Questo libro è stato pubblicato in occasione delle mostre | This book was issued on the occasion of the exhibitions Bardini Boboli Project, Parco Bardini, Firenze, 18.5/7.10.2007, a cura di | curated by Alberto Salvadori; Baedeker, Parco Bardini, Firenze, Tusciaelecta 2007, a cura di | curated by Arabella Natalini, 18.5/7.10.2007 Desidero ringraziare | I would like to thank > Baedeker: Alberto Asor Rosa Paola Barucci Vanna Bianciardi Theresa Davis Stefano Di Blasi Maia Ferretta Laura Montanari Paola Giovanna Morelli d’Aubert Michael Ottolenghi Francesca Recchia Lorenzo Regoli Maria Cristina Scotoni Marco Veneri > Bardini Boboli Project: Paolo Agnelli Sophie Agathe Ambroise Fausto Barbagli Nicolas Gilsoul Ludovica Molo Sara Pizzati Mariachiara Pozzana Nicola Schoenenberger Gianluca Serra Cecilia Veracini Un ringraziamento particolare a Arabella Natalini e Alberto Salvadori: sono stato felice di lavorare con loro, una circostanza fortunata ha permesso di unire progetti, opportunità, competenze. A Cristina Acidini, Alessandro Cecchi, Carlo Sisi per avere creduto nel progetto e reso disponibili spazi verdi tanto attraenti quanto prestigiosi. A Ahmee Kim e Edoardo Perri: risorse preziose per le mie perplessità installative. A Raffaele Cimino: è il solo grafico che tolleri le mie chiamate notturne. A Gloria: il suo sostegno, come sempre, si è rivelato insostituibile | Particular thanks to Arabella Natalini and Alberto Salvadori: I was happy to work with them. Fortunate circumstances allowed us to join projects, opportunities and skills. To Cristina Acidini, Alessandro Cecchi and Carlo Sisi for believing in the project and making available attractive and prestigious green spaces. To Ahmee Kim and Edoardo Perri: irreplaceable resources for my technical perplexities. To Raffaele Cimino, the only graphic designer who tolerates my nighttime calls. To Gloria: her support, as always, proved vital © 2007 Michele Dantini | Tusciaelecta Traduzioni | translations: Theresa Davis Stampa e confezione | press and bounded: Tipolitografia FG, Savignano sul Panaro, Modena
baedeker # 8, 2007
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Baedeker è una raccolta di progetti site-specific e l’esemplificazione di un’attitudine di lavoro: la diversità dei progetti corrisponde variamente alle molteplici narrazioni che attraversano un territorio, in forme di volta in volta palesi, latenti, ironiche, spettrali; e al differente coinvolgimento che ognuna di esse sollecita. Il testo che dà nome al volume è un diario di viaggio, un travelogue: intreccia ricerche di documenti, frequentazione di archivi, dialoghi e frammenti di inchiesta, biografie, peregrinazioni. Adotta il nome della più diffusa guida turistica ottocentesca, il breviario laico delle vacanze inglesi, svizzere o tedesche in Italia, ma si propone ambiziosamente di aggirare (l’ufficialità di) mirabilia e monumenti. Collocato tra progetti visivi, sperimenta interferenze tra immagini e parole, attitudini comuni, reciproche o distinte, collaborazioni possibili, congenialità, silenzi. Luoghi indefiniti è anch’esso a suo modo un baedeker: una guida agli spazi negletti e trascurati dei contesti urbani e insieme una proposta di conservazione. Modellati da vento, sole, acqua, dalle piante e dalla microfauna che vi abita, i lembi di territorio preservati dai processi di urbanizzazione sono laboratori evolutivi preziosi dal punto di vista della biodiversità. Vintage è infine un progetto dedicato all’identità storica e culturale dei luoghi che ho visitato: la manipolazione di cartoline d’epoca, la cui ricerca per negozietti antiquari, case di commercianti e collezionisti di memorie è stata di per sé un mirabile piacere, mi ha permesso di riflettere su doppi elusi o dimenticati, narrazioni non autorizzate, clichées, più in generale i modi, le enfasi, le reticenze attraverso cui una determinata immagine geografica e sociale, una leggenda, si costituisce nel tempo. I progetti si inseriscono in una cornice teorica di ecologia politica e si soffermano sui rapporti tra contesti urbani e mondo naturale; città, campagna e microselva. L’osservazione dei comportamenti prodigiosamente versatili e per lo più ancora sconosciuti delle
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piante spontanee, viaggiatrici, vagabondes, condotta in collaborazione con botanici, urbanisti, architetti dei giardini e del paesaggio, è stata per me sotto questo profilo un’opportunità preziosa. Le trasformazioni ecologiche hanno profonde ripercussioni sul modo in cui viviamo, sono strettamente intrecciate alle mutazioni urbanistiche, demografiche, sociali e si rivelano altrettanto rapide. Alla diffusione globale dei processi di urbanizzazione non corrisponde la scomparsa della natura non antropizzata, al contrario: piuttosto un’ibridazione costante e la moltiplicazione delle aree di contatto, dentro la città planetaria e attraverso di essa. Nel nostro presente ecologico ogni bioma è prossimo, e interferisce in ogni momento con tutti gli altri.
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Baedeker is a collection of site-specific projects and at the same time the exemplification of an attitude towards work: the diversity of the projects corresponds, variously, to the manifold narrations that traverse a territory - in forms that may be evident, latent, ironic or spectral - and to the different level of involvement that each of them arouses. The text for which the volume is named is a travel diary, or better, a travelogue: it interweaves document searches, visits to archives, dialogues and fragments of inquiries, segments of biographies, peregrinations. It adopts the name of the most popular nineteenthcentury tourist guidebook, the secular breviary of English, Swiss or German vacationers in Italy, but ambitiously proposes to avoid (the officialness of) mirabilia and monuments. Placed between visual projects, it tests interferences between images and words, common or distinct attitudes, collaborations, silences. Undefined places is also a sort of baedeker: a guide to neglected, disregarded spaces of urban contexts, and at the same time a conservation proposal. Molded by wind, sun, water, and the plants and micro-fauna that inhabit them, these patches of territory protected by processes of urbanization are precious evolutionary laboratories from a biodiversity point of view. Vintage, finally, is a project dedicated to the historical and cultural identity of the places I visited: handling antique postcards, the search for which in little antiques shops and the homes of merchants and collectors of memories was in itself a wonderful pleasure, allowed me to reflect on evaded or forgotten doubles, unauthorized narrations, clichÊes, and more generally the modes, the emphases and the silences through which a given geographic and social image – a legend – was established over time. The projects fit into a theoretical framework of political ecology and deal with the relationships between urban contexts and the natural world, between city, countryside and micro-wilderness. The
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observation of the prodigiously versatile and largely unidentified behaviors of spontaneous plants, voyagers, vagabondes, conducted in collaboration with botanists, urbanists and garden and landscape architects, was a precious opportunity for me in this respect. Ecological transformations have profound repercussions on the world we live in; they are closely interwoven with urban, demographic and social changes, and prove to be equally rapid. The global spread of urbanization processes does not correspond to the disappearance of non-anthropized nature; on the contrary, it corresponds to a constant hybridization and the multiplication of “contact zones�, within and through the planetary city. In our ecological present, every biome is close to and interferes everywhere in every moment with all the others.
