1. Della mia Lucania, del peperone crusco e del desinare dell’anima venerdì 10 agosto Raggiunta Eboli verrebbe facile la battuta. Quindi la evito. Stiamo entrando in Basilicata, lascio Cristo alle mie spalle, fermo lì dai tempi di Carlo Levi, scrittore che tanto quanto ha amato queste terre altrettanto inconsapevolmente le ha fissate ad un tempo eterno, quasi incapaci di emanciparsi dalla potenza letteraria delle parole dell’esule torinese. Torno in Lucania – preferisco chiamarla così, per abitudine infantile, quando da bambino scrutavo una vecchia mappa dell’Italia che non conosceva ancora la divisione fra Abruzzo e Molise – dopo davvero troppi anni. Per quegli strani e misteriosi intrecci che la vita sa tramare, la Lucania, per me milanese figlio di siciliana e di campano, è una terra che appartiene al mio immaginario domestico. Ci venni per lungo tempo da studente d’architettura, ospite di Mimmo, un caro amico di Bernalda, girai in lungo e in largo Matera, i Sassi, all’epoca ancora spopolati dalla falsa coscienza di una nazione che s’era accorta di avere la miseria in casa (ed ecco ancora Levi, le sue parole potenti, troppo spesso pelosamente male interpretate). Era proprio in quegli anni che quell’accrocchio, quell’accozzaglia all’apparenza indistinta di grotte abitate dalla preistoria sino ai giorni nostri, veniva dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ero passato di là nel nome del mio giovanile amore per Pasolini. Usando Il Vangelo secondo Matteo come mappa, strada strada iniziai ad ammirare il vocabolario di architettura millenaria che mi si poneva di fronte, una sorta di catalogo di infinite soluzioni pratiche, logiche, poetiche: la gronda, il gradino, la porta, il muro, la volta… giravo con quella ingordigia tipica dei vent’anni, per la murgia, per la gravina, misurando le pietre e le architetture neorealiste già in abbandono, senza la dovuta manutenzione, quelle che avevo studiato sui libri di Storia dell’architettura contemporanea all’università. Poi negli anni fu un continuo ritorno: fra distese di ulivi, castelli federiciani, viadotti plastici e favolistici, polittici veneti, chiesette bizantine, vette alpine. L’ultima volta che girai per la Lucania avevo appresso mia moglie e ancora non sapevamo che fosse incinta della nostra prima figlia. I conti si fanno in fretta: sono 13 anni ormai. Ed eccomi di nuovo, qui, ma in una parte della regione che non ho mai visto. Torno, insomma, in un posto dove non sono mai stato. Fortunatamente non sono solo. Gaetano sarà il mio Virgilio personale, mi farà da cicerone e da confidente, sarà il mio
punto di riferimento, mangeremo assieme e assieme berremo il vino aspro di questi posti. E poi lui guida. Non è poco per uno come me che non ha neppure la patente! Gaetano è di Latronico, me la indica dalla macchina in corsa, ancora poco ed entreremo nel territorio del parco. Il Pollino si dipana con un confine irregolare e sfrangiato, frutto di cecità politica piuttosto che di buon senso, su tre province e due regioni. È il parco più esteso che abbiamo in Italia e neppure lo sappiamo, per capirci è grande quanto l’intera Valle d’Aosta. Questi dati io, ovviamente, neppure li conoscevo prima d’oggi. È Gaetano che me li snocciola, senza però sembrare un professorino puntuto: me li enumera con quell’amore per la materia che saprebbe rendere interessante ogni argomento trattato. Principali corsi d’acqua, altitudini, flora, fauna… non sto neppure a prendere appunti, non ho voglia di riportare qui i dati, come se dovessi scrivere una guida noiosa che utilizza materiale di seconda mano. Meglio la fonte originaria, allora. A conti fatti non so bene cosa sia venuto a fare qui. Non so scrivere guide turistiche, non so elaborare elegiache descrizioni che possano servire all’escursionista o al curioso di passaggio: c’è chi lo sa fare meglio e bene. Molto meglio di me, in ogni caso. Sono qui, starò qui per una settimana circa, ancora una volta in Lucania, forse per togliermi di dosso quei residui di luoghi comuni incrostati nel mio immaginario. Sono una mente semplice, non so parlare di nulla che non abbia visto con i miei occhi. Questo, insomma, è il diario di un viandante che cerca di mettere alla prova le idee preconcette che ha di un territorio a lui sconosciuto. La scrittura in fondo è sostanzialmente questo: un atto di conoscenza che si maschera di finzione. La Basilicata (e non la chiamo casualmente così) a pensarci bene è una specie di buco nero dell’immaginario nazionale. Stretta fra regioni ingombranti, caciarone, popolose, sembra non abbia un’identità precisa. Persino arrivarci è più complicato di quanto si possa immaginare, si fa prima ad arrivare in Sicilia o in Sardegna. Niente aeroporti, pessimi collegamenti ferroviari (spesso inesistenti) e l’eterno cantiere della Salerno Reggio Calabria che la lambisce appena. A ovest non è abbastanza campana, a est non abbastanza pugliese. I dialetti sembrano tutti sbagliati, difformi dalle parlate della commedia dell’arte. Ovviamente non è abbastanza campana o pugliese perché non è né campana né pugliese. È lucana! Ma provate a chiedere ad un “italiano qualunque” dove si trovi Melfi o Maratea, Potenza o Matera e di certo sbaglieranno regione. Qualcosa di simile accade anche con le Marche. Per molti Urbino è in Umbria, Ascoli negli Abruzzi. E similmente alle Marche, la bellezza della Basilicata sta proprio nel suo
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essere terra di mezzo, terra di confine (oltre che di confino!). Non è tanto la coerenza territoriale che caratterizza queste terre, è proprio la continua diversità. Tutti i panorami sono possibili qui. Tutti i sapori, tutte le lingue, tutti i colori. Una specie di Minitalia, dal mare alle cime innevate, a disposizione di chiunque. Basterebbe saperlo. Nel frattempo siamo arrivati in prossimità del lago di Monte Cotugno, una enorme invaso artificiale che ha le acque color carta da zucchero. Farò tappa qui stanotte e le notti successive, ospite di un agriturismo che ha un’eleganza quasi toscana. Dal terrazzamento la vista sul lago impressiona. L’enorme diga in terra battuta (la più grande d’Europa) in fondo a sinistra sembra non fare sforzo alcuno a contenere l’enorme massa idrica. La Basilicata è una regione fortunata in un Sud mediamente a rischio idrico. Colma di fiumi e corsi d’acqua dà da bere oltre che a se stessa, anche alle popolazione e alle coltivazioni del nord della Calabria e di buona parte della Puglia (cosa sarebbero le viti o gli ulivi pugliesi senza l’acqua lucana? Che cosa sarebbe di quel paesaggio?). Ma prima di prepararci per la cena decidiamo di fare una visita al centro storico di Senise (e, sì!, non faccio altro che pensare all’attore americano, quello di CSI NY, Gary Sinise. Dieci a uno che la sua famiglia era originaria di qui e che a Ellis Island avranno confuso il Comune di provenienza col cognome, perdendo, nel Nuovo Mondo, l’identità familiare, ma acquistando quella più ampia di un intero territorio). Il paese è in fibrillazione, stanno montando le luminarie per la festa di San Rocco - santo protettore della peste, culto molto seguito da queste parti -, con in contemporanea una sagra del peperone di Senise. Che ovviamente io manco ne conoscevo l’esistenza – beata ignoranza – ma che qui non perdono tempo a raccontarmi che si tratta di un peperone particolare, I.G.P., unico nel suo genere, e come a dimostrarne l’importanza persino estetica, “folkloristica”, mi mostrano la serie infinita di “serte” (specie di ghirlande di peperoni messe ad essiccare) che fanno bella mostra sui balconi del centro. Interi, a scaglie, in polvere, nei sughi, nei salumi, nella carne: peperone di Senise ovunque! “Ma devi mangiare quello crusco”, continuano a dirmi. Ormai giro per il paese come un drogato alla ricerca di una dose. Provo a spiegare ai miei ospiti che io il peperone lo amerei anche, ma poi non riesco a digerirlo. “Quello arrostito non si digerisce” (“arrostuto”, si dice al paese di mia moglie, buono come una delizia degli dei e perfettamente indigeribile) “ma quello crusco si digerisce, fidati”. Ok, va bene. Ma che diavolo vuol dire crusco? Finalmente troviamo un pusher. Mi porge una dose di zafaran crusch. Un peperone crusco. In pratica un peperone svuotato e
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immerso nell’olio bollente. Addentandolo scrocchia, sembra una patatina fritta al gusto di paprica. La retorica culinaria imporrebbe descrizioni minuziose del sapore provato, dell’inebriante aroma, del raffinato retrogusto. Non ho mai scritto di cucina, non ne sono capace. So che a me piace. E che non m’è rimasto sullo stomaco. Poi ci pensa Enza a ricordarmi che non siamo qui solo per desinare collo stomaco ma anche coll’anima. Mi porta a visitare la chiesa di San Francesco. Uno dei tanti, infiniti gioielli sconosciuti dell’Italia minore. Anche qui non ho alcuna voglia di riportare le sue parole appassionate, mi sentirei quasi un pornografo. Enza ama davvero quello che racconta, e lo fa con la competenza di una laureata in Beni Culturali. Con lei mi diletto a sfoggiare il mio vocabolario da storico dell’architettura in pectore, abortito sul nascere da un’università baronale che m’aveva espulso dal corpo accademico ben prima che io pensassi solo di entrarci. La chiesa è di fondazione medievale, ma un rifacimento barocco, controriformistico, le ha dato una veste chiara e gaia ben poco francescana. In fondo all’unica aula, proprio nell’abside, noto dapprima un coro ligneo, credo di noce, tarlato dal tempo e dallo scalpello dell’artigiano. Bello. Non raffinato, ma pieno di buona volontà. E poi l’enorme polittico di Simone da Firenze, che, mi spiega Enza, da Firenze non ci veniva affatto, anche se così è firmato sulla fascia centrale. Forse non era nativo toscano, ma di certo quell’arte l’aveva frequentata. Non ostante la doratura bizantina, e un certo gusto tardo gotico nelle decorazioni, l’incarnato della madonna in trono, dei putti, dei santi e l’intera architettura della composizione è di un rinascimento maturo. Qui. Nel buco nero dell’Italia. Che forse non è per nulla nero: nero è solo il nostro sguardo opaco, pieno di pregiudizi. La Basilicata è davvero una regione da scoprire. Lo stanno facendo in questi anni, prima di noi, tedeschi, olandesi, americani. Sarebbe ora di iniziare a farlo anche noi italiani. Ne vale davvero la pena.
