APCE Notizie - 42 - dicembre 2010

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n. 42 - dicembre 2010

Periodico registrato presso il tribunale di Roma al n. 67 in data 17.02.98 - Spedizione in abbonamento postale 70% - Roma

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Questo numero è dedicato a Pietro Pedeferri


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n° 42 - dicembre 2010 NEWS

LA REDAZIONE INFORMA EDITORIALE Protezione catodica: un po’ di storia PIETRO PEDEFERRI Note biografiche PIETRO PEDEFERRI La corrosione nel calcestruzzo PIETRO PEDEFERRI La protezione catodica delle strutture offshore PIETRO PEDEFERRI La prevenzione catodica PIETRO PEDEFERRI Sensori per i beni culturali PIETRO PEDEFERRI Armature in acciaio zincato PIETRO PEDEFERRI Acciai inossidabili per applicazioni biomediche INGEGNERIA Pietro Pedeferri “Corrosion Engineer” TITANIOCROMIA Pietro Pedeferri e la colorazione del titanio QUIZ Pronto per l’esame?

CORSI APCE

Redazione PoliLaPP c/o Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “G. Natta”, Politecnico di Milano Via Mancinelli, 7 – 20131 Milano Tel. 022 399 3194 Fax 022 399 3180 polilapp@chem.polimi.it

APCE NOTIZIE Periodico trimestrale Direttore responsabile Alessandro Troiano (SNAM RETE GAS) Promozione e sviluppo Vincenzo Fiore c/o APCE Via M.E. Lepido, 203/15 40135 Bologna Tel. 051 414 0816 Fax. 051 414 0848 vincenzo.fiore@apce.it Consulenza editoriale e impaginazione Massimiliano Medei Santa Marinella (RM) m.medei@gimax.eu Stampa GIMAX - Santa Marinella (RM) Via Valdambrini, 22 - Tel. 0766 511.644

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Comitato di redazione Luciano Lazzari (Politecnico di Milano) Marco Ormellese (Politecnico di Milano) MariaPia Pedeferri (Politecnico di Milano) Davide Gentile (APCE-UCEMI) Vincenzo Fiore (SNAM RETE GAS) Comitato editoriale Umberto Lebruto (RFI) Massimo Tiberi (GEA) Giuseppe Maiello (NAPOLETANAGAS) Paolo Del Gaudio (IRIDE) Ezio Coppi (Esperto)

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NUOVA SEDE PER L’UFFICIO CORROSIONI ELETTROLITICHE DI MILANO L’APCE ha trasferito l’Ufficio Corrosioni Elettrolitiche di Milano (UCEMI) in: Via Balduccio da Pisa, 15 - 20139 Milano presso la società A2A Reti Gas SpA I riferimenti del sig. Davide Gentile sono: Tel. 02 77206644 • Fax 02 77206645 • e-mail: davide.gentile@apce.it CORSO DI PROTEZIONE CATODICA NEL CALCESTRUZZO APCE in collaborazione con il Politecnico di Milano, gruppo PoliLaPP (Politecnico di Milano, Laboratorio di Corrosione dei Materiali Pietro Pedeferri), terrà un corso sulla protezione catodica del calcestruzzo armato secondo i requisiti della norma europea UNI EN 15257 per la certificazione degli addetti di protezione catodica, dal 11 al 16 aprile 2011, presso il Politecnico di Milano, Dipartimento CMIC “Giulio Natta”. Il corso è organizzato con il supporto della società De Nora e sarà tenuto in lingua inglese. Al termine del corso sarà possibile sostenere gli esami per il conseguimento della certificazione europea di livello 2 nel settore calcestruzzo rilasciato dall’Organismo di Certificazione CICPND. Per informazioni dettagliate, consultare il sito www.apce.it o il sito www.polilapp.chem.polimi.it MANIFESTAZIONI ORGANIZZATE DA AIM • IX edizione Giornate Nazionali sulla Corrosione e Protezione, 6-8 luglio 2011,Villa Mondragone, Monte Porzio Catone (per informazioni www.aimnet.it/gncorr2011.htm) • Rivestimenti e protezione dalla corrosione di tubazioni per impieghi nelle reti oil & gas (in via di definizione aprile/maggio 2011) CONVEGNO NAZIONALE AIM Si è svolta dal 10 al 12 novembre 2010 la 33a edizione del Convegno Nazionale AIM presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Brescia. Nella prima giornata, durante la sessione plenaria, sono state consegnate le medaglie di titanio, di rame, di alluminio e di acciaio inossidabile; questa ultima è stata dedicata alla memoria del prof. Gabriele Di Caprio, scomparso nello scorso aprile, che ha insegnato presso il Politecnico di Milano e l’Università di Ancona (ora Politecnica delle Marche) e ha lasciato un ottimo ricordo presso tanti suoi colleghi. La sessione di corrosione, che si è svolta nella prima mattina del convegno, ha visto una buona partecipazione (7 presentazioni orali e alcuni contributi alla sessione poster). Maggiori informazioni sul convegno sul sito http://www.metallurgia-italiana.net.

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CHIARIMENTI PER L'USO DELL’ARGANO AUSILIARIO NELLE MACCHINE PERFORATRICI E DI PALIFICAZIONE

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Le Direzioni Generali per l’Attività Ispettiva e per la Tutela delle Condizioni di Lavoro del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali hanno emanato, in data 14 ottobre 2010, un parere in riferimento al regime cui deve sottostare l’impiego dell’argano ausiliario nelle macchine perforatrici ed apparecchiature di palificazione. Il Ministero, dopo aver specificato in via preliminare che non è la denominazione a individuare la classificazione della macchina bensì la funzione da essa concretamente svolta, e dopo aver costatato che quando l’argano ausiliario ha configurazione tale da poter essere utilizzato al di fuori della sua specifica destinazione esso diventa a tutti gli effetti un’attrezzatura per il sollevamento indifferenziato di materiali per la quale vige l’obbligo di verifiche periodiche. In estrema sintesi, dunque, in relazione alle esigenze di sicurezza relative alla loro funzionalità, ancorché associata a quella di perforazione quale apparecchio di sollevamento, gli argani:


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• dal punto di vista costruttivo, devono essere conformi ai requisiti di sicurezza previsti per i rischi pertinenti a questo tipo di funzionalità, sia che questa sia prevista espressamente dal fabbricante, sia che questa sia conseguenza, come detto, di un uso improprio ma ragionevolmente prevedibile in relazione alla specifica destinazione della stessa. • per quanto riguarda la sicurezza durante l'esercizio, devono essere sottoposti al regime di controllo di cui all'art. 71, comma 8, del d.lgs. n. 81/2008, e se rientranti, per le ragioni esposte sopra, tra le attrezzature individuate nell'allegato VII del citato decreto, vanno assoggettati anche alle procedure di verifica periodica di cui all'art. 71, comma 11. NUOVI MODULI DI DICHIARAZIONE DI CONFORMITÀ DEGLI IMPIANTI (DM 37/08) Dal 28 luglio 2010 le dichiarazioni di conformità degli impianti da parte delle imprese installatrici e degli uffici tecnici interni d’imprese non installatrici dovranno essere rilasciate su nuovi moduli. È stabilito dal Decreto 19/5/10 "Modifica degli allegati al decreto 22 gennaio 2008, n. 37 concernente il regolamento in materia di attività di installazione degli impianti all'interno degli edifici" (pubblicato in G.U. il 13 luglio 2010). Il Decreto modifica solo il modello della dichiarazione di conformità che deve rilasciare un'impresa installatrice al termine della realizzazione degli impianti ovvero l’ufficio tecnico interno delle imprese non installatrici che interviene sui propri impianti. REGOLAZIONE DELLA QUALITÀ DEL SERVIZIO DI STOCCAGGIO DEL GAS NATURALE PER IL PERIODO DI REGOLAZIONE L’Autorità per l’energia elettrica e il gas in data 29 novembre 2010 ha pubblicato sul proprio sito (www.autorita.energia.it) la delibera 22 novembre 2010 - ARG/gas 204/10 “Testo Unico della regolazione della qualità e delle tariffe del servizio di stoccaggio del gas naturale per il periodo di regolazione 2011-2014 (TUSG): approvazione della Parte I. Regolazione della qualità del servizio di stoccaggio del gas naturale per il periodo di regolazione 2011-2014 (RQSG)”. La delibera entrerà in vigore il primo gennaio 2011 per le disposizioni contenute nelle Sezioni I e III e dal primo aprile 2011 per le restanti disposizioni contenute nella RQSG, allegata alla delibera.

APCE Notizie augura a tutti i suoi lettori un proficuo e sereno 2011 n. 40 - giugno 2010

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La programmazione dei prossimi numeri di APCE notizie fino a dicembre 2011 è già stata pianificata per stimolare i lettori a intervenire con loro proposte, testimonianze ed esperienze.

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N.43 – Marzo 2011, sarà dedicato alla manutenzione della PC, con riferimento ai rivestimenti, alle apparecchiature elettriche e elettroniche, ai dispersori e agli elettrodi di riferimento. Sono attesi e incoraggiati interventi di esperienze e applicazioni da parte degli operatori e degli addetti.

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N.44 – Giugno 2011, sarà dedicato al telecontrollo della PC con l’intento di fare il punto delle applicazioni a oggi sperimentate e realizzate. Su questo tema, sempre di grande attualità, pensiamo che i contributi possano essere numerosi, interessanti e stimolanti. N.45 – Settembre 2011, sarà dedicato alle interferenze con specifico riferimento alle esperienze pratiche sia di controllo sia di monitoraggio. N.46 – Dicembre 2011, sarà dedicato ai modelli matematici usati in PC sia per l’ingegneria sia per il monitoraggio. Questo tema potrà essere esteso anche alle applicazioni diverse dai terreni, come quelle marine e per l’interno delle apparecchiature. ASSOCIAZIONE PER LA PROTEZIONE DALLE CORROSIONI ELETTROLITICHE

Call for papers / richiesta di contributi Tutti i lettori sono caldamente invitati a pubblicare le loro esperienze nei prossimi numeri tematici. La scadenza per i contributi del n. 43, dedicato alle tecniche 5di manutenzione, è il 28 febbraio. Se avete dubbi, scrivete o telefonate alla redazione.


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l’editoriale

di alessandro troiano

Protezione Catodica: un pò di storia

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a tecnica della protezione catodica muove i primi passi ufficialmente in Inghilterra nel 1824 ad opera di sir Humpry Davy. Nato a Penzance, Gran Bretagna, nel 1778 da padre falegname, diventò professore di chimica alla Royal Institution a soli 24 anni ed è considerato uno dei padri dell'elettrochimica moderna. Davy è forse più noto come l’inventore della omonima lampada di sicurezza, usata dai minatori nelle miniere di carbone per abbassare il livello di rischio di esplosione dovuto alla presenza di sacche di gas naturale combustibile. Nel 1824 propose di installare dei blocchi di ferro alla copertura in rame di una nave, nel primo tentativo di protezione catodica. Mentre il successo fu ampio nella prevenzione della corrosione del rame, il ferro annullava le proprietà protettive degli ossidi di rame che si formano in seguito alla corrosione del rame immerso in acqua di mare, il cui scopo primario era impedire la crescita di molluschi allo scafo, che così necessitava di lunghe operazioni di pulitura in cantiere. Un secolo dopo la sua invenzione, la tecnica della protezione catodica si affermava negli Stati Uniti e soltanto a partire dagli anni '60 in tutto il mondo. Le prime applicazioni in Italia avvengono attorno al 1930 per la protezione delle guaine in piombo dei cavi telefonici. Ma se la nascita dunque della protezione catodica si deve ad un luminare inglese, l’impulso alla diffusione della moderna tecnica di protezione delle strutture metalliche a contatto con agenti corrosivi è sicuramente legato ad un illustre cattedratico italiano, prof. Pietro Pedeferri, scomparso nel 2008. È pertanto con grande vanto e onore che dedichiamo questo numero di APCE Notizie alla figura assai speciale del prof. Pedeferri. A detta di molti che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, colpiva la sua cordialità e spontaneità nel suo modo di relazionarsi con le persone. Quando parlava del suo lavoro, della corrosione o della protezione catodica, di cui si è occupato con grandissima competenza per decenni, trasmetteva un ché di molto serio su tutto ciò che è scienza, tecnologia e ingegneria. Questi aspetti della sua figura sono tratteggiati nel profilo e nel lavoro scientifico illustrati negli interventi dei suoi allievi nelle pagine che seguono. Pietro Pedeferri ha svolto un importante ruolo anche in APCE come direttore dei corsi di formazione e di aggiornamento e negli incontri tra tecnici. Ha contribuito a introdurre il rigore dell’elettrochimica nel nostro mondo di praticoni della protezione catodica con il beneficio di una più completa comprensione della materia. Si narra di un amichevole diverbio che il prof. Pedeferri ebbe durante un corso di protezione catodica al Politecnico di Milano sul ruolo dell’ossigeno nelle applicazioni marine, dove l’ossigeno a differenza dei terreni, svolge un ruolo preminente rispetto al rivestimento isolante. Forse per molti addetti di allora, si parla di trent’anni fa, non era mai stata nemmeno pronunciata la parola ossigeno; oggi il quadro è diverso e Pedeferri e la sua scuola hanno dato un contributo determinante al chiarimento di tutti questi aspetti. Il prof. Pedeferri inoltre è stato maestro e divulgatore della cultura della protezione catodica con la pubblicazione di apprezzati libri sull’argomento, oggi usati come materiale di riferimento per i corsi e per la consultazione. Vale la pena inoltre ricordare che era anche un artista, come testimoniano alcune opere che i lettori potranno apprezzare su questo numero. Ringraziamo dunque il prof. Pedeferri per il lavoro svolto nel passato e la sua scuola per i contributi che continuano a dare all’APCE e alla ricerca nel campo della protezione catodica. Alessandro Troiano Anticipiamo ai lettori che la prima settimana di ottobre si svolgerà il Convegno Nazionale APCE in occasione del trentennale della fondazione, in una sede da definire. Sarà un importante appuntamento per fare un bilancio di questi fruttuosi trent’anni attraverso i contributi dei soci e degli operatori oltre che fornire un’occasione di incontro e di scambio di opinioni e di esperienze.