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Mi chiedo quali narrazioni adottare, quali termini né statici né semplicemente localistici: l’”unicità” del Chianti, l’”unicità” della Toscana. Forse è interessante provare a sospendere per un attimo il ricorso all’argomento, per una nuova esperienza di sguardo, un’attitudine interpretativa. Mi aiutano due paesaggi con parole; due incontri. Il primo. Edicola di Castellina in Chianti, espositore di giornali. Credo che una simile offerta di quotidiani e riviste sia la più cosmopolita e versatile in Italia dopo quella della stazione Termini. Herald Tribune, Corriere dell’Ucraina, Kräuter, Shqiptari i italisë, Argumenti i facti, Wine Spectator, Bild. Le testatine di giornali e riviste in vendita rimandano alle diverse nazionalità dei migranti, ai loro diversi usi del territorio: turisti nordeuropei colti, in cerca di degustazioni e tranquillità, lavoratori stagionali rumeni, bulgari, albanesi, badanti rumene, ucraine e bielorusse. E poi nordafricani, arrivati di recente per cercare ingaggi nel lavoro nei campi. “La disponibilità ad accogliere culture rientra nelle tradizioni locali di tolleranza”, mi dice Vanna Bianciardi, assessore alla cultura del comune di Castellina dopo tre decenni trascorsi a Bruxelles. “I migranti lavorano la terra, ristrutturano case altrimenti abbandonate: sono apprezzati dalle comunità locali. Ma il territorio non offre a chi è giovane le opportunità che merita: è possibile impiegarsi solo nella viticoltura, e ad alcuni va stretta”. Il secondo paesaggio. Gaiole. Centro cittadino. Passo il breve ponte sul torrente Massellone. Davanti a me una casa a due piani, un semplice edificio per piccola borghesia urbana di inizio ventesimo secolo, tre finestre ai due piani superiori, un balcone centrale al primo piano, cornici in pietra: ne esistono molte a Firenze o Siena, ed è alle due città che evidentemente si è guardato per stabilire modelli di “distinzione”. Sopra al balcone una scritta, o meglio: quel che resta della scritta, una sua traccia spettrale. L’intonaco è caduto dove prima si trovavano le lettere, eccettuata qualche parte; qui il colore è più saturo di quello della facciata. Le lettere, probabilmente a rilievo e in legno, come quelle dei vicini bagni pubblici, hanno protetto il pigmento da pioggia e sole. Una parte della scrit-
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ta è illeggibile, sembra scalpellata. I caratteri sono anni Trenta. Ricostruisco meccanicamente, senza particolare coinvolgimento, poi rimango sorpreso. Trattoria Tripoli. La cosa mi colpisce. A Sarteano, al confine meridionale delle province di Siena e Arezzo, esiste ancora una trattoria “Tripolitania”: aperta nel 1911, all’indomani della conquista di Tripoli. La prospettiva dell’Impero aveva destato speranza e entusiasmi in mezzadri e miseri braccianti: sembrava dischiudere opportunità di lavoro indipendente, proprietà, benessere. La trattoria di Gaiole, chiusa da decenni, l’insegna divelta e cancellata, formulava le stesse promesse agli avventori, ai lavoratori della terra, a una generazione di distanza dalla prima occupazione della Libia, e costituiva come una replica fascista, in chiave Africa Orientale Italiana, del peana contadino di Sarteano. Chianti mezzadrile, migrante, diasporico: aperture, percorsi, connessioni. Immagino di ripristinare la scritta, oggi che la trattoria non esiste più. Tracce demotiche dell’impero: la “Grande proletaria si è mossa”, “Graziani l’eroico”, etc. El Alamein, luglio-agosto 1942. Il Deutsche Africa Korps, comandato da Erwin Rommel, è costretto a una dura guerra di posizione dopo la brillante offensiva dei mesi precedenti, che ha portato un esercito largamente inferiore per uomini e mezzi a conseguire esaltanti vittorie contro le truppe inglesi, sudafricane, australiane, neozelandesi. Tobruk, Bardia, Sollum, Marsa Matruh. Alessandria e Il Cairo sembrano vicine, come pure i giacimenti petroliferi di Siria e Irak: l’Inghilterra è prossima alla sconfitta, il primo ministro Winston Churchill vola a Washington per chiedere aiuto agli Stati Uniti, ufficiali e diplomatici britannici lasciano la capitale egiziana in previsione dell’ennesima travolgente avanzata del DAK. Tra le truppe del Commonwealth si diffondono leggende sull’invincibilità della “volpe del deserto”: Rommel, che è sempre presente in
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battaglia, e si muove costantemente tra le prime file, sembra invulnerabile a bombe e proiettili, è abile e insieme fortunato. È il solo generale tedesco a non ammettere il controllo politico sulle proprie truppe, e a segnare una decisa distanza, nel trattamento dei prigionieri e nel rispetto dei civili, dalla Wehrmacht nazistizzata che opera in Europa e sul fronte orientale. Con Rommel combattono soldati e ufficiali italiani: avversi alla guerra, danno prova di coraggio e valore ma sono privi di mezzi e armamenti adeguati. L’attacco decisivo è previsto per la notte del 30 agosto: il tempo gioca a favore degli inglesi, che ricevono aiuti ingenti dagli Stati Uniti e hanno la possibilità di rinnovare le truppe. Tedeschi e italiani sono duramente provati da diciotto mesi di combattimenti, per di più non ricevono rifornimenti. Possono solo conquistare Il Cairo o andare incontro a una rovinosa disfatta. Hanno davanti a sé l’enorme distesa di campi minati che gli inglesi hanno fatto predisporre dai genieri italiani catturati. Una pista che l’armata italotedesca dovrà percorrere attraverso le mine è stata chiamata Pista Chianti dai cartografi di Rommel: non è solo un modo di esortare all’amicizia italo-tedesca, o di ricordare a uomini stanchi e terrorizzati dal pericolo delle mine (“in nessun altro settore operativo della seconda guerra mondiale”, scrivono gli storici, “vi fu un impiego di mine ingente come a El Alamein”) la piacevolezza di un vino celebre e popolare. Il nome evoca memorie di società patriarcale: abnegazione e spietatezza contadina temperate dalla familiarità con i luoghi in cui si abita. È peraltro necessario mobilitare dimensioni “etnografiche”: la battaglia promette di essere cruenta, e dall’altra parte combattono popolazioni di formidabile coraggio e ferocia. “Si verificarono scene di inconcepibile crudezza: i Maori di Freyberg, generale neozelandese, comparvero sulla linea del fuoco sospesi alle sponde degli autocarri armati di coltelli da giungla e lanciando urla di guerra”. Soffici, Carrà, Magnelli: quadri che contribuiscono a creare l’immagine della Toscana rurale nella prima metà del secondo decennio del Novecento. Chianti e bicchiere (1913) di Alberto Magnelli è esposto da Luciano Pistoi a Volpaia nel 1983. Frugalità, semplicità,
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schiettezza, misura: una sorta di classicismo “antropologico” della regione, del territorio. Un’altra narrazione: né bellica né elegantemente transnazionale, come il Chianti oggi. “Gli anni di guerra e l’immediato dopoguerra furono estremamente difficili”, mi racconta ancora Vanna, al tempo bambina, discendente da un’antica famiglia di proprietari terrieri di Castellina. “Quando il fronte passò, vi furono morte, indigenza, dolore. Le truppe marocchine non si astennero dallo stuprare le donne. Una bambina di dieci anni, mia cara amica d’infanzia, morì a seguito della violenza. Terminata la guerra tutto era cambiato. Erano cresciute le necessità, e occorreva denaro per soddisfarle. I piccoli mondi chiusi e paghi del poco non esistevano più. le campagne si svuotavano, i contadini desideravano diventare operai, emigrare a Firenze, Siena, nel Nord. Poi, a partire dai primi anni Sessanta, inizia una storia completamente nuova: quella dei turisti colti, per primi gli inglesi, che scoprono il Chianti, comprano case, trascorrono vacanze, addirittura si dedicano alla terra”. Tenuta Il Ricavo, vicino a Castellina. È qui, per iniziativa di Mara Scotoni, svizzera tedesca di origini italiane, pittrice alla maniera di Kokoschka e moglie di un produttore cinematografico, che nasce nel 1955 il turismo chiantigiano quale lo conosciamo oggi nella versione più esigente, sofisticato, rivolto a un mercato abbiente e desideroso di tranquillità campestre. Il Ricavo: un borgo di case contadine attorno alla villa padronale, la piccola chiesa dove si raccoglievano i mezzadri con le loro famiglie; oggi le case ospitano i clienti dell’albergo. Sul fronte della chiesa, in basso a sinistra, una traccia di aspettative, ideologie, connessioni coloniali tra Stato italiano e Chiesa cattolica: “Missioni 1935”, targa posta forse in ricordo di un obolo versato, uno spunto di edificazione. Chi lavora la terra oggi, in gran parte migranti, non proviene necessariamente da contesti rurali né possiede un’antica cultura contadina, al contrario: è un uomo di città attratto dalle possibilità di maggiore guadagno, in possesso di versatilità culturale e immagi-
