DILETTANTI PER FORZA ANZI PER LEGGE NO WOMAN NO PRO
Medaglie, record e vittorie non bastano. In Italia le atlete rimangono sempre in serie B di Federica Seneghini
Foto di B. Finke/Gallerystock
Q
uando inizi a fare sport, da piccola, non ti chiedi se un giorno sarai così brava da trasformare la tua passione in carriera e se avrai mai una pensione. Col tempo, però, capisci che essere donna e atleta implica tanti, forse troppi compromessi». Mara Invernizzi ha 32 anni ed è una giocatrice della Pilot Italia Biassono - basket, serie A2, dopo anni in A1 e anche in Nazionale - e di compromessi ne ha dovuti fare tanti: «Clausole antimaternità, stipendio di 10 mensilità, spesso camuffato da rimborso spese, assicurazioni da integrare personalmente e fondi pensione autonomi. Molte di noi si devono far aiutare dai genitori oppure hanno un secondo lavoro, che però sottrae tempo agli allenamenti. I nostri colleghi maschi, invece, a questi livelli sono considerati professionisti per legge e godono di tutte le tutele del caso». Perché pochi lo sanno, ma in Italia nessuna delle stelle più o meno famose dello sport femminile può dirsi davvero professionista. Pellegrini? Schiavone? Cagnotto? Semplici dilettanti. Soltanto la Federazione pugilistica prevede un settore professionistico femminile, attualmente composto da otto atlete. Per capirci: il dilettantismo «forzato» impedisce alle atlete di avvalersi della legge 91/81, quella che regola i rapporti con le società sotto ogni aspetto, dall’assistenza sanitaria al trattamento pen-
30 OTTOBRE 2010
sionistico e dunque «le esclude dalle tutele previdenziali previste dall’Enpals per i professionisti, non riconosce loro il diritto a un contratto tipo, né all’eventuale Tfr», come spiega Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, l’associazione italiana per la tutela delle sportive. Ma le donne sono anche assenti a livello dirigenziale: né il Coni, né le 45 Federazione sportive riconosciute hanno infatti mai avuto un presidente donna.
SETTEROSA E SETTEBELLO Le discriminazioni sono anche economiche: «Spesso i premi federali femminili valgono meno della metà di quelli maschili», dice Vera Carrara, 30 anni, campiones-
D 169
«Il mio oro ai Mondiali valeva 20mila euro. Quello maschile, 80mila»
UNA QUESTIONE DI SHARE? Un passo avanti è stato fatto nel 2007, quando il Coni ha varato l’articolo 29 dei principi fondamentali degli statuti delle Federazioni, sulla «tutela sportiva delle atlete in materni-
30 OTTOBRE 2010
Foto di Xinhua/Contrasto
sa di ciclismo su pista (specialità «corsa a punti») e vin- in modo «non uguale» agli uomini, il 21% denuncia epicitrice di sette medaglie. «L’oro dei Mondiali, per esem- sodi di discriminazione. E soltanto il 29% viene retribuita pio, valeva 20mila euro, contro gli 80mila della gara ma- per svolgere l’attività sportiva agonistica. Di queste, solo il schile». Ma anche in altre discipline il divario è imbaraz- 14% ha una retribuzione fissa. zante. «Nonostante i divieti della Federazione atletica leggera», spiega ancora Rizzitelli, «alcune gare podisti- NON RESTA CHE LA DIVISA che continuano a prevedere, a parità di regole e chilome- Basta parlare con le atlete per rendersene conto: «Quantri percorsi, premi maschili superiori rispetto a quelli fem- do giocavo in A2, un anno su dieci mensilità ne ho prese minili». Come la Maratona di Padova, che nel 2009 grati- solo quattro», racconta la pallavolista Marta Confalonieri, ficava il primo classificato con 6mila euro, e soltanto 25 anni, oggi in B1:«Tra allenamenti quotidiani e partite 2mila per la vincitrice. Si registrano disparità