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2. Dei popoli viaggianti, dell’abitare una lingua e dell’arte contemporanea sabato 11 agosto Franca è una di quelle che è tornata. Per amore. O meglio: è tornata perché il marito amava troppo la sua terra ed ha preferito lasciar perdere la sua specializzazione d’ingegneria meccanica e tornare, da Roma, qui in Basilicata; e lei, per amor suo lo ha seguito. L’amore per un amore. Una specie di amore al quadrato insomma. Me lo racconta mentre apre per me solo la sede del Museo della Cultura Arbëreshe di San Paolo Albanese. Il museo è piccolo, ha la classica sequela di oggetti tipici di tutti i musei della cultura contadina che si possono incontrare un po’ dappertutto nel Sud Italia. Un museo a ben vedere noioso, didascalico, senza quella capacità di stupire, di interagire col pubblico che hanno molti dei musei che ho visitato in giro per l’Europa. Ma Franca è albanese, arbëreshe, di nascita e per come la vedo non è il museo, è lei quella che mi interessa. Lei porta con sé, sulla sua pelle, quella cultura che vorrebbe mostrarmi nelle teche, negli oggetti quotidiani che, se non usati, divengono lettera morta. Quindi la sottopongo ad un fuoco di fila di domande alle quali, educatamente, non si sottrae. Ha voglia di parlare, di interagire, di mostrare il suo orgoglio d’appartenenza senza arroganza, spesso, anzi, con una modestia che commuove. “Ho imparato l’italiano andando a scuola” mi dice. La sua seconda lingua. Perché qui, da quasi cinquecento anni si parla un albanese del sud, in parte cristallizzato a quell’epoca, in parte mutato col mutare dei tempi e dei contatti con gli abitanti e i dialetti del vicinato. “L’albanese moderno è molto diverso dalla nostra lingua” mi spiega, “ma se mi ci impegno lo capisco, un po’ come un italiano che intuisce uno spagnolo se gli parla lentamente”. Mi racconta della lavorazione della ginestra, di come i suoi nonni riuscissero a trasformarne la fibra in un filato per farne abiti, sacchi, coperte. Mi mostra i costumi tradizionali esposti ma ci tiene a dire che alcuni di questi abiti sono ancora usati quotidianamente dalle ultime vecchiette che girano per il paese. Nulla di folkloristico, insomma, ma vita quotidiana. Dopo di loro, probabilmente più nessuno vestirà così: mi sento nel cuore di un cambiamento epocale, ineluttabile. Come se stessi assistendo alla morte di una stella nel firmamento. In fondo è inevitabile, è inutile vivere di nostalgie per gli usi altrui. La storia di quegli abiti, di quegli attrezzi di lavoro, è anche la
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storia - per quanto gloriosa, per quanto leggendaria - di miserie, di fame, di fatica. Immaginiamo, dagli studi di Ernesto De Martino in poi, la Basilicata come una terra immobile, relegata da noi in un eterno medioevo. Ma ciò che aveva affascinato l’antropologo oggi, prendiamone atto, non esiste più. Ed è giusto che sia così. Trovo snob il modo di vedere questa regione, questo insistere sull’idea che sia un popolo di vecchi, con usi e costumi sepolti nella notte dei tempi, questa idea mortuaria, funebre, fatta di riti contadini e tradizioni fossilizzate, che piacciono tanto ai cittadini frenetici del nord, lettori estatici di scrittori “meridionalisti”, così “autentici”, così “esotici”. C’è chi ci marcia su tutto ciò. C’è chi ha fatto la sua fortuna artistica, in un eterno, infinito neorealismo fatto di piccoli Rocco Scotellaro, di verghismi degli stenterelli, di Franceschi Jovine in pectore, di “buon selvaggi”, di briganti televisivi, di salsicce lucaniche e sagre popolari del fagiolo o della porchetta. Ma questo non lo dico a Franca perché lei non fa parte di questa risma di persone. Lei, semplicemente, parla, canta, ama, sogna in arbëreshe. Neppure una settimana fa ero in un’enclave ligure della Sardegna. Da Pegli negli stessi anni della fuga dall’Albania di questa gente, una comunità di pescatori di corallo s’era trasferita in Tunisia, a Tabarka. Due secoli dopo furono cacciati (“fuori di qui, stranieri che ci rubate il lavoro!”) e perciò il re sabaudo donò loro due isole in Sardegna: Sant’Antioco e San Pietro. Girare per quelle strade dal piano regolare, piemontese, e sentire parlare in un ligure stretto, o mangiare la focaccia proprio come potrei farlo a Genova, mi aveva straniato. Qui è ancora più affascinante. La resilienza di una cultura supera le più incredibili avversità. In fondo noi, prima ancora di un luogo, di un paese, tutti noi abitiamo una lingua. È quella, su ogni cosa, che ci forma, che ci identifica. Ogni volta che muore una lingua muore un mondo. Ogni volta che una lingua resiste, resiste la diversità, la molteplicità, la ricchezza dell’umano. Ovviamente nulla resta immobile e uguale a se stesso, sarebbe contrario alla vita stessa. La comunità arbëreshe subì persecuzioni, su tutto religiose. Furono “cattolicizzati” a forza. Ma residui di resistenza culturale restarono intrisi nei gesti e nelle abitudini di questa gente. Si mischiarono col nuovo per diventare altro (che è in fondo il modo migliore per conservare le cose). Nella chiesa principale mi viene fatto osservare un affresco scoperto da poco: mostra un’ostia quadrata e una scritta in greco. Nulla di che dal punto di vista artistico, ma dimostra come ancora nell’Ottocento il legame col rito bizantino fosse forte. E lo dimostra il fatto che agli inizi del Novecento la chiesa cattolica, dopo tanto inutile sottomettere, trovò una sorta di compromesso, inventando da zero la Chiesa
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Cattolica italo-greca di rito bizantino. Come a dire: se non riusciamo a piegarvi del tutto, vi inglobiamo. Mantenete le vostre abitudini orientali, basta che vi dichiarate cattolici. Don Francesco, l’attuale presbitero, ha preso con fin troppo zelo il compito conferitogli. Sta, negli anni, riempiendo la chiesa, che ha tutto l’aspetto di una tipica chiesa cattolica, di icone bizantine. Lui stesso è un pittore e studioso raffinato e molte delle immagini sacre poste sull’iconostasi (che non c’era mai stata prima) le ha dipinte lui stesso. “Dietro, nella parte riservata al clero, s’è fatto aiutare dalla figlia”, mi viene detto. Figlia? Ah, già… me l’ero dimenticato: i preti di rito bizantino possono avere una moglie, possono avere figli. Ed essere cattolici. Giusto per far capire che la chiesa di Roma è molto più pratica e malleabile di quanto immaginiamo! Don Francesco vive con un po’ di fastidio la presenza di statue sacre all’interno della chiesa, vorrebbe ci fossero solo icone. Vorrebbe, insomma, ripristinare un passato perfetto, inamovibile. Illogico: ormai, dopo secoli di culto, la comunità arbëreshe ama le sue statue così cattoliche, così italiane, che senso ha imporre così tanto integralismo di ritorno? Mi avvicino alla statua di San Rocco, santo veneratissimo in questa parte del sud Italia. Mi mostra la ferita sulla coscia, e piuttosto che ad un bubbone della peste lo associo ai turgori delle punture di zanzare e di tafani che mi stanno mangiando vivo in questi giorni. Ad ognuno la sua pena, insomma. I quotidiani fanno a gara a spaventarci con i nomi poco vezzosi dati alle roventi vampate di questa estate: Nerone, Caligola, Lucifero… ma fortunatamente pare che la temperatura si stia abbassando, il caldo sembra più sopportabile. Me ne sono accorto questa mattina, prima di salire a San Paolo, quando Gaetano mi ha accompagnato a vedere il cantiere di un’opera d’arte contemporanea. “Sarà un teatro vegetale” mi spiega, “ideato da Giuseppe Penone”. Scopro così che esiste da qualche anno un’associazione che cerca di portare i linguaggi della modernità nel cuore del Pollino. Arte Pollino, si chiama l’iniziativa. Il progetto di Penone è ancora in fieri, ma le polemiche non sono mancate. D’altronde se c’è una cosa che sappiamo fare bene, noi italiani, è polemizzare su tutto: “a che serve quella cosa? Rovina il parco, lo deturpa!” Inutile dire che di quei due capannoni al di là del greto del Sarmento, orribili e impattanti, nessuno ha mai avuto da ridire. Siamo così, ciò che è meschino, anonimo, senza qualità, non ci disturba. Ci dà fastidio il nuovo quando è davvero nuovo, quando è visione, sogno, speranza. Siamo un popolo di lagnosi conservatori che fingono di amare l’arte nel nome del nostra antica, gloriosa, tradizione, la stessa che quando era “nuova” veniva denigrata e derisa.
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Gaetano mi vede interessato alla questione. Decide perciò di farmi fare un mini tour di arte contemporanea nel Pollino. Mi porta a Latronico, e scopro così dell’esistenza di quella che forse è la più grande installazione di Anish Kapoor in Italia. Un taglio in una collina di riporto, una ferita di cemento armato, che mostra al suo interno il ventre della terra. Poche cose, come è tipico di questo artista, che devono essere riempite dalle nostre sensazioni emotive. Qui, nella terra dei briganti e dei riti agricoli, nelle lande dove Cristo manco c’è pure arrivato, qui nei paesi che eternamente muoiono, nel nostro immaginario rovinistico e romantico, qui, si dà uno schiaffo a pregiudizi, si guarda verso il mondo, verso Londra, verso NYC. Inutile dire che il progetto, quando fu presentato, venne osteggiato dai buon pensati locali. “Ma chi diavolo è ‘sto Kapoor, perché non hanno chiamato un artista locale?” (forse perché l’arte quando è “locale”, non è arte ma ornamento? Forse perché un artista e solo lui, sa vedere quello che noi, a casa nostra, non abbiamo mai saputo vedere?). Ma non ci sono stati solo i propugnatori dei monumenti a Padre Pio versione king size, ben inteso. Ed è questa la cosa bella di questa storia. Ci sono stati ragazzi, e non solo loro, che hanno amato e difeso il progetto. L’arte, poi, sa sempre pescare dove meno ci si immagina. Lo capisco incontrando Romeo, l’imprenditore edile che aveva ottenuto l’appalto dei lavori. Un uomo sulla sessantina, dalla parlata dialettale facile. Lui, che Kapoor ovviamente neppure lo conosceva. E che quando ha visto il progetto s’era messo le mani nei capelli: ma che cavolo è questa cosa? (non riporto le parole esatte, per buona educazione, ma le si possono immaginare). Poi però, con quella praticità che hanno le persone abituate a tirarsi su le maniche, s’era messo di buzzo buono. E s’è entusiasmato. “Non è per i soldi” mi dice, mentre beviamo un bicchiere d’acqua sulfurea (Latronico è città di terme), “che in fondo per me è stata una perdita. Ma era per la sfida. Faccio strade, ponti, case, quando mi ricapitava una cosa così?” All’inaugurazione dell’opera Kapoor, prima ancora di salutare il sindaco o le autorità locali, andò ad abbracciare questo artigiano del cemento dagli occhi azzurri, questa faccia da contadino dalla parlata greve. Lo ringraziò per il lavoro fatto. “E’ una brava persona” mi dice Romeo. “Uno semplice…” rido alle sue parole. Poi mi racconta di quando Kapoor lo invitò a Londra per la sua retrospettiva alla Royal Accademy. La storia è talmente esilarante che non vale davvero la pena leggerla. Occorre sentirla dalla sua voce. È quasi sera Gaetano corre contro il tempo per portarmi a San Severino Lucano prima del tramonto. C’è un’ultima cosa che vuole farmi vedere in questo minitour d’arte contemporanea.
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Superiamo il paese e dopo l’ennesimo tornante ho come una visione onirica: sulla cima di una collina, nel cuore del parco, di fronte ad una vista che toglie in fiato, una giostra meccanica fa bella mostra di sé. “È un’installazione di Carsten Höllen”, mi viene spiegato da Giovanni, un attempato dipendente comunale. Cosa può fare l’arte, mi dico. Giovanni di Höllen non sapeva nulla. Gli fu chiesto di organizzare la logistica per il trasporto di questo ammasso di ferraglia, di questo vecchiume più adatto alle discariche che alla installazione. E lui lo fece, con zelo. Poi comprese. Capì l’ironia del gesto, intuì che una vecchia giostra spagnola degli anni Cinquanta, messa lì, spiazzante, fosse a modo suo un gesto poetico. Se ne innamorò. Ad ogni turista, passante, studioso d’arte che voleva visitarla subito si dava da fare per accompagnarlo, farlo salire nei carrelli sospesi, mettere in moto il marchingegno. Dare vita al sogno infantile e visionario. “Una volta ci feci salire una studentessa dell’Accademia, col suo ragazzo. Era il suo compleanno. In piena notte, sotto le stelle. Non se lo dimenticherà mai per tutta la vita.” Guardo questo disco volante, questa astronave aliena nel tramonto che arrossa le cime del Pollino. Sento la magia del posto. Ma non ci posso salire sopra. Giovanni non ha più le chiavi, lui che faceva tutto per pura passione ha dovuto cedere alla protezione civile la gestione dell’opera. Non mi metto neppure a cercare un addetto, probabilmente sarà alla sagra del paese. La burocrazia, come sempre, quando arriva distrugge ogni cosa. Sogni compresi.