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nazione sociale. Il suo non è uno spostamento solo geografico o linguistico, ma professionale: nel paese d’origine è magari un ragioniere, un piccolo commerciante, un giovane odontotecnico privo della possibilità di aprire uno studio. “La vita in campagna non conosceva asprezze e non c’erano tensioni sociali o comportamenti vessatori”. Vanna attenua la voce, conclude. “Avevamo anziane contadine, a sera, che chiedevano il fuoco, e poi ringraziavano solennemente. Ricordo quanto diceva loro mia nonna Verdiana, nel congedarle: «per fuoco e acqua non si ringrazia mai». Potrei riferire di un solo episodio di classismo feroce, di crudeltà: a una ragazza contadina il padrone proibiva di indossare scarpe da cittadina. Solo alle figlie del padrone era concesso vestirsi in modo elegante: a lei, che se ne vergognava, spettavano gli scarponi con i chiodi”. Ancora immagini: dettagli d’affresco dalla chiesa di San Cristoforo, Strada; e dalla pieve di San Leolino, Panzano. Scuola di Paolo Schiavo, forse Paolo Uccello nel primo caso; prima metà del quindicesimo secolo. È raro: un meraviglioso giardino con palme, profusione di fiori e nembi dorati si staglia nella nicchia della chiesa. Il sole e la luna si alternano nel cielo del dipinto. Non sembra essere il frammento superstite di una composizione perduta: riempie la nicchia per cui è stato dipinto sin dall’inizio. Forse è rimaneggiato, perché cambiano “mano” e colori e un successivo strato di intonaco copre la parte inferiore: non sappiamo. Forse una croce si inseriva a incastro. Rimane un piccolo vano vuoto. Certo è che non esistono paesaggi a questa data, eccetto alcuni affreschi di stile “cortese”: troviamo paesaggi sullo sfondo di crocifissioni, deposizioni, sacre conversazioni, annunciazioni. Emoziona trovare la rappresentazione di un eden mediterraneo autonoma dai consueti temi sacri. Implica una qualche sorta di autoconsapevolezza in merito al paesaggio circostante? Una celebrazione, un omaggio? Un senso messianico del luogo e delle sue manifestazioni? Oppure, in termini contemporanei: è un site-specific? Si può solo fantasticare. Certo il Chianti di primo Quattrocento non sembra essere stato
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un giardino di intatta e spensierata floridezza, a leggere i resoconti delle visite pastorali: le chiese sono ridotte a “spelonca latronum”, ai lati dell’altare non è infrequente trovare biada e greppia, i soffitti crollano e l’erba incolta cresce sul pavimento. I prelati praticano concubinaggio e gozzovigliano a sera nelle taverne, l’analfabetismo è la norma, il brigantaggio è relativamente diffuso e gli stessi parroci esasperano le alte autorità ecclesiastiche in ispezione perché del tutto privi di cultura apostolica e conoscenza del cerimoniale liturgico. Ma questi potrebbero essere dettagli dal punto di vista di chi desidera mostrare la campagna circostante e l’ordine sociale ad essa connesso come una terra promessa. Riconoscibili, come dipinti per un erbario: anemoni, erba viperina, borragine, papavero, ranuncolo. Anche composite generiche: quattro petali lobati, un calice. L’ideogramma occidentale per “fiore”. A proposito di Eden: osservato a partire dalle insegne, la segnaletica pubblica e privata, la pubblicità su strada, il territorio è attraversato da una rivendicazione paradisiaca ininterrotta quanto sottilmente ossessiva, non semplicemente pubblicitaria. L’Eden appare frammentato, polverizzato, disseminato. “Biocalce”, “ogm free”, “Centro commerciale naturale”, cantina (o vivaio) “Verdechianti”. Tra Panzano e Radda c’è una fattoria con una vistosissima recinzione in ferro e una duplice citazione dall’Età dell’oro di Poussin: due uomini portano a spalla un grappolo d’uva di dimensioni colossali. Non sono nostri contemporanei, ma i felici patriarchi che abitavano fanciullescamente la Terra nell’Età dell’Oro (una nota da FAI: ma perché dipingere i patriarchi in blu-Klein?). Non interessa la perfezione per sé sola della singola forma né il complesso rigore dell’architettura, ma l’eccesso: il modo in cui, all’improvviso, nel giro di un mattino di luce chiara e costante, la terra appare coperta da un manto. Descritto in termini soavi, amabili, convenienti, il mondo verde conosce parossismi ai due estremi dell’arco vitale del fiore. Quando il ciclo sessuale si è compiuto, l’evoluzione sembra avere disposto una cruda, sbrigativa decadenza.
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“I lembi incolti, le aree dimesse, gli interstizi infrastrutturali: sono incredibilmente importanti dal punto di vista della biodiversità”. Nicola Schoenenberger espone le sue tesi con una competenza decisamente attraente: ricercatore al laboratorio di Botanica evolutiva dell’università di Neuchatel, si è specializzato in erbe spontanee, avventizie, vagabondes. “In Inghilterra sono state studiate alcune piante viaggiatrici provenienti dagli Stati Uniti: sono trasportate dalle persone in transito. Nel giro di due|quattro generazioni sono state capaci di produrre ibridi intersterili con specie locali prossime: questo significa che hanno avviato processi di speciazione. Da due a quattro anni per adattarsi al contesto e creare una nuova specie: sono tempi rapidissimi, che nessuna prateria alpina, nessun ecosistema stabile conosce. L’ibridazione sembra essere all’origine dei processi di speciazione: in passato lo si era ignorato. Ecco che contesti promiscui, negletti, incolti acquistano tutto il loro significato evolutivo”. Bettino Ricasoli provvide a far migliorare le strade per poter cavalcare il suo destriero arabo sino in città: dal castello di Brolio a Firenze in quattro ore. “È chiaro che da circa dieci anni l’edilizia attrae capitali disinvestiti nella chimica o in attività industriali meno redditizie; o resisi disponibili grazie alla legge per il rientro dei capitali. La Toscana è al centro di questo boom: la possibilità di rilasciare concessioni e licenze alletta uffici comunali e municipi con problemi di cassa”. Alberto Asor Rosa è allarmato dall’eccesso di cantieri, seconde case, “terratetto”, “villette”. Come coniugare tutela e sviluppo? Sotto questo profilo il Chianti non è diverso da una qualsiasi altra area protetta del pianeta: ma esiste una cultura della conservazione? Occorre un contesto istituzionale limpido, efficace. Invece. “Non è escluso che parte dei capitali possano avere origini dubbie. L’edilizia presuppone capitali relativamente piccoli, facili da muovere, reimpiegare”. Con la meccanizzazione della viticoltura, il paesaggio chiantigiano si è molto trasformato: niente più muretti a secco o terrazzamenti
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in pietra, i trattori, le macchine per il taglio delle viti e la raccolta dell’uva si muovono lungo i filari, il terreno non deve presentare dislivelli, interruzioni. Si abbattono alberi, vegetazione marginale. Date salienti: primi anni Settanta, metà anni Novanta. Date che coincidono con l’arrivo di comunità di migranti. Senegalesi prima, organizzati socialmente attorno a una figura carismatica, rappresentativa. Bulgari, rumeni, albanesi poi. Si tratta di mutamenti recenti, processi di industrializzazione dislocati (connessi alla terra anziché ai distretti industriali, alle periferie della città). Considerato sotto un profilo morfologico e di paesaggio, l’appezzamento del mezzadro era estremamente vario: provvedeva alla sussistenza del mezzadro stesso e della sua famiglia. Il paesaggio chiantigiano, così ammirato proprio per la varietà delle colture, la vite alternata all’ulivo e agli alberi da frutto, i seminativi disegnati geometricamente dai filari, nasce dall’adattamento a una necessità: il piccolo pezzo di terra deve produrre grano per il pane, legumi e cereali, vino, olio, frutta, ortaggi. Questo adattamento pone difficoltà alle tecniche di coltivazione intensiva: le viti piantate nei seminativi e “maritate” all’acero dividono i nutrienti del terreno con alberi e colture vicine e non possono essere lavorate a macchina. Stefano Di Blasi, enologo, responsabile ricerca e sviluppo per Antinori: “la trasformazione più profonda avviene oggi: ancora negli anni Settanta l’impiego delle macchine era limitato, non c’era scarsità di manodopera. L’agricoltura razionale modifica il paesaggio, al tempo stesso previene l’abbandono della terra. Certo un vigneto razionale è spoglio, soprattutto in inverno, quando le viti hanno perduto le foglie. Se confrontato con le Langhe, ad esempio, o altre aree caratterizzate da vigneti a perdita d’occhio, il Chianti appare tuttavia un territorio ben conservato, con boschi estesi. Esistono implicazioni maggiori a livello del suolo: diserbanti e concimi industriali distruggono popolazioni di batteri e funghi simbionti di cui sappiamo così poco. Se un ettaro di terreno conteneva circa due tonnellate di lombrichi prima della trasformazione industriale, oggi ne contiene cento volte di meno. Il suolo si riduce a un substrato
