ArcheoModernitas 1 Rivista su Storie e Studi di Ineffabili Fatti d' Arte - Imprinting

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SOMMARIO SEMESTRALE DI ARTE E CULTURA

maggio 2016 numero 1

pag. 4 EDITORIALE Alvaro Spagnesi

DIREZIONE Alessandro Cecchi Stefano Garosi Giovanna Lazzi Alvaro Spagnesi

pag. 6 DOCUMENTI: La Copertina "Archeomodernitas" di Keith Haring e l’ipotesi di affresco per "Tuttomondo" di Pisa Stefano Garosi e Alvaro Spagnesi (con intervista a Piergiogio Castellani) pag. 10 ARTE CONTEMPORANEA: "L’arte di Adele Plotkin", prima docente di Psicologia della Forma all’Accademia di Belle Arti di Bari Clemente Francavilla

REDAZIONE Antonia Guastadisegni Teodora Mancini Raffaella Del Giudice

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COLLABORATORI Giuseppe Billi, Prato Lia Brunori, Firenze Alessandro Cecchi, Firenze Clemente Francavilla, Bari Stefano Garosi, Firenze Rocco Jimmy Mazziotta, Bari Alvaro Spagnesi, Bari/Firenze Nicola Giovanni Di Renzo, Bari Antonio Rollo, Bari Guglielmo Russo, Bari

LA LINGUA "ARCHEOMODERNA" di Renato Nosek Dall'intangibile alla forma compiuta Alvaro Spagnesi

pag. 22 PITTURA DEL CINQUECENTO: "Un capolavoro ritrovato: il ritratto di Giovanni dalle Bande Nere di Francesco Salviati" Alessandro Cecchi pag. 26

"Il Grande Museo del Duomo" Giovanna Lazzi

pag. 30 RESTAURO: "Il Crocifisso sangallesco della chiesa di San Biagio a Petriolo a Firenze", studi e restauro Mirella Branca

PROGETTAZIONE GRAFICA E IMPAGINAZIONE Chiara Loiudice Raffaella Del Giudice Luca Francesco Potente Liborio Biancolillo

pag. 34 ARCHITETTURA E RESTAURO: "Il restauro di un’ala di Palazzo Costantini a Lecce" Rocco Jimmy Mazziotta pag. 36

LETTURE D’ARTE INEFFABILE: Il dossier De Nittis di Giovanni Lamacchia, Stilo Editrice, Bari, 2007 Mariella Belloli pag. 38 LA TEMPESTA SVELATA: Giorgione, Gabriele Vendramin, Cristoforo Marcello e la "Vecchia". Di Marco PAOLI Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 2011. Alvaro Spagnesi

FOTOGRAFIA Agnes Terez Peterfi TRADUZIONI Fabrizio Ferrigni

pag. 41

SEDE LEGALE www.exstudentiaccademiabellearti.org Via Guido De Ruggiero, 1 - Bari 70125 E-mail: exstudentiaccademiabelleartiba@gmail.com

CONTENTS of the Articles NUMBER ONE

*Tutte le collaborazioni si intendono a titolo gratuito

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EDITORIALE Alvaro Spagnesi

Staff

C’è molto bisogno di "ARCHEOMODERNITAS": ciò è ormai cosa conclamata, tanto da coinvolgere anche l’inaugurazione del "Giubileo Straordinario della Misericordia 2016"con un evento visivo superbamente "archeomoderno" in cui sono state proiettati scatti più o meno recenti di grandi artisti dell’immagine fotografica collegate al salvataggio del pianeta terra, sulle parti esterne di S. Pietro in Vaticano fondendo la sublime forma architettonica del Maderno e di Michelangelo, esaltata dal cielo romano, con alcune delle più sapide percezioni e provocazioni della ricerca sperimentale dello scorcio del Novecento. Così la poetica della Land Art e il suo ambientalismo ante-litteram (che si percepisce nell’intento di non alterare contesti e situazioni esistenti

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procedendo a minimi interventi ecocompatibili e/o reversibili) ed anche una riedizione temporanea hic et nunc, del recupero funzionale dell’objet trouvé che impiega per nuovi fini artistici, materiali già elaborati dall’uomo destinandoli a ruoli compositivi entro contesti rinnovati si sono fusi nelle immagini proiettate. Quest’ultima azione creativa del reimpiego di brani dell’opera umana e della natura, non era nuova nel panorama storico artistico nel momento in cui operava Picasso, e di essa potremmo elencare innumerevoli esempi, dall’impiego di marmi e lapidi d’arte classica nella costruzione di cattedrali romaniche come a Pisa agli assemblaggi dell’architettura eclettica ottocentesca come nella villa Stibbert di Firenze, dal riuso d’una patera etrusca quale perfetta aureola bronzea in un Cristo del Verrocchio, alla pittura su pietra paesina dei manieristi. L’archeomodernità che contraddistingue l’evento vaticano è data dall’uso di soluzioni legate alla videografica computerizzata, a quello della luministica contemporanea e dal "riuso" della bellezza rinascimentale in funzione d’una creazione ineffabile che si fa patrimonio universale. Il neologismo "ARCHEOMODERNITAS" che intitola la rivista, allude al processo che muove la ricerca artistica nell’ambito della tradizione creativa avvalendosi dell’esempio e dell’afflato del passato ma si connette funzionalmente e organicamente al patrimonio linguistico-espressivo del panorama contemporaneo all’epoca in cui tale processo si produce. In breve, tale processo è quello che ha da sempre animato l’arte in tutte le sue forme rendendo, prima o poi, protagonisti del panorama culturale quegli artisti anche i più misconosciuti nella propria epoca che hanno saputo raccogliere l’eredità preziosa dei Maestri o/e elementi essenziali dell’esistenza, coniugandoli e fondendoli con l’espressività del loro presente. In tale ottica "ARCHEOMODERNITAS" intende superare le distinzioni tra "antico", "moderno" appuntando l’attenzione "su ineffabili fatti d’arte visiva" grazie al contributo di esperti e professionisti accreditati nel campo della ricerca storico artistica, interviste ad artisti e "addetti ai lavori". Senza porre limiti o

barriere tra epoche, in quanto le componenti di qualsiasi forma d’arte brillano degli stessi valori universali comunque afferenti l’esistenza umana, si punterà ad evidenziare gli aspetti più suggestivi delle opere visive, quel mistero ineffabile che fa di esse oggetti senza tempo, universali. Analogamente non esisteranno prevenzioni per forme d’arte visiva inusitate o completamente innovative purché esse rivelino ricchezza di valori espressivi: a garantire le scelte effettuate da "ARCHEOMODERNITAS" sarà l’Insindacabile giudizio della Direzione Artistica della rivista. Ciò porta ad evitare il discorso su posizioni nichiliste e distruttive fini a se stesse, o meglio a distinguere di volta in volta quali siano da considerare situazioni creative significanti e organicamente determinanti nel patrimonio culturale contemporaneo. "ARCHEOMODERNITAS" non tralascerà di riservare attenzione a problematiche afferenti il patrimonio artistico e culturale presentando studi di restauro e inchieste /o interviste ai responsabili della cosa pubblica proprio perché è dall’esempio della tradizione opportunamente curata e valorizzata che trae linfa e ispirazione la ricerca artistica. A questo proposito saranno riproposti online, con le autorizzazioni dovute, testi già pubblicati ma mai apparsi in rete (articoli, studi monografici, depliant ormai introvabili ecc.) che mantengano vitalità. La rivista, ospitata nel sito"exstudentiaccademiabellearti.org", ovviamente, rivolgerà uno sguardo particolarmente attento alla realtà delle Accademie di Belle Arti e all’attività dei suoi allievi. Mediante il "Premio Tesi sull'Arte", destinato a studenti laureati sia delle Accademie di Belle Arti che di altre facoltà universitarie, la rivista potrà accogliere anche apporti e contributi inerenti le arti visive prodotti da giovani studiosi, le tesi dei quali saranno pubblicate online sul sito dell'Associazione.

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DOCUMENTI: La Copertina "Archeomodernitas" di Keith Haring e l’ipotesi di affresco per "Tuttomondo" di Pisa Stefano Garosi e Alvaro Spagnesi

In questo contesto viene presentato un inedito antefatto riguardante la realizzazione del murale che Keith Haring eseguì a Pisa nel 1989, pochi mesi prima della sua scomparsa avvenuta il 16 Febbraio 1990. (Cfr. Tuttomondo - Wikipedia in link): il famoso artista pop statunitense allievo di Andy Warhol, che ha dato lustro al muralismo "di strada", avrebbe voluto realizzare l’opera "Tuttomondo" ad affresco e Pier Giorgio Castellani, grazie al quale l’artista venne in Italia per lavorare ad un grande dipinto murale, chiese al suo ex professore di Storia dell’Arte (al Liceo Classico di Pontedera) Alvaro Spagnesi, una relazione tecnica di fattibilità da presentare ad Haring. Per la prima volta viene presentata tale relazione, redatta in collaborazione con uno dei restauratori di dipinti più conosciuti di Firenze, Stefano Garosi (in appendice all’articolo e visibile online mediante link). Tale testimonianza rivela, a parere di Alvaro Spagnesi, storico dell’arte e critico fiorentino a Bari da molti anni, l’impostazione archeomoderna che andava seguendo l’artista pop e che si accelerò proprio in occasione del suo ultimo grande lavoro pubblico che fu realizzato su una parete laterale esterna del convento di S. Giuseppe nel centro di Pisa.

Tra tutti questi Andy Warhol si distingue per la sua attenzione al consumismo esasperato e alla ripetizione delle immagini attraverso i media di allora: dalle famose scatole di "Brillo" ai barattoli di "Tomato Soap", accumulate in grandi pile come in un supermercato o proposte in composizioni serigrafate ormai celebri in tutto il mondo. La riproposizione di un marchio come quello della "Coca Cola" o della bottiglietta che la contiene, allude al bombardamento pubblicitario che regge l’economia del capitalismo americano che a quell’epoca veniva criticato attraverso libri come "L’uomo a una dimensione" (quella di consumatore) scritto da Herbert Marcuse. Un allievo di Andy Warhol, Keith Haring (1), a partire dagli anni Ottanta seppe fondere la protesta di strada presente nella cultura Hip Hop e la Pop Art scegliendo i muri della metropolitana per esprimere la sua arte. Piergiorgio Castellani, diplomato al Liceo Classico di Pontedera (Pisa) (2), poco più che ventenne, nel 1987, mentre si trovava a New York con il padre, importante esportatore di Chianti in America, come egli stesso dice nella video intervista in link con il presente articolo, incontrò casualmente Keith Haring di cui conosceva già l’opera: in modo diretto e spontaneo Piergiorgio lo avvicinò e gli propose senza indugi un’idea che aveva in testa: far eseguire al grande graffitista pop un murale in Toscana. Haring accettò con entusiasmo una volta comprese le reali possibilità di realizzazione di una sua grande opera in Italia (3). Come possiamo capire dalla testimonianza che Pier Giorgio Castellani, su questo particolare momento dell’opera di Haring, i pareri della Critica ufficiale sull’arte di strada in Italia erano ben lungi da essere positivi e l’idea, sebbene appoggiata da un manipolo di strenui sostenitori, stentò a decollare. D’altra parte inizialmente anche negli States il graffitismo non aveva avuto vita facile: negli Anni Settanta il Municipio di New York spese molte centinaia di migliaia di dollari per ripulire

(in video Piergiorgio Castellani parla di Keith Haring e della nascita del murale di Pisa "www.exstudentiaccademiabellearti.org") Alla fine Anni Sessanta e Settanta del secolo scorso quando le strade delle periferie di New York si animavano grazie alla musica Funky, Rap ecc. e alla Break Dance, lo sfondo delle Block, vere e proprie Feste di strada, era sicuramente quello dei grandi graffiti che campeggiano ancor oggi nel Bronx e in altri quartieri della città. In quegli anni il centro dell’Arte Moderna e Contemporanea internazionale è proprio "La Grande Mela" con l’affermazione degli artisti che fanno Pop Art proposta dalla galleria "Castelli" nella V Avenue.