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3. Di fiumi che non si vedono o cambiano nome e della mia esperienza acquatica. domenica 12 agosto Gaetano mi mostra dove nasce il fiume Mercure. Che non si vede. C’è e non c’è. Dapprima non capisco, quello che vedo è un pianoro fra vette dai nomi curiosi (fra tutti il Monte Grattaculo), come fa a nascere un fiume qui? Gaetano allora mi mostra delle strane fenditure nell’erba, poi gruppi di pietre come a segnalare pozze, cavità. Capisco così che sono nel bel mezzo di un avvallamento di racconta delle acque. Neve in inverno, piogge, rivoli sottotraccia: il Mercure nasce carsico intride la terra permeabile, scava nella pancia della montagna, cerca uno sfogo, nel suo viaggio tortuoso, sale verso nord, per poi finalmente apparire dalle parti di Viggianello, infine curva verso sud ovest, alla ricerca del mare. Mercure mi sembra un nome dalla etimologia interessante. Gaetano mi racconta di eremiti, di grotte, di Laure del Mercurion, mentre passeggiamo in una faggeta. Mi distraggo. Amo i boschi di faggio. Sono folti e rigogliosi senza essere oppressivi. La luce del sole attraversa le frasche, crea giochi di chiaroscuro riposanti. Il microclima qui sotto, all’ombra di alberi alti anche quindici, venti metri, è perfetto per una passeggiata. Ogni tanto appaiono gruppi di viandanti, ma non sembrano tipici trekkinisti. Non lo sono, infatti. Sono escursionisti della domenica, di quelli che se potessero arriverebbero in macchina pure sulla cima del Pollino; vestiti in modo inadeguato, quasi fossero a passeggio per le vie del centro cittadino, o sulla spiaggia di Riccione. Una coppia davanti a noi porta, una maniglia a testa, una pesante borsa frigo, lui è più alto di lei e più ci avviciniamo e più sentiamo il loro scambio acceso su come tenere la borsa, su chi deve alzare il braccio e chi abbassarlo per mantenere la borsa perfettamente orizzontale. Manca solo che appoggino una bolla metrica per valutarne il grado d’inclinazione. Ci avviciniamo e non osiamo salutare, come invece è d’uopo fra escursionisti sconosciuti. I due sono ai ferri corti, ancora pochi minuti e probabilmente si rinfacceranno difetti, alito cattivo, tradimenti passati. Sono qui perché d’estate, di domenica è obbligatorio essere qui, per mangiare come lupi famelici le cose comprate al supermercato, ma è chiaro che se potessero evitare questo rito collettivo se ne starebbero volentieri davanti al televisore. La natura, per loro, è una cosa indifferente, inutile, neppure alzano lo sguardo per ammirare il bosco. Fra un paio di giorni sarà ferragosto, e terre
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così belle e fragili saranno invase da orde barbariche che useranno questi posti come un semplice fondale da usare per reiterare gli stessi gesti quotidiani fatti in cucina o nel giardino di casa. Sembro uno snob? Come faccio ad essere così sicuro di quello che scrivo? È che non c’è volta che, in posti come questi, non abbia vissuto la ferita di pianori sommersi di lattine vuote, bottiglie di plastica abbandonate, sacchi di spazzatura gettati dietro le siepi. Portare queste cibarie, all’andata, pesa. Ma al ritorno, mangiato come cinghiali, sembra che la spazzatura pesi ancora di più: occorre liberarsene in fretta, quasi fosse una colpa, una vergogna. Ormai i due litigiosi viandanti staranno già divorziando, li abbiamo lasciati da molto tempo alle nostre spalle. Siamo sul Piano Ruggio, sull’ossimorico Belvedere del Malvento. Oltre è la Calabria. Che è, evidentemente, solo una distinzione amministrativa, il Parco è un corpo unico, coerente, la natura non conosce delimitazioni burocratiche. Sulle rocce alla mia sinistra vedo i miei primi pini loricati. Sono alberi dal fusto tormentato, di una bellezza differente rispetto ai faggi di prima. Più sofferta, faticosa. Crescono su pendii vertiginosi, spaccano la pietra cercano il sole. “Ne vedremo altri, più da vicino” mi assicura Gaetano. Al ritorno ci fermiamo al rifugio Fasanelli. Qui tutto è lindo quasi fossimo in Austria. Viene voglia di stendersi, godersi il sole, dormicchiare sull’erba. Invece proseguiamo per Rotonda, alla ricerca del fiume Mercure. Che d’improvviso smette di esistere. Carsismo? No. Cambio di Regione. In Calabria lo stesso corso d’acqua prende il nome di Fiume Lao. Lao River. Roba da film sulla guerra in Indocina. Il tempo a disposizione è quello che è, il tanto decantato panificio di Rotonda dove trovare squisitezze uniche, data l’ora, è chiuso. Oggi è domenica e ce lo siamo dimenticati, lungo la strada troviamo solo negozi chiusi. Poi a Laino Borgo, sotto un sole meridiano, incontriamo un bar con le insegne aperte. Ci fondiamo dentro e chiediamo un panino. Il gestore sgrana gli occhi: “Io ve lo posso fare” ci dice dispiaciuto “ma con il pane, però”. Per tre secondi non capisco di cosa stiamo parlando: e con cosa si fa un panino se non con il pane? Mi sembra un dialogo degno di Ionesco. Poi capisco: filologico fino allo stremo, nel suo regime tassonomico il panino è il bocconcino di pane – dicasi modenese, rosetta, all’olio, etc. – mentre il pane, è “il Pane”, con la P maiuscola. La forma di pane, quella dei contadini, da tagliare a fette. Ovvio che per noi la distinzione, sarà la fame, è degna della discussione scolastica sul sesso degli angeli. Va bene tutto, basta che sia commestibile. Ci sediamo fuori ad osservare il panorama,
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birretta alla mano. Finché arriva il “panino”. Porchetta e melanzane sottolio. Avessi un dietologo personale ne sentirei sicuramente fin da qui le urla e gli strali. Menomale che non ce l’ho, così non mi sento in colpa mentre addento tale prelibatezza. E chi se ne frega del colesterolo. Mi auguro solo che non ci sia uno specchio, penso, entrando nello spogliatoio. Non saprei reggere la vista di tale scempio. Gli specchi sono opere del demonio, non dimentichiamocelo. Noi siamo fatti per non guardarci, dobbiamo riconoscerci nello sguardo degli altri. Specchiarsi significa cadere nella tentazione di noi stessi, morire di narcisismo. Insomma non voglio vedermi, penso, ormai in mutande. Poi la smetto con questi pensieri da filosofo della domenica. Sto infilandomi la prima muta della mia vita, nera, extralarge. Faccio una fatica boia, tiro indietro la pancia, infilo le braccia. Ora, inguainato di tutto punto, nero come un corvo, manca solo un mantello rosso e sembro un supereroe bolso, che ormai veleggia sulla cinquantina: uno spettacolo deprimente. Niente specchi, però, quindi esco dal camerino sollevato. Il mantello non me lo danno, ma mi forniscono di casco, giacca impermeabile e giubbotto salvagente. Sono pronto per la mia prima esperienza di rafting. Sperando anche che non diventi l’ultima! In realtà i ragazzi del Lao Canyon Rafting sono bravi, professionali e sanno metterti subito a tuo agio. La nostra guida parla italiano con uno spiccato accento sudamericano. La cosa mi incuriosisce. Vengo così a scoprire che Ariel è uruguaiano ed ha conosciuto dalle sue parti Luca, Andrea e Raffaele (detto Raffo), amanti della disciplina che avevano girato per mesi nel Sud America, un po’ per perfezionare le tecniche, un po’ per imparare la lingua. E così altrettanto hanno fatto Ariel, Pedro e Sebastiano Garcia, venuti qui per le stesse ragioni. Una sorta di “Programma Erasmus del rafting”, autoprodotto, che, grazie anche all’aiuto di Antonio, ha permesso loro di aprire questa attività. Una storia così lontana dagli stereotipi del sud indolente, vecchio, moribondo. Riceviamo le minime istruzioni di base ed entriamo in acqua col gommone. Sul nostro, oltre a me, Gaetano ed Ariel, piazzato a poppa, c’è una giovane coppia. Lui è posto sulla destra della prua, lei gli sta dietro. Partiamo. Sono anni che ragiono sul tema del paesaggio. Sul distinguerlo dal territorio, dal panorama, dagli scenari. Il paesaggio resta comunque qualcosa che ha a che fare con lo sguardo, col punto di vista. Sta negli occhi di chi guarda, quasi di più che nella sua realtà oggettiva. Sta nella capacità di leggerne la complessità, la ricchezza, le costanti e le varianti. Sta, su tutto, nella curiosità: quella che il nostro compagno dallo spiccato accento pugliese non ha affatto. Ci rendiamo subito conto che a lui di seguire le
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istruzioni che Ariel ci impartisce non interessa affatto. Neppure alza gli occhi – da qui la vista è mozzafiato - cerca l’emozione, lui, l’adrenalina. Urla come uno scemo, si piega in avanti verso il pelo dell’acqua, fa scherzi idioti con la pagaia. Noto che il nervosismo di Ariel, persona che alla partenza sembrava il ritratto della pace interiore, sta salendo. Per lui il rafting è una passione, ma sa anche che non è un gioco. Il nostro compagno pugliese, con il suo temperamento guascone ci mette continuamente in situazioni complicate. Non rema quando gli viene chiesto, lo fa quando gli viene proibito. Si sposta di continuo, almeno un paio di volte, con le sue spacconate, ci fa incagliare nelle rocce. Ariel urla, lo rimbrotta, gli spiega che un gommone non si guida come una macchina, che questa non è una gara, che dobbiamo seguire le leggi dell’idrodinamica, lui finge di aver capito, sguardo da cane bastonato, poi ricomincia daccapo con le sue intemperanze. Persino la compagna, rossa di vergogna, cerca di dirgli qualcosa. “Mollalo” vorrei dirle io. “Se te lo tieni ti renderà la vita impossibile”. Ma me ne sto zitto. Sulla mia testa passa il viadotto della Salerno Reggio Calabria. La vista da qua sotto è impressionante. Il viadotto Italia l’avevo già visto, dall’alto, una specie di segno logico nell’orografia, un esempio di land art autentico, perfettamente disegnato nel suo essere scarno, essenziale e al contempo monumentale, ma da qui, da sotto, nell’orrido calcareo tutto diventa addirittura sublime. Al pugliese non gliene frega niente. Urla ad Ariel se ci sono rapide da superare, se si può andare più veloci: Ariel lo stoppa, ma lui neppure lo ascolta. Ci incagliamo di nuovo. Non conosco lo spagnolo ma ho la certezza di aver distinto delle bestemmie. Le stesse che sto pensando io, nel mio idioma. Dalla roccia cerchiamo di rimuovere il gommone, il pugliese – direi barese da certe vocali strascinate –, sua sponte, spinge da dentro con la pagaia sulla parete rocciosa, il gommone s’allontana repentino, Ariel cerca di immobilizzarlo, acqua fin sopra la cintola. Io e Gaetano restiamo sullo spuntone. Non ci resta che gettarci in acqua per raggiungere l’imbarcazione. Per fortuna all’andata un’anima pia mi aveva legato con degli elastici gli occhiali dietro la nuca. Scivolo dalla roccia convinto che il fondale sia basso. Non lo è, ci entro dentro con tutta la testa, ma gli occhiali non mi scappano. Risaliti pagaiamo, più mogi. Da dietro guardo il mio compagno barese. Sembra continuamente distratto, incapace di concentrarsi sulle cose. Non credo ci sia in lui il desiderio di rovinarci l’esperienza. Non credo neppure ci sia cattiveria, arroganza, prepotenza. In lui riconosco un modo d’essere di certi italiani, purtroppo molto numerosi. Un modo infantile di vivere le cose. Un continuo desiderio di appagamento immediato, senza visione del futuro, senza comprendere il
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senso del lavoro collettivo. Uno di quei tipi che da ragazzini, nelle partitelle di calcio, volevano sempre segnare, che non passavano mai la palla, convinti di poter e saper fare tutto da soli. Un individualista puro, che magari può aiutarti, darti una mano, come è capitato, quando si rende conto di un pericolo, e che però è capace di non rendersene conto affatto perché non ne ha neppure la percezione. Tutto diventa un gioco, per questa tipologia nazionale, tutto diventa soddisfazione del basso ventre, senza troppa elaborazione intellettuale, senza alcuna sensibilità. Puro irresponsabile desiderio di felicità personale. Egoismo, insomma. Poi ci tocca scendere dal gommone ancora una volta, per costeggiare una strettoia di rocce a piedi: Ariel, da solo, trascina il gommone come Atlante il globo terracqueo e lo porta al di là del salto. Noi da sopra possiamo solo gettarci in acqua per raggiungerlo. La corrente è forte, mi consigliano di gettarmi verso sinistra. Lo faccio in una posa ridicola, con le dita della destra che puntano gli occhiali al naso, come stessi meditando chissà quale pensiero profondo anche durante il lancio nel vuoto. Scompaio nell’acqua, tenendomi fissi gli occhiali quasi fossero il codino del barone di Münchhausen col quale poi tirarmi fuori; riappaio giusto in tempo per sentire le grida: “Troppo in là”, vado sotto. L’acqua è gelida, ma la sensazione in fondo è piacevole, riappaio. “Lo stiamo perdendo” dice qualcuno, neppure fossimo in una medical fiction americana. Pesco nel mucchio una mano tesa e finalmente tocco il fondo con i piedi. Posso risalire a bordo. Tornando verso casa facciamo una pausa a Viggianello, dove incrociamo Valentina, una ragazza che vive e lavora qui (quanti ragazzi in Basilicata! Inizia ad avere la mancanza dei rassicuranti vecchi moribondi neorealisti!). Diventa inevitabile fermarsi al bar. Raccontiamo le nostre gesta acquatiche con quel tono che dissimula indifferenza ma che è pieno di un orgoglio un po’ fesso. Ormai ha tramontato, siamo stanchi, ci inerpichiamo verso Senise per alcune strade interne, fra boschi e tornanti. Poi, quasi in mezzo alla carreggiata, vediamo un Gufo che ci osserva. Le luci della macchina fanno scintillare i suoi enormi occhi. Con calma apre le ali e spicca il volo. Un Gufo. Chi l’aveva mai visto un gufo?, penso. Neppure dieci minuti dopo un cucciolo di volpe taglia la carreggiata e si ferma sulla destra. Ci guardiamo tutti e due, per un tempo breve ed infinito assieme. Ho in mano la macchina fotografica ma neppure l’accendo. Quando me ne rendo conto la sporgo dal finestrino, ma l’animale scompare nel buio. La poesia non accetta interruzioni prosaiche.
