: teatri, il museo di Frida Kahlo e Leon Trotsky, la Città Universitaria della Unam. Di sera il centro storico si popola di artisti e giocolieri, di gente che passeggia e si svaga nelle cosiddette “cantinas”, una specie di bar dove poter trincare tantissima tequila. Ancora rimpiango gli aperitivi del tardo pomeriggio a base di paloma, tequila reposado e succo di pompelmo. A Città del Messico ci sono rimasta per i successivi 4 giorni, e di bellezze e stranezze ne ho viste. Tra le bellezze: la cattedrale della città che è incredibilmente storta, essendo stata costruita sull’acqua; i grattacieli storici come la Torre LatinoAmericana, dalla quale si vede tutta la metropoli; il monumento della rivoluzione messicana; il castello di Chapultepec; il Palazzo Nazionale; la Colonna d’Indipendanza; il Paseo de la Riforma; il monumento a Benito Juarez. Vi risparmio le descrizione perché sono tutte reperibili su Wikipedia. Passiamo alle stranezze. I microbus, ad esempio: la loro
funzione era quella di un autobus ma in realtà si tratta, e senza esagerare, di ferraglia arrugginita su sei ruote, senza porte, a volte senza vetri ai finestrini, senza luci, al prezzo di un peso per biglietto, che fisicamente non esiste perché quei soldi sono un rimborso per l’autista che guadagna in questo modo la giornata. Stranezza numero due: il numero elevato di poliziotti per le strade, armati di tutto punto, anche se non è in atto né una rapina, né un agguato. Stranezza numero tre: la corrente elettrica. I pali della luce, in alcune zone, hanno i fili tutti attorcigliati tra loro e qualsiasi piccolo movimento può provocare sbalzi di tensione o addirittura niente elettricità per ore, ore, ore. Una sera, ho odiato il Messico: ero sotto la doccia, stanchissima, dopo un’intera giornata sotto il sole a fare la turista, reduce da una lunga cena con la famiglia di Abel terminata a mezzanotte, il giorno dopo saremmo partiti alle 6 del mattino per Ouxaxa, avevo solo 4 ore per dormire e zac, va via la luce proprio mentre mi insaponavo i capelli. Ovviamente ho urlato quelle due, tre cosucce politicamente scorrette. I giorni successivi ho visto il lato meno caotico del Messico: più natura, più folklore, e l’Oceano Pacifico. Durante la settimana santa siamo stati via per un giro verso sud, che ha compreso: Ouxaca, una ridente città piena di chiese, cactus e tappeti fatti a mano e dipinti con colori naturali; il sito archeologico di Montealban, dove era possibile provare il famoso peyote, un potente allucinogeno, illegale qui da noi ma prodotto da erboristeria per loro, di cui gli Zapotechi furono grandi consumatori; la fabbrica del Mescal, liquore tipico di quello stato; las bajas de Huatulco, sull’Oceano Pacifico, con acqua cristallina, spiagge ancora vergini non trasformate in resort di extralusso per turisti americani con i dollaroni, cocco fresco, pesce appena pescato da mangiare come spuntino dopo il bagno e una bella Corona ghiacciata. Il Messico, in fatto di cucina, ha il suo perché: ottimi per un brunch i tamales, un impasto di farina di mais e carne piccante, avvolte in foglie sempre di mais; a pranzo o a cena carne alla brace da mangiare accompagnata dalle tortillas e dalle salse mole (che contiene cacao ma è piccante) e guacamole; le quesadillas con formaggio fuso; le macedonie di avocado, papaia, anguria, ananas per rinfrescarsi; e le chapuletes che non ho provato ma scopritelo da soli il perché. Il mio viaggio è terminato il 12 aprile a malincuore, per aver lasciato persone a me care laggiù e posti che mi hanno stupito sia nel bene che nel male. E a malincuore concludo anche questo diario con la consapevolezza che il Messico, grande com’è, in 6000 caratteri proprio non ci sta.
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