di tratta- nei weekend resta poco tempo per lavorare, ma molte tra mento, a livello nazionale, anche quando le prestazioni noi lo devono comunque fare». Anche Vera Carrara ne delle donne sono migliori di quelle dei loro colleghi. Co- sa qualcosa: «Fino ai 24 anni mi allenavo e facevo gare me nel 2001 ai Mondiali di Fukuoka, quando il Settero- non sapendo se a fine anno sarei stata pagata: ma non sa, Nazionale femminile di pallanuoto, conquistò l’oro avevo le spalle coperte, e quando ho avuto un incidente per la seconda volta di fila: il premio previsto dalla Feder- mi è toccato pagare di tasca mia le spese». Poi, la scelta nuoto (Fin) era di 26 milioni, contro i 40 che sarebbero di arruolarsi nelle Fiamme Gialle. «Mi ha garantito una andati agli uomini in caso di vittoria. Ma già l’anno prece- certa sicurezza, potevo dedicare tutto il mio tempo allo dente la Fin aveva abolito il «gettone» di qualificasport». Perché i gruppi sportivi delle Si chiama ASSIST Forze Armate, dei Corpi di Polizia e zione femminile (nonostante la Nazionale fosse ed è l’associazione campione del mondo e d’Europa in carica) per nata (nel 2000, dei Vigili del Fuoco, sono amminil’Olimpiade di Sydney, mantenendo invece quello con il sostegno di sei strazioni pubbliche autorizzate all’as“nazionali” tra cui sunzione diretta di atleti di interesse maschile. Manuela Benelli nazionale (legge 78/2000). Il risultato D’altronde, i pochi studi fatti sul tema parlano chiae Carolina Morace) ro: secondo un’indagine nazionale del 2007 (Lo per tutelare i diritti è che a oggi circa il 75% delle medasport femminile tra promozione e diritti, Publicadelle atlete italiane. glie italiane vengono vinte da atleti (tel 06.97601017). che fanno parte dei gruppi militari: ReS), il 45% delle sportive ritiene di essere trattata due anni fa, a Pechino, 34 su 43. Grazie all’arruolamento, le donne godono delle necessarie tutele, a cominciare dal diritto alla maternità: «Nelle serie minori si sottoscrivono ancora scritture private con clausole antimaternità, io stessa per 15 anni ho firmato contratti del genere», spiega Rizzitelli, ex pallavolista. «Ma nel percorso verso la parità ci sono anche esempi virtuosi, come la scherma, dove a fronte della mancanza giuridica di regole moderne sono stati fatti i giusti passi». Altre volte, invece, è meglio far finta di niente. Come nel caso di Josefa Idem - canoista da cinque medaglie olimpiche e altrettanti titoli mondiali che ha ammesso di aver nascosto la sua gravidanza durante i Mondiali. «Non ho osato sperimentare su me stessa l’assenza di regole: ho disputato il mio mondiale incinta, perché in Italia non ci sono leggi che tutelano quello che di fatto per molte di noi è un lavoro a tutti gli effetti».
1933: calci, sottane e fasci littori Il primo club femminile di calcio nasce in pieno fascismo, nel 1933, a Milano: le ragazze giocavano indossando delle sottane. Soli otto mesi dopo il Coni vieta le esibizioni pubbliche di calcio femminile ritenendo che sia opportuno che «in Italia non si faciliti, almeno per ora, la istituzione di una speciale Federazione sportiva femminile. Non si desidera fomentare una tendenza il cui sviluppo va anzi severamente arginato» (da Il Littoriale, 22/11/1933). Per le donne, gli sport permessi e «utili alla integrazione morale e fisica delle migliori qualità muliebri» sono «il fioretto per la scherma, il pattinaggio artistico, la ginnastica collettiva, alcune prove di nuoto e il tennis». Nemmeno a parlare, insomma, di «professionismo» oppure di «obbligatorietà». Ma settant’anni dopo, per le atlete in Italia non è cambiato molto.