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4. Del pastore che si fece artista, di una magia infantile e di ‘quel paese là’. lunedì 13 agosto Giovanni Marino era un pastorello cresciuto coi nonni a Teana. A sedici anni aveva raggiunto il padre, emigrato in Argentina, e lì s’era messo a fare il muratore. Non gli dispiaceva disporre le cose nello spazio, crearlo, dal nulla. Iniziò a ragionarci sopra, a studiare nei corsi serali del Circulo de Bellas Artes di Buenos Aires la materia. Non gli bastava, fu perciò la volta della Scuola Politecnico. Poi da privatista si laureò Professor Superior. Trasvolò in Spagna e poi a Parigi. Erano gli anni Cinquanta, divenne un artista. Installò le sue realizzazioni in giro per l’Europa, una è tutt’ora di fronte alla residenza del Presidente della Repubblica francese. Usò come nom de plume Marino da Teana. Perché, non ostante tutto, non volle mai perdere le sue radici. Scopro questa storia qui, a Teana, mentre visito le cinque sculture che in vecchiaia il suo paese d’origine ha voluto distribuire in vari punti dell’abitato. Un modo di riallacciare un legame flebile, per smentire l’antico adagio che nessuno è profeta in patria, per ringraziarlo di tutto quell’amore per queste terre che l’antico pastorello aveva serbato con sé, come una riserva aurea della sua coscienza. Sculture astratte, geometriche, di marmo, di corten arrugginito. Tutto il contrario del figurativismo becero che ogni giunta comunale italiana che (non) si rispetti propugna nelle sue piazze. Di Marino di Teana, ben inteso, i teanesi nulla sapevano prima di questa tardiva scoperta. E di certo avranno storpiato il naso vedendo installare queste opere. Ma il gusto si educa con l’esempio, non c’è altro modo. Come si suol dire: “nessuno nasce imparato”. Il sindaco del comune viene a sapere che sono in giro a fare fotografie e con una gentilezza tipica di queste terre decide di accompagnarmi, assieme ad un paio di amici. Uno di questi, verrò poi a scoprire, gli fu avversario alle elezioni. Ma se vivi in un posto di un migliaio di anime, l’avversità politica non è mai così netta e definitiva. Il gruppetto mi marca stretto, già che c’è mi porta in chiesa per mostrarmi orgoglioso le ghirlande di spighe di grano intrecciate su impalcature di legno che durante la festa della Madonna vengono portate sul capo dai teanesi. Giusto per farmi capire di cosa si tratta il Sindaco sfodera un IPhone e mi mostra la ripresa video. Riti agricoli osservati da un oggetto tecnologicamente avanzato. Eppure non c’è alcuna contraddizione.
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In una piazzetta appartata, mentre fotografo l’opera dal titolo L’Alba (ma quella che ho preferito, per inciso, è l’Omaggio a Lao Tse) noto un vecchietto seduto sulla panchina. Si gode l’ombra di un albero. Attacca bottone. “È di Marino di Teana” mi conferma. Mi avvicino, inizia così un dialogo vagamente surreale fra uno scrittore milanese che fotografa pezzi di ferro arrugginiti (ché quello è, ai suoi occhi, ciò che abbiamo di fronte) è un vecchio signore che comunica solo in dialetto stretto. Ammette di non capire il mio interesse per quella robaccia. Però vuole farmi sapere che Marino vive in Francia. “Viveva” gli dico, “ormai è morto”. Non ci crede. Glielo confermo. “È morto a gennaio di quest’anno.” Sbuffa. “Suo fratello vive qui, ma non mi detto niente.” (inutile cercare di riportare l’idioma aspro di queste terre, non ho abbastanza padronanza filologica). Il mio interlocutore si chiama Vincenzo. Scoprirò poi che viene chiamato Don Vincenzo in paese, ma io, lì, sotto le fresche frasche, intesso subito un rapporto così intimo - di quelli che possono capitare solo in un vagone ferroviario fra due sconosciuti - che non rispetto le buone maniere meridionali che pure conosco. Vincenzo ha quasi novant’anni, mi dice. Faccio due conti veloci: è quasi coetaneo di Marino, nato nel 1920. Si saranno pure conosciuti da ragazzetti. Poi uno è rimasto qui, l’altro è partito. Vincenzo qui c’è rimasto per davvero. Tranne che per il militare non s’è mai spostato da Teana. Ha avuto due figli, un maschio e una femmina, ha sgobbato per tutta una vita ed ora, per passare il tempo, intreccia ceste con i vimini. “Ne vuoi vedere uno?” mi chiede. Si alza, andiamo assieme verso casa sua. Il gruppo che mi seguiva – Sindaco, amico/avversario, Gaetano, etc.- e che era rimasto appartato lontano da noi due, ci vede andar via e non capisce. Ai loro occhi forse sembriamo due marziani, due mondi lontanissimi in piena collisione. D’istinto offro il braccio a Vincenzo. I suoi cestini sono graziosi, ma per quanto cercasse di vendermeli li lascio lì, non saprei dove metterli in valigia. Però gli prometto che se torno con la famiglia vengo a cercarlo. “So dove trovarti” gli dico, Sulla panchina di fronte a Marino di Teana.” Lui annuisce, sorridendo, poi aggiunge: “Non è che i tuoi amici vogliono comprarsi un cestino?” Mai cedere alle tentazioni. Anzi, per la precisione: mai accettare un invito a pranzo da un sindaco lucano. Quello che dovrebbe essere un pasto frugale per me, qualcosa che serve a bloccare il languore, per poi rimettersi in marcia, diventa, in queste condizioni, una vera e propria gimcana enogastronomia. In fondo lo sapevo, lo dovevo immaginare. Ma di fronte a tanta gentilezza, di fronte all’invito, sventurato risposi.