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note

biografiche

Pietro Pedeferri

P Luciano Lazzari, Lucia Mazza

ietro Pedeferri ci lasciava il 3 dicembre 2008 dopo un’intensa e poliedrica vita di scienziato e tecnologo, di artista, di docente universitario. Pietro nasce a Delebio (Sondrio) il 21 dicembre 1938 e dopo il conseguimento della maturità classica nel liceo Piazzi di Sondrio, nel 1957 si iscrive al Biennio Propedeutico di Ingegneria dell’Università di Pavia, vincendo un posto presso l’Almo Collegio Borromeo retto dal letterato Cesare Angelini che eserciterà una forte influenza sulla sua sensibilità di artista. Approda poi al Politecnico di Milano, dove si laurea nel 1963 in Ingegneria Chimica con il Professor Roberto Piontelli, direttore dell’Istituto di Chimicafisica, Elettrochimica e Metallurgia, si distingue come studente brillante e meritevole, guadagnandosi riconoscimenti e borse di studio, come la mitica “De Nora”. Esclusi brevi periodi, nel ’73 a Cambridge, a partire dal 1980 a Bari (dove vince la cattedra di Elettrochimica) ed esclusi alcuni distacchi presso l’Università Somala di Mogadiscio, è al Politecnico di Milano che svolge la carriera universitaria, a partire dal 1965 come assistente di Chimica-Fisica, poi nel 1968, come libero docente in Elettrochimica, ottiene l’incarico per il primo corso di Corrosione e Protezione dei Materiali Metallici mai attivato in Italia: “il più antico, in nessun momento il più vecchio!” come amava affermare. Dal 1983 è professore ordinario di Corrosione e Protezione dei Materiali fino alla scomparsa: in questa disciplina crea una vera e propria scuola dove formare numerosi eredi, preparare il terreno per applicazioni e sviluppi sempre nuovi, tessere e rafforzare una fitta rete di rapporti internazionali, promuovere e divulgare la cultura corrosionistica ancora carente in alcuni settori. In parallelo desideriamo ricordare che Pietro è stato per dieci anni membro del Consiglio di Amministrazione del Politecnico e dal 1993, per due mandati, Direttore del Dipartimento di Chimica Fisica Applicata e poi membro del Senato Accademico. Dal 2003, per meriti scientifici, è ammesso a far parte del prestigioso Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere.

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Il docente e lo scienziato

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Nei più svariati ruoli, Pietro Pedeferri si distingue per qualità professionali e scientifiche mai disgiunte da eccezionali doti umane. Positivo e appassionato sa trasmettere rigore e serietà nel modo più cordiale, ricco di humour e di leggerezza. Intellettualmente curioso, instancabile, incurante delle difficoltà, indaga vie inesplorate mettendo corpo e anima nel vortice delle attività da lui stesso create anche in campo artistico. Schietto e sanguigno, esercita tutta la sua vis polemica, quando sono in gioco i valori e gli ideali in cui crede, per esempio riguardo la politica e la gestione universitaria. Con energia ed entusiasmo contagiosi attira e coinvolge i suoi collaboratori in molteplici progetti, valorizzando le competenze e le risorse altrui. Brillante conferenziere e abile comunicatore irradia calore e simpatia, riuscendo a trasformare anche i difetti (come il disordine e la distrazione) in elementi divertenti e alla fine costruttivi. Affascinante docente lascia una traccia indelebile nei suoi numerosi allievi cui insegna tanto, senza mai mettersi in cattedra. I principali contributi scientifici del lavoro di Pietro Pedeferri vanno individuati nell’intreccio personale e creativo delle sue attività di docente universitario, di scienziato e di artista. Come scienziato, convinto che la ricerca segue le applicazioni e viceversa, ha dato decisivi apporti teorici e tecnologici nei molteplici campi in cui si è via via impegnato e che ha


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ne svelano tutta la passione e tutto l’amore da lui profusi in questo settore.

L’artista Pietro è coinvolto dalla stessa passione e dallo stesso amore nel vivere l’avventura dell’ossidazione anodica del titanio: ne traccerà la storia nel libro Titaniocromia (ed altre cose), Edizioni Iterlinea del 1999. Fin dal ’67 individua i principi sottostanti la formazione di colori sulla superficie del titanio e i mezzi tecnici per ottenerli. Prefigurandosi nuove potenzialità espressive nel campo della comunicazione visiva, raccoglie la sfida di un uso artistico delle sue intuizioni e delle sue scoperte: la Titaniocromia, appunto. Il processo tecnico attraverso cui Pedeferri produce i suoi quadri è parte intrinseca della sua pittura, in un’inedita inscindibile fusione fra ricerca sperimentale cromatica e ricerca formale estetica. Come un artista rinascimentale, parte dalla materia costitutiva dei suoi colori per realizzare la sua tavolozza, non utilizzandola però a posteriori, ma componendola proprio nei singoli gesti del procedimento creativo. Per più di quarant’anni dipinge su titanio producendo e controllando elettrochimicamente l’ossido che si forma sulla superficie del metallo, in grado di riflettere e rifrangere la luce, per effetto del fenomeno detto “interferenza”. Sfruttando quella che chiama “memoria del titanio” ottiene due scale cromatiche ricche di toni e di iridescenze, regola sistemi per vedere l’invisibile, per “fermare l’attimo”. La profondità della preparazione scientifica è un presupposto necessario (se pur non sufficiente) al risultato artistico. E che risultato: le sue opere sono meraviglie della fantasia, piene di sollecitazioni estetiche, emozionanti nelle cromie, vibranti nella luce, preziose come gioielli. La sfida artistica è vinta: partendo dagli incoraggiamenti di Bruno Munari riceverà gli apprezzamenti più lusinghieri. Nel 1989 a Parigi ottiene il premio “Science pour l’art”. Partecipa a svariate mostre in Italia e all’estero ed espone in numerose e prestigiose sedi tra cui la Fondazione Corrente e la Triennale di Milano. Completa con le sue piastrine le edizioni poetiche PulcinoElefante di Alberto Casiraghi. Al Politecnico porta l’arcobaleno dei suoi colori tra l’altro nell’Aula Magna e nell’atrio centrale. Di una personalità così ricca e vivace come quella di Pietro Pedeferri, ciascuno ha una sfaccettatura da cogliere, un aspetto da amare, un momento da condividere; tutti ne conservano un ricordo vivido e colorato come il “suo” titanio che continua a regalare bagliori della luce che ha dentro.

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contribuito a consolidare: • ossidazione per via elettrochimica del titanio con sorprendenti esiti artistici; • effetto anodico (elettrochimica per la produzione dell’alluminio), studio dell’influenza dell’accelerazione di gravità; • corrosione localizzata degli acciai inossidabili; • bio-corrosione (comportamento dei materiali metallici nelle protesi inserite nel corpo umano) e biomateriali; studio dell’influenza della deformazione plastica sul comportamento a corrosione; tensocorrosione; • protezione catodica; • corrosione delle armature nelle strutture in calcestruzzo armato (dove si manifestano seri problemi di durabilità); • infragilimento da idrogeno Pioniere in quest’ultimo filone di ricerca, consegue risultati assolutamente innovativi ed originali ormai recepiti nell’ambiente scientifico e nelle normative internazionali: • nel 1991 mette a punto un metodo, da lui battezzato “prevenzione catodica” che consiste nell’applicare al calcestruzzo armato la tecnica elettrochimica della protezione catodica (usata per le tubazioni interrate come i metanodotti o per le strutture marine). Metodo per esempio adottato nella Sydney Opera House e su ponti autostradali, anche in Italia; • propone l’uso di particolari diagrammi potenziale-cloruri, anche questi acquisiti in tutta la letteratura specialistica e scientifica che a buon diritto sono i “Diagrammi Pedeferri”. L’attività scientifica è testimoniata da una vastissima produzione di oltre 350 pubblicazioni e da 25 libri. Presterà sempre molta attenzione ai risvolti applicativi, e ben gli si addice la massima di Heinsenberg per cui “l’esperto è chi conosce alcuni dei peggiori casi che possono avvenire nel suo campo e sa come evitarli”. Limitandoci qui ai temi corrosionistici, i suoi contributi sono importanti sia sotto il profilo teorico (Corrosion Science), sia sotto quello ingegneristico (Corrosion Engineering). Per questo i suoi manuali, i suoi libri specialistici sono molto apprezzati nelle Università come nell’Industria. Tra i manuali è doveroso citare almeno quelli sulla Protezione Catodica (dalla prima edizione di trent’anni fa, alle edizioni italiana e inglese di Polipress del 2006) e quello sulla Corrosione delle armature nel calcestruzzo armato pubblicato anche in inglese da Wiley-VCH nel 2004. Più recentemente sono usciti da Polipress due volumi sulla Corrosione e Protezione: il risultato, quasi il distillato di una più che quarantennale instancabile attività nel campo. Anche le piacevoli e sapienti letture personali che corredano l’ultima versio-

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La corrosione delle armature nel calcestruzzo In passato era opinione comune che le strutture in calcestruzzo armato fossero intrinsecamente durevoli. A partire dalla fine degli anni '70, di fronte all'aumentare dei casi di degrado, ai rischi per la sicurezza e agli alti costi di manutenzione, la prospettiva è cambiata e si è compresa l’importanza di prevenire il degrado del calcestruzzo e, soprattutto, la corrosione delle armature. Questo cambiamento di prospettiva è stato sicuramente merito di persone come Pietro Pedeferri, che proprio in quel periodo ha iniziato a interessarsi a questo argomento; Pietro ha fornito un contributo notevole alla comprensione dei meccanismi della corrosione delle armature nel calcestruzzo e della sua prevenzione, e alla sua divulgazione scientifica e tecnica. Anche in questo campo Pietro ha saputo incarnare tutti gli aspetti che dovrebbero caratterizzare un professore universitario: lo scienziato, il didatta e il divulgatore delle conoscenze.

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di

Fabio Bolzoni

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Politecnico di Milano Dipartimento CMIC “G. Natta” Via Mancinelli 7 20131 Milano

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enni storici

La sensibilità ante litteram di Pietro Pedeferri per il tema della corrosione delle armature nel calcestruzzo armato (c.a.) è testimoniata dalla presenza di un capitolo relativo nel suo libro di corrosione e protezione dei materiali metallici pubblicato nel 1978 [1], e nel libro “Protezione catodica” scritto con Luciano Lazzari nel 1981 [2]. L’attività fino al 1982-83 è essenzialmente legata all’interesse generale di Pietro per la corrosione del calcestruzzo e alla sua curiosità. L’attività di consulenza “pratica” era saltuaria e per lo più legata all’analisi di casi di corrosione ricorrenti su tubazioni annegate in conglomerati cementizi, spesso attribuite da coloro che avevano subito il danno all’azione di non meglio precisate correnti “vaganti”. L’inizio della stagione più feconda può essere fatto risalire al 1983. È l’anno in cui morì Dany Sinigaglia, e Pietro seppe rilanciare il gruppo di ricerca in un momento difficile. L’ing. Grandi, expresidente di ENI, che aveva fondato in quegli anni la Nuova Polmet, richiese una consulenza sulla valutazione dell’aggressività dei terreni e l’individuazione dei criteri di protezione di una condotta in calcestruzzo precompresso. La relazione che Pietro fece insieme a Tommaso Pastore fu la base dell’articolo presentato per il secondo corso di aggiornamento sulla protezione catodica [3], ripreso e pubblicato negli atti dell’Istituto di Meccanica Teorica e Applicata di Udine [4]. In questo articolo e nei successivi il problema, l’individuazione dei fenomeni di corrosione, la precisazione di un modello elettrochimico e, soprattutto, la divulgazione scientifica e tecnica furono la prima e principale attività che ha indubbiamente contribuito a rendere più consapevole l’intero settore della durabilità delle strutture in c.a. in Italia. Quest’attività è stata senza dubbio il principale merito di Pietro nella fase iniziale. Non era proprio scontato dialogare con un settore tradizionalmente chiuso a contributi esterni. Questo professore, che parlava di elettrochimica e della corrosione delle armature, è stato allo stesso tempo dirompente e assolutamente necessario per creare una nuova coscienza della durabilità di queste strutture. L’attività di divulgazione scientifica e tecnica è proseguita poi mediante l’organizzazione di convegni e corsi di istruzione permanente sulla corrosione delle armature nel calcestruzzo, tenu-


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Pietro docente al Politecnico di Milano

nelle ricerche per la sviluppo del sistema anodico e caratterizzazione degli anodi di titanio attivato per la protezione catodica e sull’ispezione e diagnosi. Nel 1986 ci fu la prima applicazione in Italia, a Trieste, della mappatura di potenziale a una struttura in calcestruzzo armato, ispirata dai lavori di Pietro Pedeferri. Nello stesso periodo (1987-88) vi fu la prima applicazione della protezione catodica sul ponte di Rioveggio nel tratto appenninico dell’Autostrada del Sole. Dopo qualche anno vi fu la prima applicazione della tecnica di “prevenzione catodica” realizzata dalla Nuova Polmet. Poiché erano presenti cavi di precompressione in acciaio ad alta resistenza suscettibili di infragilimento da idrogeno, Pedeferri suggerì un nuovo approccio di monitoraggio della protezione catodica, intrinsecamente sicuro, che si basa sulla misura del potenziale dell’anodo unitamente a quello del catodo. Questo nuovo metodo portò allo sviluppo di un brevetto, denominato commercialmente Minimonitor dalla proprietaria Nuova Polmet. L’attività di ricerca sperimentale presso il Dipartimento di Chimica Fisica Applicata (ora di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “G. Natta”) del Politecnico di Milano fu avviata alla fine degli anni ’80 con i provini di calcestruzzo preparati da laboratori esterni: i primi lavori riguardarono i metodi di ispezione, monitoraggio e protezione catodica. Nello stesso periodo fu finanziata con un progetto multi sponsor (Società Autostrade SpA, Snamprogetti SpA, Oronzio de Nora SpA, Nuova Polmet Cathodic Protection SpA, Alga SpA) una ricerca dal titolo “Corrosione delle armature in strutture in cemento armato e precompresso: valutazione dei parametri di progetto della protezione catodica ed individuazione delle condizioni di insorgenza dei fenomeni di interferenza ed infragilimento”. All’inizio degli anni ’90 iniziava la sperimentazione sulle armature di acciaio inossidabile e pochi anni dopo sugli inibitori di corrosione.