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dai graffiti le strade della "grande Mela", vi furono arresti e condanne e lo stesso Haring, peraltro poi osannato quale massimo rappresentante della "street art", ne fece le spese vedendo cancellate alcune delle sue opere più importanti e rappresentative. Il progetto di inserire in una città toscana un murale di Haring, inizialmente pensato per Firenze (dove però gli vennero offerti solo siti molto periferici e inadatti), fu dirottato su Pisa, città d’arte famosa nel mondo al pari di Firenze grazie soprattutto alla torre pendente, che offrì lo spazio in pieno centro e nei pressi di una stazione di autobus, quindi molto frequentato anche da gente comune, adeguato a sviluppare l’opera dell’artista statunitense. Piergiorgio Castellani e altri hanno descritto in articoli e libri come ebbe a svilupparsi questa avventura (4) ma non è mai stata mai data importanza al fatto che l’artista, a quel tempo affascinato dalla grande pittura murale del Rinascimento italiano e dai Maestri che la praticarono, avesse in un primo tempo pensato a realizzare in "buon fresco" quello che si sarebbe chiamato "Tuttomondo", proprio come gli ammirati pittori italiani (5). Haring sentiva e sapeva che il suo nuovo linguaggio era al livello di quello dei Maestri antichi anche se era portatore di istanze legate al mondo a lui contemporaneo e voleva fare opere con quella tecnica antica per poi permettere a tutti di godere della sua arte solo camminando per strada, spinto dalla certezza dell’importanza dell’arte nella vita di tutti i giorni: la "popular art" di Haring, squisitamente "archeomoderna" ha quindi accenti che la legano al socialismo utopistico dei Preraffaelliti inglesi guidati dall’estetica di John Ruskin i quali ritenevano essenziale per la società la bellezza portata dall’arte nella vita dell’uomo, anche del più povero e umile (6). Quando finalmente i frati della Chiesa misero a sua disposizione una parete laterale esterna del convento di S. Giuseppe di grandi dimensioni nel centro di Pisa, Haring pensò di collegare la cultura pop dell’arte di strada all’alta tradizione pittorica dell’affresco ma non avendolo mai praticato, chiese l’intervento di Castellani, il quale, consapevole della considerazione rispetto alla versione "street" della Pop Art che aveva il suo professore di Storia dell’Arte, e forse perché ricordava alcune

notazioni di tecnica pittorica antica apprese studiando Masaccio e Michelangelo, si rivolse a noi per avere una relazione di fattibilità. La scheda tecnica che preparammo nell’occasione, battuta con la macchina per scrivere e corredata di schizzi a mano consultabile quale appendice a questo articolo online e in link (7), e datata 4 maggio 1989, fu predisposta tenendo conto delle esigenze in merito alla rapidità d’esecuzione e alla collocazione esterna del manufatto: si prevedevano infatti parti in " buon fresco", cioè realizzate mediante una serie di singole "giornate" in cui l’intervento doveva essere concluso entro un giorno dal mattino alla sera poiché nell’intonaco a "velo", una volta essiccato alla fine del giorno di lavoro, non si verifica più il processo di "carbonatazione" e i colori non vengono più assorbiti nella calce di fatto restando in superficie e quindi volatili; e zone da eseguire "a secco", cioè sull’intonaco asciutto ma con colori legati con tempera forte al rosso d’uovo, in cui l’opera del pittore può indugiare maggiormente superando l’obbligo della conclusione del lavoro intrapreso in una zona entro un giorno. Nell’appendice indicammo anche alcuni elementi per la conservazione della decorazione pittorica da eseguire all’esterno ricordando che esistono esempi molto longevi di Tabernacoli antichi realizzati lungo le strade in toscana e facemmo riferimento all'affresco realizzato a Firenze su una parete espostissima alle intemperie a Porta Romana negli anni Cinquanta del Novecento ancora in "perfetto stato di conservazione" nel 1989. Purtroppo la nostra relazione, in cui si facevano anche dei calcoli sul numero di metri quadrati di intonaco a "velo" che un muratore esperto e assai affiatato al pittore poteva stendere in un giorno e che avvertiva della necessaria rapidità d’esecuzione ecc., dovette dissuadere l’artista dai suoi avvincenti propositi così che Haring si risolse, a lavorare con i colori acrilici che ben conosceva (peraltro di qualità eccellente), ricorrendo comunque ad una folta schiera di collaboratori che, quasi come nelle "fabbriche" medievali di opere volute dalla comunità, si unirono a lui nella pitturazione di "Tuttomondo" e nella festa che segui la conclusione dell’opera che fu pertanto sentita da tutti come "monumento" d’arte condiviso.

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È possibile che a far recedere Haring dal suo intento di realizzare la parete ad affresco abbia influito anche il suo stato di salute: l’artista, come si sa, morì infatti il 16 Febbraio del 1990 e "Tuttomondo" fu l’ultimo grande lavoro pubblico dell’artista.

Keith Haring, "TUTTOMONDO" di Pisa, Chiesa e Convento di San Giuseppe (particolari), acrilico su muro, 1989

NOTE (1) Link con: "Tuttomondo - Wikipedia" e "Keith Haring - Wikipedia". (2) Pier Giorgio Castellani è stato allievo di Alvaro Spagnesi al Liceo Classico "Andrea da Pontedera" di Pontedera, Pisa. Nei colloqui con il suo professore di Storia dell’Arte, continuati anche dopo il diploma, tornavano spesso argomenti legati alla Pop Art e all’opera di Haring con il quale Castellani intratteneva una rilevante corrispondenza soprattutto via fax con invio da parte dell’artista di schizzi e disegni. (3) Nell’intervista Castellani, che aveva conosciuto l’opera di Haring attraverso la rivista di Andy Wharol "Interview", ricorda quell’incontro notturno davanti ad uno spettacolo di un gruppo di Hare Krishna a Manhattan e la sua richiesta d’incontrare l’artista il giorno successivo al suo studio subito accettato da Haring a quell’epoca impegnato nella realizzazione del "Trittico della morte", ma soprattutto dedito alla realizzazione di opere pubbliche a New York in sostegno della lotta all’HIV. (4) Si vedano in proposito, soprattutto: Omar Calabrese, Roberta Cecchi, Piergiorgio Castellani "Keith Haring a Pisa. Cronaca di un murales", Edizioni ETS, Pisa, 2003 2012. (5) Al riguardo nell’intervista video in link si ricorda la visita del David di Michelangelo al Museo dell’Accademia di Firenze di Haring in compagnia di Castellani e Spagnesi e quanto grande fosse il rispetto e la considerazione dell’artista americano per la tradizione artistica dei grandi Maestri italiani. (6) La volontà di collegarsi al patrimonio culturale antico di Haring è provato da quanto ricordato da Castellani nell’intervista e cioè dalla full immersion nell’ambiente cittadino e storico di Pisa attraverso l’impiego della macchina fotografica polaroid per registrare forme e colori che si sarebbero distillate nel suo "Tuttomondo". Anche se non ci sono prove di una reale assunzione di poetiche preraffaellite da parte dell’artista americano, sembra evidente un atteggiamento culturale in linea con l’atteggiamento del movimento inglese della seconda metà dell’Ottocento che comunque non doveva essere ignorato dal Keith Haring. Keith Haring, "TUTTOMONDO" di Pisa, Chiesa e Convento di San Giuseppe, (veduta dell’insieme), acrilico su muro, 1989

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(7) L’intera relazione citata è consultabile nel sito "www.exstudentiaccademiabellearti.org".

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ARTE CONTEMPORANEA: "L’arte di Adele Plotkin", prima docente di Psicologia della Forma all’Accademia di Belle Arti di Bari Clemente Francavilla

Per la prima volta on line, questo testo che è stato estrapolato dalla monografia su Adele Plotkin per "Archeomodernitas" dal suo autore Clemente Francavilla getta luce su un’importante artista contemporanea, allieva di Josef Albers, "emigrato da Bottrop in Germania negli Stati Uniti nel 1933, invitato a guidare il Design Department, ruolo che mantenne dal 1950 al 1958. Il programma didattico prevedeva l’integrazione di diverse discipline all’interno dei corsi di progettazione, su modello del Bauhaus, la didattica del quale la Plotkin applicò nel suo insegnamento di Psicologia della Forma all’Accademia di Belle Arti di Bari. Clemente Francavilla, suo allievo diretto e oggi docente della stessa disciplina all’Accademia barese, autore di studi e testi scolastici di grafica in adozione in tutta Italia, tratteggia l’opera dell’artista partendo proprio dall’organizzazione didattica voluta da Albers, da lui sviluppata insieme a Klee, Kandinsky e Itten, in una esperienza didattica all’interno del Bauhaus degli anni venti e trenta in Germania, volta allo studio della genetica della forma. Fra le scuole di formazione artistica americane più accreditate negli anni cinquanta, la Yale University – School of Design. "La scuola era sotto la guida del grande Josef Albers, ed era proprio in quell’epoca che usciva un libro fondamentale, Arte e percezione visiva, di Rudolf Arnheim. Arnheim era uno dei primi studiosi, psicologo, che studiò e collegò fenomeni della percezione visiva con il mondo dell’arte, degli artisti. Quasi tutti gli studenti lo leggevano, lo discutevano, cercando di apprendere e digerire le informazioni lì contenute" (1). Con queste parole Adele Plotkin racconta il clima di euforia che accompagnava gli studenti, non solo americani, nel corso quadriennale che sarebbe culminato in un Bachelor of Fine Art. Josef Albers, emigrato da Bottrop in Germania negli Stati Uniti nel 1933, fu invitato a guidare il Design Department, ruolo che mantenne dal 1950 al 1958. Il programma didattico

prevedeva l’integrazione di diverse discipline all’interno dei corsi di progettazione, su modello del Bauhaus. Fu per esplicita volontà di Charles Sawyer, Preside della College of Fine Arts e direttore del nuovo Department of Design a Yale, affidare la direzione dei corsi, a dire il vero una scelta controversa, ad una personalità "straniera" seppur del calibro di Josef Albers, anche per rilanciare la scuola attraverso una rinnovata didattica. Didattica che Adele Plotkin fece propria applicandola, a sua volta, vent’anni dopo, quando le fu affidato il corso di Psicologia della Forma presso la neonata Accademia di Belle Arti di Bari. Il destino volle che questa scelta destasse le medesime perplessità rivolte nei confronti di una personalità "straniera", quella per l’americana Adele Plotkin. Adele Plotikin era nata a Newark nel New Jersey, insieme alle sorelle Barbara e Frances. Conclusi gli studi alla Yale University all’età di ventiquattro anni, consegue una borsa di studio Fulbright per la pittura e si reca in Italia, a Venezia. Lì conosce Tancredi, Vedova e altri pittori veneziani. È un periodo fruttuoso di esperienze e, non certo casualmente, troverà in Emilio Vedova un potente punto di riscontro con il maestro armeno-americano Arshile Gorky. Durante questi primi anni di soggiorno in Italia, a Venezia e successivamente a Roma per un rinnovo della borsa di studio, Adele Plotkin vive da vicino il rinnovato dibattito artistico europeo. È proprio a Roma che per la prima volta in Italia, espone nel 1970 presso la galleria Schneider. Intanto Adele Plotkin è ad Ischia. Lì si definisce il legame con Carlo Ferdinando Russo, intellettuale di Lucca e figlio di Luigi Russo. Il rapporto d’intesa è straordinario, gli interessi culturali comuni. Si trasferiscono insieme a Bari e per lei inizia anche il lungo periodo di docenza (che durerà fino al 1996) presso l’Accademia di Belle Arti, inaugurando il corso di Psicologia della Forma. L’insegnamento di questa disciplina è di fondamentale importanza per gli sviluppi del

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linguaggio figurativo di Adele Plotkin. È anche fondamentale per capire le sue opere, via via più complesse (addirittura fuorvianti agli occhi di un osservatore improvvisato) e lontane dagli esordi giovanili. Il lettore si chiederà che cosa sia la Psicologia della Forma, e soprattutto, come mai l’artista americana potesse esserne coinvolta come docente. All’inizio sono state riportate le sue parole riguardo una significativa circostanza che caratterizzava le entusiasmanti lezioni a Yale. Quella in cui le lezioni di Josef Albers, in particolare il suo corso sul colore, si affiancavano allo studio di un libro «che tutti gli studenti leggevano», "Art and Visual Perception: a Psychology of the Creative Eye", di Rudolf Arnheim (emigrato anch’egli negli Stati Uniti nel 1940). L’importanza di quel libro risiedeva nel fatto che Arnheim per primo, avesse funzionalmente applicato le leggi della psicologia della percezione visiva alla lettura dell’opera d’arte. Secondo la Gestaltpsychologie (la Psicologia della Forma) infatti, qualunque fenomeno estetico si può comprendere e dunque spiegare non solo ed esclusivamente da un punto di vista semantico, vale a dire di un contenuto, ma anche soltanto attraverso le cosiddette regole sintattiche, vale a dire la sua "forma", intesa come un insieme strutturato delle singole parti: il modo in cui gli elementi figurali interagiscono tra loro e rispetto al campo, l’equilibrio visivo, il valore spaziale del colore, la sovrapposizione fenomenica e in generale le regole di organizzazione visiva (2). Devo ribadire l’importanza di tutto ciò ai fini di una reale comprensione del percorso di ricerca di Adele Plotkin. Percorso che inizia nei primi anni cinquanta, a Yale. Il lettore deve anche sapere che il background cui poggiava tutta l’organizzazione didattica voluta da Albers, aveva una storia che non può esser trascurata. Quella che vedeva protagonisti lo stesso Albers, insieme a Klee, Kandinsky, Itten, in una esperienza didattica all’interno del Bauhaus degli anni venti e trenta in Germania, volta allo studio della genetica della forma. È all’interno di questo gruppo che nasce una nuova concezione dell’arte ma soprattutto una ideologia della creazione artistica. Ma dobbiamo ritornare a tempi più recenti, quelli che vedono quasi un riaffiorare nella vita artistica di Adele Plotkin, dell’esperien-