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inerte. Esistono però segnali incoraggianti: torniamo a interessarci a concimi organici e ai processi naturali”. Una querelle storico-religiosa sorge attorno al nome e alla personalità storica del santo vescovo Leolino, latino Leoninus. Non sappiamo con certezza chi fosse Leolino, né quando sia vissuto, né quali furono le gesta che portarono alla sua canonizzazione. Forse fu vescovo della diocesi di Fiesole nel terzo secolo, martirizzato al tempo di Massimiamo (“Maximianus canis”, inveisce un antifonario ritrovato nel 1712, la sola fonte storica che cita Leolino e ne descrive in modo succinto la morte) per ordine dello stesso imperatore. Sul punto di morte, trafitto dalla spada, Leolino si mostrò comunque “ilaris”: impavido eroe cristiano. All’interno della chiesa che porta il suo nome, sulla destra, un affresco di Raffaellino del Garbo: Cristo riceve il battesimo nelle acque del Giordano. La scena ha i personaggi previsti dalla tradizione: Cristo, Giovanni, due angeli in preghiera. Alcuni gitanti sullo sfondo, svagati, pastorali: orientano la narrazione al registro lieve e quotidiano congeniale all’artista. Una fola intima e delicata esposta in un modo affabile, in lingua materna, serenamente dialettale: non un mistero della fede. Una coppia di contadini scende un dirupo verdeggiante sulla destra, e colloca l’episodio evangelico in un contesto rurale: l’antico racconto affrescato nella pieve campestre si fa più vicino al pubblico cinquecentesco. Un cagnetto randagio girovaga, la coda alzata – ogni mattino, per lui, è terso e ispirato come l’inizio del mondo. Una zappa riposa nell’incavo del tronco di ulivo: un invito alla pausa domenicale, all’elevazione, rivolto a proprietari, fattori e contadini dei dintorni? Ancora una volta: una “fioritura” localistica per la comunità di riferimento, una digressione relazionale, situata? San Leolino vescovo e martire: ineffabile librino. Autore: Umberto Ricci. Data di pubblicazione: 2000. “Ogni anno, nelle cinque chiese di San Leolino, nel novembre, quando il melanconico autunno è già inoltrato, si fa la festa del santo, cui partecipano sacerdoti e grande concorso di popolo. I coloni amano affidare alla sua valida tutela l’aureo chicco che da poco hanno consegnato alla terra, e da cui
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aspettano con ansia il vigoroso stelo e la bionda spiga per il pane quotidiano” [sic]. Osservo una fotografia che ho scattato questa mattina. Una popolazione di tussilago farfara colonizza il ciglio della strada. L’asfalto è franato, le piante crescono tra le crepe e le aguzze pietre smosse del selciato; negli smottamenti. È poco dopo che incontro i lama. “Erano venuti in Chianti per imparare a fare i contadini: giovani ebrei che si preparavano a emigrare in Palestina, fondare un kibbutz e prendere parte alla costruzione della Grande Israele. Sionisti religiosi: alcuni per convinzione, altri per opportunità, perché desideravano lasciare l’Europa. Provenivano in gran parte da Germania, Polonia, Cecoslovacchia, Estonia; dopo l’Anschluß anche dall’Austria occupata”. Paola Giovanna Morelli d’Aubert mi mette fervidamente al corrente delle sue ricerche, condotte prima per motivi quasi autobiografici – è nata al Masseto, un piccolo borgo vicino a Piazza di Sopra, a distanza di una collina dalla Tenuta Il Ricavo, vicino a Castellina, dove i giovani sionisti religiosi lavorarono fianco a fianco con i mezzadri del podere tra 1934 e 1938, prima che le leggi razziali ponessero fine alla comunità – poi per passione storica e civile, da sola o con Vittorio Haiim Luzzatti, negli archivi di Siena, Roma, Firenze, Milano, Roma, Gerusalemme, infine dei kibbutz Yavne e Beerot Yzhak. I terrazzamenti costruiti dai partecipanti alla haksharà del Ricavo sono ancora visibili, anche se in rovina; e la collina da loro dissodata è chiamata localmente il “poggio degli ebrei”. Erano laureati o diplomati, cittadini: ma nella haksharà desideravano “preparare gli animi alla primitiva esistenza rurale, seguire la legge di Dio e lavorare. Noi che siamo figli di un ambiente borghese”, proclamava Benno Offenburg, primo responsabile della haksharà, sul settimanale italo-ebraico Israel nella primavera del 1935, “vogliamo essere, come già furono gli antichi padri, contadini sulla nostra terra”. Partita da un semplice rimando storiografico, Paola Giovanna ha ricostruito la vicenda: trovato gli anziani che
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ancora ricordavano, messo assieme documenti, ritrovato nomi e biografie. Vivono ancora, in Israele, alcuni membri superstiti della haksharà. “Non c’era molto da mangiare, spesso avevamo fame”, le ha raccontato Hilde Miron a Haifa. “Allora ballavamo. Questo era il modo in cui vivevamo noi pionieri”. Sono toccanti le fotografie che i chaluzim, la vanga in spalla, scattavano per documentare la propria attività o semplice ricordo. Prestanti, magri, sorridenti, la pelle abbronzata dal sole: volitivi e sensuali, senza traccia di tristezza o perplessità, come altri giovani di comunità ideologiche e vocazionali del periodo entre-deux-guerres, tra Mosca, Parigi, Dessau, quando era molto chiaro che cosa fosse bene e che cosa male. In tre falciano il grano, sullo sfondo una collina ben lavorata a grano e viti. Cappelli di paglia, occhialetti tondi. Una ragazza accudisce gli animali da cortile, polli, oche, tacchini. Altre lavano i panni, mentre i ragazzi portano i buoi a pascolare. Compiti quotidiani diversi a seconda dei sessi. A sera studio della Torah, dell’ebraico e di un po’ di italiano per comunicare. Esistono i ritratti dei mezzadri presso cui i chaluzim abitavano, e con cui lavoravano nei campi – i mezzadri Peruzzi, ad esempio, scavati in volto, anziani, il cappello premuto sulla testa, i pantaloni sbrigativamente legati in vita e le bretelle lui, i capelli avvolti nella pezza di tela lei, pure sorridenti nella fotografia con i loro giovani apprendisti. L’impenetrabile pieve di Lucolena: una ceramica dipinta con santo martire sull’architrave. Vado; è chiusa. Suono; nessuno risponde. Più volte. Un orticello prospera attorno alla bocciofila. “È di proprietà del parroco”, si sussurra. Un frigorifero spento cinto da catena e chiuso da un lucchetto tanto grande da risultare insigne: immagino sia lì per le più affollate sere d’estate, quando finalmente si gioca. Piccole mele cadono da un melo. Un cane. L’inesorabile sega elettrica nel bosco: accompagnamento d’obbligo per paesaggio rurale o boschivo. Radda, bar. La porta del bagno è stata oggetto di un noto intervento di un giovane artista, nel 1988. L’occasione era data dalla settima edizione della mostra di arte contemporanea di Volpaia. Cesare
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Pietroiusti aveva fotografato l’interno della porta a grandezza naturale, poi applicato la fotografia all’esterno. Un modo per rendere pubblica l’oscura attività figurativa e letteraria che si era svolta per anni all’interno del bagno: la porta, sul lato interno, era coperta di graffiti - lazzi, frammenti di sapienza, contumelie, scarabocchi. Per promuovere, nel modo più crudo, un nuovo inizio: niente più transavanguardie prime e seconde, niente più “stile”. Osservazione, indagine sociale, “prelievi di realtà”: l’artista come etnografo, psichiatra, al limite terapeuta (sociale). Alle origini dell’intervento anche perplessità sulle retoriche localistiche, del tipo: arte all’arte, “innato senso del bello”, continuità (resta sempre inteso: in Toscana) tra arte e tradizione. Niente più castello di Volpaia quindi; un bar di paese invece, e per di più abbastanza scosso e malandato. Castellina. Antica Macelleria Stiaccini. Macelleria-boutique, molto curata. Aperta sulla via che attraversa il paese ed è fiancheggiata dai palazzi più antichi, via Ferruccio. Alle pareti e su scaffali una ricca collezione di stampe, dipinti, fotografie, ceramiche e pupazzi di tema ovino, bovino, suino. Spicca una grande serigrafia a colori, senza cornice: una costata di manzo è riprodotta nove volte, ogni volta con colore diverso. Una Marylin di Warhol tra litografie antiche di mucche dello Yorkshire cartografate secondo le opportunità di taglio e macellazione. “Ho portato la fotografia a un mio amico grafico e l’ho fatta trasformare”. Semplice. Anche più della costata seriale mi colpisce però La mucca gialla di Franz Marc, del 1912: non mi aspettavo di trovarne una riproduzione proprio qui, per di più in forma di puzzle. Così ambientato il dipinto, celebre tra gli artisti del Blaue Reiter, “primitivo” e “spirituale” comme il faut, offre un rarissimo varco tra arte contemporanea e stabulazione. “L’ho comprata al Guggenheim di Bilbao”, mi dice giustamente Riccardo junior. Il nonno, Riccardo senior, ha aperto la macelleria nel 1932. (Biologie und Kubismus: forse non era alla collocazione tra colli di gallina ripieni e speziati salumi di cinta che pensavano gli accigliati esegeti espressionisti di Marc, proclamato eroe nazionale dopo la morte in guerra, a Verdun nel 1916. Tuttavia).