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Due ore di tavola imbandita, quanto meno, oltre che a preservarci dal caldo torrido del primo pomeriggio, mi hanno permesso di chiacchierare con chi il territorio lo conosce e amministra tutti i giorni. La discussione passa da un argomento ad un altro, repentinamente. Vengo a scoprire che la Basilicata è come una piattaforma che galleggia sul petrolio. Per quanto le royalties che incamerano siano basse rispetto alle concessioni che mediamente i petrolieri elargiscono persino in Africa, questa attività estrattiva, aggiunta al fatto che questa terra abbevera le regioni limitrofe, fa sì che la Basilicata, in fondo, non sia una realtà povera. I soldi non mancherebbero: manca la capacità di sfruttarli, di metterli in circolo. Manca la cultura. E dove non c’è cultura non c’è sviluppo. Mentre se ne parla, superato un antipasto pantagruelico, arriva un piatto di mischiglio al pomodoro e basilico. Una pasta povera fatta di mistura di farine di legumi e cereali vari. Scatta una discussione sull’origine del mischiglio. Fardella, il paese confinante, ha dichiarato in pompa magna di esserne l’inventore, ma quel paese, mi viene detto, neppure esisteva cento anni fa. E il mischiglio è un piatto tipicamente contadino, che esiste dalle notte dei tempi. Li guardo incredulo. Ma davvero credono sia una cosa importante? Parlano tanto di promuovere il territorio e si accapigliano per una cosa così? Sarà colpa del vino, non so, ma non tengo a freno la lingua: “Finitela con questa retorica delle tradizioni. Avete sul vostro territorio un tartufo bianco che potrebbe fare invidia ad Alba e non lo sa nessuno, chi se ne frega della primogenitura del mischiglio!” A pomeriggio inoltrato, salutato gli ospiti, scendiamo verso San Severino Lucano. Gaetano guida lentamente, il pranzo l’ha stremato. Ma ha voglia di parlare. Mi parla delle frustrazioni di chi cerca di portare una ventata nuova in questa terra che ama in modo smisurato. Lo dice con rabbia, ma senza orgoglio. Mi piace. Io amo la rabbia e odio l’orgoglio. Il primo è un sentimento autentico, viscerale, il secondo una costruzione retorica, falsa. La tradizione, per chi ha rabbia, è il terreno di un corpo a corpo costruttivo, vivo, pieno di speranza. Per chi ha orgoglio, invece, è solo retorica passatista, conservazione, vigliaccheria. Stiamo tornando a San Severino perché, con rabbia, Gaetano non ha accettato l’idea che io non fossi salito sulla giostra di Hollen. Era stufo della retorica meridionalista e lamentosa, una sorta di coperta calda e accogliente dove potersi avvolgere per lamentarsi che tutto, qui, non funzioni. Ha chiamato la protezione civile, ha mosso mari e monti affinché io vivessi questa esperienza. Ed infatti eccomi qui, sul seggiolino che sale, lento, con una lentezza esasperante. Il
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panorama è semplicemente strepitoso. Rifaccio il giro di giostra una manciata di volte, non vorrei più scendere. Poi a terra il suo sguardo interrogativo chiede di essere sciolto. “Com’è” mi chiede, quasi scusandosi di avermi riportato qui. “Meraviglioso”. Il suo volto si distende. “Non sai quante polemiche” mi dice,“non sai le cose che hanno detto, che hanno scritto...” “Sono venuto per dividere, non per unire” gli dico parafrasando il Vangelo. “Appuntati sul petto ogni polemica, come una conquista sul campo.” Questo fa l’arte. Altrimenti è ornamento, intrattenimento, decoro. Nulla sull’intrattenere o decorare, sono attività necessarie e piacevoli, ma se un’opera non divide, se non fa discutere, se non semina dubbi, a che serve? L’arte, tutta l’arte, ci regala ogni volta uno sguardo nuovo sul mondo, c’è chi, di fronte a questa sensazione d’inadeguatezza si chiude a riccio, citando con orgoglio la tradizione come scudo protettivo, come braghettone che copre le pudenda, e chi, con gioia e con rabbia, cerca di entrare in risonanza con quello sguardo inatteso, inedito. Nuovo e perciò miracoloso. La digestione del pranzo mi occupa l’intero pomeriggio, a sera, prima di risalire in masseria, facciamo una passeggiata sul Lago artificiale di Monte Cotugno. Sembriamo una coppietta che si vuole infrattare, ci ridiamo sopra. Il posto ha un suo fascino inespresso, potrebbe essere rimesso in gioco, riprogettato. “Che paese è quello?” chiedo, poi, indicando verso una cima. Sorride. “È… insomma, è ‘quel paese là’, ti ricordi che ne avevamo parlato?” ‘Quel paese là’ non si chiama così, ovviamente. Ha un suo nome, ben preciso, da secoli. Ma da secoli non viene mai nominato dagli abitanti della regione. Di questa storia ne ero venuto a conoscenza un quarto di secolo fa, quando, cercando di visitare proprio ‘là’ una chiesa progettata da una architetto napoletano, Nicola Pagliara, mi accorsi che il nome del comune era tabù per tutti: chiedere una indicazione stradale sembrava la più ardua delle imprese. Quel nome non doveva essere pronunciato. Portava sfortuna. A suffragare tali superstizioni venivo subissato di prove certe, scientifiche, di amici che, appena nominatolo, gli si bucava la gomma, o inciampavano rovinosamente. Gli abitanti di ‘quel paese là’, alla fine hanno fatto buon viso a cattivo gioco. Che in antichità fosse un covo di fattucchiere, di megere atte a produrre filtri malefici (così dice la leggenda) in fondo non è mica colpa loro. Il pregiudizio o lo fai a pezzi a colpi di testate contro il muro, oppure ci giochi, lo aggiri. Così, se un abitante di ‘quel paese là’ si ritrova a fare la fila in un ufficio regionale, gli basta dire da
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dove proviene che tutti gli fanno largo, saltando la coda piè pari. E proprio in questi giorni, osservando a Senise un cartello che pubblicizzava gli eventi estivi di quel Comune, con un’ironia davvero encomiabile, c’era scritto: “Sogno di una notte d’estate a… quel paese.” Geniale! (propongo a questo punto di andare oltre; per il prossimo anno consiglio all’assessore al tempo libero una mia personale variante: “Questa estate andate tutti… a quel paese!”). La digestione sta facendo gli straordinari, ormai ho un mal di testa colossale. Basta abbuffate, va bene l’ospitalità ma il mio apparato digerente non è più attrezzato per tali prove iniziatiche. Mando Gaetano a casa e chiedo ad Antonella solo un tè caldo per cena. Me lo porta con un piattino di biscotti fatti in casa. Mi piace Antonella. Gestisce lei da quest’anno la masseria. Viene da Potenza ed ha un fare pratico, concreto, che spesso cozza con i tempi dilatati della provincia profonda. Da quello che mi ha raccontato vive sola, con suo figlio Nicola, un ragazzino di dodici anni dalla faccia vispa e buona che lo fa sembrare più piccolo. Non le chiedo nulla del padre, se li ha lasciati andare ci ha di certo perso lui e ci hanno guadagnato loro. I biscotti sono buoni. Un bimbo di neppure due anni di un tavolo a fianco mi trotterella vicino, gli faccio ciao con la mano e lui risponde con la sua impegnandosi come se stesse risolvendo una equazione differenziale. Mi rendo conto che sono ormai a metà del mio viaggio nel Pollino, è sera, sono solo, e mi manca la mia famiglia. Sarà meglio andare a letto e dormirci sopra. Domani sarà una giornata lunga e di certo non andremo a ‘quel paese là’. Che, detto per inciso, si chiama Colobraro.
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5. Di tesori nella grotta, sorelle sfortunate, imbecilli, riti antichi e gioie del palato martedì 14 agosto La prima cosa a cui penso è un caveau. File ordinate di lingotti d’oro. Ma è ancora poco. Penso allora al tesoro dei quaranta ladroni, solo che non ho avuto bisogno di dire “apriti sesamo” per entrare in questa grotta con la volta a botte scavata in una roccia di una masseria di Chiaromonte. Ad aprire la stanza del tesoro ci ha pensato Maria. Sulla parete d’ingresso un igrometro valuta l’umidità relativa, l’antro è scarsamente illuminato. Tutto attorno, adagiati su bancali di legno, stagionano decine, centinaia di forme di formaggio. Il profumo nell’aria è inebriante. “E pensare che io neppure sapevo come si faceva il formaggio” mi dice Maria. E mi racconta della sua passione nata per caso, seguendo l’azienda agricola del marito. Non voleva fare i soliti formaggi, quelli di produzione standard, da supermercato, voleva un prodotto speciale, di qualità. Niente latte vaccino, solo capra e pecora. E solo latte crudo. “I nostri animali pascolano liberi e brucano anche erbe officinali, se pastorizzassimo il latte ne annulleremmo d’un colpo tutta la fragranza.” Passione. Ecco una parola che ricorre spesso nei miei pensieri in questi giorni. Ho conosciuto persone appassionate, pronte a combattere per un’idea, anche contro tutti, contro il comune sentire. Maria non ha un mercato interno, locale. Le sue forme non costano di più di formaggi dozzinali che spesso si trovano nei negozi o nelle sagre. Semplicemente non ha ancora trovato il modo di far sapere al mondo (perché è al mondo che dovrebbe rivolgersi, non ai suoi concittadini) quale miracolo alchemico sta producendo. Apre per me una forma e io mi sento quasi in colpa, mi porge una piramide allungata di formaggio. Lo addento. La consistenza non è morbida. È, piuttosto, friabile, vagamente gessosa. Ai primi morsi sembra quasi non abbia sapore. È sciapo. Poi la saliva causata dalla masticazione produce una reazione chimica e pare di assistere ad un miracolo gustativo: il latte, prima, poi le erbe officinali, il fieno, solo un vago accenno di salatura. Ne assaggio ancora. Ciò che noto è che non sento il bisogno di bere. Alcuni formaggi sono salati più per coprire le magagne che per insaporire. Qui è una degustazione in punta di fioretto, elegante e arcaica. Il formaggio non ha retrogusti fastidiosi, non pesa, dopo averlo
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ingerito non torna a disturbare l’alito. Sono sinceramente impressionato. Quale modo migliore per iniziare la giornata? Qui pare che Epeo, il costruttore del cavallo di Troia, decise di fondare Lagaria. Terra del mito, Valsinni. Borgo bello, attorcigliato al monte e sovrastato dal castello feudale. Ma qui non sono per le pietre, ma per le parole. Qui sono per venire a salutare una sorellina sfortunata. Isabella cara, sorella di parole, di versi, madre illibata di tutti noi scribacchini, donna violentata dalla brutalità del mio sesso, dai tuoi fratelli meschini, che non meritano d’essere ricordati per nome. Che l’oblio li danni per sempre, bestie intrise di orgoglio di schiatta, maschi volgari come tutti i maschi che ancora oggi uccidono donne per una diceria, per preservare l’onore della famiglia, per rimarcare i senso del possesso di un sesso su un altro. Qual era la tua colpa, Isabella? Quale l’onta? Hai vissuto reclusa dentro questo castello, esclusa pure da tua madre, da tua sorella, invisa dai maschi di casa, a causa delle tue stramberie: la passione per le creature del mondo, per il monte, per il fiume. La vergogna, per i tuoi carnefici stava nel tuo essere più intelligente, più sensibile, migliore, assolutamente migliore di loro. Se lo so, se so di te, Isabella Morra - poetessa alta, moderna, vicina – lo devo a Benedetto Croce. Anche solo per questo non riuscirò mai a criticarlo più del dovuto (come feci e come tutt’ora faccio, di tanto in tanto). Anzi, dovrei rileggerlo, oggi, con meno passione, con meno rabbia. E se è vero, come lui crede, che con Diego - don Diego Sandoval De Castro - nulla ci fu, solo uno scambio di parole alate, di versi, di puro pensiero, me ne dispiaccio ancor di più. Almeno avessi potuto consumare il tuo corpo nell’abbandono dei sensi, sorellina. Avessi potuto, almeno per una notte, evitare di struggerti per un padre che non tornava da Parigi, speranzosa ti salvasse dall’idiozia del natio borgo. Avessi potuto amare, nella carne, negli umori, quanto più giusto sarebbe stato. Morire così, santa della poesia, a soli venticinque anni, non lo merita nessuno. Le colpe dei padri ricadono sui figli. Non sconteremo mai abbastanza la nostra vergogna nei tuoi confronti. Sul sentiero ai piedi della Timpa delle Murge, dopo un’ora di cammino, i tafani non ci hanno ancora abbandonato: Gaetano continua a scacciarli nervoso, io propendo per un atteggiamento zen. I tafani non ci sono, non ci sono, non ci sono. Invece ci sono, eccome! Sembrano vecchi amici fastidiosi che non vogliono lasciare casa tua anche se s’è fatto tardi e caschi dal sonno. Lì, pronti ad un altro giro di birra o di poker mentre tu ti