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ti fino al 2004; in particolare sono stati organizzate varie edizioni dei corsi di formazione permanente del Politecnico di Milano sulla corrosione delle armature, dal 1987 al 1999, la prima delle quali pubblicata come testo [5] e 5 edizioni sulla durabilità delle strutture in calcestruzzo armato, annualmente dal 2000 al 2004. Tra il 1996 e il 2007 l’attività di divulgazione scientifica e tecnica di Pietro Pedeferri si concretizzò nella pubblicazione, anche con altri colleghi europei, di quattro libri sulla corrosione delle armature nel calcestruzzo, dei quali tre in italiano e uno in inglese edito dalla prestigiosa casa editrice internazionale, Wiley [6-9]. Anche per quanto riguarda l’attività di ricerca il 1983 fu un anno molto importante: Pietro e Tommaso Pastore andarono insieme alla conferenza di Londra organizzata dalla SCI. Pietro ritrovò, dopo molti anni, Carmen Andrade che si occupava dello studio della corrosione delle armature mediante tecniche elettrochimiche, e altri ancora: Arup che aveva da poco pubblicato i fondamenti elettrochimici per l’interpretazione delle misure di potenziale; Tuutti, da poco dottore di ricerca con la sua dissertazione sul modello della corrosione delle armature, che precisava i concetti di periodo d’innesco e propagazione; c’era il giovane Isecke che presentava gli esiti dello studio sul collasso della Berlin Congress Hall; e molti altri ancora [10]. In pratica erano presenti tutti i gruppi che hanno fornito un contributo originale alla comprensione della corrosione nel calcestruzzo. Questo è il momento fondamentale che ha agganciato il gruppo di ricerca a una realtà internazionale. La collaborazione con alcuni gruppi di ricerca all’avanguardia, soprattutto in ambito europeo si è poi consolidata nel corso degli anni ’90 e successivi mediante la partecipazione a programmi di ricerca europei (COST), in particolare: COST 509 “Corrosion and protection of metals in contact with concrete” (19911996), COST 521 “Corrosion of steel in reinforced concrete structures. Prevention, monitoring and maintenance” (1997-2002), COST 534 “New materials, systems, methods and concepts for prestressed concrete structures” (2002-2007). La cooperazione con i gruppi di ricerca all’avanguardia in ambito europeo è stata rafforzata anche mediante le esperienze di ricerca di alcuni ricercatori, più o meno giovani (Luca Bertolini, Fabio Bolzoni, Maddalena Carsana, Elena Redaelli, Federica Lollini, Marco Manera) presso l’Instituto Torroja di Madrid (Spagna), la Aston University di Birmingham e l’Università Tecnica di Trondheim (Regno Unito), il TNO di Delft (Olanda)e l’Università di Leeds. L’attività sperimentale, in un primo periodo (anni ’80), si svolse in gran parte sul campo non disponendo di attrezzature per confezionare provini in calcestruzzo. In questi anni Pietro collaborò soprattutto con De Nora

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Successivamente l’attività del gruppo di ricerca diretta da Pietro Pedeferri si è notevolmente estesa e diversificata, comprendendo oltre agli argomenti citati anche la corrosione da correnti disperse, il ripristino delle strutture in c.a. carbonatate con metodi elettrochimici, gli inibitori di corrosione. Il numero di pubblicazioni scientifiche e divulgative sull’argomento è cresciuto molto, così come numerosi sono stati i contratti di ricerca sia con aziende private sia con il ministero (PRIN). L’attività di ricerca ricevette un nuovo impulso quando, alla metà degli anni ’90, grazie a Pietro Pedeferri e Luca Bertolini, fu costituito il Laboratorio Materiali Cementizi e Durabilità, presso il Dipartimento. Non è possibile qui riassumere tutti i contributi alla comprensione dei fenomeni di corrosione delle armature nel calcestruzzo e della sua prevenzione portati da Pietro Pedeferri e dal suo gruppo di ricerca. Di seguito si farà un breve cenno alla problematica della corrosione delle armature, all’uso delle misure di potenziale per l’ispezione e il monitoraggio e ai contributi allo sviluppo dell’uso di armature in acciaio inossidabile [11], mentre la tematica della prevenzione catodica è trattata a pagina 19.

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La corrosione delle armature nel calcestruzzo

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Le armature di acciaio nel calcestruzzo sono protette dalla corrosione grazie alle condizioni di passività che si instaurano a contatto con la soluzione alcalina contenuta nei pori della pasta cementizia. La corrosione delle armature può essere indotta dalla carbonatazione del calcestruzzo o dalla penetrazione di cloruri. Nel primo caso, l’anidride carbonica presente nell’atmosfera può reagire con i composti alcalini presenti nella soluzione dei pori del calcestruzzo (NaOH, KOH) e nella matrice cementizia sotto forma di Ca(OH)2

(portlandite). La carbonatazione porta il pH della soluzione dei pori a valori prossimi alla neutralità, per cui l'acciaio nel calcestruzzo carbonatato non è più passivo. La corrosione da cloruri avviene quando questi ioni penetrano all’interno del calcestruzzo e raggiungono alla superficie dell’armatura una concentrazione superiore a un valore critico, necessario per depassivare le armature. Spesso Pietro, per rendere più agevole la comprensione del comportamento corrosionistico dell’armatura in acciaio al carbonio (comune) nel calcestruzzo lo paragonava a quello di un acciaio inossidabile AISI 304 (18%Cr 8%Ni) in soluzioni neutre. Il tempo necessario perché gli agenti aggressivi arrivino a livello delle armature e ne provochino la depassivazione, detto tempo di innesco della corrosione, dipende principalmente dalle caratteristiche del calcestruzzo, in particolare dalla sua permeabilità (e quindi dalla porosità) e dallo spessore di copriferro. Dopo l’innesco della corrosione, l’acciaio depassivato diviene suscettibile alla corrosione, con una velocità che dipende dalle condizioni di esposizione ambientale. Questo periodo, detto tempo di propagazione, termina nel momento in cui viene raggiunto un determinato stato limite, oltre il quale le conseguenze della corrosione possono compromettere le prestazioni della struttura. I prodotti di corrosione, infatti, occupano un volume da 2 a 6 volte superiore rispetto al volume del ferro e quando si accumulano all’interfaccia tra armatura e calcestruzzo possono provocare la fessurazione del copriferro o il suo distacco. Nel caso della corrosione da cloruri, che avviene in forma localizzata tipo pitting, l’attacco corrosivo può portare in tempi relativamente brevi a una riduzione inaccettabile della sezione resistente dell’armatura.

Ispezione e monitoraggio delle strutture in calcestruzzo armato Una metodologia corretta di ispezione e monitoraggio delle strutture in calcestruzzo armato è di fondamentale importanza per la prevenzione della corrosione e la progettazione degli interventi di ripristino. Una delle tecniche non distruttive che si possono utilizzare a questo scopo è la misura del potenziale delle armature, in particolare la tecnica della mappatura di potenziale, già ricordata in precedenza. La misura di potenziale è di facile esecuzione ma deve essere correttamente interpretata tenuto conto dei contributi spuri quali la caduta ohmica nell’elettrolita e i potenziali di giunzione interliquido. Fatte salve queste precisazioni, l’applicazione delle misure di potenziale su strutture reali ha mostrato che lo stato di corrosione può essere interpretato da queste misure: la Figura 1, ispira-


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ta dai lavori di Arup, come già ricordato, era presente già nel testo di Protezione Catodica del 1981 a testimoniare l’interesse precoce di Pietro per questa tematica [2], ed è stata poi aggiornata nei testi successivi [3-9, 12].

Prevenzione della corrosione nel calcestruzzo Oggi sono disponibili normative nazionali e internazionali, proposte a partire dagli anni ’90, che, in funzione dell’ambiente, propongono limiti sulla composizione del calcestruzzo, sullo spessore del copriferro e sull’esecuzione delle strutture (stagionatura). Il rispetto di queste normative eliminerebbe, per vite di servizio usuali, comprese tra 50 a 75 anni e anche più lunghe nel caso di corrosione da carbonatazione, la grande maggioranza dei casi di corrosione. Vi sono alcuni casi di grande importanza pratica nei quali il rispetto degli standard, secondo l’opinione di molti studiosi, non può garantire la vita utile della struttura. Questo accade in presenza di ambienti molto aggressivi, in particolare per la presenza di cloruri (ambiente marino o sali antigelo) e/o di vite di servizio molto lunghe. In questi casi, è possibile fare ricorso alle cosiddette “protezioni aggiuntive” che possono modificare le caratteristiche del calcestruzzo o delle armature (in massa o di superficie) e dell’ambiente esterno.

Armature in acciaio inossidabile

garantire vite di servizio molto lunghe. Fino a oggi le applicazioni sono limitate, probabilmente a causa del costo elevato dell’armatura in acciaio inossidabile (8-10 volte rispetto a quelle usuali in acciaio al carbonio, ma il costo finale dell'opera non supera in genere il 10%). I risultati ottenuti nelle numerose pubblicazioni di Pietro Pedeferri e collaboratori sull’argomento hanno permesso di evidenziare il ruolo dei diversi fattori che influenzano il comportamento. Sulla base dei risultati ottenuti nei laboratori del Politecnico di Milano, confrontati con quelli ottenuti presso altre istituzioni di ricerca e con l’esperienza di campo, sono stati messi a punto dei diagrammi (Figura 2) che indicano i campi di applicabilità dei diversi materiali (acciaio comune o diversi tipi di acciaio inossidabile) in funzione dell’aggressività ambientale: contenuto di cloruri, pH dell’ambiente (calcestruzzo alcalino o carbonatato), temperatura. Credo che questi

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Le armature in acciaio inossidabile si sono dimostrate efficaci nella prevenzione della corrosione anche in ambienti molto aggressivi. Il loro uso è stato proposto principalmente nel caso di ambienti contaminati da cloruri, come il ponte di Progreso, in Messico, costruito negli anni ’30 del secolo scorso. In alcuni casi, come nella Guild Hall Yeast a Londra, sono state usate anche in ambiente interessato solo dalla carbonatazione, per

Figura 1- Potenziali dell’acciaio nel calcestruzzo in condizioni di corrosione libera e con polarizzazione esterna (da Arup e modificata in [2-9, 12])

Figura 2 - Campi di applicabilità dei diversi acciai inossidabili decapati in ambienti contenenti cloruri esposti a temperatura di 20°C e 40°C [7, 8, 11].

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diagrammi debbano essere chiamati diagrammi “Pedeferri”, perché fu Pietro ad avere l’idea di elaborare in questo modo i risultati delle prove sperimentali e a proporli per la prima volta nel 1998, e successivamente, ad affinarli in base alle nuove conoscenze acquisite nella sperimentazione. Di seguito si riassumono brevemente le principali informazioni tratte da questi diagrammi. In calcestruzzo alcalino a 20°C, gli acciai inossidabili austenitici AISI 304L (1.4307) con 18% Cr e 8% Ni possono essere utilizzati in calcestruzzo contenente fino a 5% di cloruri, limite che aumenta se si utilizzano acciai austenitici con molibdeno 316L (1.4404) o duplex 24-05-2,5 (1.4462). In presenza di ossidi di saldatura questi limiti diminuiscono fino al 3,5%, valore comunque difficilmente raggiungibile nelle strutture reali. La concentrazione massima di cloruri tollerabile dai diversi tipi di armatura diminuisce sensibilmente con la temperatura (quindi in ambiente tropicale). In calcestruzzo carbonatato la concentrazione critica di cloruri diminuisce molto soprattutto a temperatura più elevata.

Accoppiamento galvanico con le armature in acciaio al carbonio È stato chiaramente dimostrato dagli studi condotti dal gruppo di ricerca del prof. Pedeferri che le armature di acciaio inossidabile non aumentano il rischio di corrosione per contatto galvanico: fino a quando entrambi i materiali sono passivi il potenziale di corrosione è praticamente identico e

quindi non si verificano in pratica effetti negativi. La macrocoppia provoca effetti significativi solo se l’acciaio al carbonio si corrode in calcestruzzo carbonatato o contenente cloruri. Ma anche in questo caso, l’aumento della velocità di corrosione dell’acciaio al carbonio in presenza di collegamento con l’acciaio inossidabile è inferiore all’effetto dell’accoppiamento con le aree passive di acciaio al carbonio che circondano l’area che subisce l’attacco localizzato. In presenza di ossidi di saldatura sull’acciaio inossidabile, l’incremento della velocità di corrosione sull’acciaio al carbonio è molto superiore e non trascurabile. Il rischio di corrosione per contatto galvanico può essere comunque ridotto eliminando con decapaggio la scaglia di ossidi da saldatura. Questo permette di diminuire i costi dell’applicazione degli acciai inossidabili con un loro uso “intelligente” solo nelle parti più esposte della struttura.

Effetto della presenza di correnti disperse Il comportamento degli acciai inossidabili in presenza di correnti disperse di origine continua è stato studiato verso la metà degli anni ’90: in calcestruzzi senza cloruri il comportamento degli acciai inossidabili è analogo a quello delle comuni armature. In calcestruzzi con cloruri invece gli acciai inossidabili si comportano meglio anche in queste situazioni perché mantengono la passività in presenza di un contenuto di cloruri molto più elevato rispetto ai comuni acciai.

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Bibliografia

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1. P. Pedeferri, Corrosione e protezione dei materiali metallici, CLUP, Milano, 1978 2. L. Lazzari, P. Pedeferri, Protezione catodica, CLUP, Milano, 1981. 3. P.Pedeferri, T. Pastore, “Corrosione delle armature nel cemento armato o precompresso e protezione catodica”, in B. Mazza (a cura di), Secondo corso di aggiornamento sulla protezione catodica, p.335-353, CLUP, Milano, 1984. 4. T. Pastore, P. Pedeferri, “La corrosione delle armature nel calcestruzzo”, Atti dell’istituto di Meccanica Teorica e Applicata dell’Università di Udine, 1985. 5. P. Pedeferri (a cura di), Corrosione e protezione di strutture metalliche e in cemento armato negli ambienti naturali, CLUP, Milano, 1987. 6. P. Pedeferri, L. Bertolini, La corrosione nel calcestruzzo e negli ambienti naturali, Mc-Graw Hill, Milano, 1996. 7. P. Pedeferri, L. Bertolini, La durabilità del calcestruzzo armato, McGraw-Hill, Milano, 2000. 8. L.Bertolini, B.Elsener, P.Pedeferri, R.Polder, Corrosion of Steel in Concrete: Prevention, Diagnosis, Repair, Wiley-VCH, Weinheim, 2004. 9. P. Pedeferri, La corrosione delle armature nel calcestruzzo, AICAP, 2007. 10. Corrosion of reinforcements in concrete constructions, Society of chemical industry, London, 1983 11. P. Pedeferri, Progresses in prevention of corrosion in concrete, Rendiconti Istituto Lombardo Accademia di scienze e lettere, B, Vol. 138 (2004), Fascicoli 1 e 2, Milano, 2005. 12. P. Pedeferri, Corrosione e protezione dei materiali metallici, volume 1 e 2, Polipress, Milano, 2007.