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Per accedere al bagno, che il bar divide con il cinema (si proietta Norbit, l’ultimo film di Eddie Murphy: cartelloni giganteschi, lui, il comico; lui-lei, lo stesso comico però travestito da donna cannone), si scende una scala, si passa accanto a una fumosa saletta per giocatori di briscola e scopone. Una sequenza di associazioni d’immagine, un divertimento iconografico: ne sono tentato. Vediamo. I giocatori di carte di Cézanne. I popolani scuri in volto, devoti e “teppisti” di Soffici (artista presentato a Volpaia per la prima edizione della mostra, quasi a invocare uno scontroso, inappagato genius loci). Infine la porta di Duchamp in collezione Sargentini, che si apre su due soglie, due “interni” (o “esterni”?) a scelta, simile a un meccanismo rotante per cambio di scena (un carillon della mente). Collocata in uno spazio angusto e male illuminato, nel fondoscala, a fronte delle imprecazioni dei giocatori di carte, la porta del bagno del bar di Radda è un dispositivo infero, non saprei se più vernacolare o sulfurea, forse l’una e l’altra cosa. “L’abbiamo sostituita, non ricordo perché: forse la Asl, motivi di adeguamento alle norme”. Maia Ferretta era bambina nel 1988, ma lavorava già nel bar. Ricorda Pietroiusti. “Il bar è cambiato”, aggiunge, “era necessario creare un ambiente più elegante, moderno”. A proposito delle mostre di Volpaia. Una playlist arbitraria e affettiva (del tutto): New polverone, a cura di Corrado Levi, 1986; Il cielo e dintorni, installazione con bandiere di Giulio Paolini, 1988; Da zero all’infinito, mostra a cura di Giacinto di Pietrantonio e Loredana Parmesani, 1988; la conversazione tra Alighiero Boetti e Cesare Pietroiusti per Arca. Dieci capitoli di realtà (1989), con Boetti aggressivo e tagliente; il testo di Giuliano Briganti sui mercanti d’arte. I lama si allontanano talvolta dai confini del parco, salgono una collina, poi scendono fino a fermarsi in un grande prato, dove pascolano. Li scorgo dall’auto, svoltando a una curva. Profili candidi e morbidi, come in sogno: cavallini ellenici in versione andina (per me ancora sempre – questa volta postcolonial – Pierre Puvis de Chavannes?).
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I wonder which narrations I should adopt, which terms are neither static nor simply localistic: the “uniqueness” of Chianti, the “uniqueness” of Tuscany. Perhaps it will be interesting to try to momentarily suspend recourse to the argument, to have a new experience of looking, an interpretive attitude. I am aided by two landscapes with words; two encounters. The first. Newsstand in Castellina in Chianti, newspaper display. I think such an offering of daily papers and magazines must be the most cosmopolitan and versatile one in Italy, after the one in Termini station. Herald Tribune, Ukraine Mail, Kräuter, Shqiptari i italisë, Argumenti i facti, Wine Spectator, Bild. The headers of the papers and magazines on sale recall the varied nationalities of migrants, their different uses of the territory: sophisticated Northern European tourists in search of wine tastings and tranquility, Romanian, Bulgarian and Albanian seasonal workers, Romanian, Ukrainian and Byelorussian caregivers. And North Africans, only recently arrived to look for work in the fields. “The great willingness to accept cultures fits in with local traditions of tolerance,” says Vanna Bianciardi, Castellina City Councilwoman for Culture, who spent three decades in Brussels. “Migrants work the land, they fix up houses that would otherwise be abandoned, they are appreciated by local communities. But the territory doesn’t offer young people the opportunities they deserve: the only work is in the vineyards, and some find it limiting.” The second landscape. Gaiole. Town center. I pass the short bridge over Massellone Creek. In front of me is a three-story house, a simple building for the early-Twentieth-century urban middle class, three windows in the two upper floors, a central balcony on the first floor, stone cornices: there are many in Florence or Siena, and evidently the builders looked to these two cities to establish models of “distinction.” Above the balcony some writing, or rather what remains of the writing, a spectral trace of it. The plaster has fallen off where the letters were, except for a few parts; here the color is deeper than that of the facade. The letters, which were probably in
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relief and wooden, like those of the nearby public baths, protected the pigment from rain and sun. Part of the writing is illegible, it seems chipped away. The characters are 1930s-style. Mechanically, without particular curiosity, I reconstruct it, and then I am surprised. Trattoria Tripoli. This astonishes me. In Sarteano, at the southern edge of the provinces of Siena and Arezzo, there still exists a “Tripolitania” trattoria that opened in 1911, just after the conquest of Tripoli. The prospect of Empire had aroused hope and enthusiasm in sharecroppers and poor laborers: it seemed to open up opportunities for independent work, property, well-being. The Gaiole trattoria, closed for decades, its sign eradicated and erased, conveyed the same promises to its customers, farm workers, a generation after the first occupation of Libya, and constitutes a sort of Fascist, Italian East-African replica of the peasant paean of Sarteano. Sharecropping, migrant, diasporic Chianti: pathways, connections, roads. I imagine I restore the writing, now that the trattoria no longer exists. Demotic traces of Empire, the “Great proletariat has risen,” “Graziani the heroic,” etc. El Alamein, July-August 1942. The Deutsche Africa Korps, under Erwin Rommel, is forced into an arduous battle for position after the brilliant offensive of the preceding months, which led an army greatly inferior in numbers and means to gain exhilarating victories against English, South African, Australian and New Zealander troops. Tobruk, Bardia, Sollum, Marsa Matruh. Alexandria and Cairo seem near, as do the oil fields of Syria and Iraq: England is nearing defeat, the prime minister Winston Churchill flies to Washington to request the aid of the United States, British officials and diplomats leave the Egyptian capital in anticipation of the DAK’s umpteenth devastating advance. Legends spread among Commonwealth troops of the invincibility of the “desert fox”: Rommel, ever-present in battle, moving constantly on the front lines, seems invulnerable to bombs and bullets, is both able and lucky. He is also the only general who does not allow politi-
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cal control over his troops, and maintains a decided distance, for example in the treatment of prisoners and respect for civilians, from the Nazi Wehrmacht that operates in Europe and on the Eastern front. Fighting with Rommel are Italian soldiers and officers: against the war, they fight with valor, but lack adequate means and arms. The decisive attack is planned for the night of August 30th: time is on the side of the English, who receive massive aid from the United States and have the chance to replenish their troops. Germans and Italians are worn down by eighteen months of fighting, and receive no supplies. All they can do is conquer Cairo, or face ruinous defeat. Before them is the enormous expanse of mine fields that the English have had captured Italian engineers set up. One of the paths that the Italian-German army must follow through the mine fields has been named the Chianti Track by Rommel’s cartographers: it is not merely a way to encourage Italian-German friendship, or to remind men tired and terrified of the danger from the mines (“in no other era and in no other operational sector of the second World War was there such a massive use of mines as at El Alamein”, historians write) of the pleasure of a famous and popular wine. The name evokes memories of patriarchal society: peasant abnegation and ruthlessness tempered by familiarity with the places one inhabits. Furthermore, it is necessary to mobilize “ethnographic” dimensions: the battle promises to be bloody, and on the other side fight populations of formidable courage and ferocity. “We see scenes of inconceivable harshness: the Maoris of Freyberg, the New Zealander general, appeared on the line of fire hanging from the sides of tanks armed with jungle knifes and launching war cries.” Soffici, Carrà, Magnelli: paintings that contributed to creating the image of rural Tuscany in the first half of the second decade of the Twentieth Century. Chianti e bicchiere (1913) by Alberto Magnelli was shown by Luciano Pistoi in Volpaia in 1983. Frugality, simplicity, purity, measure: a sort of “anthropological” classicism of the region, of the territory. Another narration, neither warlike nor elegantly trans-national, like the Chianti today.
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“The war and immediate post-war years were extremely difficult,” says Vanna, who at the time was a child, the descendent of an ancient family of Castellina landowners. “When the front passed, there was death, deprivation, pain. The Moroccan troops even raped women. A ten-year-old girl, one of my close childhood friends, died as a result of such violence. After the war, everything changed. There were more needs, and we needed money to meet them. Those small worlds-unto-themselves that had been satisfied with little no longer existed. The countryside emptied out, the farmers wanted to become factory workers and move to Florence, Siena, the North. Then, beginning in the 1960s, there was a whole new story: the sophisticated tourists, the English first of all, who discovered Chianti, bought houses, spent their vacations, even dedicated themselves to the land.” Tenuta Il Ricavo, near Castellina. It was here, thanks to the efforts of Mara Scotoni, a German Swiss of Italian origins, amateur painter in the manner of Kokoschka and wife of a film producer, that Chianti tourism as we know it today was born, in its most demanding, sophisticated version, targeting a well-to-do market that sought bucolic tranquility. Ricavo: a tiny burg of farmhouses around a landowner’s villa, the little church where the sharecroppers gathered with their families; today the houses host hotel guests. On the front of the church, to the lower left, is another trace of colonial expectations, ideologies and connections between the Italian State and the Catholic Church: “Missions 1935”, a plaque perhaps placed in memory of a mite disbursed, a starting point for edification. Migrants working on the land today are not experienced at all: attracted by the possibility of larger earnings, they mostly come from urban contexts and are versatile enough to plan a drastic displacement. Changes are geographical, social and professional ones: a migrant can be a small trader in his country of origin, an accountant, a young odontologist unable to open his own studio for lacking of money, and so on.