za di Yale, delle lezioni con Albers. Perché lei stessa ne incarnerà metodi ed esperienza durante il periodo trascorso con i suoi privilegiati studenti in Accademia di Belle Arti. Ritengo che questa esperienza sia stata per lei di capitale importanza, del resto, qualcosa di simile era già accaduto con lo stesso Albers e i suoi studenti americani. Infatti fu proprio come conseguenza di quelle lezioni che nacque uno speciale sodalizio studente-insegnante. Si spiega perché soltanto una allieva di Albers potesse accollarsi un tale insegnamento. Dunque, la psicologia sperimentale di Arnheim unita alla verifica pratica di Albers, presero a contraddistinguere le lezioni tenute in Accademia di Belle Arti da Adele Plotkin. Questo consentì all’artista di Newark di rivivere lei stessa quella esperienza che, a distanza di anni era tornata improvvisamente vitale. A partire dagli anni ottanta si delinea un’idea di ricerca ben precisa e perentoria supportata da studi meticolosi. È un periodo di fertile produzione. È gioviale e disincantato. Questo periodo è però introdotto da una breve ricerca che vede protagonista il cerchio (fig.1). Forme circolari, forse un ricordo dei "Dischi" che Adele Plotkin ebbe modo di vedere nello studio veneziano di Emilio Vedova, negli anni sessanta. Molto più probabilmente la forma circolare rappresenta qui, in sostituzione di quella quadrata utilizzata nel periodo precedente, una semplice porzione di spazio. Non uno spazio d’esistenza come per Vedova, ma il particolare della volumetria dello spazio fenomenico. È necessario che il lettore non si faccia fuorviare dalle analogie apparenti, anche quando sarà inevitabile prendere atto della presenza di quei piccoli segni a penna, sottili come tracce di scrittura, segni di una calligrafia indecifrabile come per l’artista americano Mark Tobey. Da ora in poi, infatti, le composizioni di Adele Plotkin escluderanno qualsiasi implicazione hard, quelle legate alla gestualità segnica che implicano un coinvolgimento personalistico, emotivo ed esistenzialista (come per Vedova o Tobey). Nelle opere di Adele Plotkin non vi sarà mai più traccia di questo. Le sue opere tenderanno sempre più verso il disincanto della fenomenologia della visione, verso la perfezione estrema dei dettagli, a tal punto che lei medesima annoterà in una pagina

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del suo diario di lavoro, il 4 marzo 2013, "Too much perfection is self-auto-destruction!". In questa composizione si tenta una dissimulazione della forma circolare per mezzo della presenza prepotente di una sagoma di colore blu intenso. Quello che il lettore è invitato ad osservare è una specie di corrispondenza biunivoca fra gli elementi figurali posti sulle due grandi porzioni sagomate della superficie circolare: bucature simulate che diventano improvvisamente convesse e poi "fisicamente" a rilievo. A ben vedere, malgrado la composizione si presenti con la luce proveniente da destra, la zona sagomata di colore bianco appare in rilievo rispetto alla controparte in blu. Allora, come interpretare spazialmente le sagome a questa sovrapposte? Più tardi, questa forma circolare verrà inserita all’interno delle superfici rettangolari di un piano ma dissimulata attraverso vari artifizi. Altre volte continuerà ad apparire parzialmente, solo accennata, soprattutto quando l’artista americana deciderà di eliminare la forma spigolosa e "finita", misurabile, del piano pittorico. Il lettore non deve pensare però che il ricordo e soprattutto il potente imprinting di Albers si sia dissolto. Al contrario. Alla fine degli anni ottanta (in particolare fra il 1987 ed il 1991) farà ricorso a delle forme ameboidi ritagliate da superfici di legno multistrato tinteggiate di azzurro, all’interno delle quali organizzerà ritagli stratificati di cartoncino colorato nelle variazioni di tonalità del verde-azzurro (figg. 2, 3). Quest’opera presenta qualcosa di innovativo: la completa eliminazione del piano pittorico, sostituito dalla parete. La sintesi estrema e l’invenzione della soluzione formale sono rappresentati dal dialogo che avviene fra ciò che si trova al di là della linea (non più margine) convessa e ciò che, invece, si trova al di qua (all’interno) della stessa linea. Ma cosa mette in relazione le due porzioni di spazio? Il lettore è invitato a soffermarsi sui margini che si continuano da una parte e dall’altra della linea curva, a favore di tre piccole forme irregolari. Due di esse (quelle collocate all’interno di quella linea) suggeriscono, con i loro margini, il contorno di un’altra figura "in negativo" coincidente con lo sfondo privo di limiti della parete.

Fig. 1 Senza titolo, Ø cm 30 Data non specificata Cartoncino colorato a tempera su multistrato (proprietà Biblioteca Comunale Comune di Pietrasanta - Lucca)

Fig.3 Danger-every where, 50x90 04-1990 Cartoncino colorato a tempera su multistrato (proprietà Biblioteca Comunale Comune di Pietrasanta - Lucca) Lo spazio "oltre" la tavola pittorica (lo spazio coincidente con lo sfondo della parete) distrugge persino la forma lobata e si insinua all’interno di essa come a corroderla. Il cerchio è ancora presente ma è più difficile individuarne la presenza.

Fig. 2 Senza titolo, 60x98 04-1987 Cartoncino colorato a tempera su multistrato (proprietà Biblioteca Comunale Comune di Pietrasanta - Lucca)

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Il lettore deve essere informato del fatto, non trascurabile, che le volumetrie cromatiche di Albers (le superfici di colore dei quadrati all’interno di altri quadrati) servivano a stabilire distanze percettive diverse fra il piano e l’osservatore; al di là di qualunque volontà di simulare una profondità prospettica; la spazialità evocata in quelle opere avrebbe dovuto abbandonare la superficie fisica del piano pittorico per invadere lo spazio reale, come quello, altrettanto solido e concreto. Ebbene, questa spazialità (il fatto di percepire realmente delle "distanze" oltre ogni tipo di rappresentazione realistica) al di qua della superficie del piano pittorico intesa come piano di espansione avrebbe caratterizzato, alla fine degli anni sessanta, le invenzioni di artisti come Mark Rothko (autore che Adele Plotkin teneva ben presente). Le superfici piatte dell’artista di Newark sviluppano (così come nelle opere di Albers o Rothko) un volume, oltre il piano pittorico. I margini percettivi denotati attraverso il cambio di tonalità dei cartoncini colorati, serve a suggerire distanze diverse fra piani contigui. A proposito di quei cartoncini colorati, si tratta di un dettaglio che non tutti conoscono. Non è un caso che Adele Plotkin ne facesse largo uso; aveva infatti imparato ad impiegarli proprio a Yale con Albers. Quest’ultimo chiedeva ai suoi studenti di portare con sé ritagli di carta colorata di ogni tipo, in questo modo, egli diceva, si sarebbe evitato di perdere tempo a colorare gli spazi di carta per svolgere gli esercizi sull’interazione del colore. Le superfici colorate già pronte risultavano più versatili e adatte allo scopo da raggiungere. Questa praticità e, soprattutto, l’esclusione della parte manuale, introduceva un metodo didattico che lei stessa avrebbe impiegato più tardi nelle sue lezioni. Ma abbiamo detto che negli anni in cui insegnò a Bari, Adele Plotkin non dissociò quell’attività di docente con quella professionale. Anzi, così come per Albers, quest’ultima rappresentò una continuazione di quella. Nel suo studio preparava con un’accortezza maniacale i suoi cartoncini, rigorosamente blu-azzurro nelle sotto tonalità più calde o più fredde. Lo faceva tinteggiando uniformemente con colori acrilici vaste porzioni di carta di supporto. "Di tanti allegri colori - ebbe modo di dire - un salto ad

uno solo, l’azzurro. Senza un perché, ma una semplice necessità viscerale che irrompe; un blu opaco, denso, che assorbe la luce e racconta poco. Tutt’ora mi tiene compagnia, in una forma o un’altra" (3). Da Albers aveva imparato a distinguere fra un margine "tagliato" di netto ed uno semplicemente "strappato". L’effetto risultava diverso. Invito il lettore più curioso a notare questi importanti dettagli. I lavori eseguiti fra il 1987 ed il 1990 cono caratterizzati da questa tecnica raffinatissima e, a mio parere, raggiungono la massima complessità sintattica. I piani pittorici di questo periodo non hanno una forma, non sono nemmeno circolari; perché quella forma era sembrata, in un primo momento, rispecchiare meglio l’idea di uno spazio senza limiti. In effetti, che differenza vi è fra un punto ed un disco? L’infinitamente piccolo (ma quanto) e l’infinitamente grande (ma quanto). Così lo stesso Kandinsky aveva osservato. No, lo spazio non si può definire se non attraverso l’esperienza dei sensi e persino attraverso una forma simbolica come il quadrato o il cerchio, si rischierebbe di rimanere vincolati a dei limiti rigidi. Quelle non-forme sembrano, all’artista di Newark, le più adatte ad incarnare questo concetto. La circonferenza rimane, all’interno di quelle non-forme con il solo scopo di evidenziare (quasi come avviene per il meccanismo delle forme frattali) che a partire da qualunque punto di quello spazio di superficie, è possibile una iterazione all’infinito, verso l’interno e verso l’esterno. Più precisamente: se una forma circolare riassume simbolicamente lo spazio circostante (come a dire, al di là di questi bordi lo spazio "continua"), uno spazio di superficie delimitato da margini fluttuanti e casualmente asimmetrici può a sua volta contenere (come un pianeta rispetto al sistema solare), o meglio, contiene in sé qualsiasi altra forma, come quella circolare. Spesso queste composizioni rivelano (a volte in maniera assai celata, come se quel particolare fosse stato sottoposto ad un ingrandimento) un frammento di circonferenza interrotto dai bordi curvilinei del piano di supporto, quasi lo tagliano bruscamente; come a dire: al di là di questa superficie tutto può continuare "come se". È quel che accade in una di queste composizioni senza titolo del 1990, in cui uno di questi margini anomali

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risulta rettilineo e coincidente con lo spigolo del muro di supporto, come se attraversasse la parete continuando al di là di essa. Tra il 1993 ed il 2001 Adele Plotkin realizza moltissimi disegni, in realtà si tratta quasi sempre di acquerelli di piccole dimensioni eseguiti su cartoncino bianco. Nell’estrema varietà dei motivi grafici è evidente un unico tema progettuale: la verifica dell’ambiguità percettiva del rapporto figura-fondo. L’obiettivo non è certamente nuovo, essendo invece costantemente presente nelle serie dei lavori del periodo precedente eseguiti su tavola con margini asimmetrici. Questa volta il margine squadrato del foglio di supporto non assume alcuna importanza ai fini dell’obiettivo. Il lettore deve sapere che vi è una continuità degli intenti, visto che il tema del rapporto figura-fondo è all’origine (almeno per quanto riguarda la Gestaltpsychologie) del problema della percezione (e dalla rappresentazione) dello spazio. Il tema centrale è semplicemente questo: esiste una figura se esiste lo sfondo, e dato che non vi è la percezione di spazio (inteso come profondità) senza una stimolazione retinica procurata dalla presenza di qualcosa che si trovi sopra-davanti ad un’altra. Dunque, la difformità fra due superfici contigue genera la percezione dei margini. Questi margini circoscrivono almeno due oggetti visivi diversi, mediante qualcosa che sta sopra-davanti ad un’altra. Una figura. Questi disegni offrono all’osservatore una straordinaria tavolozza di possibilità di ruoli assunti dalla linea intesa come margine. È indubbio che tali obiettivi siano stati affrontati da numerosi artisti, da Hans Harp a Henry Moore, da William Baziotes a Victor Pasmore. Quest’ultimo in particolare, deve avere offerto ad Adele Plotkin un notevole motivo di riscontro (ricordo nella sua stanza di lettura un’importante monografia dell’artista londinese). A Yale aveva imparato, studiando Arnheim, che la figurazione visuale è il risultato di rapporti funzionali fra le singole parti; che vi sono infinite possibilità di rintracciare un equilibrio visivo e che un punto o una linea instaurano sempre un rapporto con lo spazio bidimensionale che li delimita. Da Albers aveva appreso che due colori adiacenti, diversi fra loro, possono raggiungere la similitudine del contrasto tonale, ma mai l’identità. Che una

linea (in quanto margine) è semplicemente il risultato percettivo del contrasto fra pattern diversi. Non solo. Aveva ascoltato dal maestro tedesco i ricordi delle lezioni al Bauhaus, particolarmente quelle di Paul Klee. È innegabile che questi acquerelli rappresentino la sintesi di quelle esperienze. La parsimonia delle figure, quasi presenza discreta di esse, rievoca alcuni disegni di Klee. Questi disegni di Adele Plotkin raccontano una moltitudine di configurazioni possibili in cui la linea-margine è l’attore principale: la linea come contorno di una figura (ad esempio una forma circolare) si richiude su se stessa decretando la differenza fra una parte racchiusa (lo spazio intorno ad essa) e la parte racchiudente (vale a dire lo sfondo, ovvero lo spazio esterno ad essa). Ma quando quest’ultimo richiama a sé quella linea-margine (nei casi in cui questa non si richiude su se stessa o quando lo spazio racchiuso è troppo grande) i ruoli si invertono lasciando l’osservatore disorientato. Si capisce che il rapporto tra figura e fondo è analogo a quello fra convessità e concavità. Una figura è convessa (perché racchiude uno spazio escludendolo dal fondo e attribuendogli una maggiore compattezza visiva); il fondo è concavo (perché lo sono i contorni) quando circonda interamente o in massima parte la figura. Ma quando il margine viene richiamato dallo sfondo, quando cioè viene messo in rapporto con esso da un gioco di ombre che gli attribuiscono una maggiore densità, ecco che improvvisamente vene "in avanti" facendo sì che la figura ora appaia come una specie di bucatura, di lacerazione, di finestra al di là (dietro o sotto) di esso. Questo complesso racconto delle regole gestaltiche della semplicità, avviene attraverso un’abile dislocazione degli elementi ottici all’interno del foglio di carta, campo d’azione di questa interazione dinamica. Quelli della sovrapposizione e della trasparenza fenomenica sono temi affrontati dalla psicologia della percezione visiva. Argomenti trattati negli ultimi lavori di Adele Plotkin, eseguiti fra il 2011 e il 2013 durante un periodo di lavoro frammentato, interrotto da riposo forzato o degenza a causa di una grave discopatia che le impedisce movimenti o stazionamenti in posizione eretta. […] Queste composizioni risentono certamente di alcuni