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pietro

pedeferri

La protezione catodica delle strutture offshore

P

ietro Pedeferri ha fortemente contribuito negli anni ’80 alla razionalizzazione delle condizioni di protezione catodica (PC) delle strutture metalliche operanti in ambiente marino. Da ricordare la relazione generale tenuta dal Prof. Pedeferri alle giornate di studio sulla “Corrosione Marina” organizzata dal Centro Corrosione AIM e dal Laboratorio del CNR per la corrosione marina dei metalli, a Genova, il 20 marzo 1980 che è stata poi pubblicata su “La Metallurgia Italiana” del 1981 [1]. La memoria è stata tradotta e pubblicata a cura del Ministero della Difesa inglese, che era venuto in possesso dell’articolo in italiano [2]. In quegli anni, la protezione catodica delle strutture offshore era al centro dell’interesse nella comunità scientifica per i notevoli risvolti economici e tecnici che essa comportava. Infatti lo sfruttamento dei pozzi petroliferi al largo delle coste rendeva necessario il ricorso a speciali strutture metalliche, dette strutture “offshore”, le cui parti immerse dovevano essere protette dalla corrosione e la PC si presentava come il rimedio più efficace e nello stesso tempo più economico. Tuttavia si erano registrati dei tragici insuccessi che ne avevano messo in discussione l’affidabilità.

di

Marco Ormellese Fabio Bolzoni Politecnico di Milano Dipartimento CMIC G. Natta Via Mancinelli 7 20131 Milano

Pietro si era prima incuriosito e poi decisamente appassionato al problema e da ottimo divulgatore quale era si era posto l’obiettivo di razionalizzare la materia e di renderla fruibile al più vasto pubblico di addetti rispetto alla ristretta cerchia dei ricercatori. Ed è così che ha trasferito nel suo testo di PC un capitolo piuttosto copioso di informazioni sul tema, poi ripreso negli interventi sopra citati, di cui vogliamo sottolinearne i punti salienti.

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Le condizioni di protezione delle strutture offshore La PC delle strutture offshore si attua prevalentemente con sistemi ad anodi galvanici. La PC a corrente impressa è infatti raramente impiegata a causa dell’eccessiva potenza richiesta, della non disponibilità di energia, del precoce consumo degli anodi e soprattutto della sua scarsa affidabilità dato l’elevato rischio di rottura dei conduttori anodici. La PC ad anodi galvanici è invece più diffusa e maggiormente gradita, non richiedendo alcun esercizio; va detto che tuttavia richiede un’attenta progettazione, pena la mancata protezione anche dopo brevissimi tempi, come avvenuto nel Mare del Nord negli anni ’60. Sull’esperienza maturata nel golfo del Messico, dove erano presenti già negli anni ‘50 più di mille piattaforme, si era consolidata una filosofia di progetto, estesa poi per le applicazioni nella maggioranza dei mari, basata su un calcolo delle strutture per resistere ai carichi massimi cui possono essere soggette durante gli uragani, o la cosiddetta tempesta dei 100 anni, e sull’applicazione di una adeguata protezione catodica ottenuta mantenendo il potenziale delle strutture sufficientemente negativo, pari a −800 mV ACC (elettrodo di Ag/AgCl). Questo valore non deriva dal fatto che solo a potenziali così negativi si raggiunge una riduzione sufficiente della velocità di corrosione; infatti, già potenziali di −700, −750 mV ACC basterebbero per ridurre di alcune decine di volte la velocità di corrosione. Il valore è invece stato scelto perché solo il raggiungimento di potenziali così negativi consente la separazione e la conservazione nel tempo dei depositi calcarei che ricoprono la struttura e permettono di ridurre notevolmente la corrente di protezione, quindi, il costo della PC. Per le

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parti appoggiate sul fondale marino, la PC deve servire anche per combattere l’azione di batteri solfato riduttori, per cui si rende necessario portare il potenziale a −900 mV ACC. Queste condizioni di protezione non valgono se la struttura è soggetta a sollecitazioni di fatica, come per esempio accade sui nodi delle piattaforme dove, a causa delle condizioni ambientali di agitazione del mare, possono insorgere fenomeni noti come corrosione-fatica. Pedeferri ha studiato e allertato sul problema della corrosione-fatica, che stava procurando tante preoccupazioni alle compagnie petrolifere: lo studio dei fenomeni di corrosione-fatica e le relative tecniche di prevenzione e protezione lo hanno sempre molto appassionato [3]. Appariva chiaro che il fenomeno di fatica era legato a svariati parametri che esercitavano un’influenza talvolta opposta: le condizioni di protezione, in termini di potenziale e densità di corrente, l’influenza dell’ossigeno, i parametri di fatica. Il punto critico era comunque la definizione del potenziale di protezione per quelle strutture che operano in mari caratterizzati da forte agitazione (il Mare del Nord, per esempio) e pertanto soggette anche a corrosione-fatica.

Le condizioni di protezione delle strutture offshore in presenza di corrosione-fatica La progettazione delle prime piattaforme nel mare del Nord seguiva la filosofia sopra esposta. Purtroppo, gli effetti di una situazione ambientale e di carico molto severa causarono in tempi molto brevi l’insorgenza di gravi fenomeni di fatica: il disastro della SeaGem e l’affondamento di altre piattaforme mobili va attribuito a fenomeni di corrosione-fatica. Si cambiò pertanto il modo di progettare le strutture per tener conto del fatto che il meccanismo di cedimento più probabile era appunto quello di corrosione-fatica: siccome la frequenza delle variazioni di carico, legata a quella del moto ondoso, è

relativamente bassa (inferiore a 0,2 Hz) ci si trova nelle condizioni in cui il fenomeno di fatica può essere notevolmente influenzato dalla presenza di un ambiente aggressivo. Si sono quindi moltiplicati negli anni ’80 gli studi sul comportamento a fatica in acqua di mare degli acciai al carbonio-manganese usati per queste applicazioni e in particolare dei giunti saldati, in condizioni di corrosione libera o in PC a diversi livelli di potenziale. Come ben riassunto da Pedeferri, l’esperienza di laboratorio consente di affermare che per quanto riguarda la variazione del fattore di intensità degli sforzi (ΔK = β (σ max - σ min) a½ ), dove K è il fattore di intensificazione degli sforzi, β è un fattore di forma , σmax e σmin sono il carico massimo e minimo, rispettivamente, e a è la dimensione del difetto, valgono le seguenti considerazioni: • per bassi valori di ΔK o se il potenziale di protezione è pari a −800 mV ACC, la velocità di avanzamento delle cricche di fatica è minima; o se il potenziale di protezione inferiore a −1300 mV ACC, si osserva un forte aumento della velocità di crescita della cricca; • per alti valori di ΔK o se il potenziale di protezione è prossimo a −700 mV ACC, la velocità di avanzamento della cricca è minima (di valore uguale a quella che si misura in aria) o se il potenziale di protezione è pari a −800 mV ACC (nelle migliori condizioni di fatica a più bassi ΔK), la velocità di avanzamento della cricca aumenta di circa 3 volte (risultando più o meno uguale a quella di corrosione libera) o se il potenziale di protezione è pari a −1000 / −1100 mV AAC, la velocità di avanzamento della cricca aumenta anche di 4-5 volte. Pedeferri, allora, si domandò: qual è il potenziale di protezione da adottare? L’analisi delle condizioni di lavoro di una struttura offshore mostra che nelle reali condizioni di esercizio, la presenza di elevati ΔK (che si hanno per cricche molto profonde al termine della vita della struttura, o in seguito ad elevate variazioni di carico, che solo raramente si producono) è limitata a periodi di breve durata, che corrispondono a una piccola percentuale della vita della struttura.


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La maggior parte del tempo invece la struttura opera in condizioni di fatica con basse variazione del fattore di intensità degli sforzi. Pertanto nella valutazione del danno complessivo pesa molto di più l’avanzamento della cricca prodotto dalla fatica a bassi ΔK che non quello ad alti ΔK. Quindi, nel caso delle strutture offshore, rifacendosi alle esperienze di laboratorio, il potenziale di protezione più adatto per limitare i danni provocati dai fenomeni di fatica sembra essere lo stesso che si consiglia per prevenire la corrosione generalizzata, ossia −800 mV ACC. Devono però essere assolutamente evitate condizioni di sovraprotezione: queste infatti, non solo comportano un inutile sperpero economico, ma, in presenza di fenomeni di fatica, causano un notevole aumento della velocità di avanzamento delle cricche.

Densità di corrente di protezione Riportiamo infine alcune considerazione su un altro punto di notevole interesse, che ha sempre animato il prof. Pedeferri, ossia il legame tra la corrente di protezione e il processo di riduzione di ossigeno. Come noto, per il raggiungimento del potenziale di protezione è necessario applicare una corrente catodica che dipende dalle condizioni ambientali e dalla superficie esposta della struttura. In breve, la corrente di protezione è uguale alla corrente che i processi catodici sono in grado di erogare al potenziale di protezione. Siccome a potenziali di −800 mV ACC il processo catodico è costituito praticamente solo dalla riduzione di ossigeno in condizioni di controllo di diffusione, in prima approssimazione è possibile ritenere che la corrente di protezione misuri in unità elettrochimiche la quantità di ossigeno che può giungere alla superficie metallica nell’unità di tempo. Essa dipende: dalla concentrazione dell’ossigeno disciolto, dalla temperatura, dalla velocità e dal grado di turbolenza del-

l’acqua alla superficie metallica e, a partire dal momento in cui la superficie è ricoperta dal deposito calcareo, anche dalle caratteristiche di tale rivestimento. Si passa pertanto da valori di 20 mA/m2, tipici di strutture immerse nel fango marino, dove l’apporto di ossigeno è ridotto, a valori prossimi 80-90 mA/m2, tipici ad esempio delle strutture operanti nel Mar Mediterraneo, nel Golfo del Messico o lungo le coste Africane, fino a valori anche superiori a 200 mA/m2, tipici di strutture operanti in acque agitate, per esempio nel Mar del Nord. In generale, nel primo periodo di funzionamento, quando le strutture non sono ricoperte dal deposito calcareo, il sistema di protezione impone densità di corrente superiore di circa il 30% rispetto a quella necessaria per la protezione in condizioni di regime. Queste correnti non sono tuttavia sufficienti per portare immediatamente la struttura al potenziale di protezione. La sua polarizzazione avviene lentamente nel tempo parallelamente alla separazione dei depositi calcarei e posso passare parecchi mesi prima che il potenziale si stabilizzi.

Conclusione Pietro Pedeferri ha dedicato parte della sua ricerca svolta negli anni ’80 allo studio delle condizioni di protezione catodica delle strutture offshore. Tra le varie tematiche affrontate, quelle che lo hanno di sicuro più appassionato sono legate alla determinazione delle condizioni di protezione catodica (potenziale e densità di corrente) in presenza di corrosione-fatica, problematica che ha causato in quegli anni tragici disastri.

1. P. Pedeferri, Aspetti e problemi della protezione catodica delle strutture offshore, La Metallurgia Italiana, 73, 2 (1981), pp. 75-81 2. P. Pedeferri, Aspects and problems of cathodic protection for offshore structures, Procurement Executive Ministry of Defence, DRIC Translation, Controller HMSO, London, 1986 3. D. Sinigaglia, G. Re, P. Pedeferri, Cedimento a fatica e ambientale dei materiali metallici, Ed. Clup Milano, 1979.

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Bibliografia

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pedeferri

La prevenzione catodica La prevenzione catodica, introdotta da Pietro Pedeferri, rappresenta un’applicazione innovativa dei metodi elettrochimici, non come metodi di intervento per rimediare ai danni della corrosione, ma come strumento di progetto per prevenire la corrosione e aumentare la vita di servizio delle strutture in calcestruzzo armato e calcestruzzo armato precompresso esposte in condizioni ambientali aggressive.

La vita di servizio di una struttura in calcestruzzo armato può quindi essere distinta in due fasi (Figura 1): una fase di innesco, in cui le armature sono passive, ma nel calcestruzzo si stanno verificando i fenomeni che porteranno alla loro depassivazione, e una fase di propagazione, in cui le armature sono attive e si corrodono con una velocità che dipende dalle condizioni di umidità e dal contenuto di cloruri, se presenti. La fase di propagazione termina in corrispondenza di un evento critico nella vita della struttura: ad esempio la fessurazione del calcestruzzo, dovuta all’effetto espansivo dei prodotti di corrosione, oppure il distacco del copriferro, che viene espulso quando si accumulano quantità significative di prodotti di corrosione alla superficie dell’armatura, oppure, nel caso estremo, il collasso della struttura. In genere, nelle strutture in calcestruzzo armato, la corrosione dell’armatura si manifesta attraverso i danneggiamenti del copriferro, che precedono le conseguenze strutturali dovute alla diminuzione dello spessore dell’armatura. Tuttavia, anche la fessurazione e il distacco del copriferro possono avere conseguenze molto serie in quanto promuovono la propagazione della corrosione dell’armatura e limitano la funzionalità della struttura, ad esempio per quanto riguarda gli aspetti legati alla sua sicurezza (basti pensare alle conseguenze della caduta di frammenti di calcestruzzo). Pertanto le strutture in calcestruzzo armato danneggiate dalla corrosione richiedono interventi di manutenzione per interrompere il fenomeno corrosivo e ripristinare le condizioni di sicurezza strutturale e funzionale. Dagli anni ‘70 la protezione catodica è utilizzata per bloccare la corrosione delle armature di acciaio nelle strutture in calcestruzzo. La protezione catodica è un metodo di intervento per le strutture danneggiate dalla corrosione in quanto consente, con una densità di corrente dell’ordine di 10 mA/m2, di bloccare la propagazione della corrosione, nonostante l’armatura sia a contatto con un calcestruzzo non protettivo (Figura 2). A differenza dei terreni o dell’acqua di mare, dove è necessario che la corrente catodica applicata porti il potenziale dell’acciaio al di sotto del

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Luca Bertolini, Maddalena Carsana, Matteo Gastaldi, Elena Redaelli Politecnico di Milano Dipartimento CMIC “G. Natta” Via Mancinelli 7 20131 Milano

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e armature di acciaio nel calcestruzzo si trovano inizialmente in condizioni di passività, e quindi la loro velocità di corrosione è trascurabile indipendentemente dalle condizioni di umidità. Tuttavia, la passività può essere persa se il calcestruzzo a contatto con l’armatura perde le sue caratteristiche protettive, cioè l’alcalinità e l’assenza di cloruri. L’alcalinità del calcestruzzo viene persa per effetto della reazione di carbonatazione, che è un fenomeno che interessa le strutture esposte all’atmosfera. I cloruri, invece, possono penetrare nel calcestruzzo quando questo si trova esposto ad ambienti marini oppure ad ambienti in cui vengono utilizzati sali antigelo. Mentre la corrosione dovuta alla carbonatazione ha una morfologia di tipo generalizzato, cioè avviene in modo uniforme sulla superficie dell’armatura a contatto con il calcestruzzo carbonatato, la corrosione da cloruri ha una morfologia di tipo localizzato, caratterizzata da attacchi penetranti.

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Figura 1 - Schematizzazione della vita di servizio di una struttura in calcestruzzo armato in relazione alla corrosione delle armature (p è la penetrazione della corrosione, t è il tempo).

Figura 3 - Effetto dell’applicazione della prevenzione catodica sull’innesco della corrosione dell’armatura.