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“Living in the country, there was no bitterness and no social tensions or vexatious behavior.” Vanna lowers her voice, and concludes. “We had old farm women, in the evening, who asked for fire, and then said a very solemn thank you. I remember what my grandmother Verdiana said to them as they left: ‘for fire and water you never say thank you.’ I can only recall one single episode of vicious classism, cruelty: a landowner forbid a farm girl to wear city-style shoes. Only the landowner’s daughters were allowed to dress elegantly: for her – and she was ashamed of it – there were hobnail work shoes”. More images: details of the fresco in the church of San Cristoforo, in Strada; and the parish church of San Leolino, Panzano. School of Paolo Schiavo, perhaps Paolo Uccello in the former case; first half of the fifteenth century. It is rare: a wonderful garden with palms, a profusion of flowers and golden clouds stands out in the niche of the church. The sun and the moon alternate in the painting’s sky. It does not seem to be a surviving fragment of a lost composition: its fills the niche for which it was originally painting. Perhaps it was reworked, because the “hand” and the colors change and a successive layer of plaster covers the lower part: we don’t know. Perhaps a cross was inserted. A small empty space remains. There were certainly no landscape paintings at the time, except for a few “courtly” frescoes: we find landscapes as the backgrounds of crucifixions, depositions, holy conversations, annunciations. It is exciting to find the depiction of a Mediterranean Eden autonomous from the usual sacred themes. Does it imply a sort of selfawareness of the surrounding countryside? A celebration, an homage? A messianic sense of the place and its manifestations? Or, in contemporary terms: is it site-specific? We can only imagine. Certainly, the Chianti of the early fifteenth century does not seem to have been a garden of untainted and carefree prosperity, judging from accounts of pastoral visits: the churches were reduced to “spelonca latronum” - beside the altars it was not unusual to find a manger with feed, the ceilings were caving in and weeds grew on
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Il progetto consiste nella definizione di una geografia locale di luoghi indefiniti e in una proposta di conservazione. Frammentari, dispersi, situati negli interstizi del tessuto urbano o delle reti infrastrutturali, i luoghi indefiniti sono spazi lasciati a se stessi, né disegnati né curati da alcuno. Si evolvono secondo processi naturali spontanei e sono modellati da vento, pioggia, sole e da popolazioni di piante, insetti e micromammiferi. Appaiono disturbati dall’uomo e attraversati da profondi disequilibri ecologici, costituiscono quindi contesti non più integri; al tempo stesso sono preziosi margini ecologici e presidi di biodiversità. Qui possono sorgere equilibri inediti. Il territorio chiantigiano è stato profondamente modificato dal lavoro dell’uomo, e conosce oggi, assieme alla trasformazione del paesaggio agricolo in termini compatibili al lavoro meccanizzato, processi di urbanizzazione a più livelli: la costruzione o l’ampliamento di strade, la gentrificazione di castelli e campagne, la diffusione di tipologie, modelli o attitudini costruttive – villette a schiera, “terratetto” – che non sembrano chiamate a stabilire una connessione con il tessuto naturale e storico preesistente, così vulnerabile, e ne costituiscono piuttosto una spoliazione. Nel mostrarsi privi di intenzionalità, i luoghi indefiniti preservano memorie di molteplici futuri possibili; né pianificati dagli urbanisti né implicati dai processi di urbanizzazione, trasformazione e marketing turistico del territorio, rivelano l’”energia di riconquista” delle specie viventi e l’inventività dei processi di adattamento, sono spazi di libertà.
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Una palazzina Telecom dagli infissi entusiasticamente tinteggiati di rosso sorge in posizione elevata nella parte nord del paese: una casa vacanze trasferita dai lidi liguri o versiliesi e adibita a cavi e commutatori. Un soffice manto verde prospera nel giardino circostante, delimitato da un’intransigente inferriata, e nasconde quasi per intero la piccola, enigmatica scalinata in cemento (l’accesso è dall’altro lato). Lo stato di salute del prato, vigoroso, esemplifica al meglio le virtù della negligenza: nessun giardiniere si è mai addentrato nel verdeggiante ridotto. Veduta di Panzano alta sullo sfondo. L’area di sosta della corriera sulla strada regionale 222, a circa 2 km da Castellina, ha una grandeur per più versi inesplicabile. La desolazione da fine-della-storia del breve slargo si congiunge alla vastità del paesaggio. L’euforizzante vivacità di una popolazione di euforbia helioscopia attorno al ciglio stradale e la mistica segnalazione della locanda “la Capannuccia” (dovrei dire la profezia?) contribuiscono a rendere memorabile il luogo. In evidenza il nastro d’asfalto: rinnovato e in rilievo, demarca il confine tra strada e selva|campagna con cupa solennità. Nel distretto artigianale di Greve, vicina a una cabina del gas metano e a una centralina elettrica, un’area incolta è divisa in microappezzamenti delimitati da inferriate e da un’estensione a prato. Nei mesi di marzo-maggio alla policroma varietà delle fioriture corrispondono la profusione di cartelli di divieto e le innumerevoli comunicazioni dei gestori di rete. Una coppia dimorfica di cani si aggira bizzarra e amichevole nei paraggi; gli artigiani entrano e escono da oscuri laboratori; i caprioli discendono talvolta la collina per attraversare la strada e cercare nuovi pascoli. Strada provinciale 72, bivio per Radda|Lucolena a circa quattro kilometri dal centro di Radda. Da un lato della strada il capannone abbandonato di un’ex fabbrica di mobili e la cappellina settecentesca del Mercatale. Dall’altro un fabbricato industriale in cemento, tre grandi aperture sul fronte per il passaggio delle merci. L’edificio è oggi adibito a deposito comunale di pulmini e magazzino privato
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di mobili usati (quasi un interno metafisico). Sul fianco sinistro un prato incolto e un piccolo declivio. Una vasca metallica in smalto attende graziosamente ai piedi di un fico; poco più in là una rete da materassi, una trave industriale e una pila di casse di plastica. Al piccolo acquedotto di Volpaia, vero gioiello di architettura-Pet, si arriva dalla strada sterrata del bosco, alle spalle dell’abitato. Appartato e silenzioso, sorge tra bosco e vigneti, in un luogo poco frequentato. Un’ampia cisterna cilindrica rivolge stabilmente il rubinetto verso una bassa costruzione in mattoncini: la circostanza suggerisce che nel tempo tra le due vicine si sia tenuto un dialogo intenso e appassionato. Cancello e rete delimitano un prato smeraldino: ornithogalum, helleborus, onobrichis viciifolia. Vicino all’acquedotto una tavola e una panca in legno: appoggi solidi e frugali per il Mac. Avvistamenti di upupe, canti di uccelli. La sede delle poste di Castellina, una bassa costruzione in cemento in stile razionale, sorge nel punto esatto in cui la strada regionale 222 entra nell’abitato. È circondata da microestensioni a prato e lembi di incolto a piede di parete, per cui non esiste manutenzione, neppure saltuaria. Proprio negli interstizi tra piano stradale e parete si sviluppano microgiardini spontanei in costante trasformazione: popolati da piante pioniere comuni, adattate al clima e al suolo, e da piante d’appartamento migrate, costituiscono aree verdi a costo zero, parchi-prototipo interamente sostenibili. Già adibito a bagno pubblico, l’edificio in pieno centro di Gaiole ha una struttura perfino commovente per chiarezza e semplicità: l’enfasi perdutamente arcaica poggia su regolarità, bipartizione, simmetria. Il fronte ricorda un volto, non saprei dire se per un proposito sentimentale del mastro costruttore, oggi dimenticato; certo lo sguardo languido e benevolo della facciata ne tempera l’attitudine alla marzialità. Il lettering in legno ha perduto quasi del tutto l’antica colorazione, ma l’azzurro aviazione, laddove rimane, incoraggia inattese fantasie di gloria. Circospette ma ricche di iniziativa, erbe spontanee abitano il selciato e rendono più gentile il
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frammento di “umile Italia” di via Casabianca. Brutale la recente damnatio a bidoni. La baracca, utilizzata come deposito Anas, sorge a lato della statale 429 in direzione Castellina, subito prima del bivio per Castellina e Greve. Chi proviene da Radda incontra il deposito sulla sua destra. Architettura provvisoria standard per paesaggio italiano, in laminato metallico, la baracca appare destinata, come le innumerevoli consorelle, a una funerea eternità. È ritrovo di cacciatori nei giorni di festa, e teatro di parades incrociate di selvaggina. Un soffice ventilato manto verde in costante movimento adorna benevolmente (redime?) lo spiazzo antistante. Il luogo non è ameno. Terratetto addossate l’una all’altra in duplice fila, parchi giochi di dimensioni ridotte tra le case, enormi contrafforti. Panzano, nuovo insediamento residenziale. Per gli spazi pubblici si è pensato di eradicare la più piccola pianta spontanea o erba. Questo il punto di vista reso esplicito: si corre e si gioca rigorosamente su ghiaia.