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lavori svolti con Albers negli anni cinquanta, in modo particolare sul fenomeno del contrasto cromatico. Abbiamo discusso insieme di questo, soprattutto di un importante fenomeno visivo di cui ha tenuto conto durante la realizzazione di questi ultimi lavori (mi riferisco al cosiddetto effetto di Bezold). Le ultime composizioni sono datate fra gennaio ed aprile del 2013. Adele Plotkin trascorre molto tempo nel suo studio, ansiosa di raggiungere i risultati desiderati. Spesso rivede e a volte mette completamente in discussione i suoi imminenti progetti, annotando con grande meticolosità i suoi pensieri ed i risultati giornalieri. Le superfici utilizzate sono di forma rettangolare orientate verticalmente, la tecnica a collage utilizza strisce di carta colorata ad acrilico. Le distanze fra di esse sono attentamente calibrate, allo stesso modo le sottili sfumature di colore che sollecitano quel fenomeno del contrasto e dell’eguagliamento cromatico. L’ottenimento delle tinte desiderate è spesso raggiunto dopo innumerevoli prove anche perché - What looks good in the morning doesn’t work in the afternoon (5). In questa composizione lo sfondo risulta interrotto tanto dalla sovrapposizione fisica di tre fasce verticali di diversa larghezza a dello stesso spessore che procurano delle sottili ombre (più p meno accentuate rispetto alla direzione della luce), quanto alla scissione della trama (l’interruzione della continuità delle sottili linee orizzontali) dipinta su tutta la superficie. Le sette sagome di cartoncino sovrapposto risultano fisicamente in rilievo rispetto al piano di sfondo, tuttavia "arretrate" fenomenicamente rispetto alle sottili linee orizzontali. La tridimensionalità di quelle sagome, che risultano dislocate in base alla grandezza relativa, risulta annullata dall’effetto di trasparenza procurata da sottili rapporti cromatici di contrasto ed eguagliamento. Si tratta di un sintetico ma complesso gioco di quantità e qualità di forma-colore. Non la ricerca di un equilibrio visivo ma la verifica della profondità dello spazio fenomenico attraverso i rapporti di sovrapposizione. Solo tre colori (incluso quello di sfondo) individuano piani diversi in relazione al gradiente marginale (4). Il lieve spessore dei cartoncini rita-

gliati è protagonista, insieme al colore, delle stratificazioni di piani relativamente concavi o convessi, dipendentemente dalla direzione della luce. Credo che l’impegno progettuale di Adele Plotkin non sarebbe stato possibile al di fuori del suo impegno didattico; così come è accaduto per il suo maestro tedesco. Grande è stato il legame con i suoi studenti, inconsapevoli a volte di essere artefici, con lei stessa, di un piccolo destino.

Fig. 4 "Color change", verifica dell’effetto di Bezold, collage. Esercizio eseguito a Yale nel 1953. (proprietà Clemente Francavilla)

NOTE (*) Quest’articolo è tratto da: Clemente Francavilla, Adele Plotkin, un sottile margine blu, Dedalo, Bari 2013.

Fig. 5 Senzatitolo, 48x54 20-05-2011 Cartoncino colorato a tempera su compensato (proprietà Biblioteca Comunale Comune di Pietrasanta - Lucca)

(1) Dalla prefazione al testo: Clemente Francavilla, Teoria della Percezione visiva e Psicologia della Forma, Schena Editore, Fasano 2014. (2) Le regole di organizzazione visiva rientrano nel più generale problema della formazione delle unità fenomeniche, affrontato per primo da Edgar Rubin nel 1921 attraverso l’analisi del rapporto figura-fondo. Studi successivamente approfonditi da Max Wertheimer nel 1923; il risultato delle sue ricerche sull’organizzazione degli stimoli visivi, portò all’individuazione dei fattori che favoriscono l’organizzazione degli elementi visuali in un contesto unitario, rispetto a criteri di semplicità formale e simmetria. (3) Da: Adele Plotkin, Immagini ed Echi, Edizioni Dedalo, Bari 2009. In verità Adele Plotkin era ben consapevole del fatto che «So-called segregating colors, like red and yellow, are defined by having hard, distinct boundaries, in comparison with non segregating blues and greens, which by juxtaposition produce soft boundaries». Così ebbe modo di scrivere Lois Swirnoff in un libro con dedica all’artista di Newark, in ricordo delle lezioni seguite insieme a Yale con Albers. (4) Il gradiente marginale è rappresentato dal contrasto luminoso tra due superfici contigue. La differenza in termini di saturazione e chiarezza, determina la "distanza" fenomenica fra il pano pittorico e l’osservatore. Quando questa differenza è ridotta al minimo, i margini divengono labili ed il rapporto figura-fondo perde il normale antagonismo. (5) Da un’annotazione di Adele Plotkin del 5 marzo del 2013.

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LA LINGUA "ARCHEOMODERNA" di Renato Nosek Dall'intangibile alla forma compiuta Alvaro Spagnesi

Veneziano di nascita ma barese di adozione, Renato Nosek è un pittore instancabile e completamente immedesimato nella propria ricerca, il linguaggio visivo di Renato Nosek, che si articola su una base volutamente cinque/seicentesca, si arricchisce di termini visivi contemporanei funzionalmente al contenuto ricercato e agli elementi esposti alla fruizione: in poche parole Nosek non si comporta diversamente da altri Maestri che lo hanno preceduto e che sfuggono ad inserimenti entro "contenitori" stilistici. In realtà anche Nosek ha fatto parte di un movimento, quello Neomanierista (1), che a un certo punto della sua attività tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso, gli è apparso in linea con la propria ricerca artistica ma già verso il 1997, l’artista non si riconosceva più in quel "cenacolo" chiamato la Nuova Maniera Italiana e realizzava opere che dichiaravano il suo legame con l’arte espressa in termini "archeomoderni" come in realtà aveva fatto prima e durante la citata esperienza guidata da Gatt e con compagni di viaggio quali Bruno D’Arcevia(2). "Il neomanierista", scrive Rossana Bossaglia nel 1989, "attua un’immedesimazione, si badi, non con il Cinquecento, ma con quello che il Cinquecento pensava fosse l’arte (…) compie un’operazione sempre più staccata dal divenire storico. Il suo anacronismo è assoluto nel senso che egli tende a portarsi fuori da qualsiasi tempo"(3). Bene, Renato Nosek non si sente affatto" fuori da qualsiasi tempo", bensì un uomo del proprio tempo: nelle sue figurazioni egli inserisce elementi del suo presente, della scoperta quotidiana e della meraviglia per un tocco, per una luce che s’è manifestata quale l’aveva vagheggiata senza sapere esattamente cosa fosse, per una scoperta nuova e inaspettata. Così Nosek non crede che "il tempo storico" sia finito " e nemmeno che "un ulteriore avanzare della tecnologia " blocchi il pensiero, "la riflessione individuale", lo "spirito" critico

come invece crede, secondo la Bossaglia, l’artista neomanierista (4): Nosek si sente protagonista della propria epoca e se impiega elementi "antichi" è solo perché sono lessici a lui congeniali, materiali con i quali riesce a costruire quei misteriosi ed ineffabili "luoghi poetici" che sono le opere sue. Ogni opera nuova è per Renato una vera e propria "rivelazione " che prende corpo attraverso un lungo percorso fatto di fasi successive tra le quali si instaurano pause di riflessione e attese. L’artista non si sottrae al "doloroso" travaglio creativo che lo coinvolge e lo stravolge in ogni tappa di questo cammino, dalla stesura del fondo Terra di Siena su cui appoggia le prime pennellate di costruzione, al delicato intervento di velatura, dalla ripresa delle masse al controllo dell’equilibrio compositivo; egli sa –come ogni artista vero sa- che ancora una volta sta rischiando la propria vita in un tocco o in un effetto, sa che giungerà il momento in cui tutto gli sembrerà perduto e potrà contare solo su se stesso, sulla sua forza, sulla sua convinzione di riuscire a penetrare il mistero ineffabile dell’opera che si va formando sotto i suoi occhi. L’anima dell’artista s’incarna nelle opere che realizza: il processo di genesi creativa che porta a questo vero e proprio miracolo è delicato e complesso quanto la formazione di un qualsiasi organismo vivente e si incentra in un misterioso e imperscrutabile atto d’amore –un amplesso cosmico – che giunge a conferire ad un grumo di materia inerte la luce dell’esistenza. La "materia bruta" scelta è la sola che renderà possibile la riuscita dell’evento artistico poiché diventerà carne e sangue del suo essere ed è per questo che ogni autentico artista sarà sempre molto esigente nel ricercare quanto occorre al suo furor creativo. Quando scocca la scintilla che porta alla realizzazione, di un’opera, l’artista ha ormai fuso il livello emotivo/memoriale con quello creativo/rielaborativo e spazia con rinnovata "verve" sperimentale su tutta la superficie a

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disposizione cioè sul tessuto vivo dell’opera a seconda delle esigenze espressive. Per queste ragioni non credo che, se i termini della poetica neomanierista sono quelli accennati sopra, Nosek sia stato mai intimamente "sposato" a quella corrente; così ritengo che in realtà non vi fu mai un "matrimonio" vero con la poetica neomanierista e, sussistendo da parte dell’artista una "riserva mentale", si possa parlare di "inesistenza" di legame: non" divorzio", quindi, ma "annullamento" di rapporto. Ritengo che il neomanierismo, come tutti i fenomeni di tipo citazionistico seguiti allo "sdoganamento" della rappresentazione nelle arti visive ad opera della Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, siano serviti più a coloro che non sono veri artisti, che a coloro che, come Renato Nosek, artisti lo sono veramente. Dai cosiddetti Maestri manieristi post-fidiaci, ai neoattici bizantini, e ancora dall’ignoto frescante di Castelseprio a "Nicola de Apulia" e a Giovanni Pisano suo figlio, al Maestro d’Isacco, da Giotto e poi a Masaccio e a Piero e, su su, lungo un crinale coerentemente evolutivo ma intimamente connesso al passato, come ora riconosce anche Jacques Le Goff (5) e quindi attraverso il Rinascimento, fino a Modigliani e Picasso, De Chirico e i novecentisti, quanti artisti hanno affidato gran parte della loro poetica al linguaggio che non sempre appropriatamente si definisce "classico" perché esso stesso debitore ad apporti orientali e/o arcaici rielaborati ad hoc! Questi e infiniti altri artisti hanno coniugato elementi desunti dalla tradizione classica con caratteri propri delle loro epoche, riuscendo ad esprimere, forse grazie a tale connubio, concetti e sentimenti "nuovi" perché scaturiti dall’unicità irripetibile del loro DNA, attraverso l’impiego di una lingua artistica "archeomoderna", superando così le convenzioni contingenti e le mode del momento, proprio grazie alla capacità di seguire con rigore il dettato della loro interiorità.

Renato Nosek,"Ritratto", olio su tela, 2015

Note

1)Catalogo della mostra "Quattro artisti della Nuova Maniera italiana" a cura di G.Gatt, Pescara, 24 f3bbraio/23 aprile 1994,p.54;sulle scelte di Nosek cfr.la nota successiva; 2) Renato Nosek, a detta di D.Guzzi (ivi.p.38) sin dalla mostra del Vittoriano a Roma (1990) "offriva soluzioni al codice neomanierista"per la sua "singolare evoluzione verso il linguaggio del Seicento" e un "certo espirit de gèometrie". Già agli stessi curatori della più importante mostra della Nuova Maniera non sfuggivano le deliberate scelte di Nosek che più tardi definito "archeomoderne".(cfr. Reperti d’arte Archeomoderna"a cura di A.Spagnesi, Apricena(FG) 23 dicembre1997/ 25 gennaio 1998). 3) Catalogo della mostra" Nuova Maniera italiana",Bari,S.Scolastica, 3 /16 dicembre 1989, p.17 (R.Bossaglia). 4) ibid.