Figura 2 - Effetto dell’applicazione della protezione catodica sull’avanzamento della corrosione dell’armatura.

da carbonatazione. Oggi la protezione catodica è riconosciuta come l’unica tecnica in grado di bloccare la corrosione di una armatura a contatto con calcestruzzo inquinato da cloruri anche in tenori molto elevati.

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potenziale di equilibrio (e quindi in condizioni di immunità), nel calcestruzzo è sufficiente che il potenziale sia inferiore al potenziale di protezione Epro (si parla di condizioni di passività perché l’armatura si ripassiva). La protezione catodica nel calcestruzzo è nata per proteggere i ponti autostradali oppure le strutture marine, in cui i cloruri avevano causato la corrosione dell’armatura; in seguito è stata applicata anche a strutture interessate

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Negli anni ‘90 Pietro Pedeferri propose di utilizzare la protezione catodica su strutture in calcestruzzo armato nuove, non ancora interessate dalla corrosione, sebbene a rischio di corrosione per la presenza di cloruri nell’ambiente di esposizione. Chiamò questa nuova tecnica “prevenzione catodica” per distinguerla dalla protezione catodica in quanto l’applicazione della corrente ad armature passive (a contatto con un calcestruzzo alcalino e privo di cloruri) consente di aumentare il tenore di cloruri necessario per innescare la corrosione fino a valori molto elevati, che possono non essere raggiunti durante la vita utile di progetto della

Figura 4 - Diagramma Pedeferri che descrive le condizioni di corrosione delle armature nel calcestruzzo in funzione del potenziale e del contenuto di cloruri. Il percorso 1→4→5/6→ descrive il funzionamento della protezione catodica, mentre il percorso 1→2→3→ descrive il funzionamento della prevenzione catodica.


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struttura (Figura 3). Questo effetto può essere compreso facendo riferimento al diagramma che descrive la relazione tra potenziale dell’armatura e contenuto di cloruri (Figura 4), in cui si vede che nella zona A, per potenziali superiori al potenziale di pitting, la corrosione si può innescare e propagare; la zona B è la zona di passività imperfetta, dove la corrosione può propagare, ma non si innesca; la zona C è la zona di passività perfetta, dove la corrosione non si innesca né propaga; nelle zone D e E si ha sviluppo di idrogeno con rischio di infragilimento degli acciai ad alta resistenza. Rispetto alla protezione catodica, in cui si deve bloccare la corrosione dopo l’innesco abbassando il potenziale fino o in prossimità alla zona C (seguendo quindi il percorso 4→5 o 4→6), la prevenzione catodica richiede una minore polarizzazione (percorso 1→2), e quindi una minore corrente. Il tenore di cloruri nel calcestruzzo a contatto con l’armatura aumenta nel tempo per effetto della penetrazione dall’ambiente (percorso 2→3), ma l’innesco della corrosione, rappresentato dall’ingresso nella zona A, avviene per tenori di cloruri più elevati: questo comporta un aumento della vita di servizio della struttura in calcestruzzo armato. Questo diagramma è oggi riconosciuto internazionalmente come Diagramma Pedeferri. Poiché la polarizzazione richiesta dalla prevenzione catodica è piccola, si elimina il rischio di infragilimento da idrogeno e quindi la tecnica può essere applicata anche alle strutture precompresse che contengono acciai ad alta resistenza. La prevenzione catodica ha però molti altri vantaggi rispetto alla protezione catodica: la minore corrente

applicata riduce la potenza elettrica necessaria e attenua tutti gli effetti negativi legati alla circolazione di corrente, come ad esempio l’acidificazione all’anodo; la distribuzione di corrente è più uniforme grazie alla migliore polarizzabilità dell’acciaio passivo. Inoltre, la predisposizione del sistema di prevenzione già nella fase di progetto consente di ottimizzarne tutti gli aspetti progettuali, come ad esempio il posizionamento del sistema anodico, l’inserimento di opportuni elettrodi di riferimento per il monitoraggio, oltre ovviamente a evitare le riparazioni e i ripristini localizzati generalmente necessari in una struttura dove la propagazione della corrosione ha già danneggiato il calcestruzzo. La prevenzione catodica è oggi recepita dalla normativa europea sulla protezione catodica nel calcestruzzo armato ed è considerata una protezione aggiuntiva al pari, ad esempio, dell’utilizzo degli acciai inossidabili. Viene utilizzata in tutto il mondo per prevenire la corrosione delle armature in ambienti aggressivi per la presenza di cloruri, in particolare su ponti e viadotti su cui si utilizzano sali antigelo o in ambienti marini. Tra le applicazioni si può citare la Opera House di Sydney dove alle nuove strutture in calcestruzzo armato precompresso del molo, sostituite per problemi di corrosione, è stata applicata la prevenzione catodica. I principi della prevenzione catodica sono stati utilizzati anche in altre applicazioni: ad esempio è stato proposto l’inserimento di anodi galvanici nelle zone dove il calcestruzzo danneggiato viene riparato localmente, in modo da prevenire l’innesco della corrosione nelle zone adiacenti, e quindi consente di aumentare la durabilità dell’intervento.

1. P. Pedeferri, “Cathodic protection of new concrete constructions”, in: Proc. Int. Conf. Structural Improvement through Corrosion Protection of Reinforced Concrete, Institute of Corrosion, London, 1992. 2. P. Pedeferri, “Protezione e prevenzione catodica delle armature nelle costruzioni in c.a. e c.a.p.”, L’Edilizia, Ottobre 1993, pp. 69-81. 3. P. Pedeferri, “Cathodic protection and cathodic prevention”, Construction and Building Materials, Vol. 10, No. 5, pp. 391-402, 1996. 4. L. Bertolini, F. Bolzoni, L. Lazzari, T. Pastore, P. Pedeferri, “Cathodic protection and cathodic prevention in concrete: principles and applications”, Journal of Applied Electrochemistry, Vol. 28, 1321-1331, 1998. 5. L. Bertolini, F. Bolzoni, M. Gastaldi, T. Pastore, P. Pedeferri, E. Redaelli, “Effects of cathodic prevention on the chloride threshold for steel corrosion in concrete”, Electrochimica Acta, Vol. 54, 1452-1463, 2009. 6. A. Cheaitani, P. Pedeferri, B. Bazzoni, P. Karajayli, R. Dick, “Performance of cathodic prevention system of Sydney Opera House underbroadwalk after 10 years of operation”, in: Proc. Int. Conf. Corrosion/06, NACE, Houston, paper 06342, 2006. 7. C.L. Page, G. Sergi, “Developments in cathodic protection applied to reinforced concrete”, Journal of Materials in Civil Engineering, Vol. 12, No. 1, pp. 8-15, 2000. 8. Marcel Pourbaix, Lectures on electrochemical corrosion, Plenum Press, New York, 1973. 9. European Standard EN 12696, Cathodic protection of steel in concrete, 2000.

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Bibliografia

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Sensori galvanici per la conservazione di opere in bronzo dorato Un grato ricordo va alla memoria di Pietro Pedeferri per i preziosi consigli, per l’instancabile entusiasmo e per la passione per l’arte. A lui dobbiamo la strada intrapresa e la nascita del Laboratorio Materiali e Metodi per il Patrimonio Culturale

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S. Goidanich, L. Brambilla, L. Toniolo Politecnico di Milano Dipartimento CMIC “G. Natta” Via Mancinelli 7 20131 Milano

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manufatti in bronzo dorato rappresentano, nell’ambito della conservazione del patrimonio storico-artistico, una sfida conservativa estremamente complessa. Si tratta, infatti, di un sistema bimetallico assai critico in quanto, tra oro e bronzo, nel tempo e in relazione all’ambiente circostante, si ha la formazione di prodotti di corrosione che costituiscono elemento destabilizzante. Sfortunatamente tali composti sono difficilmente rimovibili in profondità senza danneggiare in modo irreparabile lo strato di doratura. In genere si tratta di opere di elevato pregio storico-artistico, basti pensare, per esempio, ai cavalli in bronzo dorato della Basilica di San Marco a Venezia, alla statua equestre di Marco Aurelio a Roma o alle Porte di Lorenzo Ghiberti del Battistero di Firenze. Tali opere, dopo lunghi e difficilissimi interventi di restauro, sono state musealizzate poiché, a causa della loro estrema instabilità, necessitano di essere conservate in condizioni di atmosfera controllata.Tale situazione non è da imputare all’oro, che è stabile e difficilmente soggetto a degrado. Sono piuttosto la corrosione del bronzo sottostante (fortemente accelerata dall’accoppiamento galvanico con l’oro) e la formazione di composti salini di corrosione con aumento decisivo di volume che provocano tensioni e distacco della doratura (Figura 1).

Figura 1 - Pustole di corrosione che provocano distacco della doratura sulla superficie della Porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti, Firenze.

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Il sensore

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Il monitoraggio dello stato di conservazione dei manufatti artistici, è oggi un aspetto molto importante nelle strategie di salvaguardia del patrimonio culturale. Esso deve essere, ove possibile, non invasivo e non distruttivo e realizzabile in-situ, direttamente sul manufatto. A tale scopo, nel caso di opere metalliche, tecniche come la misura del potenziale e della Resistenza di Polarizzazione Lineare (Rp) [1], e la Spettroscopia di Impedenza Elettrochimica (EIS) [2] sono state adattate ad applicazioni nel campo dei beni culturali, utilizzando un elettrodo-sonda studiato espressamente per consentire misure in campo su manufatti metallici [3-6]. Tuttavia queste metodologie non sono attualmente applicabili a sistemi bimetallici come i bronzi dorati a causa delle difficoltà nell’interpretazione dei dati. Una promettente alternativa, già proposta in passato per lo studio del


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comportamento di bronzi dorati esposti all’aperto [7-9], è l’utilizzo di “sensori galvanici” che simulino il comportamento del manufatto in oggetto e permettano, mediante la misura della corrente di macrocoppia, il monitoraggio in continuo della velocità di corrosione. Partendo dai promettenti risultati di precedenti lavori degli anni ‘70 [7-9], sono stati messi a punto dei nuovi sensori galvanici per lo studio e il monitoraggio di bronzi dorati. In Figura 2 è riportato uno schema dei sensori galvanici in bronzo patinato e dorato che sono stati realizzati. La lega utilizzata è una lega quaternaria di rame (Cu 93,1%; Zn 3,2%; Sn 2,6%; Pb 1,1%, percentuali in peso). La “patina artificiale” che è stata interposta tra bronzo e oro è costituita da una miscela di CuCl, CuCl2 e CuSO4⋅5H2O. L’elevato contenuto di CuCl e CuCl2 è stato appositamente introdotto per rendere la patina e la superficie bronzea particolarmente reattive all’umidità, permettendo così di simulare le condizioni di un bronzo dorato che ha sviluppato prodotti di corrosione estremamente destabilizzanti. Tali sensori si sono dimostrati un potente strumento per lo studio di nuove metodologie conservative di opere in bronzo dorato. Essi permettono il monitoraggio in continuo della corrente di macrocoppia (e quindi della velocità di corrosione), fornendo quindi dati quantitativi sulla velocità di degrado di bronzi dorati che abbiano sviluppato prodotti di corrosione instabili tra oro e bronzo. In questo modo è quindi possibile valutare l’impatto di

diverse metodologie di pulitura, l’efficacia di protettivi e/o del controllo dei parametri ambientali Sensori galvanici sono stati impiegati con successo in un Progetto di ricerca condotto in collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, per valutare le nuove condizioni climatiche per l’esposizione al pubblico della Porta del Paradiso di L. Ghiberti [10-11] e si sono dimostrati un fondamentale strumento per la scelta finale e il controllo della metodologia espositiva. Tuttavia la messa a punto dei sensori galvanici più idonei e durevoli per il monitoraggio in continuo necessita di ulteriori approfondimenti. I sensori fino ad ora realizzati, infatti, si sono dimostrati estremamente sensibili all’ umidità dell’ ambiente circostante. Questo li rende uno strumento estremamente sensibile, ma allo stesso tempo facilmente deteriorabile e dunque non molto durevole. Si è rilevato inoltre un problema di riproducibilità del segnale a parità di condizioni ambientali. Per questi motivi è attualmente in corso una nuova fase di ricerca volta ad implementare sensori più durevoli e che presentino maggiori garanzie di riproducibilità del segnale.

Figura 2 - Schema di un sensore galvanico. Per ragioni di leggibilità della figura le dimensioni delle diverse parti non sono in scala. In particolare sono stati ingranditi significativamente gli spessori della patina artificiale e della doratura.

Ringraziamenti Si ringraziano i colleghi del Laboratorio scientifico dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze per la collaborazione e la disponibilità delle opere e dei materiali.

Bibliografia

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1. ASTM G 59-97 (2003) 2. ASTM G 106-89 (1999) 3. M. Bartolini, B. Colombo, M. Marabelli, A. Marano and C. Parisi, Proceedings of the International conference on Metals Conservation Metal 95, Ed LD. MacLeod, S. Pennec & L. Robbiola, James & James, London, (1997), 43-49 4. P. Letardi, A. M. Beccaria, M. Marabelli & G. D'Ercoli, Proceedings of the International conference on Metals Conservation Metal98, Ed W. Mourey & L. Robbiola, James & James, London, (1998), 303-308 5. C. Bartuli; R. Cigna; O. Fumei, Studies in Conservation, 44(4) (1999) 245-252 6. Edith Joseph, Paola Letardi, Rocco Mazzeo, Silvia Prati and Mariangela Vandini, Proceedings of the International conference on Metals Conservation Metal 07, ed. C. Degrigny, R. Van Langh, I. Joosten, B. Ankersmit, (5) (2007) 71-77 7. Alessandrini, G. Dassù, P. Pedeferri, G. Re, Studies in Conservation, 24 (1979), 108-124 8. B. Mazza, P. Pedeferri, G. Re and D. Sinigaglia, 4th European Symposium on Corrosion Inhibitors, Ferrara (1975), 552-563 9. B. Mazza, P. Pedeferri, G. Re and D. Sinigaglia, Behaviour of a galvanic cell simulating the atmospheric corrosion conditions of gold plated bronzes, Corrosion Science, 17 (6) (1977) 535-541 10. S. Goidanich, B. Salvadori, S. Porcinai, A. Cagnini, A.M. Giusti, R. Boddi, S. Siano, D. Camuffo, L. Toniolo, D. Matera, R. Mazzeo, S. Prati, A. Addis, D. Prandstraller, M. Matteini, D. Pinna, Lo Stato dell’Arte 7, p. 35-41, eds. Daniela Rullo, Nardini Editore, 2009, ISBN 9788840441771 11. S. Goidanich, L. Toniolo, D. Matera, B. Salvadori, S. Porcinai, A. Cagnini, A. M. Giusti, R. Boddi, A. A. Mencaglia, S. Siano, D. Camuffo, C. Bertolin, R. Mazzeo, S. Prati, A. Addis, D. Prandstraller, M. Matteini, D. Pinna, Proceedings of Metal 2010, Int. Conference on Metal Conservation, 151-159


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Armature di acciaio zincato È doveroso ricordare Pietro Pedeferri quale esperto corrosionista a tutto campo; non esiste argomento in tale settore per il quale non era in grado di dare la giusta interpretazione, la sua consulenza ed i suoi consigli. È stata una fortuna averlo conosciuto e essergli stato amico; il ricordo è giornaliero dal momento che le sue monografie sono costantemente presenti sui nostri tavoli di lavoro.