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guardi lo sport in tv stramazzato sul divano, augurandoti che quegli impiccioni scompaiano d’incanto. Il bosco si apre su un pianoro. Tutto attorno è una serie di fuochi spenti, melanomi maligni sulla cute del parco. Sotto un faggio c’è persino una piccola discarica di spazzatura, bottiglie di plastica, lozioni per capelli, vetri. Residui di un campeggio assai numeroso e, con impunità volgare, persino firmati: fra la sporcizia scorgo uno striscione improvvisato, fatto in una serata a cantare attorno al fuoco, sottoscritto dal Gruppo Scout di Martina Franca. Non male per chi afferma di amare la natura. Io, di mio, non ho mai amato gli scout. Questa ne è l’ennesima conferma. Nei pressi della sorgente Catusa alcune persone arrostiscono carne, mangiano e bevono attorno ad un falò: che qui, in Zona A (“di altissimo interesse naturalistico”) è proibitissimo. Provare a dirglielo è inutile, neppure lo capirebbero. Lo so, avrei dovuto chiamare la Guardia Forestale. Ma so anche che i militari sarebbero arrivati ore dopo, si sarebbero seduti affianco a quei cinque mangiatori di carne arrostita (che sono venuti fin quassù in macchina. Anzi, con quattro macchine!), si sarebbero bevuti un bicchiere di vino con loro, li avrebbero rimbrottati e poi, spento il fuoco, se ne sarebbero tornati in sede, sbuffando per la scocciatura. Altro che rimbrotto. Io su queste cose divento manicheo: un fuoco in Zona A è vietato. Indi: arresto immediato per flagranza di reato. Punto. A Terranova del Pollino scopro che pure gli alberi si sposano. È un rituale antico, agricolo, nato nella notte dei tempi e poi inglobato dalla chiesa, che come al solito fagocita e cristianizza ciò che non può eliminare. Un lungo e monumentale faggio (il marito) viene scelto nel bosco, sbozzato e ripulito della corteccia, viene poi trainato in paese da carri di buoi. Altrettanto si fa con un piccolo abete (la moglie) al quale non vengono tolti corteccia e rami. I due fusti poi vengono uniti, legati assieme, in un vincolo matrimoniale e infine innalzati in piazza. Resteranno lì per l’intero anno, a proteggere i raccolti. Osservo da sottoinsù l’erezione arborea. È affascinante, sembra una installazione d’arte contemporanea che si vede anche a chilometri di distanza. Un ago infilzato nel cuore del paese, una pertica che collega cielo e terra. A Terranova avevo notato che il fusto del faggio era a sezione circolare. Appena giungiamo a Rotonda vedo un altro di matrimonio arboreo (detto “L’a’ pitu e la rocca”), forse ancora più monumentale. Qui la sezione del faggio è quadrata e l’innesto superiore più preciso. Ma non sono a Rotonda per il rito arboreo. E neppure per l’elefante preistorico ritrovato per caso in un campo circa trent’anni fa. Non che non lo meriti, è un pezzo unico in Italia, esposto in modo dozzinale e senza poesia in uno scatolone
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edilizio che prima era sicuramente una scuola ed ora sembra un deposito di vecchiume. Sono qui per inseguire una storia (cos’altro sa fare, in fondo, uno scrittore?). A raccontarmela ci pensa Fabio. Sembra (e “sembra” è davvero necessario) che alla fine dell’Ottocento, ma forse (forse) più probabilmente durante la campagna d’Africa, alcuni rotondesi in cerca di ventura, o più probabilmente di un rancio nell’esercito, abbiano - conquistato (e poi definitivamente perso) l’Impero - riportato a Rotonda un curioso vegetale simile nella forma e nel colore ad un pomodoro. Ma che era, invece, una melanzana. Solanum aethiopicum, in effetti si chiama scientificamente. Sta di fatto che questa piccola melanzana rossa ha attecchito qui a Rotonda. Qui e solo qui, questo è il fatto curioso. E a furia di coltivarlo e passarselo di famiglia in famiglia, ormai è diventato un prodotto tipico di Rotonda. Io, come al solito, non ne sapevo nulla, dico a Fabio. Ma lui mi rinfranca: “Non ne sa nulla nessuno. Io la vendo in Svizzera, all’estero. In Italia la grande distribuzione uccide prodotti così particolari.” Poi mi racconta di quando un imprenditore americano, assaggiata la crema di melanzana rossa, voleva farne un business vendendola nel circuito medio-alto degli States. “Solo che la loro richiesta era impossibile. Per soddisfarla avremmo dovuto coltivare a melanzane rosse l’intera Basilicata!” Ma sarà poi così buona, mi chiedo, o è la solita tiritera localistico-patriottarda? A sciogliere l’enigma ci pensa Peppe. Gaetano mi porta nel suo piccolo ristorante. In realtà siamo passati solo per salutare, il viaggio di ritorno sarà lungo ed è quasi ora di cena. Ma mentre stringo la mano al titolare, la moglie Angela ha già apparecchiato per due. Proviamo a farle capire che siamo di passaggio, ma in fondo sappiamo che è inutile. Gaetano è un amico e io sono suo ospite. E l’ospite è sacro. ”Solo un assaggio” proviamo a dire. Arriva nel frattempo il vino. Un Aglianico meno brusco di quelli che ho bevuto fin’ora, più morbido, più piacevole. Ecco poi finalmente la melanzana tagliata ad insalata e condita con olio d’oliva e sale. Ha il cuore bianco, solo la scorza è rossa. Ne prendo un po’ e l’adagio su una fetta di pane. Gaetano mi guarda, come spesso fa in questi giorni, in attesa dell’oracolo. In effetti devo avere un’espressione degna della Sibilla cumana. Mentre mastico ho uno sconvolgente deja vu. Meno di due mesi fa ero in Etiopia, a seguito di una missione umanitaria organizzata dalla ONG Coopi. Ero lì ed ho mangiato qualcosa… qualcosa che aveva questo sapore. Certo, senza olio d’oliva, senza la foglia di alloro, ma, era proprio questo. “Com’è?” mi chiede insistente Gaetano.
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“Buonissimo” rispondo, e la sua fronte si distende. Poi arriva un tortino con una vellutata di crema di melanzana rossa. A descrivermela è Antonella, una delle due figlie di Peppe. “C’è pure del guanciale, o della salsiccia” dico io, in estasi culinaria. Ma Antonella nega. Cerca anzi il ricettario per farmi leggere gli ingredienti. Nasce fra di noi una divertente discussione, dove io faccio la parte del grand gourmet. Dalla cucina arriva anche Flavia, l’altra figlia, che dopo la laurea, caduta sulla strada di Damasco, ha deciso di seguire le orme del padre e s’è messa di buzzo buono a studiare ristorazione. Me lo conferma: “Hai ragione. Mettiamo una salsiccia ogni chilo e mezzo di composto. Complimenti, non se ne accorge quasi nessuno.” Ovvio che ora mi sento come fossi l’erede naturale di Luigi Veronelli o Carlin Petrini, ma al di là dei vaneggiamenti, la verità è che questo tortino è la cosa più buona che abbia mai mangiato da quando sono qui in Basilicata. Finita la cena – dopo un primo di pasta fatta in casa col sugo di melanzana rossa e un dolce di ricotta e melanzana rossa candita (da leccarsi le dita!) – vado a dirlo a Peppe. Vado a ringraziarlo. Mi stringe la mano, quasi intimidito, quando invece dovrei essere io a sentirmi timido e grato di fronte a tale maestro di gioie culinarie.
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6. Del ferragosto in famiglia, i tafani, i pini loricati e della Madonna del Pollino mercoledì 15 agosto Il ferragosto si passa con la famiglia. La mia famiglia, in questo momento, è a Maddaloni, in provincia di Caserta, paese natale di mia moglie. Ma le tradizioni devono essere rispettate e io le rispetto. Oggi faremo un’escursione sul massiccio del Pollino con Gaetano, sua moglie Rosita, il fratello di Rosita, Giovanni e la moglie Graziella. Insomma, mi pare una buona alternativa alla solitudine. Raggiungiamo in macchina il rifugio Pino loricato, a dieci minuti dalla Madonna del Pollino, ma decidiamo di non andare subito al santuario. Vogliamo fuggire dall’orda barbarica che sta invadendo, già alle prime ore del mattino quest’area. Fin dalla strada avevamo visto la massa transumante risalire il crinale della montagna, come un fiume di esoscheletri di acciaio, vetro e gomma. Gente, gente dappertutto. Con griglie, borse termiche, salsicce, damigiane. È ferragosto, e ferragosto si passa in famiglia. Solo che qui le famiglie sembrano smisurate, preindustriali. Vengono da mezza Basilicata, da mezza Puglia. È curioso come gli italiani si riempiano la bocca di parole come “tradizione”, “territorio”, “ambiente”, e poi non hanno neppure la sensibilità di lasciare le macchine nei parcheggi appena sottostanti. Arrivano fin quassù – dove i loro nonni giungevano a piedi, nel nome di una fede autentica e sentita per la Madonna del Pollino – superando ogni ostacolo, parcheggiano la macchina ovunque, sotto gli alberi, sui prati, poi distendono i plaid proprio di fronte al muso dell’automobile, neppure avessero paura che gliela rubassero, incapaci di fare pochi passi a piedi, si sdraiano sfiniti (di cosa? D’aver guidato fin qui?), fra i miasmi dei tubi di scappamento e sono felici. In mezzo a quello che loro credono sia “la natura”. Siamo diventati ricchi troppo in fretta. Ingurgitiamo cibo come cammelli che riempiono le gobbe, terrorizzati dall’idea che tutto questo ben di Dio ci venga tolto d’incanto. Del soffio del vento, del verso degli uccelli, del frusciare delle foglie non ce ne frega niente. Copisti maldestri dei riti dei nostri avi, maldestri e coscientemente disonesti, veniamo qui e officiamo il nostro nuovo, pantagruelico, rito di abbondanza. Gaetano soffre alla vista di tutto ciò, è più integralista di me. No, anzi: più puro. Io in fondo posso anche interpretare la parte del milanese snob che bacchetta i meridionali invadenti. Lui
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invece è di queste terre, vederle così deturpate da questa sorta di piaga biblica lo deprime. Superato il pianoro il sentiero inizia a stringersi e si fa pietroso. Poi sale, dove nessuna macchina, neppure un fuoristrada, può arrivare; girata una cresta ci lasciamo le grida, la musica a palla delle autoradio, i rumori molesti alle spalle. “Da qui in poi” ci dice rassicurandoci, “non incontreremo più nessuno”. In effetti è così, per lungo tempo. Niente casino, niente fastidi. No, non è vero. Ci sono i tafani. Sarà che è estate, che fa caldo, che stanotte ha piovuto e l’ambiente è umido, sarà che gli armenti vagano liberi nei pascoli, ma tutti questi tafani che ci girano attorno assomigliano ad un monito: davvero credevate che la natura vi avrebbe salvato dalla barbarie? La natura si disinteressa di voi animi nobili, ha le sue logiche che non prevedono l’estatica contemplazione pacificata del mondo. Gli insetti vi sovrastano di numero e di specie, ricordatevelo: erediteranno la Terra! Quindi, per quanto si sia riusciti a sfuggire dalla molestia umana, come un allegorico memento, mentre saliamo nel sentiero e il cuore inizia a pompare sangue al cervello, odiosi tafani ci seguono, si posano su di noi, ci ronzano sulla testa. Per fortuna la giornata ci regala solo vaghi sprazzi di sole torrido che fa capolino ogni tanto, fra nuvole basse che invece elargiscono frescura e ombra. Un escursionista sa che camminare in queste ore del tardo mattino, sotto un sole giaguaro è davvero dispendioso in termini di liquidi. Per me, tra l’altro, lo è comunque. Ho la tshirt inzuppata di sudore. Colpa di una mamma che mi obbligava da bambino a pulire il piatto, ché era un insulto per i bambini in Africa buttare il cibo. Io la fame nel mondo, col mio sacrificio, non l’ho debellata, ma ora in compenso porto i miei cento chili circa di peso corporeo (fatti più di ciccia che di muscoli) come una punizione inferta dall’indifferente mondo occidentale. Il sentiero sembra ben segnato, sale senza mai davvero inerpicarsi, si susseguono boschi di cerri e di lecci, umbratili e freschi, è insomma un sentiero impegnativo ma non difficile. Ci porterei volentieri la mia famiglia, qui, mentre sto come un abusivo, passeggiando con un’altra famiglia. Che mi tratta come fossi uno di loro: si ride, si fanno battute, ci si scambiano borracce e pistacchi. Poi incontriamo due escursionisti attorno alla sessantina. Non sembrano appartenere alla tipologia che ci siamo lasciati alle spalle. Ci avviciniamo: sono piemontesi (“siamo montagnini” ci dice il maschio), attrezzati di tutto punto, con bastoncini telescopici e scarponcini tecnici. Vanno di buon passo, ma si lamentano per la segnaletica dei sentieri alquanto lacunosa. Gaetano da loro indicazioni. Due parole ancora e ripartono, senza regalarmi il classico intercalare piemontese - “nèe” - da
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commedia dell’arte. “Questi sono i turisti che vorrei vedere qui” mi dice Gaetano. “Gente che ama davvero la montagna, che la rispetta.” Circa un’ora dopo li incontreremo di nuovo. Ameranno pure la montagna, ma il senso dell’orientamento non è certo il loro forte. La donna ormai sembra affranta, ingobbita, invecchiata di dieci anni, mentre il marito continua a spiegarci che sono tre mesi che camminano per i sentieri di mezza Italia, ma che qui i sentieri sono segnati male ed è facile perdersi (e Gaetano, buono come un pezzo di pane che gli ripete indicazioni, scorciatoie, indirizzi). Li vediamo scendere e indirizzarsi verso la meta. Nel silenzio perfetto della valle si sentono solo le loro voci che discutono, lei, quasi lo sapesse, mi regala pure un “nèee” strascicatissimo. Poi Gaetano ci chiede di voltare le spalle, alziamo gli occhi: il faggeto ormai fatica a salire, la quota è troppo alta, l’aria troppo fredda per queste piante. Là, in cima, fra rocce bianche e scoscese, troneggiano solo i pini loricati. Un’epifania. Disturbata solo dal solito nugolo di tafani, che non ci mollano mai, neppure fossero una muta di cani affettuosi. “Noi stiamo andando lì” ci dice la nostra guida, ispirata. “Sulla Serra del Crispo”. 2053 metri d’altitudine e ancora un’ora di cammino. Maledetti bambini dell’Africa, dovevano morire proprio quando io cenavo da infante nella mia casa di periferia sottoproletaria milanese? Fosse stato per me gliel’avrei spedito tutti i giorni gli avanzi del cibo, mica si sarebbero formalizzati, no? E invece eccomi qui, col cuore che bussa alle tempie e i pantaloni appiccicatici perché mia madre da bambino mi stimolava i sensi di colpa! Non molto lontano da dove siamo scorgiamo tre figure muoversi verso di noi. Una famiglia, ma non sembrano del posto. Non sembrano neppure italiani, si muovono agili, eleganti, quasi fossero usciti di casa con un Martini dry ancora in mano. “Facciamoci fare una foto di gruppo da quei signori” dico. L’idea piace. Ci avviciniamo e glielo chiedo. “I don’t understand italian” ci dice il padre di famiglia. Ma il mio allungare la macchina verso di lui gli fa comprendere cosa vogliamo. Ci fa una foto. Due, per sicurezza. Gli restituisco il favore con la sua digitale. Poi ci scambiamo qualche convenevole. “Da dove venite?” chiedo. “From the USA” ci rispondono. Philadelphia. Che cavolo ci fa una famiglia di Philadelphia il 15 di agosto sul Pollino? La cosa stupisce pure Gaetano, che col mestiere che fa di turisti qui ne vede più di tutti noi messi assieme. Col mio inglese rustico cerco di intavolare una discussione. I tre ci spiegano che erano al mare, a Maratea e che volevano un posto tranquillo, dove non ci