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Renato Nosek, “compunta�, olio su tela, 2005

Renato Nosek, "Ermafrodito",olio su tela, 2015

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PITTURA DEL CINQUECENTO: Il ritratto di Giovanni dalle bande nere di Francesco Salviati Alessandro Cecchi

Fece ancora la testa, ovvero ritratto del signor Giovanni dÈMedici, padre del duca Cosimo, che fu bellissima; la quale è oggi nella guardaroba di detto signor duca". Così il Vasari ricorda, nella ‘Vita'del suo amico Cecchino Salviati, la commissione di un’opera documentata anche dall’inventario del 1553 di Palazzo Vecchio, allora Palazzo Ducale, da cui risulta, nella prima stanza della Guardaroba segreta, "Un quadro di legname con ornamento di noce, pittovi drento il Signor Giovanni dÈMedici, mano di Cechino Salviati". L’artista (Firenze, 1510 – Roma 1563), fiorentino di nascita ma romano di cultura, lo aveva eseguito durante un soggiorno in patria durato cinque anni, dal 1543 al 1548, in cui aveva lavorato all’affrescatura con Storie di Furio Camillo della Sala dell’Udienza in Palazzo Vecchio, come cartonista dell'Arazzeria Medicea e a diversi dipinti, oggi divisi fra la Galleria degli Uffizi, la Galleria Palatina e alcune collezioni straniere. Il trascorrere inesorabile dei secoli sembrava aver cancellato ogni traccia del "Ritratto del signor Giovanni dÈMedici" e ci si era ormai rassegnati alla sua perdita finchè la mia attenzione non fu attratta nei depositi della Galleria Palatina da un ritratto di uomo d’arme, in cattivo stato di conservazione (inv.1890 n.5195, olio su tavola, cm 65 x 45), per cui Karla Langedjik, nel 1980, aveva avanzato l’ipotesi che potesse trattarsi del dipinto salviatesco. Il dipinto, a prima vista, sembrava irrecuperabile, percorso com’era da vistosi sollevamenti e segnato da cadute di colore, anche estese che, fortunatamente, erano per lo più ai margini e non interessavano il volto del ritrattato. La sua lettura era poi resa ancor più difficile dallo spesso strato di sporco che copriva il colore, sotto cui s’intuiva a fatica una notevole qua-

lità pittorica.(FIG.1) Solo il restauro poteva sciogliere i dubbi e consentire un giudizio obiettivo dell’opera. Grazie a Conad l’intervento, affidato alle sapienti mani di Nicola MacGregor, è stato possibile e già con la fermatura e il conseguente abbassamento dei sollevamenti di colore, molta della pittura originale ha potuto ritrovare il suo luogo. La pulitura ha poi consentito di recuperare una pittura luminosa, calda e squillante, tipica di Cecchino, veloce e, nello stesso tempo, accurata nella resa dei particolari. Sono emersi, nel volto, un incarnato roseo e una minuzia di dettagli come i baffi, la bocca tumida, i peli sulle guance e la sottile linea rossa che disegna il naso. (FIG.2) Il tutto si staglia oggi, dopo il restauro, su di uno sfondo di colore grigio violaceo, su cui spicca l’armatura, dipinta con pennellate più libere e sciolte e uso di velature, in buona parte perdute, ma con raffinati fiocchi rossi e una testa di leone sul pettorale. (FIG.3) La "testa, ovvero ritratto del signor Giovanni dÈMedici" è davvero "bellissima" come l’ha definita il Vasari oltre quattro secoli fa, e si colloca a giusto titolo in una galleria ideale che annovera, con l’autoritratto dell’artista e gli altri, di ignoti, nell’affresco col Trionfo di Veio dell’Udienza di palazzo, il Giovane della Collezione Aldobrandini di Frascati, il Giovane con cerbiatto già Torrigiani della collezione Liechtenstein, l’Uomo con barba e berretto nero della collezione Kress di New York, il Giovane di Saint Louis, il giovane Giovan Battista Salviati di Sarasota, il Ridolfo Pio da Carpi, l’Uomo della famiglia Santacroce e il monsignor Giovanni della Casa di Vienna e il Ritratto di Pier Luigi Farnese di Napoli. Rispetto a quello dipinto da Gian Paolo Pace detto l’Olmo, pervenuto nel 1545

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alle collezioni medicee dall’Aretino e oggi agli Uffizi, con il volto di profilo e lo sguardo perso in una fissità innaturale perchè desunto dalla maschera mortuaria, il Giovanni dalle Bande Nere del Salviati si qualifica come un ritratto ideale che trasfigura il modello, facendolo assurgere ad una dimensione eroica fuori dal tempo, col suo sguardo intenso e fiero, la testa eretta, di tre quarti, su di un’armatura esemplata, con varianti, su quella, conservata nell’armeria ducale, e utilizzata dal Bronzino per ritrarre, intorno al 1545, un duca Cosimo bellicoso, nel quadro già nella Tribuna degli Uffizi e in altri della stessa serie. Cecchino dovette dipingere il ritratto dopo l’arrivo a Firenze di quello del Pace, di cui riprende la tipologia del condottiero con barba e baffi radi, e presumibilmente lo fece fra il 1546 e il 1548. Si ignora come sia stata accolta l’opera dal

duca e dal suo potente maggiordomo Pier Francesco Riccio. Verrebbe da pensare non bene – anche se pare impossibile, vista la qualità del dipinto - se l’artista fu costretto dal disinteresse per lui e dalla mancanza di commissioni, a partire per Roma "con poca gratia e mal sadisfatto". L’11 luglio del 1548, come Don Miniato Pitti scriveva al Vasari, Cecchino era "per ire à Roma a settembre tutto camuffo" dopo averci lasciato un capolavoro oggi rinato a nuova vita e degno degli onori della Galleria Palatina.

Francesco (detto Cecchino) Salviati, Il trionfo di Furio Camillo

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Francesco ( detto Cecchino) Salviati, Ritratto di Giovanni delle Bande Nere, Galleria Palatina, Firenze, (particolare).

Francesco ( detto Cecchino) Salviati, Ritratto di Giovanni delle Bande Nere, olio su tavola, cm 65 x 45, Galleria Palatina, Firenze.

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"IL GRANDE MUSEO DEL DUOMO" Giovanna Lazzi

Dalla fine di ottobre 2015 ha riaperto i battenti un luogo straordinario nel cuore di Firenze, il "Grande Museo del Duomo", 6.000 metri quadrati di superficie, articolati in 28 sale e suddivisi su tre piani, godibili grazie ad un nuovo allestimento molto scenografico, quasi da cinema, ma per questo assai accattivante per ogni tipo di pubblico. Se l’intenzione era quella di stupire il risultato è davvero eccezionale. Nell’articolata successione degli spazi, a volte un po'complicata per la verità, il percorso si snoda tra saloni e angusti ricetti, corridoi e aperture sulla città in un suggestivo gioco di rimandi tra l’interno e l’esterno. Qui è ora concentrata una raccolta del tutto speciale della scultura monumentale fiorentina con statue e rilievi medievali e rinascimentali in marmo, bronzo e argento. Le parole dei depliant e del sito non suonano come mera propaganda, anzi accanto a capolavori assoluti e spesso assai noti che fanno risuonare i nomi di Arnolfo, Donatello, Ghiberti fino a Michelangelo, si ammirano splendidi oggetti di oreficeria, maestosi codici miniati, lussuosi parati sacri. Dal Quattrocento gli ambienti oggi adibiti a museo furono utilizzati per le diverse fasi di progettazione e preparazione dei lavori di Santa Maria del Fiore: qui ebbe il suo quartiere generale Filippo Brunelleschi e qui Michelangelo scolpì il David, destinato ad un contrafforte della Cupola. Dal Seicento fino all’Ottocento servirono all’Opera anche come depositi e dal 1891 divennero museo. Avviato nel 1296, in un momento di eccezionale prosperità e di particolare assetto sociopolitico, il nuovo Duomo voleva esaltare il potere economico di Firenze, in grado di gareggiare con le cattedrali d’oltralpe e di primeggiare sulle città vicine. La scultura, estremamente costosa oltre che altamente decorativa e spettacolare, era anche un simbolo di questo prestigio, a cui univa un toccante signifi-

cato religioso, dal momento che il Nuovo Testamento caratterizza i credenti come le "pietre vive" di un edificio spirituale la cui base è Cristo (1 Pietro 2,5). Così le statue di marmo, i rilievi, le formelle parlavano dell’identità dei fiorentini, che vedevano nella plastica monumentale un potente mezzo di comunicazione per manifestare il loro primato ma anche la loro osservanza religiosa. Ad esempio, le sedici statue e i cinquantaquattro rilievi del Campanile - oggi esposti nella scenografica galleria del primo piano - di cui il primo e più consistente nucleo fu realizzato a partire dal 1334 da Andrea Pisano con vari aiuti, illustrano la creatività umana attraverso la serie delle formelle con le arti e i mestieri ed evocano la presenza divina con i profeti, i sacramenti, le virtù, in un articolato e ben calibrato programma iconografico. La prima facciata, mai completata e smantellata nel 1587, è stata ricostruita in base a un disegno dell’epoca, in modo da poter ricollocare molte delle statue nelle loro posizioni originali, di fronte alle porte istoriate del Battistero. Nel così detto Salone del Paradiso, che si apre quasi d’improvviso al visitatore con un sapiente colpo di teatro, si rivive così lo spirito originario di quello spazio tra il battistero e la chiesa, che, per antica tradizione, i cristiani chiamavano Paradiso, in allusione alla gioia dei battezzati che s’avviavano a partecipare per la prima volta all’Eucaristia. Fu probabilmente in questo senso che, come afferma Giorgio Vasari, Michelangelo definì "del Paradiso" la porta bronzea del Battistero prospiciente la Cattedrale, in un gioco di parole inteso a sottolineare l’eccelsa qualità del capolavoro di Lorenzo Ghiberti. La concentrazione delle arti nella Firenze del ‘300 e ‘400 si era potuta realizzare in virtù di una congiuntura economico sociale complessa ma in fondo assai proficua. La città era florida di commerci

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e vi scorrevano fiumi di denaro, che neanche fatti di rilevanza generale, come la peste e i fallimenti delle monarchie oltremontane, avevano distrutto, grazie ad un sistema produttivo che si sapeva rigenerare e ricomporre. I manufatti di altissima qualità dimostrano il valore delle botteghe; senza l’alto artigianato sarebbe impossibile e inconcepibile per una città produrre quella galassia così variegata di artisti eccelsi ed eclettici. La sensazione chiara che rimane al termine della visita al museo, da affrontare come una sorta di cammino culturale e artistico ma anche spirituale da compiere passo passo, è proprio quella della meravigliosa unità delle arti nella Firenze del suo lungo e intenso splendore, quando gli artisti si applicavano a tutte le discipline senza distinzioni; si formavano spesso nell’atelier degli orafi, che comunque si dedicavano anche al formato monumentale – pensiamo a Ghiberti e al Verrocchio dalle cui botteghe sono passati quasi tutti i grandi maestri- e poi transitavano dalla scultura, all’architettura o alla pittura senza scosse. Basta citare Giotto, Arnolfo, e poi Pollaiolo, Michelozzo, lo stesso Michelangelo. Senza soluzione di continuità ma, anzi, quasi rimarcando questa unità e compenetrazione delle varie manifestazioni artistiche, le stanze si affollano di capolavori e tutte le arti dall’architettura alla scultura, la pittura, la tessitura, il ricamo, l’oreficeria, interagiscono con la poesia, la musica, il canto e la coreografia rituale nella celebrazione della gloria divina, ma anche nel panorama culturale e nella compagine sociale della città. Tutte le sale sono improntate a questa "ratio" e vi si respira un’aria non solo di alta concentrazione artistica ma anche spirituale. Il percorso infatti, in una sua apparente tortuosità in qualche punto, suggerisce momenti di intensa riflessione e non solo di contemplazione di opere eccelse. Così il cammino verso la Maddalena di Donatello e la Pietà di Michelangelo, dolenti corpi quasi smaterializzati e del tutto spiritualizzati, inizia da una piccola saletta quasi una cappella delle reliquie,

vero trionfo dell’arte orafa. San Paolo insegna che il corpo umano è "tempio dello Spirito Santo" (1 Corinzi 6,19) e in questa prospettiva la Chiesa conserva e venera le reliquie dei santi, esposte in sontuosi contenitori nei giorni di festa, segni del premio riservato al corpo di chi muore in comunione col Salvatore. E al piano superiore il reliquiario del libretto ben si inserisce tra le due magnifiche cantorie di Donatello e Luca della Robbia, vicino ai corali di Monte di Giovanni aprendo la via al parato di san Giovanni e a quella meraviglia di spettacolarità che è l’altare d’argento del Battistero, commissionato, come la croce monumentale attribuita al Pollaiolo, dall’Arte di Calimala e realizzato da più generazioni di artisti a partire dal 1367. Allo sfavillare delle pietre e dei metalli preziosi si unisce il quieto fulgore delle carte miniate, il ciclo di 14 Graduali e 18 Antifonari, commissionato dall’Opera del Duomo tra il 1508 e il 1526 per coprire l’intero anno liturgico, affidato all’elegante maestria della bottega dei fratelli Gherardo e, soprattutto, Monte di Giovanni del Fora. Il programma iconografico, denso di riferimenti politici e civici, oltre che religiosi, culmina nell’esaltazione della famiglia Medici, in particolare Lorenzo il Magnifico e suo figlio Giovanni, papa Leone X. E alle maestose pagine "ridenti" pare rispondere il balenare dei parati liturgici dove la ricchezza dei tessuti e i fili d’oro o d’argento manifestano la gloria e la regalità di Dio e della sua Chiesa. L’immagine di san Paolo dei "rivestiti di Cristo" (Galati 3,27) pare suggerire il fondamento simbolico delle vesti rituali. L’interesse dei Medici, ormai legittimati signori della città come granduchi, non viene meno neanche nei secoli successivi, anzi in qualche modo ostenta la comunanza d’intenti e il reciproco rispetto tra potere civile e religioso, come dimostra la nuova recinzione marmorea del presbiterio commissionata da Cosimo I a Baccio Bandinelli nel 1547 e ultimata nel 1572, il primo di una serie di interventi per adeguare la cattedrale al gusto della "maniera", con personaggi maschili ve-