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Romeo Fratesi

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Dipartimento FIMET Università Politecnica delle Marche - Ancona

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l maggior limite alla durabilità delle strutture in calcestruzzo è attualmente costituito dalla corrosione delle armature [1]. Tra i possibili accorgimenti per migliorare la resistenza alla corrosione delle armature nel calcestruzzo, recentemente è stato preso in maggiore considerazione l’utilizzo di barre d’armatura di acciaio zincato. Le armature zincate vengono prodotte mediante immersione delle barre di acciaio, previa un’appropriata preparazione superficiale, in un bagno di zinco fuso per circa 2 minuti. Lo spessore del rivestimento che si ottiene può variare a seconda del processo e del tipo di acciaio, ma generalmente è intorno a 100 µm. L’interesse che viene rivolto alle armature zincate è dovuto al loro costo moderato rispetto ad altri sistemi di protezione preventiva e al fatto che lo zinco all’interno del calcestruzzo si passiva e, al contrario di quanto avviene per l’acciaio non zincato, mantiene la sua passività anche quando la pasta di cemento subisce un abbassamento del pH (pH<11) a causa della carbonatazione o quando il tenore di ioni cloruro supera quello considerato critico per l’acciaio nero. Riguardo alla concentrazione critica di cloruri all’interfaccia fra armatura zincata e calcestruzzo necessaria per innescare la corrosione delle armature zincate, non esistono dati assoluti; tuttavia, prove sperimentali condotte nelle stesse condizioni ambientali indicano che tale concentrazione risulta circa 3 volte superiore a quella che provoca l’innesco della corrosione sulle armature di acciaio non zincato [2]. Il ritardo nella corrosione dell’acciaio, nel caso di armature zincate, comunque, non dipende solo dal maggiore tempo necessario affinché le specie aggressive raggiungano i valori critici sulle armature, ma anche dal fatto che lo zinco, pur corrodendosi, esplica la sua funzione protettiva nei confronti dell’acciaio sottostante. In questo periodo, contrariamente a quanto accade alle armature di acciaio non rivestito, i prodotti di corrosione dello zinco non provocano danneggiamenti meccanici al calcestruzzo circostante, non essendo prodotti espansivi (a meno di concentrazioni elevatissime di cloruro). Al contrario, i prodotti di corrosione dello zinco, sigillando i pori e le eventuali micro fessurazioni nell’intorno dell’armatura, rallentano la velocità di corrosione. Inoltre, durante questo periodo, lo zinco esercita anche una protezione catodica sull’acciaio che viene progressivamente scoperto dalla graduale corrosione del rivestimento. Tutto ciò comporta un incremento di durabilità delle strutture in calcestruzzo, come rappresentato schematicamente, in Figura1, dall’ormai accettato modello di Tuutti [3]. Nonostante i risultati positivi riportati nella letteratura tecnica relativa all’utilizzo dell’acciaio zincato in strutture reali [4,5], esistono ancora delle perplessità, soprattutto in Europa, per un impiego intensivo di tale materiale anche se, in Italia, negli ultimi anni si è registrato un incremento di utilizzo che comunque resta molto basso rispetto alla produzione di acciaio per le armature, come mostrato in Figura 2. Tra i vari aspetti che generano dubbi relativamente all’utilizzo delle armature zincate, soprattutto da parte dei progettisti, si possono citare:


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l’aderenza delle armature zincate al calcestruzzo anche relativamente all’indice di aderenza l’eventuale danneggiamento meccanico durante la piegatura delle barre dello strato di zinco quando è consigliabile l’uso di barre zincate e quanto può aumentare la durabilità delle strutture con la loro adozione il costo aggiuntivo dell’armatura zincata.

Aderenza

Danneggiamenti del rivestimento Le criccature del rivestimento, così come il distacco di piccole scaglie di rivestimento che si possono produrre durante la piegatura non sono pregiudizievoli per l’utilizzo delle armature zincate. Tali difetti sono contemplati dalle normative ed è anche prevista un’operazione di riparazione nelle zone di distacco o di taglio mediante l’uso di vernici ricche di polvere di zinco o mediante zincatura a spruzzo. Tali accorgimenti sono utili per lo più durante lo stoccaggio delle armature in cantiere poiché quando le barre sono inglobate nel calcestruzzo lo zinco, circostante gli spot senza rivestimento, esercita normalmente una protezione galvanica nei confronti dell’acciaio scoperto preservandolo dalla corrosione.

Fig. 1: Schematizzazione dell’incremento di durabilità di una struttura in calcestruzzo in seguito all’uso di armature zincate.

Fig. 2: Produzione di barre di acciaio e di acciaio zincato per armatura, in Italia, nel quadriennio 2003-2006.

Fig. 3: Forza di aderenza in funzione dello scorrimento relativo barra/calcestruzzo per barre lisce (φ=16mm) di acciaio e acciaio zincato nella prova di pull-out, dopo 60 giorni di stagionatura del calcestruzzo in aria umida.

Uso delle armature zincate e durabilità Lo strato di zinco, dopo una sua iniziale corrosione durante la presa del calcestruzzo (si calcola che in questa fase c’è un consumo di zinco di 5-10 µm), si passiva anche se il calcestruzzo è un ambiente con alcalinità relativamente elevata [6,7]. Le armature zincate inoltre, hanno un buon comportamento in calcestruzzo carbonatato grazie alla stabilità del film protettivo che rimane tale anche in ambiente neutro o debolmente acido, al contrario invece di quanto avviene per le

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Per quanto riguarda l’aderenza delle barre zincate al calcestruzzo occorre distinguere tra barre nervate e barre lisce; ciò perché la misura dell’aderenza è effettuata mediante prove di pull-out (sfilamento delle barre dal calcestruzzo tirandole longitudinalmente) e nel caso di barre nervate la resistenza allo sfilamento è dovuta principalmente alle caratteristiche geometriche delle nervature (indice di aderenza), mentre per le barre lisce l’aderenza è dovuta all’interazione chimico-fisica della superficie della barra con il calcestruzzo. È stato sperimentalmente dimostrato, ed è ormai riconosciuto da tutti, che le barre lisce zincate hanno maggiore aderenza al calcestruzzo rispetto alle corrispondenti barre di acciaio nero (Figura 3). Ciò è dovuto al fatto che durante la fase di presa del cemento, lo zinco reagisce con la calce d’idrolisi e i suoi prodotti di reazione, non espansivi, penetrano nei pori della pasta di cemento rendendo più densa la zona di transizione tra zinco e calcestruzzo. Così questi prodotti contribuiscono a sigillare i pori e i micro vuoti nella zona interfacciale causando la formazione di ponti tra il metallo e il calcestruzzo, come già documentato in letteratura [6]. Nel caso di barre di acciaio nervate la tensione di aderenza ricavata con le prove di pull-out risulta uguale sia per le barre di acciaio nero che per quelle zincate, poiché in questo caso l’aderenza tra barra e calcestruzzo è dovuta soprattutto alla geometria superficiale delle barre.

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Tab. 1: Calcolo dell’incremento dei costi dovuti all’impiego di armature di acciaio zincato per un opera mediamente armata.

barre di acciaio nero. La velocità di corrosione infatti, in calcestruzzo carbonatato, rimane a valori molto bassi (~1µm/anno), circa un ordine di grandezza inferiore a quella che si osserva sulle armature non zincate [8]. Questo buon comportamento viene mantenuto anche in presenza di cloruri in tenori non troppo elevati. Quando il calcestruzzo alcalino viene contaminato da cloruri, il rivestimento di zinco può essere soggetto ad attacco corrosivo localizzato, solo per tenori di cloruri di circa tre volte superiori rispetto a quanto avviene per l’acciaio non zincato e quindi il tempo di incubazione della corrosione è più lungo, come mostrato in Figura 1. In ogni caso, anche supponendo che la corrosione localizzata si sia innescata, la velocità di corrosione tende ad essere comunque minore nel caso dello zinco rispetto a quella dell’acciaio, perché la superficie zincata costituisce un pessimo catodo per la riduzione dell’ossigeno. L’incremento di durabilità delle strutture armate di acciaio zincato rispetto a quelle tradizionali è piuttosto considerevole nel caso in cui la corrosione sia dovuta alla carbonatazione (50-100 anni, considerata la velocità di corrosione dello zinco nel calcestruzzo carbonatato e lo spessore del rivestimento), mentre è di difficile quantificazione nel caso di contaminazione del cal-

cestruzzo da parte dei cloruri. In quest’ultimo caso si può ipotizzare che il tempo di innesco della corrosione è circa tre volte superiore a quello che sarebbe per una struttura tradizionale, quindi tutto dipende dalla velocità con cui questi ioni raggiungono le armature: per una struttura che opera in zona costiera è prevedibile un buon incremento di durabilità poiché è ipotizzabile una penetrazione relativamente lenta dei cloruri all’interno del calcestruzzo, mentre, per esempio, per un impalcato di un viadotto che viene ripetutamente cosparso di sali disgelanti, dove quindi i cloruri possono raggiungere concentrazioni elevate sulle armature in tempi relativamente brevi, tale incremento potrebbe essere contenuto. Da qui derivano le indicazioni generali per che cosa utilizzare le armature zincate e dove: per strutture leggere con basso spessore di copriferro, prefabbricati per uso industriale, strutture di ponti, ciminiere e torri di raffreddamento, strutture edificate in zone costiere, infrastrutture portuali.

Costi Per quanto riguarda l’incremento di costo di una costruzione in calcestruzzo con l’impiego di armature in acciaio zincato è sbagliato considerare l’incremento di costo delle sole armature; occorre tener conto invece dell’incremento di costo percentuale che comporta tale impiego commisurato ai costi dell’intera struttura. Un esempio è indicato in Tabella1 per una costruzione mediamente armata del tipo civile abitazione. È evidente come, a fronte di un costo doppio delle armature zincate rispetto a quelle di acciaio nero, l’incremento di spesa per l’intera opera sia del 3,9%, incremento ben giustificato se si considerano le ripetute e onerose spese di manutenzione ordinaria e straordinaria necessarie durante la vita in servizio di tali costruzioni.

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Bibliografia

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1. P. Pedeferri, L. Bertolini, 2000, “La durabilità del calcestruzzo armato”, McGraw-Hill 2. S.R. Yeomans, 1994, “Performance of Black, Galvanized, and Epoxy-coated Reinforcing Steel in Cholride-Contaminated Concrete”, Corrosion, 50(1), 72-81 3. K. Tuutti, 1982, “Corrosion of Steel in Concrete”, Swedish Foundation for Concrete Research, Stockolm, 1982 4. D. Stark, 1984, “Measurements Techniques and evaluation of Galvanized Reinforcing Steel in Concrete Structures in Bermuda”, ASTM-STP 713, 132-141 5. CEB (Comité-International du Béton), 1992, Protection System Reinfocement”, Bulletin d’Information N. 211 6. R. Fratesi, G. Moriconi, L. Coppola, 1996, “The Influence of Steel Galvanization on Rebars Behaviour in Concrete”, in Corrosion Reinforcement in Concrete Construction, Ed. by C.L. Page, P.B. Bamforth , J.W Figg, Publ. Royal Society of Chemistry 7. A. Macias, C.Andrade, 1987, “Corrosion of Galvanized Steel Reinforcement in Alkaline Solutions”, Br. Corr. Jr., 22 (2), p. 119 8. E. Maahan, B. Soresen, 1986, “The Influence of Microstructure on the Corrosion Properties of Hot-Dip Galvanized Reinforcement in Concrete”, Corrosion, 42 (4), p. 187


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Acciai inossidabili per applicazioni biomediche Pietro Pedeferri alla fine degli anni ‘70 è stato il promotore e iniziatore di una linea di ricerca relativa ai biomateriali, studiando per primo le proprietà corrosionistiche degli acciai inossidabili. Il suo contributo è stato fondamentale per la creazione di una scuola di ricerca sui biomateriali all’interno del Politecnico di Milano, oggi riconosciuta a livello internazionale, attiva su molte tematiche e linee di ricerca del settore biomedico.

L

di

Roberto Chiesa, Alberto Cigada, Gianni Rondelli Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica ‘G. Natta’, Politecnico di Milano

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a fabbricazione di dispositivi impiantabili nel corpo umano con finalità strutturali, in generale per il settore ortopedico e odontoiatrico, richiede l’utilizzo di materiali ad alta resistenza e ad alto modulo elastico, tipicamente leghe metalliche. Tra i metalli utilizzabili nel corpo umano per la sostituzione di ossa, denti e funzioni scheletriche troviamo alcuni acciai inossidabili austenitici, in grado di abbinare alle necessarie proprietà meccaniche (elevato modulo elastico, alta resistenza meccanica, tenacità e resistenza a fatica) gli imprescindibili requisiti biologici richiesti dalle specifiche applicazioni (in prima approssimazione, resistenza alla corrosione e biocompatibilità). Con gli acciai inossidabili austenitici sono oggi realizzati molti dispositivi ortopedici, e in particolare molti mezzi di osteosintesi, dispositivi in grado di supportare e trasmettere i carichi nella fase di riparazione delle fratture ossee. Questi dispositivi sono generalmente rimossi al termine della loro funzione (dopo circa 6-12 mesi). Oltre a queste applicazioni temporanee, gli acciai inossidabili austenitici trovano applicazione per la fabbricazione di dispositivi impiantabili permanenti, quali componenti di protesi articolari d’anca, ma anche per dispositivi cardiovascolari e di altri settori della medicina. I vantaggi nell’utilizzo degli acciai inossidabili per la fabbricazione dei mezzi di osteosintesi sono: • basso costo, • buone proprietà meccaniche, soprattutto allo stato incrudito, • facilità di lavorazione per deformazione plastica, • facilità di lavorazione per asportazione di truciolo, I principali limiti nel loro utilizzo sono: • presenza di nichel, elemento che può dare luogo in molti pazienti a fenomeni di reazione allergica, • suscettibilità nel corpo umano a fenomeni di corrosione in fessura, soprattutto nelle varianti a basso tenore di molibdeno e azoto. Tra i problemi relativi alla corrosione, proprio quella in fessura, che si verifica in interstizi come quelli che si formano tra teste delle viti e loro sedi nelle placche per osteosintesi, o nelle zone di contatto tra i chiodi endomidollari e gli elementi di fissaggio, determina un significativo aumento del rilascio di ioni metallici nei tessuti adiacenti agli impianti. Tali ioni possono determinare irritazioni locali, infiammazioni croniche e soprattutto, per la presenza di nichel, feno-

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Tabella I – ISO 5832 - Materiali metallici da impianto

Tipo

Sigla ISO

Carico di rottura Sforzo di snervamento (MPa) (MPa)

Composizione chimica %

Acciai inossidabili AISI 316L AISI 317L alto azoto

5832-1 D Fe=resto, Cr=17-19, Ni=13-15, Mo=2,25-3,5, N<0,10 5832-1 E Fe=resto, Cr=17-19, Ni=14-16, Mo=2,35-4,2, N=0,1-0,2 5832-9 Fe=resto, Cr=19,5-22, Ni=9-11, Mo=2-3, Mn=2-4,25, N=0,25-0,5

690-1100 800-1100 740-1800

190-690 285-690 430-n.d.