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fossero turisti. È per questo che hanno scelto il Pollino. Lo so, sembra quasi un insulto: vengo qui perché non ci viene nessuno. Ma a modo suo è un complimento. Vengo qui perché non sopporto l’orda barbarica dei miei connazionali statunitensi, arroganti, volgari e mangia salsicce. Tutto il mondo è paese, sembra che stia parlando dei nostri connazionali che abbiamo lasciato più a valle. Alla fine alla Serra di Crispo ci arriviamo veramente. Attorno a noi, fra le pietraie, s’innalzano i pini loricati. Sono alberi strani. La cosa più lontana dall’idea platonica di albero, quella che ogni bambino del mondo disegna appena gli dai in mano due matite colorate. Sono asimmetrici, torti, con le chiome che sembrano cespugli d’aghi, e la corteccia a scaglie, come un carapace. Alcuni solitari, che svettano controluce, sembrano (notare la contraddizione) giganteschi bonsai giapponesi. “In Italia li puoi trovare solo qui, sul Pollino” mi dice Gaetano. “Altrimenti devi andare in Bosnia”. In effetti, rispetto i nostri più tipici castagni, i radiosi pini selvatici, i familiari ulivi, gli infiniti pioppi, le monumentali querce, questi pini loricati sono alberi difficili, ostici, malmostosi. Gonfi di resina, sopportano condizioni estreme. Comprese quelle imposte dall’imbecillità umana: pensate che al più antico e monumentale – Zi’ Peppe – vecchi di mille anni, fu dato fuoco proprio il giorno dell’istituzione del Parco, come sfregio. Ma lui, morto, rinsecchito, è ancora lì, scultura naturalistica, fantasma concreto che urtica le nostre coscienze. “Ti piacciono?” mi chiede la mia guida, con quel velo d’ansia che ormai ho imparato a conoscere. Che devo dire? Sono belli i pini loricati? Ha senso chiederselo? Per quello che può significare, sì, sono belli. Sono belli perché sono etici. Sono una lezione di filosofia, i pini loricati. Un esempio di morale. Nelle difficoltà, nelle avversità, riuscire a crescere, lenti e inesorabili, densi di resine e di significati, ognuno diverso e tutti simili, duri a morire, millenari. Il simbolo perfetto dell’Italia che vorrei; che è, quando lo è: etica e perciò estetica. Ridiscesi visitiamo il santuario. La piccola madonnina rinchiusa nella teca di legno e cristallo, graziosa nella sua semplicità popolare e naïf, mi riappacifica dal restauro dozzinale e appariscente dell’edificio, che ormai di storico non ha più nulla. Questo è il cuore della devozione dell’intero territorio, fra Basilicata e Calabria. Dire Pollino, per molti, soprattutto i più anziani, significa Santuario della Madonna del Pollino. Che bisogno c’era, mi chiedo, di diffonde con gli altoparlanti, sia dentro la chiesa che sul piazzale, tutta questa musica che finge d’essere sacra ma che, zuccherosa e blasfema,
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assomiglia piuttosto a quella di sottofondo dei centri commerciali? Davvero se ne sentiva il bisogno? Davvero si rende così più sacro un luogo già sacro di suo? Per noi la tradizione è una trapunta elastica, da tirare e modellare come più ci piace. Abbiamo un patrimonio di musica sacra vecchio di secoli, alto e nobile, però decidiamo di diffondere nell’aria queste canzoncine di Natale scaricate da internet. Se esiste un inferno in questo momento so chi ci manderei. Qualche decina di metri più in là troneggia una scultura in bronzo, nuova nuova, raffigurante la madonna che porge il bambinello verso l’abitato di San Severino. È un’opera della scultrice olandese Daphnè Du Barry. Scultura conciliante, senza infamia e senza lode, di buon artigianato ma senza guizzi. Con quel figurativismo standard che non impegna, che non fa discutere. Consolatoria. C’è negli artisti di arte sacra contemporanea una profonda contraddizione: hanno dettato il gusto per secoli ed ora non riescono più ad intercettarlo. Si rifugiano nel già detto, nel già sentito, spaventati all’idea di scandalizzare (non ostante Gesù stesso si dichiarasse “pietra dello scandalo”). Eppure non mancano nel mondo cattolico, anime inquiete, scrittori e artisti complessi e sofferti. Ma a loro non si chiede nulla. Si preferisce dichiarare default, rifugiandosi nel già detto, spesso storpiandolo in una parodia trash, come la musica che continuo a sentire, in sottofondo, dal piazzale, mentre sarebbe bastato il soffio del vento, il battito d’ali di un falco, per sentirmi davvero immerso nel sacro, come una creatura, fra le creature di Dio.
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7. Dell’arte della zampogna, della processione di San Rocco e del confine che persiste giovedì 16 agosto Passeggiamo mani in tasca per la strada principale di San Costantino Albanese, sotto un sole che si preannuncia crudele. Dopo la tregua meteorologica di ieri l’estate ha ripreso a sbiancare i muri e segnare i vicoli di ombre nere e ben definite. Scritte in italiano ed arbëreshe, murales naïf che ricordano storie antiche, lapidi a ricordo del grande condottiero, padre della patria perduta, Gjeorgj Kastrioti Skanderbeg, morto nel 1468 e rimpianto infinitamente, di generazione in generazione. Un intero popolo che fonda la sua identità sulla nostalgia, trovo tutto ciò a modo suo infinitamente romantico. Siamo qui giusto il tempo di un caffè, perché poi dobbiamo uscire dall’abitato per scendere verso una casa ai piedi del greto del fiume. Qui abita e lavora Quirino. Una specie di eremita vagamente freakettone, mio coetaneo. Capelli lunghi, sale e pepe, jeans ed occhi mobili e azzurrissimi. Non so bene cosa facesse anni fa nella vita Quirino. Sta di fatto che ad un certo punto ha deciso che s’era rotto le scatole di stare nel caos del paese (per me, milanese, poco più che un grande cortile di un qualunque quartiere di periferia) e di dedicarsi al tornio. Quirino è falegname. Ma non dà giustizia questa definizione. Quirino è un uno spirito curioso. Un giorno, dall’oggi al domani, ha deciso di imparare a costruire zampogne tradizionali. Poi di imparare a suonarle. E ora, fra sagre e feste paesane, sta girando mezza Lucania, per farsi “una suonata” fra amici (con relativa annaffiata di vino). Quirino, voce calma di chi ha già visto tutto del mondo, mi mostra la sua bottega: l’odore dei trucioli di legno inebria le nari, il caos organizzato la fa assomigliare all’antro di uno stregone. Un grande poster di un condottiero pellerossa su una parete, poi, stese su un cavo, pelli di capra. “Servono per il sacco della zampogna” mi spiega. Apre un armadio e mi mostra il suo tesoro: zampogne a chiave di varie misure, alcune con canne lunghe un metro e mezzo circa. Sono venuto a trovarlo mentre cercava di ammorbidire un’ancia doppia che gli serve per le ciaramelle, specie di flauti (ma Quirino mi correggerebbe: “aerofoni”) che qui in Lucania si suonano in coppia, come si vede in certi vasi dell’antica Grecia. Parliamo di strumenti a fiato, ad ancia singola, come il clarino, o doppia, come l’oboe. È sempre molto preciso, competente. Mi spiega la differenza con le zampogne spagnole, o le
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cornamuse scozzesi. Mi fa provare lo strumento, mi racconta dei legni d’acero o d’olivo che usa. Discutiamo di basso continuo, di scale pentatoniche, del sacco d’aria che riproduce una respirazione circolare che invece i suonatori sardi fanno senza l’ausilio di mezzi tecnici. Parlerei per ore con lui ma, dispiaciuto, ci deve lasciare. “Devo andare a San Paolo” si scusa. “Oggi c’è la processione e devo fare una suonata.” Quello che non sa è che alla processione ci andiamo pure noi; era proprio la nostra meta di oggi. 16 agosto, San Rocco, è mezzogiorno e il rito nella chiesa madre non volge al termine. La chiesa è colma di fedeli. La stessa che avevo visto, vuota e un po’ impersonale, pochi giorni fa oggi rifulge di religiosità, passione, fede. Fra la folla incontro di nuovo Franca, ci salutiamo. Mi spiega che questo è un giorno importante per San Paolo, per la prima volta è venuto ad officiare il rito il nuovo Vescovo da Lungro (la sede vescovile del rito cattolico bizantino) e il paese è in gran spolvero. Fra la folla riconosco alcune vecchie beghine vestite con l’abito tradizionale. L’aria è colma d’incenso, i preti e il vescovo appaiono e scompaiono dall’iconostasi. Il rito è in greco e ciò lo rende ancora più misterioso. Fuori, sul piazzale, intanto, si sono riuniti sia chi non è riuscito ad entrare in chiesa, sia i curiosi venuti a vedere la processione. Tutti spalmati sotto i cornicioni delle case, alla ricerca di un’ombra sempre più rara. Al centro della piazza campeggia un marchingegno di legno e spighe di grano, che verrà poi portato a spalle per il paese. Alcuni signori con la parannanza e un falcetto in mano provano alcuni passi della danza del grano. Uno di questi, alto e distinto, con indosso un paio di pantaloni di gabardine, si rivolge ad un’amica - vestita come fosse appena uscita da una discoteca di Rimini - con uno spiccato accento del nord, ma quando conversa con i suoi colleghi di danza la parlata si fa più lucana. Probabilmente vive a Milano, o Bergamo, lavora lì, come impiegato di banca: tutto l’anno a discutere di bond e di spread, ma poi, quando torna qui è come se innaffiasse ogni volta di nuova linfa le radici rinsecchite della sua identità. Arrivano i zampognari, fra questi riconosco Quirino che mi strizza l’occhio. Si mettono in posa per una foto con i danzatori e una massa di fotografi occasionali sfidando il solleone tracimano nel centro della piazza e scattano centinaia di fotografie al gruppo, neppure fossero una rock band o le più alte cariche politiche del G8. In piazza c’è di tutto. Tutti vestiti, ognuno a modo suo, a festa. Quella che è, in effetti. Solo che, tranne alcune vecchine negli abiti tradizionali, e qualche ragazza che indossa il costume con poca naturalezza, tutti gli altri sembrano pronti per andare ad
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un matrimonio a Porto Cervo piuttosto che a seguire un rito devozionale. Ci sono i carabinieri in grand’uniforme, neppure fossimo in una commedia rosa con Vittorio De Sica, il vigile urbano, i curiosi in pantaloncini e tshirt; un paio di ragazze sfoggiano tacchi vertiginosi e minigonne inguinali. Sacro e profano, antico e contemporaneo, kitsch e sublime. In un angolo i musicanti tentano gli strumenti, ed alcuni danzatori improvvisano una danza del falcetto. E ci credono. Ci credono davvero, non è semplicemente una rappresentazione folkloristica ad uso di noi intrusi secolarizzati. Danzano il loro rito precristiano, agricolo, pagano, che farà da apripista all’intera processione. Poi finalmente dalla chiesa esce il baldacchino, sotto il quale viene portata a spalle la teca contenente la statua di San Rocco. Il vescovo, col copricapo di tradizione orientale, e i preti in parata dietro di lui. La danza del falcetto apre la sfilata e si inerpica nelle strade dell’abitato. Segue il baldacchino e il corpo clericale, con i canti polifonici arbëreshe delle beghine. Dietro alla fila dei fedeli, la banda paesana di ottoni. Insomma, un’orgia di sonorità, di strumenti, di mondi e tradizioni tutte assieme. Un patchwork, una stratificazione spesso incongrua, superfetazioni della storia che se però venissero eliminate edulcorerebbero fino all’omologazione il serpente devozionale che si snoda nel ventre vivo del paese. Che ora, qui, è vivo. Qui, ora, dichiara la sua romantica lotta di retroguardia, contro la morte per indifferenza, contro il distacco dalla nostalgia che li lega tutti assieme, non individui ma popolo. La nuova tappa è Terranova del Pollino. Qui si dice che le strade non andavano oltre. Oltre, per capirci, c’è la Calabria. Ad accoglierci è Federico che sembra l’oste dei fumetti, dei cartoni animati: gioviale, opulento, chiacchierone. Mi farà fare un’escursione nei gusti della Lucania, dagli antipasti fino al caffè. Vino compreso, un Aglianico del Vulture davvero notevole. Mangio e rifletto su quanto la sua cucina gli somigli. Se quella di Peppe, a Rotonda, era poetica, meditabonda, ispirata, questa è gioiosa, aperta, mediterranea. Forse a sprazzi didascalica, senza però mai essere stucchevole. Fin troppo generosa, però. Dopo due ore di titillazione delle papille gustative dichiaro forfait. Sto invecchiando, me ne rendo conto. A vent’anni avrei ricominciato daccapo, goloso impenitente, ora voglio solo sgranchirmi le gambe per digerire un po’ tutto questo ben di Dio. La macchina di Gaetano non è un fuoristrada. E fuori da Terranova, scendendo verso sud, proprio come nella antica diceria, la strada smette d’essere asfaltata. Siamo in una specie di terra di nessuno, non più Basilicata, non ancora Calabria.