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stiti all’antica o nudi, forse a rappresentare patriarchi e profeti insieme a eroi dell’antichità classica. Il senso delle sculture del coro fu completato dall’affresco con il Giudizio universale eseguito dal Vasari e da Federico Zuccari nell’intradosso della Cupola tra il 1572 e il 1579. All’interno del Duomo i santi raffigurati nelle vetrate, pale d’altare e sculture si univano ai personaggi della storia, i condottieri e i letterati, e la compresenza delle due categorie suggeriva un legame tra santità cristiana e virtus civica, tra la comunità ecclesiale e quella cittadina. Il museo si è potuto avvalere di spazi già "polivalenti" per poter acquisire una dimensione così vasta. Il vano dello Scalone Nuovo, ad esempio, corrisponde all’atrio del Regio Teatro degli Intrepidi, detto anche ‘della Pallacorda'e ‘Teatro Nuovo’, costruito tra il 1778-1779 su progetto di Giovanni Battista Ruggieri coadiuvato da Giulio Mannaioni, rinnovato negli anni 1839-1840, e poi abbandonato ad un lento e progressivo declino dal 1870 in avanti, tanto da esser ridotto a magazzino industriale nel 1914, quando la platea, il palcoscenico e le relative decorazioni plastiche e pittoriche furono smantellati. L’ultima area espositiva consiste in cinque ambienti dedicati alla storia della nuova facciata realizzata nell’Ottocento, iniziando con il frontespizio dipinto nel 1688 in occasione delle nozze di Ferdinando II e Violante Beatrice di Baviera. Essendo un apparato effimero fu presto danneggiato dalle intemperie e a partire dai primi anni Venti dell’Ottocento, cominciarono a circolare proposte per una facciata architettonica, intorno a cui si accese un appassionato dibattito. Ne uscì vincitore il progetto di Emilio De Fabris e, dopo la sua morte, nel 1883, il completamento della facciata fu affidato al suo collaboratore Luigi Del Moro. Il resto è storia recente e il nuovo allestimento museale, frutto di lunghi anni di lavori, dimostra la validità del detto fiorentino "come l’opera del Duomo" per indicare qualcosa che non finisce mai.

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MUSEO DELL’OPERA DEL DUOMO DI FIRENZE

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STUDI E RESTAURO: Il Crocifisso sangallesco della chiesa di San Biagio a Petriolo a Firenze a cura di Mirella Branca Il libretto che descrive e commenta il restauro, finanziato dal Rotary Club Firenze Michelangelo, è stato Dato alle stampe nel 2011 e qui per la prima volta pubblicato on line Presentazione con interventi di: Giuseppe Betori Arcivescovo di Firenze Cristina Acidini Soprintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze e, ad interim, dell’Opificio delle Pietre Dure Don Gilbert Shahzad Parroco di San Biagio a Petriolo Con contributi di: Mirella Branca Il Cristo ligneo di San Biagio a Petriolo Francesco Caglioti Il Crocifisso di San Biagio: da Antonio da Sangallo il Vecchio a suo nipote Francesco Si tratta di un’opera di altissimo livello di Francesco e Antonio da Sangallo eseguita negli Anni venti del secolo XVI in legno di tiglio di cm. 91x86 adorata nell’antica chiesa di S.Biagio a Petriolo, situata nei pressi dell’aeroporto fiorentino di Peretola. Il restauro del 2011, di cui non si ha molte tracce in rete, torna di attualità dopo il ben più reclamizzato, recente restauro (2014) del Crocifisso ligneo di Antonio (o Francesco) da Sangallo ubicato nella Cappella degli Artisti (o di San Luca) nella Basilica della Santissima Annunziata di Firenze permettendo approfondimenti e confronti in tema di restauro. Questo intervento, in particolare, ha risolto tra l’altro e con straordinaria perizia, il conflitto tra esigenze di culto e problematiche del restauro scientifico. Spesso, infatti, le immagini sacre risultano alterate da pesanti ridipinture che, mentre impediscono la fruibilità degli aspetti originali, finiscono per imprimersi nello sguardo dei fedeli provocando una sorta di mancato riconoscimento dell’oggetto della loro devozione una volta che questo sia restaurato. Il rigoroso lavoro di Stefano Garosi, cui ha collaborato la figlia Laura e Roberta Gori proprio come in una bottega antica,(eseguito sotto la direzione di Mirella Branca e Lia Brunori della Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze che ringraziamo per la gentile concessione della presente pubblicazione on line) ha permesso il recupero della quasi totalità dei valori sangalleschi ma ha anche spinto alla sistemazione di un "nuovo" ma allo stesso tempo "antico" perizoma sui fianchi della splendida scultura in tiglio policromo.

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RESTAURO: Il Crocifisso sangallesco della chiesa di San Biagio a Petriolo a Firenze Mirella Branca

Il SIGNUM CRUCIS non è un semplice segno, ma ha in sé una valenza unica nella esperienza della fede, in quanto in esso si esprimono conograficamente due dimensioni fra loro umanamente inconciliabili come la morte e la vita, il patibolo e la vittoria. Il corpo di Gesù, il Verbo Incarnato, trasfigura con la sua persona e la sua vicenda storica quello che nella storia era identificato come il patibolo infamante. In quella morte offerta come dono di redenzione per l’umanità sta infatti la radice della risurrezione di Cristo che rinnova la vita dei suoi discepoli. Nel Crocifisso di San Biagio a Petriolo viene particolarmente evidenziata la corporeità di Gesù; la forte muscolatura, accentuata dalla cromia, gli arti robusti i tendini tesi nello spasimo del supplizio le ampie spalle, vigorese e virili. Il Cristo in croce è completamente nudo salvo un discinto perizoma. "ECCE HOMO", ecco l’uomo (Gv 19,5), nella sua totale umiliazione. Inchiodato al legno infamante, il suo volto è serenamente addormentato nel sonno della morte. Il Redentore appare come il secondo Adamo, dal cui fianco squarciato esce copiosamente sangue e acqua, fonte generatrice della Chiesa, seconda Eva. La corona di spine è composta da due grossi rami verdeggianti attorcigliati, che fanno tornare alla mente il passo del Vangelo di Luca in cui si legge: "Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?" (Lc 23,21). Questa corona non di sterpi ma di verdi tralci sembra dirci che Gesù Crocifisso è l’albero della vita. Altro particolare, non secondario, di questa sacra immagine sono lebraccia snodate, che mostrano il corpo piagato nel suo totale abbandono alla morte. Nella nostra arcidiocesi si conservano ancora numerosi corcifissi che presentano la medesima singolare caratteristica. Sono opere dei secoli XIV, XV e XVI e arricchiscono chiese ed oratori. Spesso non hanno più le tonalità originali, perché sono stati profondamente ridipinti, nella malintesa intenzione di ridonare vivacità alle tinte che

andavano sbiadendo. Soprattutto, nella quasi totalità, hanno subito una modifica sostanziale, con il blocco dello snodo delle braccia, con l’intenzione così di cancellare il rito della "deposizione", un antico gesto sacro che si era sviluppato fin dal secolo XI. La Chiesa di Aquileia praticò questo rito fino al 1575. Il rito consisteva nella deposizione del corpo del Crocifisso dopo la Liturgia dei "Presantificati" del Venerdì Santo. L’antico e complesso rituale perdurò per lungo tempo soltanto nella parte che riguardava la sacra rappresentazione dello schiodamento e della deposizione del corpo dalla croce; il corpo di Cristo veniva calato dalla croce e deposto per essere venerato e vegliato per tutta la notte del Venerdì Santo, la croce rimaneva nuda immagine viva del Calvario della Parasceve. Il rito della "depositio" diventò occasione presso qualche comunità per un vero e proprio dramma liturgico, che quasi ovunque andò in disuso nel XVIII secolo, ma è ancora vivo in alcuni paesi del meridione. A Procida, ad esempio, rimane ancora il rituale dell’unzione con olio di cannella del corpo di Cristo morto, prima della processione del Venerdì Santo. Anche nelle Chiese orientali l’icona del Signore Crocifisso, schiodata dalla croce, cosparsa di acqua di rose e avvolta con un candido lino, viene deposta sotto l’altare. Nel restituire al culto il Crocifisso di San Biagio a Petriolo è bene fare memoria anche di queste ritualità, che ponevano i fedeli a contatto fisico con l’icona del Crocifisso, per una vicinanza che doveva far maturare la condivisione del cuore nei confronti del dramma di offerta di sé che si è consumata sulla croce di Cristo. Si tratta di una immedesimazione e di una condivisione che vanno anche oggi ricercate nella contemplazione del Crocifisso e che auspico possano nutrire la fede del popolo di questa comunità cristiana.

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Firenze, 2 dicembre 2011


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ARCHITETTURA E RESTAURO Il restauro di un’ala di Palazzo, Costantini a Lecce Rocco Jimmy Mazziotta

Il restauro di una porzione di Palazzo Costantini (XV- XVII sec. con aggiunte posteriori) (1) prestigioso edificio padronale nel centro antico di Lecce, svolto dal 1991 al 1993 con la supervisione della Soprintendenza ai Beni Culturali, ha posto vari problemi sia d’ordine meramente tecnico strutturale e conservativo che di natura estetico-artistica e ha imposto scelte legate alla funzione abitativa del complesso nonché all’attenta valutazione dell’evoluzione storica subita dalle varie parti architettoniche imponendo allo scrivente non sempre facili e scontate soluzioni tecniche relative alla rimozione di parti incongrue dell’insieme o alla stabilizzazione di materiale lapideo più o meno ammalorato. L’attuale stato di "salute" del Palazzo a 23 anni dal restauro, come documenta servizio fotografico di Giovanni Nicolai (Link Appendice 1) è sicuramente buono, nonostante le scritte a bomboletta spry che sporcano in alcuni punti le pareti al piano stradale e un percettibile invecchiamento delle superfici lignee più esposte, mantenendo ben apprezzabile la bellezza del litostrato delle facciate restaurate mantenendo la" patina del tempo" sia nelle zone reintegrate con materiale lapideo sia nelle parti originali, trattate con opportuni interventi, lasciate in evidenza(su cui cfr. la relazione tecnica in Appendice 2). Nonostante che dalle foto scattate prima del restauro dell’ala di Palazzo Costantini (tra le vie Leonardo Prato,via degli Alami e via S.Maria dei Veterani) le superfici parietali esterne non sembrassero eccessivamente compromesse, in realtà sin dalle prime operazioni di ampia spicconatura di esse si sono presentate delle ragguardevoli situazioni di evidente degrado. Lo stesso intonaco nascondeva il reale assetto impediva la lettura completa dello stato di conservazione del fabbricato e il reale assetto iconografico della superficie muraria esterna quali parti aggiunte al fabbricato e aperture preesistenti, una delle quali ha permesso di

individuare un vano interrato già esistente che durante le operazioni del precedente restauro, risalenti agli anni ’60, era stato utilizzato come vano di scarico del materiale di risulta (cfr. Relazione pp.2 e segg.). Tale scoperta, che ha permesso il recupero di detto ambiente mediante l’asportazione dei detriti presenti al suo interno ha però obbligato ad una maggiore accortezza nella procedura di rimozione della scala interna, impropriamente costruita in epoche precedenti, che impediva di fatto la lettura delle fasi di aggregazione e il precedente assetto di questa parte di Palazzo Costantini non permettendo la chiara rilevazione del quadro fessurativo e dell’assetto statico delle strutture murarie. Data la gravità in cui versava la struttura fondale e muraria, sia nella parte interrata che in emergenza, si è provveduto in modo radicale a rimuovere la causa del danno (cfr.p.4-6); per quanto concerne i lastrici solari, risalenti alle modificazioni operate negli anni Cinquanta del ‘900 interamente degradati da infiltrazioni continue, si è ritenuto opportuno riproporre la stessa tipologia costruttiva con totale rifacimento degli stessi (cfr.7-8). Le alterazioni all’assetto originale della porzione di palazzo interessata hanno richiesto il potenziamento strutturale dei solai e dei setti murari portanti inserendo opportunamente staffe di aggancio alle putrelle (cfr.8-9). Compiute le dette operazioni si è passati al montaggio del collegamento verticale consistente in una scala elicoidale in c.a.p.(cemento armato precompresso) che, oltre a garantire la fruizione dei singoli piani abitabili, ha permesso di irrigidire gli stessi setti murari del vano scala restituendo l’assetto preesistente delle aperture esterne. (cfr.p.10). L’intero perimetro della porzione dell’edificio oggetto del restauro è stato interessato dal consolidamento fondale e dalla deumidificazione del parato murario attraverso iniezioni di malte fluide additivate a base di calce idraulica e formazione di barriera chimica