Co=resto, Cr=26,5-30, Mo=4,5-7, Ni<2,5

665

450

Co=resto, Cr=19-21, W=14-16, Ni=9-11 Co=resto, Ni=33-37, Cr=19-21, Mo=9-10,5 Co=39-42, Cr=18,5-21,5, Ni=15-18, Mo=6,5-7,5, Fe=resto Co=resto, Ni=15-25, Cr=18-22, Mo=3-4, W=3-4, Fe=4-6 Co=resto, Cr=26-30, Mo=5-7, Ni<1

860

310

800-1200

300-1000

950-1450

450-1300

600-1580

275-1310

750-1172

550-827

Ti=resto, O<0,18

240

170

Ti=resto, O<0,25

345

230

Ti=resto, O<0,35

450

300

Ti=resto, O<0,45

550-680

440-520

860

780

900

800

900

800

Leghe di cobalto per getti 5832-4 semilavorate 5832-5 5832-6 5832-7 5832-8 5832-12 Titanio e leghe di titanio

titanio puro

Ti6Al4V

5832-2 G1 5832-2 G2 5832-2 G3 5832-2 G4 5832-3

Ti5Al2,5Fe

5832-10

Ti7Al8Nb

5832-11

Ti=resto, Al=5,5-6,75, V=3,5-4,5 Ti=resto, Al=4,5-5,5, Fe=2,5-3 Ti=resto, Al=5,5-6,75, Nb=6,5-7,5 meni di sensibilizzazione allergica. L'insorgenza di tali fenomeni comporta la necessità di rimuovere anzitempo i componenti metallici. Nel passato per la fabbricazione di impianti sono stati impiegati vari tipi di acciai inossidabili austenitici, molto spesso dalle proprietà meccaniche e soprattutto corrosionistiche inadeguate [1]. Non sono stati infrequenti casi di fallimenti legati a importanti fenomeni corrosivi. Questi eventi erano soprattutto legati all’utilizzo di acciai inossidabili inadeguati. L’analisi degli espianti falliti ha permesso di evidenziare come alcuni materiali fossero fondamentalmente non adatti alle condizioni di utilizzo [2], e come fosse cogente approntare una normativa che regolamentasse composizione e proprietà dei materiali metallici utilizzabili per applicazioni in vivo.

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Acciai inossidabili standardizzati ISO

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Oggi norme internazionali regolano l’utilizzo nel corpo umano di specifici materiali metallici fissando per essi la composizione e le proprietà meccaniche minime garantite. In particolare la norma ISO 5832 (Tabella I), che elenca composizione e proprietà meccaniche dei materiali metallici per applicazioni biomediche, contempla alcune tipologie di acciai inossidabili, leghe di cobaltocromo, titanio e leghe di titanio.

Per quanto specificatamente riguarda gli acciai inossidabili, la ISO 5832 prevede l’utilizzo di tre sole classi per applicazioni nel corpo umano, e precisamente: • ISO 5832-1 Composition D • ISO 5832-1 Composition E • ISO 5832-9 L’acciaio più tradizionale è l’ISO 5832-1 Composition D, corrispondente sostanzialmente ad un tradizionale acciaio AISI 316L, che contiene cromo (17-19%), nichel (1315%), molibdeno (2,25-3,5%) e azoto (<0,10%) ed è caratterizzato da elevata purezza (bassi tenori di zolfo, fosforo e inclusioni). La resistenza alla corrosione di questo acciaio è relativamente bassa, e lo rende suscettibile di corrosione in fessura nel corpo umano. Le caratteristiche meccaniche dipendono dal tasso di incrudimento, ma non sono in generale particolarmente elevate. Tuttavia è il materiale metallico più economico previsto dalle normative e può essere facilmente lavorato sia per deformazione plastica che per asportazione di truciolo, condizioni che lo rendono particolarmente utilizzato. L’acciaio ISO 5832-1 Composition E contiene cromo (17-19%), nichel (14-16%), molibdeno (2,35-4,2%) e azoto (0,10-0,20%); i maggiori tenori di molibdeno e azoto rispetto al tradizionale acciaio ISO 5832-1 Composition D lo rendono più resistente alla corrosione in fessura, anche se non può essere considerato immune da tale forma di


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corrosione nel corpo umano. L’acciaio ISO 5832-9 contiene cromo (19,522%), nichel (9-11%), molibdeno (2-3%) manganese (2-4,25%) e azoto (0,25-0,5%); l’alto tenore di azoto garantisce una miglior resistenza alla corrosione in fessura (soprattutto se il tenore di molibdeno si avvicina al 3%) e migliori caratteristiche meccaniche sia allo stato solubilizzato, che incrudito; a ciò fa fronte tuttavia un maggior costo e una piĂš difficile lavorabilitĂ per deformazione plastica e asportazione di truciolo. Gli acciai descritti, come peraltro tutti i materiali metallici contemplati dalla norma ISO 5832, devono la loro resistenza alla corrosione alla formazione di uno strato protettivo di ossido (film di passivitĂ ), che li protegge dalla corrosione, e che è in grado

di riformarsi quando viene danneggiato. In condizioni particolari, in ragione della specifica composizione, possono insorgere fenomeni di corrosione localizzata (corrosione per vaiolatura, in fessura, corrosione per sfregamento,), che portano ad un aumento del tenore di rilascio di ioni metallici e/o possibilità di eventi di rottura dovuti a fenomeni di corrosione/fatica. La selezione del materiale piÚ idoneo, anche mantenendosi all’interno di quelli previsti dalle normative, deve essere effettuata in considerazione del tipo di dispositivo e della sua funzione. Un corretto approccio progettuale e di selezione risultano quindi oggi fondamentali per evitare o quantomeno limitare la possibilità di fallimento dei moderni dispositivi biomedici impiantabili.

Bibliografia 1. P. Pedeferri, A. Cigada, B. Mazza, D. Sinigaglia, Influence of Cold Plastic Deformation on Critical Pitting Potential of AISI 316L and 304L Steel in an Artificial Physiological Solution Simulating the Aggressive of the Human Body, Journal of Biomedical Materials Research, 11, 503-512 (1977) 2. P. Pedeferri, A. Cigada, B. Mazza, G.A. Mondora, G.. Re and D. Sinigaglia, Corrosion and Degradation of Implant Materials, ASTM STP 684, p. 144. ASTM, Philadelphia (1979)

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i n g e g n e r i a

Pietro Pedeferri “corrosion engineer”

A di

Luciano Lazzari Politecnico di Milano Dipartimento CMIC “G. Natta” Via Mancinelli 7 20131 Milano

Bruno Bazzoni

w w w. a p c e . i t

Cescor srl Via Maniago 12 20134 Milano

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ver conosciuto il prof. Pietro Pedeferri, prima come docente carismatico e poi come collega nelle attività di consulenza industriale inerenti la corrosione è stata una grande fortuna, così come la conoscenza e la collaborazione con il prof. Giuseppe Bianchi. Bianchi, prima da solo, a partire dagli anni cinquanta, e poi insieme a Pedeferri, hanno fortemente contribuito a porre in Italia le basi di una ingegneria razionale della corrosione, in parallelo a un analogo processo in atto nel mondo, soprattutto in quello anglosassone. Entrambi sono stati capiscuola, ed entrambi hanno influenzato la nutrita schiera dei “corrosionisti" italiani. Non è questa la sede per proporre un confronto tra le loro figure di scienziati della corrosione, confronto che sarebbe per altro utile per capire i progressi fatti in Italia in questo campo, e l’ampiezza dell’eco che questi hanno avuta anche all’estero; vedremo di tornarci in una occasione futura se non altro per lasciare una testimonianza alle giovani leve. Qui vogliamo piuttosto far emergere i contributi di Pietro Pedeferri nella nostra e non solo nostra - formazione di esperti e cultori della materia. Dobbiamo partire ancora da Bianchi, che nel suo ultimo intervento al congresso internazionale di corrosione del 1990 ha sottolineato come la corrosione abbia attraversato nella seconda metà del novecento tre periodi distinti: dapprima, la scienza della corrosione, poi l’ingegneria della corrosione, e da ultimo ma altrettanto importante la standardizzazione e informatizzazione delle conoscenze sulla corrosione. Pietro ha contribuito a tutte e tre le fasi sebbene con pesi differenti, e per certi versi è andato anche oltre. Pietro si sentiva un ingegnere, elettrochimico, e per questo metteva gli aspetti applicativi su un piano di riguardo. La sua bravura è stata quella di coniugare la scienza, anche elettrochimica, con le applicazioni industriali. Ed è da questo connubio che è nata verso la fine degli anni settanta la sua determinazione a scrivere un manuale di corrosione. Il libro di Fontana-Greene prima e il libro di Bianchi-Mazza subito dopo, infatti, lo avevano fortemente impressionato e influenzato; tuttavia Pietro ne evidenziava anche alcune importanti lacune proprio sugli aspetti che amava definire appunto ingegneristici. Pietro in quegli anni si stava occupando, insieme a Dany Sinigaglia, di meccanica della frattura e di fatica, e scopriva il fondamentale sinergismo tra la meccanica, ossia l’ingegneria per definizione, e l’interazione con l’ambiente, cioè la corrosione. Il suo libro, Corrosione e protezione dei materiali metallici, è un primo sforzo per chiarire queste azioni “interdisciplinari” e fornire ai tecnici solidi strumenti per fare valutazioni e previsioni. È su questa strada che Pietro ha orientato il suo gruppo di ricerca e i suoi allievi. L’idea di fare della corrosione una professione, da noi intrapresa a metà degli anni ottanta, è senza dubbio stata ispirata anche da Pietro, che come docente al Politecnico di Milano svolgeva attività di consulenza e per questo era cercato dalle indu-


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strie. Di noi due, Luciano era stato allievo di Pietro, poi tesista e ricercatore prima di passare all’industria, mentre Bruno era stato tesista “prestato” dal prof. Bianchi al Politecnico di Milano. Per inciso, Bianchi si era laureato in ingegneria elettrotecnica proprio al Politecnico di Milano. Negli anni ottanta, appunto, abbiamo tentato la strada dell’impresa industriale proprio nel campo dell’ingegneria della corrosione, così come Pedeferri pensava. Due erano le cose che Pietro amava di questa professione: il gusto della comprensione dei casi, soprattutto per quanto riguarda la diagnosi, e la passione per la loro soluzione e quindi la corretta scelta dei materiali e dei trattamenti: in sintesi, l’ingegneria della corrosione. Durante la preparazione del suo testo di corrosione e protezione, Pietro si era appassionato alla protezione catodica, maturando l’idea di scriverne un libro perché l’argomento, ancora una volta, si prestava con meravigliosa simbiosi a trattare di elettrochimica e di progettazione di impianti. In quel periodo infatti, Pietro era stato affascinato dalle applicazioni marine, come si descrive in un altro contributo, in cui curve di polarizzazione, legge di Faraday, misure in campo, sollecitazioni meccaniche confluivano a delineare uno scenario complesso e intricato di parametri, in cui però si affacciava la soluzione ingegneristica che Pietro definiva inaspettata ed elegante, come nel caso della corrosione-fatica in presenza appunto di protezione catodica. In quegli anni nell’Università nascevano i settori scientifico-disciplinari e gli universitari erano chiamati a scegliere a quale nuovo settore appartenere. L’elettrochimica era stata cancellata come indirizzo autonomo, per cui la gran parte degli elettrochimici erano propensi a confluire nel raggruppamento di Chimica-fisica, come poi fecero in massa; Pietro però non seguì gli elettrochimici, ma scelse con

chiara lungimiranza di aderire al settore di Scienza e Tecnologia dei Materiali. Per Pietro era chiaro che un ingegnere della corrosione non poteva assimilarsi ai chimico-fisici, e questo non per pregiudizio dal momento che era stato allievo di uno dei più famosi chimico-fisici italiani del novecento, il prof. Piontelli, ma per la semplice e per lui chiara ragione che la corrosione fa parte dell’ingegneria, non disgiungibile dalle applicazioni reali dei materiali. Pietro è stato un grande professore, legatissimo al suo Politecnico di Milano, ma con alcuni aspetti atipici: vogliamo ricordare la sua attitudine eclettica, che trovava probabilmente radici nella sua cultura anche umanistica e testimoniata dalla ricchezza dei suoi lasciti artistici e letterari, oltre che scientifici, e una grande curiosità. Ed è stata la curiosità, insieme alla passione, il motore della sua attenzione per il mondo industriale, fosse quello del petrolio, o dell’automobile o delle grandi opere di ingegneria, come ha anche ricordato nelle belle letture che completano ogni capitolo dell’ultima edizione del suo libro di corrosione e protezione. In questi ambiti, direttamente o attraverso i suoi collaboratori, ha collocato la sua disciplina, quella dell’ingegneria della corrosione, con una visione ampia e razionale. Si può senza dubbio affermare che la sua sensibilità per alcuni temi, per esempio la durabilità delle grandi opere, prefigurino l’intuizione di situare una competenza specialistica, quella appunto di corrosion engineering, all’interno di tematiche interdisciplinari e più generali, quali l’integrità delle strutture, la sicurezza e la tutela dell’ambiente, così come oggi è sempre più richiesto. E di questa visione, nella nostra attività professionale gli siamo debitori. 31