tà». In pratica, chiede di garantire la posizione sportiva delle atlete per tutto il periodo della gravidanza e fino al rientro all’attività, mantenendo loro il posto in squadra e facendo congelare i meriti acquisti. «Ma bisogna fare di più e in un quadro più ampio», dice ancora Rizzitelli. «Atleti e atlete che praticano lo sport come attività prevalente debbono avere una legge che riconosca il loro lavoro». La pensa diversamente Manuela Di Centa, 47 anni, ex campionessa dello sci di fondo, oggi deputato del Pdl: «Sarebbe prioritario pensare alla tutela previdenziale a prescindere dall’inquadramento tra i professionisti o i dilettanti. Stiamo cercando di arrivare a un emendamento di legge che tuteli le donne sotto questo aspetto». Uno dei motivi che fa percepire lo sport femminile come minore è comunque la mancanza di visibilità. «Le notizie che riguardano le attività sportive delle donne rappresentano l’11% del totale», spiega Valeria Ottonelli, del Dipartimento di filosofia dell’Università di Genova, che ha coordinato la parte italiana dello studio Sports, Media and Stereotypes, promosso dal Centre for Gender Equality islandese. «Tolte le notizie sui pochi eroi femminili e gli stereotipi di genere, rimane davvero poco». Eppure, se il pubblico ne ha la possibilità lo sport femminile lo segue eccome. Un esempio? Le partite del World Grand Prix della Nazionale di pallavolo femminile, che in estate sono state trasmesse in chiaro su La7: in un pomeriggio torrido di metà agosto Italia-Brasile ha totalizzato 1,8 milioni di contatti, con picco del 6,22% di share. Spesso, invece, l’assenza di visibilità mediatica ha ripercussioni nel già scarso interesse degli sponsor, anche verso squadre vincenti ai massimi livelli. Per salvarsi si arriva a fare di tutto. Come le atlete olandesi che, nel 2003, posarono nude per finanziarsi la par-
tecipazione alle Olimpiadi; o come le Matildas, la Nazionale australiana di calcio, che con un calendario pagarono la propria spedizione al Mondiale. Lo stesso hanno fatto le atlete del Palermo Volley, serie A1, per salvare la propria società che rischiava di chiudere a causa del passivo finanziario.
TRA SPONSOR E PREGIUDIZI Perché senza sponsor non si va lontano e, «come accade sempre, anche nello sport in tempo di crisi le prime a pagare sono le donne», dice Marcella Valentini, assessore alle Pari opportunità della Provincia di Modena. Nel 2009 le squadre femminili del Basket Cavezzo e del Sassuolo Volley hanno dovuto rinunciare al campionato di A1 per mancanza di fondi. «Tra costi in aumento e scarsa visibilità era davvero impossibile continuare», denuncia Enrico Corsini, presidente del Cavezzo. «La Rai pretendeva perfino di essere pagata dalle società per venire a filmare le partite, che poi però trasmetteva a tarda notte sul canale satellitare. Il servizio pubblico non ci aiuta». Molti pensano che questi sport non abbiano «sufficiente traino di pubblico». Vero o falso? «In realtà queste sono squadre legate al territorio, cresciute grazie a un vivaio seguito con cura che ha una funzione sociale di aggregazione ed educazione importante», aggiunge Valentini. «La partecipazione al campionato di A1 avrebbe potuto diventare un investimento per le realtà locali, anche in termini promozionali e di ritorno di immagine». Insomma, se lo sport è donna, tutto cambia. «E stride con la platealità di queste differenze, la consuetudine di leggere le difficoltà delle sportive in chiave individuale, familiare, più connessa a dinamiche psicologiche che all’azione di meccanismi sociali», si legge in una ricerca del CIRSDe dell’Università di Torino, il Centro interdisciplinare di ricerche e studi delle donne. Perché poi il luogo comune, anzi il pregiudizio secondo il quale le donne nello sport restano lontane dalle posizioni di vertice, dall’agonismo ai massimi livelli e dalle responsabilità, «per proprie inclinazioni naturali, che le orientano verso ruoli in cui riescono meglio» in campo, in pista oppure in piscina, non ha davvero riscontro. Anche se le pari opportunità rimangono lontane.
«Stipendi ridotti e camuffati da rimborsi, clausole antimaternità e niente Enpals»
«Almeno tu fossi diventato ricco e famoso». «Invece... Povero e ignoto». «Scemo...». «Nemmeno... Normale, che è peggio». (“La prima cosa bella”, 2010)
D 172