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The project consists of the definition of a local geography of undefined places and the consequent conservation proposal. Dispersed fragments, located in the interstices of the urban fabric or of infrastructure networks, undefined places are spaces left to their own devices, neither designed nor cared for by anyone, that have evolved according to spontaneous natural processes, modified by wind, rain, sun and the populations of plants and small animals that inhabit them. They appear to be disturbed by man and marked by profound ecological imbalances, and thus are no longer integral contexts; but at the same time they are precious ecological fringe areas and garrisons of biodiversity, within which new balances can arise. The Chianti territory has long been shaped by man’s work, and today, along with the processes of transformation of the agricultural landscape in response to the development of mechanized labor, it is marked by urbanization processes at various levels: the building or widening of roads, the gentrification of castles and countrysides, the diffusion of architectural types, models or attitudes – ranks of attached houses, semi-detached villas – that do not seem to be intended to establish a connection with the vulnerable pre-existing natural and historical fabric, but constitute its stripping away. In exhibiting their lack of intentionality, undefined places preserve memories of multiple possible futures; neither planned by urban designers nor implicated by processes of urbanization, transformation and tourist marketing of the territory, they reveal the “reconquering energy” of living species, they are spaces of freedom.
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The telecom house with its door- and window-frames enthusiastically tinted red stands on a hilltop: a vacation house relocated from the lidos of Liguria or Versilia and used for switching cables. A soft blanket of green flourishes in the surrounding yard, demarcated by an intransigent railing, and almost completely hides the enigmatic little cement stair (the entrance from the other side). The lawn’s vigorous state of health wholly exemplifies the virtues of negligence: no gardener has ever penetrated here. Upper Panzano in the background. The bus rest area on regional road 222, about 2 km from Castellina, has a grandeur that is in several respects inexplicable. The endof-the-story desolation of the small space meets the vastness of the landscape. The euphoriant vivacity of a population of euphorbia helioscopia along the edge of the road and the mystical sign (should I say prophecy?) of the inn called «la Capannuccia» contribute to making the place memorable. The ribbon of asphalt is accentuated: new and conspicuous, it marks the boundary between road and woodland/countryside with dark solemnity, particularly after the rain. In the artisans’ district of Greve in Chianti, near a methane gas box and an electrical box, the green space is divided into micro-plots demarcated by railings and by a swathe of lawn. In the months of march, april and may the polychrome variety of blooms is a foil for the profusion of warning notices and the innumerable communications of network managers. A dimorphic pair of friendly dogs wanders nearby; the artisans come in and out of their dark, narrow workshops; sometimes deer come down the hill to cross the road and look for new pastures. Provincial road 72, turnoff for Radda|Lucolena about four kilometers from the center of Radda. On one side of the road, the abandoned hangar of an ex-furniture factory and the eighteenthcentury Mercatale chapel. On the other side a cement industrial building, three large openings in the front for loading and unloa-
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ding merchandise. The building is used as municipal storage for minibuses and a private used car warehouse (almost a metaphysical interior). On its left side an uncultivated meadow and a slight slope. An enameled metal tub sits gracefully at the foot of a fig tree; a bit beyond it mattress springs, an industrial beam and a pile of plastic crates. One reaches the small aqueduct of Volpaia, a true Pet-Architecture disregarded jewel, from the unpaved road through the woods, behind the town. Solitary and silent, it stands amid woods and vineyards, in a little-frequented spot. A large cylindrical cistern steadily aims its tap towards a squat brick construction: the arrangement suggests that over time the two neighbors have held an intense and impassioned dialogue, who knows. A gate and netting demarcate an emerald-green lawn. Near the aqueduct a wooden table and bench: solid and frugal resting place for your Mac. Hoopoe sightings, birdsong. At the point where regional road 222 enters the town stands Castellina’s post office, a squat rational-style cement construction. It is surrounded by micro-extensions of lawn and patches of uncultivated land around the building, along the walls, which are not maintained, even sporadically. In these interstices spontaneous micro-gardens develop, in constant transformation: populated by common pioneer plants, suited to the climate and the soil, and by migrated apartment plants, they constitute prototypical green spaces, sustainable parks. Once a public lavatory, the building in the center of the town of Gaiole has a structure that is tormenting in its clarity and simplicity: the emphasis on regularity, bi-partition and symmetry appears unspeakably archaic. The front reminds one of a face, perhaps due to some sentimental intention on the now-forgotten builder’s part; certainly the façade’s languid and benevolent gaze tempers its martial attitude. The wooden lettering has almost completely lost its original coloring, but where it remains, the sky-blue awakens unex-
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pected fantasies of glory. Circumspect but with abundant initiative, spontaneous grasses inhabit the paving and render this fragment of “humble Italy� more gentle. The recent damnatio of trash bins is brutal. The shed, utilized as a road works storage space, stands alongside state road 429 towards Castellina, just before the turnoff for Castellina and Greve. Coming along the road from Radda, one finds the shed on the right. A standard temporary architecture for the Italian landscape, in sheet metal, it appears, like its innumerable sisters, destined to a funereal eternity. It is the meeting spot of hunters on vacation days, and the parades of dead game increase the cheerfulness of the place. And yet there is a soft blanket of green, in constant movement. The place is not pleasant. Semi-detached houses one after the other in a double row, miniature playgrounds between the houses, enormous sustaining walls. Panzano, new residential development. For the public spaces, every plant down to the tiniest weed has been eradicated. This is the point of view made explicit: you run and play (phobicly) on gravel.
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the floors. Prelates kept concubines and whooped it up in taverns in the evenings, illiteracy was the norm, brigandage was fairly widespread and even parish priests exasperated the high ecclesiastic authorities in inspections because they were utterly lacking in apostolic culture and understanding of the liturgy. But these may be mere details from the point of view of someone who wishes to depict the surrounding countryside and the social order bound to it as a promised land. Recognizable, like paintings for an herbarium: anemones, viper’s bugloss, borage, poppy, buttercup. Also generic compositions: four lobed petals, a calyx. The western ideogram for “flower.” With regard to Eden: observed on the basis of signs, public and private signage, outdoor advertising, the territory is traversed by a paradisiacal affirmation that is uninterrupted and slightly obsessive, not merely advertising. Eden appears fragmented, pulverized, disseminated. “Organic”, “non-genetically-modified”, “Natural shopping center”, “Greenchianti” winery (or plant nursery). Between Panzano and Radda there is a farm with a flashy iron fence and a double citation from Poussin’s Golden Age: two men carry a colossal bunch of grapes on their shoulders. They are not our contemporaries, but the happy patriarchs who in their youth inhabited the Earth in the Golden Age (an environmentalist’s note: why paint the patriarchs Klein-blue?) I am not interested in the perfection of the individual form alone nor in the complex precision of architecture, but rather in excess: the way in which, suddenly, over the course of a morning filled with bright and constant light, the soil appears covered by a blanket. Described in melodious, sugary, convenient terms, the green world experiences paroxysms at the two extremes of the arc of the flower’s life. When the sexual cycle is complete, evolution seems to have ordained that all that remains is a crude, resolute decadence.