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Nessuna delle due regioni si decide a collegare Terranova del Pollino a San Lorenzo Bellizzi. Quindi dico a Gaetano di fermarsi un attimo. Ha senso proseguire, ha senso dare retta alle mie paturnie un po’ capricciose? È che ho un cugino, che fa l’imbianchino in Brianza, che è nato a Cerchiara di Calabria. Non ci torna da vent’anni, mi racconta sempre dei suoi ricordi d’infanzia, fatti di miseria, di pane buono da spezzare con le mani e di un monastero bellissimo costruito sulla roccia, Santa Maria delle Armi. Avevo letto da qualche parte che là dentro si conserva una madonna acheropita. Cioè, tradotto dal greco, dipinta da mani non umane. Una icona dipinta da un angelo. Pura poesia. “Quella è Cerchiara” mi indica Gaetano, qui sul confine fra le due regioni, in un parco, quello del Pollino, che non concepisce confini amministrativi ma unisce terre, fiumi, paesi, li fonde, li esalta. Penso sempre che in un bel posto, uno di quelli che vorresti rivedere nella vita, ti devi sempre lasciare qualcosa dietro, così hai una scusa per tornarci. La macchina di Gaetano non è un fuoristrada, e con la sua voglia di trasmettermi l’amore per la sua terra ha percorso per me, in questa settimana, qualcosa come 3.000 chilometri: è come essere partiti da Bolzano, andare in Sicilia per poi tornare indietro. La massa calcarea della Timpa Falconara alla nostra destra riluce nel cielo azzurro. La strada è una pietraia. La macchina di Gaetano non potrebbe farcela. “Torniamo indietro” gli dico. “Torniamo a casa.”
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8. Dei commiati e della fine del viaggio venerdì 17 agosto Rosita l’ho abbracciata, ieri sera. Stamattina ho salutato Antonella e suo figlio Tommaso, mentre stipavo il bagagliaio della macchina di Gaetano delle mie valigie e della borsa zeppa di depliant, libri, mappe, souvenir che sistematicamente riempio ad ogni viaggio. Anche Maria ho salutato, facendo una deviazione sulla strada del ritorno. Stava preparando la ricotta, me ne ha fatto assaggiare un po’, ancora calda. Prima di lasciarla ha voluto regalarmi una forma di pecorino. Ho cercato di pagargliela ma era come se la stessi insultando. “L’ospite è sacro”, insisteva a dirmi. Molti invece sono quelli che non ho potuto salutare. Fabio, di Rotonda, che mi ha fatto pervenire alcuni vasetti di melanzana rossa sott’olio (“l’ospite è sacro”), Pier Paolo, gestore di un albergo a San Severino Lucano, col quale avrei voluto continuare a chiacchierare di politica, innovazione, del ruolo della cultura nello sviluppo territoriale e del dovere dell’artista d’essere libero senza atteggiarsi da avversario. E poi avevo promesso a Valentina una cena a Viggianello che invece è saltata, per non parlare del pranzo a Latronico con Romeo, rimandato di giorno in giorno, sono certo, dato il personaggio, che sarebbe stato qualcosa di memorabile. Tante le persone conosciute, poco il tempo. “Una scusa per tornare sul Pollino” mi dice Gaetano, “Ormai sei di casa”. Poi mi indica un punto sulla strada: “qui finisce il parco.” Tutto finisce, si sa. Peccato. Ci dirigiamo verso l’autostrada Salerno Reggio Calabria, l’eterna incompiuta. In Campania vedrò moltiplicarsi l’edificato, i paesi si faranno sempre più grossi, gonfi, purulenti, fino a quando giunti nel casertano, dalle “mie parti”, tutto esploderà in una indistinta colata di cemento che annichilisce natura, paesaggio, aria. Sto lasciando la Basilicata, la mia Lucania infantile, e penso che l’idea che sia una terra antica è, a conti fatti, un’immagine retorica come un’altra. Se penso, appunto, alla periferia infinita che è diventata l’area fra Napoli e Caserta, a come siano riusciti a spendere il territorio, a invecchiarlo, a sfinirlo, la Basilicata mi appare al contrario come una terra fanciulla, una terra adolescente, che sta crescendo, che dovrà fare le solite malattie della gioventù ma che forse può prevenirne altre, quelle inevitabili della maturità, della senescenza.
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I lucani non sono migliori del resto degli italiani, semplicemente non sono riusciti a devastare la loro regione perché sono pochi, e le dimensioni in Italia contano. Quasi seicentomila abitanti, un quinto di quelli di Roma. Per molti questo non aver peso politico, non essere bacino di voti appetibile, è un problema. Forse invece queste stesse persone dovrebbero capire che questa condizione potrebbe essere la loro fortuna. In buona parte del suo territorio la Basilicata non ha conosciuto ancora il conto salato che si deve pagare per ottenere, con le parole di Pasolini, “uno sviluppo senza progresso”. Potrebbe fare di questo suo ipotetico stato di arretratezza - molto ipotetico e molto auto inflitto – una occasione. Se è una terra adolescente, una terra che deve ancora crescere, starà ai lucani decidere se sarà una crescita armoniosa, elegante - come quella di certe ragazze che fanno nuoto o atletica, non fumano e sorridono alla vita - o se ripeteranno gli errori dei loro vicini di casa, dove il tasso di obesità è il più alto d’Italia, metafora perfetta di un’opulenza che volendo dimenticare la miseria del passato in realtà dimentica anche, anzi disprezza, l’eredità storica, artistica, culturale antica di millenni. “Potrei intitolare il mio diario ‘La terra dei tafani’, che ne pensi?” chiedo d’improvviso, rompendo il silenzio. “Mi piace, anche se forse non è molto chiaro il senso.” “Un buon modo per far venir voglia di leggere.” Ho conosciuto il Pollino in una delle settimane più calde del decennio. I tafani ne erano una sorte di indicatore climatico. Solo sulle vette, all’ombra dei pini loricati, non ne abbiamo mai incontrati. Chiaro che questo Pollino, questo raccontato in queste pagine, è uno dei mille possibili Pollino. Cosa avrei scritto se fossi venuto in primavera? (immagino la fioritura, la festa dei colori, l’aria frizzante). Cosa, d’inverno? (il nitore delle cime, le ciaspole ai piedi, sulla neve, il calore dei rifugi). “Oggi è venerdì 17” dico a Gaetano, cambiando argomento, “un giorno perfetto per mettersi in viaggio.” Poi faccio tutti gli scongiuri di rito, enfatico. “Non ti facevo così scaramantico.” Infatti non lo sono. Sto giocando. Rido dei pregiudizi, innanzitutto dei miei. Cerco di mascherare la malinconia dell’abbandono con una battuta. Ormai siamo usciti dal casello di Caserta Sud, ancora un quarto d’ora e sarò dalla mia famiglia. Mi chiederanno del viaggio, dell’esperienza, delle cose incontrate, viste, conosciute. In fondo sto scrivendo questo diario anche per loro. “Tanto dovrai tornare sul Pollino, non te lo dimenticare. Con tutta la tua famiglia” persevera Gaetano, mentre mi aiuta a portare i bagagli in casa. Ad attenderci c’è mia moglie che ha già apparecchiato. Insiste con falsa durezza, quasi impartendo
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un ordine, affinché Gaetano resti a pranzo da noi. Ma lui aveva già preso un altro impegno e si scusa, sinceramente, sapendo benissimo quanto sia poco carino rifiutare un invito a tavola, non solo in Lucania. Alla fine lo lasciamo andare, però con in mano una busta di mozzarelle di bufala appena confezionate. “L’ospite è sacro” gli dico, porgendogliela. “Anche qui, a casa mia.” Anche qui nel resto d’Italia, quella che ce la può, ce la deve fare.
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INDICE 1. Della mia Lucania, del peperone crusco e del desinare dell’anima (Matera), Latronico, Senise 2. Dei popoli viaggianti, dell’abitare una lingua e dell’arte contemporanea San Paolo Albanese, Latronico, San Severino Lucano 3. Di fiumi che non si vedono o cambiano nome e della mia esperienza acquatica. fiume Mercure, Piano Ruggio, rifugio Fasanelli, Laino Borgo, gole del Lao, Viggianello 4. Del pastore che si fece artista, di una magia infantile e di ‘quel paese là’. Teana, San Severino Lucano, Lago di Monte Cotugno 5. Di tesori nella grotta, sorelle sfortunate, imbecilli, riti antichi e gioie del palato Chiaromonte, Valsinni, Timpa delle Murge, Terranova del Pollino, Rotonda 6. Del ferragosto in famiglia, i tafani, i pini loricati e della Madonna del Pollino Rifugio Pino loricato, Serra del Crispo, Santuario della Madonna del Pollino 7. Dell’arte della zampogna, della processione di San Rocco e del confine che persiste San Costantino Albanese, San Paolo Albanese, Terranova del Pollino, Timpa della Falconara, (Cerchiara Calabra) 8. Dei commiati e della fine del viaggio Autostrada Salerno Reggio Calabria, Maddaloni
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