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attraverso microiniezioni capillari di resine silossaniche (cfr.11-13). Il processo di decoesione dei conci lapidei del parato murario, causato da migrazione per risalita dei sali igroscopici risultava evidente in tutta la sua gravità in seguito alla rimozione dello spesso strato d’intonaco che li ricopriva fino ad un’altezza di m.4.50: per i più malridotti risultava facile la individuazione per la loro successiva sostituzione grazie alle lesioni evidenti e per l’eccezionale sviluppo del pitting (cfr.12-15). Come ultimo intervento ci si è riservati, la parte relativa agli elementi architettonici di particolare pregio, ovvero: l’intera balaustrata da modiglioni mensola e balaustrini; gli stipiti e gli architravi dei finestroni e delle finestre, le coppie di biarchi, la mensola capitello di supporto ai medesimi, le chiavi ornate, i due doccioni figurati, gli archi barocchi con le relative balaustrate ed in ultimo il cornicione terminale (con modanatura jonica).La crosta nera accumulata nel tempo a causa del traffico, è stata rimossa attraverso l’utilizzo di impacchi di polpa di carta,acqua distillata e ammoniaca nonché successivi lavaggi con acqua nebulizzata (cfr.16).

Palazzo Costantini, Lecce, ala interessata dal restauro prima dell’intervento.

Palazzo Costantini, Lecce, ala interessata dal restauro allo stato attuale.

Note 1)Su cui si veda: DE SIMONE, Palazzi e case della città di Lecce con l’individuazione dÈloro antichi e moderni proprietari, folio 1002, ms. coll.XXXII I 136 della Biblioteca Provinciale di Lecce (sec. XIX, citato in MICHELE PAONE, Palazzi di Lecce, Congedo ed.Lecce,1979, p. 155

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LETTURE D’ARTE INEFFABILE: Il dossier De Nittis di Giovanni Lamacchia, Stilo Editrice, Bari, 2007 Mariella Belloli

Proponiamo qui recensioni di libri che parlano di ineffabili fatti d’arte offrendo spunti di riflessione originali e portando al dibattito storico artistico un contributo rilevante per ricchezza documentazione e rigore scientifico. Scoperta dell’autentico De Nittis. Il libro riporta il contenuto inedito dell’Inventario francese con tutte le opere e i beni del grande Maestro, Stilo editrice.,Bari,2007 di Angela Montinari Partì da Barletta con il pallino della pittura e in breve conquistò il mondo dell’arte. Giuseppe De Nittis (1846-1884), pugliese, artista per vocazione, divenne - e lo è tuttora - uno dei Maestri dell’Impressionismo più noti e stimati della storia. A questo grande artista è dedicato il libro Il Dossier De Nittis, curato da Mariagraziella Belloli e Giovanni Lamacchia (Stilo Editrice), pubblicato proprio in questi giorni. Il testo contiene un Inventario, ritrovato da Lamacchia negli Archives Nationales de France che rappresenta una raccolta di documenti notarili con numerose notizie sulla vita di De Nittis e della sua famiglia, sui legami con i mercanti e sugli investimenti economici. Per la prima volta tradotto dalla Belloli e pubblicato integralmente offre al lettore un inedito ritratto del Maestro e getta luce sul lato ombroso della sua personalità artistica e umana, con l’intento di restituire al suo genio e all’umanità una pagina di storia perduta. Il Dossier De Nittis è strutturato in quattro capitoli: i primi due, curati da Giovanni Lamacchia tracciano i contorni della vita di De Nittis, della sua personalità come uomo e come artista e raccontano il percorso che ha portato l’Autore da un’intuizione al ritrovamento dell’Inventario francese, con la ricostruzione dei motivi per cui la vedova ritenne necessario redigere un simile atto alla presenza del notaio Goupil a circa una settimana dalla morte del pittore. Una volta compilato l’elen-

co, Madame De Nittis decise di riservare un lascito con le sue opere e alcuni documenti alla Città di Barletta con il mandato a donarne alcune ad altri musei di altri Stati, tranne che in Francia. Attualmente la Pinacoteca di Barletta possiede quasi l’intero atelier del pittore. Nel terzo capitolo, invece, è riportato in italiano il dossier in versione integrale e, infine, nel quarto trova posto una piccola appendice. Completa la pubblicazione, un corredo illustrativo di venti immagini in bianco e nero. L’agile libro di scorrevole lettura si rivela di significativa importanza soprattutto riguardo alla stima delle opere realizzate dall’artista. De Nittis, infatti, fu uno dei pittori più falsificati già quando era ancora in vita. Secondo un catalogo edito negli anni ’90 le opere attribuite al Maestro erano 1.001, senza contare quelle relative al periodo napoletano, a quello londinese e altre ancora. Troppe per essere riferite ad un solo artista di così breve vita. Dunque, dalla documentazione contenuta nell’Inventario francese che ne censisce approssimativamente solo 350, appare chiaro che una serie di quadri considerati opera di De Nittis siano inevitabilmente dei falsi. In passato, è già stato pubblicato il carteggio che documentava l’attività di De Nittis e il suo rapporto con i mercanti, ma grazie alle approfondite ricerche di Lamacchia, questa straordinaria catalogazione, insieme ad altri documenti e studi sul grande artista, permette di percepire la reale consistenza e la specificità dell’opera del Maestro, del suo entourage, dei suoi affetti. Scopriamo così che il pittore che morì a soli 38 anni, stroncato da una congestione celebrale, lasciò in tutti coloro che lo conobbero uno straordinario ricordo di sé. Sensibile, profondo, socievole, affidabile, velatamente malinconico, affascinante ed edonista, amava circondarsi di chiunque avesse i medesimi interessi, sentimenti e idee, al di là di ogni pregiudizio o discriminazione. In

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Francia raggiunse una popolarità formidabile (mai uguagliata in Italia) per merito del suo stile raffinato con cui dava forma sulla tela alle sue emozioni e che fece di lui un Impressionista outsider. Motivo questo che lo consacrò uno degli artisti più amati/odiati nell’ambiente artistico. Ecco perché Il Dossier De Nittis è un lavoro utile quanto necessario, un dovuto tentativo per il riconoscimento della grandezza del Maestro, una grandezza a tutt’oggi mai completamente tributata dall’Italia. (Recensione pubblicata in «Barisera», 1 maggio 2007 qui presentata con autorizzazione della "Stilo Editrice"di Bari)

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LA TEMPESTA SVELATA: Giorgione, Gabriele Vendramin, Cristoforo Marcello e la "Vecchia". Di Marco PAOLI Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 2011. Alvaro SPagnesi

Il quinto centenario della morte di Giorgione, celebrato con un grande mostra nella Casa Museo di Castelfranco Veneto nel 2010 (1) ha riattizzato l’interesse(d’altra parte mai venuto meno) sulla "Tempesta", il quadro che può vantare forse il maggior numero di interpretazioni iconologiche da parte degli storici dell’arte (2).All’indomani della chiusura di tale esposizione,nel 2011, Marco Paoli, attraverso un’avvincente ricostruzione rigorosamente ancorata ad un copioso complesso di documenti e riferimenti storici, letterari e artistici, ha inteso "svelare" il famoso dipinto di Giorgione collegandolo a vicende avvenute in tempi e luoghi diversi, nel mese di settembre 1509, a Padova, salvata dall’assedio della Lega di Cambrai anche con l’intervento dei veneziani e a Costantinopoli, distrutta dal terremoto di giorno 14, festa della Santa Croce, che però non aveva toccato le case abitate dalla comunità veneziana residente ad Istanbul. Cristoforo Marcello, filosofo neoplatonico di illustre stirpe veneziana, che vantava antenati romani e che Giulio II tenne in grande considerazione, avrebbe commissionato a Zorzon un’opera che doveva celebrare la buona sorte di Venezia e della stessa casata dei Marcello: nel giovane raffigurato a sinistra nella "Tempesta", Paoli coglie la somiglianza con Gerolamo, fratello del committente, che partecipò alla difesa di Padova assediata appunto nel 1509 e pensa che proprio in suo ricordo sia stata eseguita la tela. Verrebbe così a decadere l’ipotesi che il committente dell’opera sia stato Gabriele Vendramin, colto collezionista veneziano che possedeva ben cinque opere di Giorgione e nella cui residenza fu vista da Michiel: proprio il fatto che questo conoscitore d’arte non sia stato in grado di dare il giusto titolo all’opera, induce a confermare la tesi che Vendramin potesse non esserne il committente. Molte altre sono le affermazioni,alcune delle

quali veramente innovative, che Paoli propone in questo libro: dal collegamento all’’undicesimo libro delle "Metamorfosi" di Apuleio suggerendo di interpretare la figura della donna nuda che allatta un bambino sulla parte destra del quadro, con Iside, la dea simbolo della buona sorte, che appare in sogno al giovane (cioè Cristoforo Marcello), quale sicuro buon auspicio rispetto all’assedio di Padova, città che si intravede sullo sfondo, sostenuta da Venezia, alla interpretazione dei vari elementi della la composizione come le due colonne spezzate in primo piano (le famose colonne di Costantinopoli colpite dal terremoto), l’inclinazione dell’edificio a sinistra (la facciata del palazzo del bizantino ‘Porphirogenitus‘,altra allusione al sisma di Istambul tragico per i Turchi ma innocuo per i veneziani là residenti), la presenza dell’ibis, sacro a Iside appollaiato sul tetto a destra.La lettura iconologica del quadro culmina nella spiegazione della presenza della folgore e della strana nuvola scura a forma di disco che si nota accanto ad essa: se la prima declama la pericolosità della situazione, sempre in riferimento agli accadimenti del 1509, l’altra, si lega alla presenza di Sirio, astro splendente quasi al pari del Sole e stella di Iside, annunciante la buona ventura della parte veneziana. Quattro città: Padova, Costantinopoli, Venezia e Roma, entrano nel "puzzle" che Paoli realizza a poco a poco così come altri pezzi di quella composizione sono legati a Gerolamo e Jacopo Marcello, Venere, Cerere,, Artemide, Iside, mentre altri alla teatralità dell’abbigliamento dell’uomo, che tiene un’asta (e non una lancia o alabarda come altri hanno pensato), il quale,hic et nunc, cioè al tempo di Giorgione stesso, è rappresentato come un attore di quelle "Compagnie" che organizzavano gli spettacoli riservati alla nobiltà veneziana in occasione del carnevale. Se si accetta proposta interpretativa di Paoli sull’interpretazione della donna col bambi-