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t i t a n i o c r o m i a

La tecnica impiegata da Pietro Pedeferri per colorare il titanio Pietro Pedeferri aveva scoperto che il titanio si colorava in superficie se sottoposto a una ossidazione anodica, durante una serie di esperimenti su metalli, detti metalli valvola, per la loro caratteristica di formare ossidi superficiali con proprietà semiconduttrici, ai quali appartiene anche il titanio. E aveva subito notato che i colori dipendevano dalla tensione applicata, per cui si era chiesto se mai esistesse una correlazione tra tensione e colore. Ben presto si accorse che aveva visto giusto e che i colori potevano essere riprodotti: nacque così la sua personalissima e unica tecnica per colorare il titanio. L’ossidazione anodica del titanio

di

MariaPia Pedeferri, Barbara Del Curto, Maria Vittoria Diamanti

w w w. a p c e . i t

Politecnico di Milano Dipartimento CMIC “G. Natta” Via Mancinelli 7 20131 Milano

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Così come la maggior parte dei metalli esistenti in natura, il titanio ha una colorazione grigio chiara: fanno eccezione l’oro e il rame, mentre tutti gli altri metalli presentano un colore che varia dal grigio scuro al bianco. Tuttavia, in alcuni casi le superfici metalliche possono ricoprirsi di ossidi colorati: è ciò che avviene, ad esempio, nel caso del ferro ricoperto dalla ruggine e del rame, che si ricopre di una patina verde o nera a seconda dello stato di ossidazione del rame. Esiste un altro motivo per cui alcuni metalli possono assumere una particolare colorazione, ossia la formazione sulla superficie di uno strato sottile trasparente, in grado di dar luogo al fenomeno d’interferenza della luce. È questo il caso del titanio. La superficie del titanio normalmente è ricoperta da un film protettivo di ossido di titanio di pochi nanometri di spessore, ma mediante tecniche elettrochimiche di anodizzazione è possibile far accrescere lo spessore del film di ossido. Come mostrato in Figura 1, il processo di anodizzazione consiste nel collegare elettricamente il metallo da ossidare, che funge da anodo, a un catodo per mezzo di un generatore di corrente continua, che incrementando la tensione di cella permetta il passaggio di elettroni dall’uno all’altro; per chiudere il circuito i due elementi devono essere immersi in una soluzione elettrolitica. Quando all’interno della cella elettrolitica così formata si chiude il circuito, gli elettroni Fig. 1: Cella di anodizzazione del titanio


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aumentando la tensione di cella utilizzata durante l’anodizzazione lo spessore cresce, passando dal nanometro alle centinaia di nanometri, e, di conseguenza, cambia il colore risultante sulla superficie. All’aumentare del voltaggio i colori cambiano nella sequenza: giallo – porpora – blu – azzurro – argento – giallo – rosa – violetto – cobalto – verde – verdegiallo – rosa – verde. Lo spessore e, quindi, il colore dipendono pertanto dal voltaggio applicato (Figura 3). Particolare attenzione deve essere posta al trattamento che la superficie deve subire: infatti, pur essendo

Fig. 2: Differenti caratteristiche dell’ossido di titanio al variare dei parametri

relativamente semplice ottenere i colori d’interferenza, risulta più complesso ottenerli con elevata intensità e luminosità, soprattutto nel caso degli ossidi di alto spessore, a causa della non omogeneità dell’ossido lungo tutta la superficie. È importante sottolineare che le proprietà di resistenza a corrosione, biocompatibilità e atossicità del titanio sono esaltate dalla presenza di un film di ossido accresciuto

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“prodotti” all’anodo sono trasportati e “consumati” al catodo: avvengono quindi le reazioni anodica e catodica. La prima è rappresentata dall’ossidazione dell’anodo, con passaggio di elettroni da esso al catodo attraverso il collegamento elettrico esterno. I cationi metallici così formati si combinano con gli anioni presenti nella soluzione, siano essi ioni ossigeno o anioni più complessi, derivati dalla reazione catodica di riduzione, creano uno strato di ossido. Al procedere della reazione, la tensione di cella aumenta e, se si raggiunge il potenziale di breakdown, corrispondente alla perdita di potere isolante da parte dell’ossido, altri processi possono instaurarsi come reazione anodica al posto dell’ossidazione, quali lo sviluppo di ossigeno o l’ossidazione di soluti presenti nel bagno. Molte sono le condizioni sperimentali che possono influenzare le caratteristiche dell’ossido di titanio in formazione, quali la composizione, la morfologia superficiale, il tipo di ossido che si forma (amorfo, rutilo o anatasio), il suo spessore e le sue capacità protettive. Al variare di alcuni parametri, vale a dire imponendo valori alti o bassi di tensione di cella o densità di corrente e cambiando la soluzione utilizzata, si possono ottenere caratteristiche dell’ossido molto differenti (Figura 2). In particolare, per la formazione di un ossido amorfo, uniforme, caratterizzato da una colorazione uniforme e omogenea è necessario utilizzare soluzioni prive di fluoruri, tensione di cella non superiore ai 100-140 V (a seconda del tipo di soluzione e della densità di corrente imposta) e densità di corrente non troppo elevate, tipicamente inferiori a 20 mA/cm2. Superando i valori indicati di voltaggio e densità di corrente si verifica la formazione di micro-archi elettrici localizzati sulla superficie: questo tipo di anodizzazione prende il nome di Anodic Spark Deposition, e conduce alla cristallizzazione dell’ossido e alla perdita del colore. Infine, una morfologia molto particolare di ossido può essere ottenuta usando bagni contenenti fluoruri; in questo caso, mantenendo il voltaggio applicato tra 10 e 40 V, si ottiene un ossido amorfo con morfologia a nanotubi il cui diametro e spessore possono essere modulati cambiando i parametri di processo e in particolare la tensione di cella, il tempo di trattamento e la concentrazione di fluoruri. È possibile ottenere nanotubi con diametri di decine di nanometri e spessori variabili da qualche centinaio di nanometri a decine di micron.

Gli ossidi di titanio e il colore Come accennato sopra, la superficie del titanio è normalmente ricoperta da un film protettivo di ossido di titanio di pochi nanometri di spessore. Mediante l’anodizzazione è possibile accrescere lo spessore dell’ossido:

Fig. 3: Colori e spessori dell’ossido di titanio in funzione della tensione di cella

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Fig. 4: Tecnica usata da Pedeferri per dipingere su titanio

rispetto a quello che si forma spontaneamente all’aria. Le proprietà dei film “colorati” che si formano durante il processo di anodizzazione del titanio sono fortemente condizionate

dalla fase iniziale del trattamento. Se il “primo” film si forma con adeguata morfologia e nanostruttura, anche il film che si accresce successivamente conserva tali proprietà. Se il “primo” film si forma in modo incontrollato, il film che si accresce su di esso diviene non aderente e fragile. Il metodo che consente d ottenere film nanostrutturati in modo adeguato per poi consentire l’ottenimento di colori saturi e brillanti è stato sviluppato e messo a punto da Pietro Pedeferri, Dal suo lavoro è nato il brevetto EP 1 199 385 A2 19.10.2001 “Method of coloring titanium and its alloys through anodic oxidation”, che consente la colorazione anodica del titanio garantendo, rispetto a tutti gli altri trattamenti oggi presenti sul mercato, maggiore gamma di colori, maggiore brillantezza e saturazione dei colori stessi, maggiore resistenza all’abrasione. Questo metodo è anche una potentissima tecnica per dipingere. Svincolandosi dalla configurazione classica della cella elettrolitica con anodo e catodo affacciati e immersi in una soluzione, e inglobando di fatto elettrolita e catodo in un pennello, come mostrato in Figura 4. Pietro Pedeferri ha inventato anche una nuova tecnica pittorica oltre a ottimizzare ed ampliare la tavolozza dei colori. In questo modo Pedeferri, elettrochimico artista, è stato in grado di produrre segni e disegni sul titanio fissando con colori da lui scelti le successive posizioni del pennello mosso a suo piacimento sulla superficie metallica. O ancora guidando un liquido sulla superficie per farne apparire il movimento che la fantasia gli ha già fatto intravedere.


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Pronto per l’esame di certificazione? Ecco le soluzioni delle cinque domande di base presentate nel numero 41 di APCE Notizie. D1. CORROSIONE. La corrosione a umido è un processo di tipo elettrochimico (risp. B), costituita da due processi parziali: il processo anodico di dissoluzione del metallo (con produzione di elettroni) e il processo catodico, che negli ambienti naturali è la riduzione dell’ossigeno disciolto nell’elettrolita (con consumo degli elettroni prodotti) D2. ELETTROTECNICA. In un circuito elettrico in c.c. alimentato alla tensione di 50 V è presente un ramo costituito da due resistenze in parallelo del valore di 5 e 10 Ω. La resistenza equivalente del ramo in questione è di 3.33 Ω (risp. C). Nel caso di resistenze in parallelo infatti la resistenza equivalente si calcola come reciproco della somma dei reciproci delle due resistenze (1/Req = 1/R1 + 1/R2). D3. NORMAZIONE. Che cosa sono le norme UNI o CEI? Sono norme degli organismi di normazione nazionali (risp. C) D4. CERTIFICAZIONE. In base al regolamento sulla certificazione del personale, il periodo di validità della certificazione è di 5 anni dalla data indicata sul certificato (risp. C), come riportato nel Regolamento CICPND sulla Certificazione del personale addetto alla protezione catodica D5. SICUREZZA. È obbligatorio installare una adeguata segnaletica di sicurezza nei luoghi ove esistano impianti elettrici? Si, sempre (risp. A) Per qualsiasi chiarimento contattateci al sito polilapp@chem.polimi.it. Sperando che abbiate risposto correttamente alle cinque domande, proponiamo ora cinque nuovi quiz, sempre per la certificazione di 1 livello in tecnico di protezione catodica per strutture metalliche interrate. Questa volta vi sottoporremo domande all’interno delle tematiche specifiche. D1. PROVVEDIMENTI DI PROTEZIONE. Qual è il sistema di protezione che assicura nel tempo un’affidabile durata delle strutture metalliche interrate e immerse: a. solo rivestimento a base di pitture c. rivestimento organico più rivestimento metallico b. rivestimento organico più protezione catodica d. rivestimento metallico più inibitori D2. RIVESTIMENTI (Protezione passiva). Qual è il minimo valore della tensione di prova per la verifica della continuità del rivestimento in polietilene di una struttura metallica: a. 1.5 kV c. 10000 V b. 25 kV d. 12.5 kV D3. INDAGINI PRELIMINARI. Ponendo l’elettrodo di riferimento al Cu-CuSO4 saturo sulla superficie del terreno e sulla verticale di una rete di distribuzione protetta catodicamente e interferita da corrente dispersa variabile, il valore della misura di potenziale ON è comprensivo della caduta di tensione IR causata da: a. corrente di protezione e correnti disperse c. solo correnti disperse b. solo corrente di protezione d. in protezione catodica la IR è sempre nulla D4. ATTUAZIONE. La protezione catodica di strutture interrate estese in lunghezza o di reti di distribuzione interferite da campi elettrici variabili nel tempo in intensità e senso si attua impiegando (A/A = alimentatori automatici): a. A/A a corrente costante c. A/A a potenziale costante con corrente di base b. alimentatori semplici d. anodi di magnesio D5.VERIFICHE E CONTROLLI. Per eseguire le misure di potenziale su una struttura interrata in PC, dove deve essere collocato l’elettrodo di riferimento al Cu-CuSO4 saturo portatile rispetto alla struttura: a. in posizione remota (fuori del campo delle correnti) c. sulla verticale b. lateralmente a più di 0,5 m dalla verticale d. vicino al posto di misura • Le risposte nel prossimo numero.


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Corsi di

Protezione Strutture Catodica diMetalliche

CORSI DI ADDESTRAMENTO PER LA CERTIFICAZIONE La certificazione delle figure professionali è uno strumento importante alla base dei processi di costruzione e assicurazione della qualità, in genere complementare alla certificazione dei sistemi e dei prodotti, ed è essenziale per i processi in cui la componente umana svolge un ruolo delicato ai fini della qualità dei risultati dei processi medesimi. L'APCE, per assicurare la certificazione delle persone che intendono operare con competenza riconosciuta e attestata nel campo della protezione catodica di strutture metalliche, ha costituito il Centro Formazione APCE (CFA) diretto dal prof. Luciano Lazzari del Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta” del Politecnico di Milano ed ha reso operante la collaborazione con il CICPND (Centro Italiano di certificazione per le prove non distruttive e per i processi industriali), organismo di certificazione del personale accreditato ACCREDIA anche nel campo della protezione catodica di strutture metalliche (Certificato di Accreditamento SINCERT n. 012C, rev. 1 del 23.03.2001). DESTINATARI DEI CORSI I corsi di addestramento sono rivolti alle persone che intendono conseguire la certificazione e possono dimostrare di essere in possesso di un’esperienza lavorativa nel settore per il quale si candidano di almeno un anno per il livello 1 e di due, tre e quattro anni (in base al tipo di istruzione) per il livello 2.

CALENDARIO CORSO BASE PROTEZIONE CATODICA Destinatari

Marzo

Ottobre

Tecnici ed operatori interessati ad apprendere o incrementare le nozioni di protezione catodica

08-09 Politecnico Milano

25-26 Politecnico Milano

CORSO TECNICHE DI MISURAZIONI Il corso delle tecniche di misurazioni è rivolto agli operatori, tecnici e quadri che operano nell’ambito della protezione catodica e interessati a richiamare o approfondire la norma UNI EN 13509 “Tecniche di misurazioni per la protezione catodica”. Il corso base è da considerarsi propedeutico o integrativo ai corsi di addestramento e/o d’aggiornamento inerente la certificazione del personale. CALENDARIO CORSO TECNICHE DI MISURAZIONI Destinatari

Maggio

Ottobre

Tecnici ed operatori interessati ad apprendere o incrementare le tecniche di misurazioni

10-11 Politecnico Milano

27-28 Politecnico Milano

CORSI DI ADDESTRAMENTO ED AGGIORNAMENTO NEL SETTORE DELLE STRUTTURE METALLICHE INTERRATE Livello 1 Corso di addestramento

Marzo

Giugno

21-25 Italgas Mestre (VE)

06-10 Enel Rete Gas Perugia

Livello Livello 2 Corso di addestramento

Livello 1 e Livello 2 (*) Corso di aggiornamento

Aprile

Settembre

Maggio

Ottobre

18-22 Italgas Mestre (VE)

19-23 Enel Rete Gas Perugia

18-19 Politecnico di Milano

04-05 Italgas Mestre (VE)

INFORMAZIONI A.P.C.E. - Ufficio Corrosioni Elettrolitiche di Milano c/o A2A Reti Gas SpA Via Balduccio da Pisa, 15 - 20139 Milano tel. 02 77206644 - fax 02 77206645 e-mail: davide.gentile@apce.it

(*)Corso d’aggiornamento per le persone in possesso della certificazione di livello 1 e 2

A.P.C.E. – Segreteria c/o Snam Rete Gas Via M.E. Lepido, 203/15 - 40135 Bologna tel. 051 4140816 - fax 051 4140838 e-mail: vincenzo.fiore@apce.it

Associazione per la protezione dalle corrosioni elettrolitiche


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