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no quale Iside che allatta, è possibile anche reinterpretare alcuni elementi che Paoli non prende in considerazione ma per altri avevano molto peso: Salvatore Settis, per confermare la sua ipotesi rispetto alle due figure umane della "Tempesta"(per lui Adamo ed Eva), enfatizza la presenza del "serpe" che entra in una tana in asse col calcagno della donna nuda, sopra di esso. Paoli liquida tale elemento del quadro con rapidità e nonchalanche:"si tratta, in realtà, della radice di un arbusto" e rimanda a due studiosi che così lo classificano non ritenendo tale particolare degno di e forse vedendolo come un dato paesistico al pari dei sassolini chiari sparsi nei dintorni (3). Ma in un contesto tanto articolato e complesso niente viene dipinto "a caso" e quindi anche un radice sviluppata al di sopra del suolo, che sembra la coda di un serpente che penetra in un anfratto del terreno, specialmente se si impone così nettamente allo sguardo, deve essere esaminata con scrupolo prima di essere accantonata.Valutando l'ipotesi "serpente" in riferimento alla figura di Iside, la mente corre immediatamente all’Uroborus della mitologia egizia che negli antichi misteri raffigura l’anello di congiunzione fra le quattro divinità cosmiche: Sithis, Iside, Osiride e Horus. Il rettile effigiato infatti "ad anello" mentre si divora la coda, (oura "coda" e boros "divorante"), sta a significare come la continuità sia conseguenza necessaria del movimento. Se un serpente dovesse esserci nel quadro dovrebbe essere rapportato a Iside (come l’ibis sul tetto) tra l’altro la dea è vista talvolta come cobra o comunque con serpenti sul corpo o sulla testa.(4) Ma il serpe, qui presente solo quale rettile strisciante di cui è possibile vedere esclusivamente la coda, perderebbe ogni connessione con la dea egizia e quindi dovrebbe essere stato inserito nella complessa figurazione giorgionesca soprattutto per le sue le caratteristiche legate al ciclo vitale di cui, una volta accettata questa ipotesi, potremmo vedere esito simbolico nei due arbusti che lo sovrastano: secco quello di sinistra,vivo e florido l’al-

tro che peraltro interagisce con la figura della donna che allatta sovrapponendo i suoi rami fronzuti a quasi la metà inferiore del corpo nudo. In questo caso si giusti-

ficherebbe l’ipotesi" radice" dell’arbusto, secco (dico io). D’altra parte in un altro quadro della collezione Michiel, "I tre filosofi", Giorgione, aveva probabilmente evocato "facendolo paesaggio" secondo S.Settis "il tema dell’Albero secco e dell’Albero vivo:"L’Albero del Paradiso che si è disseccato dopo il peccato originale e l’Albero della Vita che annuncia rigoglioso la salvezza attraverso la Passione di Cristo"(5). Allora, con queste premesse, possono essere recuperati e fusi i valori simbolici della Madre Terra o Iside generatrice e del serpente che di continuo ringiovanisce, grazie alla muta della sua pelle, ne fa maggiormente un simbolo di rinnovamento e cambiamento? Colpisce anche la strana iconografia della donna che allatta il bambino non tenendolo in grembo come nella stragrande maggioranza delle versioni di Iside con il piccolo Horus o Madonne nelle immagini conosciute bensì tenendolo sul panno steso a terra sul quale essa stessa è seduta con le gambe piegate ad angolo e separate tra loro in posizione assai scomoda. Del florido puttino, seminascosto dalla coscia destra della sua nutrice, vediamo solo la testa, un po'della spalla destra e di una gamba. Caino o Horus, Efrasto o chi altro questo lattante possa essere, certo non è figura esaltata da Giorgione: credo che il collegamento alla terra su cui si posa sia la ragione della scelta attuata dall’artista, e bambini collegati alla terra sono quelli della Saturnia Tellus nell’Ara Pacis di Roma. Dopo aver fatto, a mero titolo esemplificativo, le riflessioni suddette mi pare che ancora, implacabilmente, sussistano "ragionevoli dubbi" sul fatto che l’opera sia stata definitivamente "svelata". L’opera di Marco Paoli ha sicuramente il

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pregio di riassumere,ragionandovi sopra, molte delle tesi sulla "Tempesta", presentare una inquadratura storica e geografica-ancorchè polivalente che darebbe un sicuro "terminus post quem" all’esecuzione dell’opera (settembre 1509), proporre

un coerente quadro generale legato alle figure di Cristoforo Marcello che è individuato come committente e suo fratello Gerolamo che comparirebbe nel quadro, oltre ai riferimenti alla cultura neoplatonica degli ambienti veneziani ora attentamente esaminata e ragionevolmente posta alla base delle scelte del pittore e del suo committente. Ma il "disvelamento" del soggetto della "Tempesta", pur con tutti i meriti elencati, non esaurirà nemmeno questa volta il misterioso fascino della tela del Giorgione che è in grado di stimolare ancora approfonditi e dottissimi cimenti e soprattutto resta un capolavoro pittorico di ineffabile e inspiegabile bellezza.

CONTENTS of the Articles NUMBER ONE Documents THE COVER Stefano Garosi e Alvaro Spagnesi:"Archeomodernitas" di Keith Haring: the fresco hypothesis "Tuttomondo" of Pisa. (video Piergiorgio Castellani speaks of Haring and the birth of Pisa murals) In this context, it presents a novel prequel concerning the achievement of the mural that Keith Haring executed in Pisa in 1989, a few months before his death on 16 Febbraio1990. (Cf. Tuttomondo by Wikipedia in link): the famous American pop artist Andy Warhol’s pupil, who has brought honor to the mural "street," he wanted to carry out the work "Tuttomondo" (allworld) fresco and Pier Giorgio Castellani, thanks to which the artist was in Italy to work on a large mural painting, he asked his former professor of Art History (Pontedera at High School) Alvaro Spagnesi,a feasibility technical report to be submitted to Haring.For the first time it is presented that report, prepared in conjunction with one of the restorers of the best-known paintings of Florence, Stefano Garosi (In Appendix Article by link). This testimony reveals, in the opinion of Alvaro Spagnesi, art historian and critic Florence to Bari for many years, the archeomoderna setting that was following the pop artist and that accelerated the occasion of his last public work that was carried out on an exterior side wall of the convent of S Joseph in the center of Pisa. PAINTING CONTEMPORARY Clemente Francavilla: The Art of Adele Plotkin, first Professor of Psychology of Form Academy of Fine Arts in Bari. For the first time on line, this text which was extrapolated from the monograph of Adele Plotkin for "Archeomodernitas" by its author Clemente Francavilla sheds light on an important contemporary artist, a student of Josef Albers, "emigrated from Bottrop in Germany in the US in 1933, he invited to lead the Design Department, a position he held from 1950 to 1958. the educational program included the integration of different disciplines within design courses, on the Bauhaus model "of teaching which he applied in his Plotkin teaching of Psychology of the form "at the Academy of Fine Arts in Bari. Clemente Francavilla, its direct and today the same discipline a student teacher at the Academy of Bari, author of study and graphic textbooks for adoption throughout Italy, outlines the work artist starting right organization "teaching commissioned by Albers," developed by him "along with Klee, Kandinsky and Itten, in a didactic experience in the Bauhaus of the twenties and thirties in Germany, once the genetic study of form." RESTORATION SCULPTURE

Note 1)Cfr. http://www.time-to-lose.it/arte-treviso/mostre-treviso/mostra-giorgione-2010-a-castelfranco-veneto.html# 2) Paoli, prende in esame 65 interventi di critici italiani e stranieri a cui vanno aggiunti vari altri contributi venuti dopo il 2011; 3) cfr. S.SETTIS, La Tempesta interpretata, Einaudi,Torino,1978; sull’interpretazione della "radice" cfr. M.Paoli, op.cit., p.82, nota 228: 4) "La dea è spesso raffigurata con qualche attributo esotico, come il fiore di loto o la rosa, il sistro, il serpente, o la situla usata nel suo culto (http://www.treccani.it/enciclopedia/iside_(Enciclopedia-dell’-Arte-Antica)/.) " Cfr anche, ad es,http://www.riflessioni.it/paganesimo/iside-dea-cobra.htm; 5) S.SETTIS, op.cit., p.25;

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Mirella Branca: The Crucifix Sangallo Church San Biagio a Petriolo in Florence Studies and restoration. The booklet describes and comments on the restoration, funded by the Rotary Club Florence Michelangelo, was Given to the press in 2011 and here for the first time published online. It is a work of the highest level of Francesco and Antonio da Sangallo performed in the Twenties of the century XVI in cm linden wood. 91x86 worshiped in the ancient church of San Biagio in Petriolo, situated near the airport of Florence Peretola. The restoration of 2011, of which it does not have many tracks in networking, topical again after the much publicized, recent restoration (2014) of the wooden crucifix by Antonio (or Francis) Sangallo located in the Chapel of the Artists (or San Luca) at the Basilica of theSantissima Annunziata in Florence allowing studies and comparisons in the field of restoration. This intervention, in particular, has solved between each other and with extraordinary skill, the conflict between religious needs and problems of scientific restoration. Often, in

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fact, the sacred images have been corrupted by heavy repainting that, whilepreventing the usability aspects of the original, end up imprinted in the eyes of the faithful, causing a kind of failure to recognize the object of their devotion once it is restored. The rigorous work of Stephen Garosi, he has worked his daughter Laura and Roberta Gori justlike in an antique shop, (executed under the direction of Mirella Branca and Lia Brunori of the Superintendence for the Historical, Artistic and Ethno-anthropological and the Museums city (Florence and we thank them for the courtesy of this online publication) has allowed the recovery of almost all sangalleschi values but also prompted the installation ofa "new" but at the same time "old" thong on the sides of the beautiful polychrome linden sculpture. PAINTING CONTEMPORARY Alvaro Spagnesi: The "Archeomodena" language Renato Nosek: by intangible to complete form. This article, which reworks my text of 1998, it intends to clarify the concept of "archeomodernità" presenting the work of a Master born in Venice but Bari of adoption, which combines elements derived from the pictorial tradition of sixteenth and seventeenth century with its characters of his era, being able to express, perhaps thanks to this combination, concepts and feelings "new" because it sprung unrepeatable uniqueness of its DNA, through the use of an artistic language "archeomoderna", thus overcoming the contingent conventions and fashions of the moment, thanks to the ability to rigorously follow the dictates of his inner life. Nosek feels protagonist of his age and if it takes "old" elements is only because they are lexicons congenial to him, the materials with which he can create the mysterious and ineffable "poetic places" that are his works. The article is linked to the interview-dialogued made the artist in his studio Bari Alvaro Spagnesi, visible on site "exstudentiaccademiabellearti.org", face book and you tube through links. Museums MUSEUMS Giovanna Lazzi: The "Great Dome Museum". The renewed arrangement of the Opera museum of FlorencÈs Dome is described withconciseness and precision, passion and love for the extraordinary art finds that, in this article by Jeanne jokes, a historian of the thumbnail of the international level, already Director of Riccardiana famous Library of Florence as well as being a fine expert in the history of fashion and costume. If you really want to know the history of Santa Maria of Fiore Dome, you must visit this beautiful Florentine Museum, now made even more fascinating, located right in the adjacent areas to the cathedral itself, "here had its General Filippo Brunelleschi district andhere Michelangelo sculpted David, destined to a buttress of the Dome "These environments, property of ‘'Opera del Duomo" which still owns them after being deposits from the ‘600 to 800, in 1891 became the Museum for the works of the most the great masters of the Middle Ages and the Renaissance who had collaborated in the construction and decoration of the Cathedral: in the Museum, with Mary Magdalene by Donatello and Michelangelo’s Pieta, the panels of Anrea Pisano, Lorenzo Ghiberti and the "model of the Dome" of Brunelleschi, "flock of masterpieces and all the arts from architecture to sculpture, painting, weaving, embroidery, jewelery, interact with poetry, music, song and ritual choreography in the celebration of divine glory, but also in the cultural and social structure of the city. " (Link with the site: Opera museum of FlorencÈs Dome)

This article, for the first time posted online, focuses on work by Francesco de ‘Rossi, said Francesco (or Sniper) by the family of Cardinal Giovanni Salviati his patron, born in Florence in 1510 and died in Rome in 1563, He rediscovered by Alessandro Cecchi when he directed the Palatine Gallery in Florence. Cecchi, one of the most important scholars of the Renaissance and great connoisseur of the work and the workshop of Vasari, which we are proud to also have in the steering of staff "Archeomodernitas" recently became Director of Casa Buonarroti, Florentine painter returns to a job from him tracked in poor condition just at the Palatine and restored by Nicola MacGregor.The Salviati, a great sixteenth-century master who like his friend and staunch supporter Giorgio Vasari, has not enjoyed in the past the proper attention Critics, today, thanks also to Alessandro Cecchi studies is winning awards appropriate to the level of the importance of his work: according Cecchi this "innovator ‘maniera’al time of Vasari" was "inexplicably" ignored by critics committed to enhance thÈrivoluzionari’Pontormo and Rosso Fiorentino on one side and the old-style antiqued Perin del Vaga and Raphael’s pupils. In him "quotes the ancient join shooting from large Roman models of the first forty years of the sixteenth century". (Cf.in "Antiquities Viva", 1.1994, p.12). We must say a true "modern archaeo" that finally finds justice! ARCHITECTURE AND RESTORATION Rocco Jimmi Mazziotta: The restoration of the Costantini palace in Lecce. The restoration of a prestigious manor house in the old center of cities like Lecce, Costantini’s palace (XV-XVII century. With later additions). Carried out under the supervision of the Superintendence of Cultural Heritage in the nineties, has placed various problems both the purely technical structure and conservative order that the aestheticartistic nature and imposed decisions related to the residential function of the complex as well as the careful evaluation of the historical evolution undergone by various architectural parts: the article by Rocco Jimmi Mazziotta, architectural author intervention on the palace in 1997 (?), relates the not always easy and discounted technical solutions relating to the removal of incongruous parts of the whole or to the stabilization of stone material more or less deteriorated and especially shows (thanks to the photo shoot John Nicolai), taking into consideration the current state of "health" to almost..... years restoration that he performs, which happens very rarely in every part of Italy.

PAITING OF SIXTEENTH CENTURY Alessandro Cecchi: A rediscovered masterpiece the picture of Giovanni by Bande Nere of Francesco Salviati.

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