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“Uncultivated patches, abandoned areas, infrastructural interstices: these are incredibly important from the point of view of biodiversity.” Nicola Schoenenberger lays out his thesis with decidedly persuasive competence: a botanist and researcher at the university of Neuchatel, a specialist in spontaneous grasses, interlopers, vagabondes. “In England they’ve studied some ‘traveling’ plants originally from the United States, that were transported by people in transit. Over the course of two/four generations they became capable of producing intersterile hybrids with nearby local species: this means that they initiated the process of speciation. Two to four years to adapt to the context and create a new species: those are extremely quick cycles unheard of for any alpine meadow or other stable ecosystem. Hybridization seems to be at the origin of processes of speciation: in the past it was ignored. That’s why promiscuous, neglected, uncultivated contexts acquire all their evolutionary significance.” Bettino Ricasoli saw to improving the roads so he could ride his Arab steed all the way to the city: from the castle of Brolio to Florence in four hours. While moving across the Chianti, I had in mind two books on spread, “diffuse” cities (the first) and vernacular urban architecture (the second): Rem Koolhaas, Stefano Boeri and Sanford Kwinter Mutations, 2000; Atelier Bow-wow, Pet Architecture Guide Book (Tokyo), 2005. “It’s clear that for the last ten years construction has drawn capital investment from less-profitable chemical or industrial businesses; or that was made available thanks to the law for capital recovery. Tuscany is at the center of this boom: the chance to grant concessions and licenses is enticing to cities and municipalities with cashflow problems.” Alberto Asor Rosa is alarmed by the excess of construction sites, second homes, detached and partially-detached “villas”. How can preservation and development go together? From this point of view, Chianti is no different from any other
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protected area on the planet; but is there a widespread culture of conservation? We need a sentient, efficacious, transparent institutional context. And instead. “It happens that part of the capital may have dubious origins. Construction presupposes relatively small amounts of capital, easy to move around and reinvest”. With the mechanization of viticulture, the Chianti landscape was greatly transformed: no more stone retaining walls or terraces; tractors and machines for cutting vines and harvesting grapes have to be able to move along the rows, so the terrain cannot be stepped or interrupted. Trees and marginal vegetation have been removed. Salient dates: early 1970s, mid-1990s: dates that coincide with the arrival of migrant communities. Senegalese first, socially organized around a charismatic representative figure. Bulgarians, Romanians and Albanians later. These are recent changes, industrialization processes transferred to the land, rather than occurring in industrial districts at the periphery of the city. Considered from a morphological and landscape point of view, the sharecropper’s parcel of land was extremely varied: it provided subsistence for the sharecropper and his family. The Chianti landscape, so admired for its variety of crops – vineyards alternating with olive groves and fruit orchards, grains in geometric rows – developed out of simple adaptation to a need: the small piece of land had to produce grain for bread, legumes and cereals, wine, oil, fruit and vegetables. This adaptation is not suited to intensive cultivation: vines planted in grain fields and “married” to maple trees share nutrients from the soil with nearby trees and crops, and naturally cannot be machine-harvested. Stefano Di Blasi, oenologist, director of research and development for Antinori, expresses a balanced point of view. “The most profound transformation is taking place today: in the 1970s, the use of machinery was still limited, there was no lack of manual labor. Rational agriculture modifies the landscape, and at the same time prevents abandonment of the land. Sure, a rational vineyard is bare,
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especially in winter when the vines have lost their leaves. Compared with the Langhe region, for example, or other areas characterized by vast vineyards, the Chianti still appears to be a well-conserved territory, with sizeable woods. There are greater implications as far as the soil is concerned: herbicides and industrial fertilizers destroy populations of symbiotic bacteria and fungi that we know so little about. If a hectare of land contained about two tons of earthworms before industrial transformation, today it contains a hundred times less. The soil has been reduced to an inert substratum. But there are encouraging signs: we are turning back to using organic fertilizers and natural processes.” An historical-religious querelle has arisen around the name and historical figure of the saintly bishop Leolino, in Latin, Leoninus. We do not know for certain who Leoninus was, nor when he lived, nor what actions led to his canonization. Perhaps he was the bishop of the diocese of Fiesole in the third century; perhaps he was martyred at the time of emperor Massimiano (“canis”, inveighs an antiphonary found in 1712, the only historical source that mentioned Leoninus and succinctly describes his death), run through with a sword for his order. Just before the moment of his death, Leoninus is “ilaris”, the antiphonary tells us: fearless, he prevails spiritually over his persecutor. Vox populi. Inside the church, to the right of the entrance, is a fresco by Raffaellino del Garbo: Christ receiving baptism in the waters of the Jordan. The scene has the characters established by iconographic tradition: Christ, John, two angels in prayer. A few wanderers in the background, inattentive, pastoral: they place the narration on a light, everyday level congenial to the artist. An intimate and delicate fable portrayed in an affable way, in maternal language, serenely dialectal: not a mystery of faith. A pair of peasants descends a verdant crag on the right, placing the evangelical episode in a rural context: the ancient tale frescoed in the country church is thus brought closer to its sixteenth-century audience. A little stray dog wanders about with his tail raised – every morning, for him, is as clear and inspiring as the beginning of the world. A hoe rests against an olive tree trunk: an invitation to
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rest on the Sabbath, to elevation, aimed at area landowners, foremen and peasants? And once again: a localistic “model” for the community of reference, a relational, situational digression? San Leolino bishop and martyr: ineffable little book. Author: Umberto Ricci. Date of publication: 2000. “Every year, in the five churches of San Leolino, in November, when the melancholic autumn is well along, the saint’s festival is celebrated, with priests participating and a great number of people in attendance. Farmers love to entrust to his authentic protection the golden grain they have recently consigned to the soil, as they anxiously await the appearance of the vigorous stalk and blond sheaf for their daily bread”. [sic]. I observe a photograph I took this morning. A population of tussilago farfara colonizes the edge of the road. The asphalt is broken and the plants grow in between the cracks and the sharp loose stones of the pavement; in the landslips. It is just after this that I encounter the lamas. “They had come to Chianti to learn farming: young Jews preparing to emigrate to Palestine, found a kibbutz and take part in the building of the Great Israel. Religious Zionists: some convinced, others following opportunity, because they wanted to leave Europe. Most came from Germany, Poland, Czechoslovakia, Estonia, and after the Anschluß from occupied Austria as well.” Paola Giovanna Morelli d’Aubert fervently updates me on her research, conducted first of all for almost autobiographical reasons – she was born in Masseto, a little village near Piazza di Sopra, one hill over from the Tenuta Il Ricavo, near Castellina, where the young religious Zionists worked side by side with the farm’s sharecroppers from 1934 to 1938, before racial laws put an end to their community -, and also due to her passion for history and civics, alone or with Vittorio Haiim Luzzatti, in the archives of Siena, Rome, Florence, Milan, Jerusalem, and finally the kibbutz Yavne e Beerot Yzhak. The terraces constructed by the participants in the Ricavo haksharà are still
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visible, although in ruins, and locals call the hillside they cultivated the “Jews’ hill.” They were high school or college graduates, city folk, but in the haksharà they wanted to “prepare our souls for primitive rural existence, follow the law of God and work. We who were children of an upper-middle-class environment,” proclaimed Benno Offenburg, the first manager of the haksharà, in the Italian-Hebrew weekly Israel in the spring of 1935; “we want to be, as the ancient fathers were, farmers of our land.” Beginning from a simple historiographic reference, Paola Giovanna reconstructed the series of events: she found elderly people who still remembered, gathered documents, found names and biographies. A few surviving members of the haksharà still live in Israel. “There wasn’t much to eat, we were often hungry,” Hilde Miron told her in Haifa. “Then we would start to dance. That was how we lived, we pioneers.” There are some very moving photographs taken by the chaluzim, or hoe-bearers, to document or keep a memory of their activity. Vigorous, thin, smiling, their skin darkened by the sun: strong-willed and sensual, with no trace of sadness or perplexity, like other young people from ideological and vocational communities of the entre-deux-guerres period, in Moscow, Paris, Dessau, when it was very clear what was good and what was evil. Three of them mow grain, in the background is a hillside covered with grain and vineyards. Straw hats, an intellectual’s little round eyeglasses. A girl takes care of the farmyard animals, chickens, geese, turkeys. Others wash linens, while the boys lead the oxen to pasture. Daily chores differ according to gender. In the evening, they study the Torah, Hebrew language and a bit of Italian to be able to communicate. There are portraits of the sharecroppers among whom the chaluzim lived, and with whom they worked in the fields – the Peruzzi sharecroppers, for example, with their sunken faces, elderly, hats pressed down on their heads, pants spartanly tied around the waist and suspenders for him, hair wrapped in canvas cloth for her, yet smiling in the photo with their young apprentices. Helleborus virdis, Radda. Onobrichis viciifolia, Nusenna.
baedeker # 21, 2007
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The impenetrable country church of Lucolena: a graceful ceramic piece painted with the sainted martyr on the architrave. I go to the door; locked. I ring; no one answers. Several times. A flourishing garden around the bocce court. “It belongs to the parish priest,” someone whispers. An unplugged refrigerator closed with a chain and a padlock so big is seems distinguished: I imagine it’s there for busy summer evenings, when they finally play. Little apples fall from an apple tree. A dog. The inexorable chainsaw from the woods: the default accompaniment to the Italian rural or woods landscape. Radda, cafe. The bathroom door was the object of a well-known intervention by a young artist in 1988. The occasion was the seventh edition of the Volpaia contemporary art exhibition. Cesare Pietroiusti had photographed the inside of the door in life-size, then applied the photograph to the outside. A way of making public the obscure figurative and literary activity that had taken place inside the bathroom for years: the inside of the door was covered with graffiti – jests, pearls of wisdom, contumelies, phallic and scatological doodles. To promote, in the crudest of ways, a new beginning: no more first and second trans-avant-gardes, no more “style.” Rather, observations, social investigations, “slices of life”: the artist as ethnographer, psychiatrist, perhaps social therapist. At the basis of the intervention, I suppose, there was also perplexity about local rhetoric, of the sort: art to art, “innate sense of beauty,” continuity (always a given: in Tuscany) between art and tradition. No more Castle of Volpaia, then; rather, a cafe in town, and what’s more a fairly sketchy and shabby one. Castellina. Antica Macelleria Stiaccini. A boutique-butcher shop: very classy. It opens onto the road that passes through town, running past the oldest palazzos: via Ferruccio. On the walls and shelves, an extensive collection of prints, paintings, photographs and dolls on ovine, bovine and swine themes: very freaky, I think. Really amusing. A large color serigraph, without a frame: a rib roast is reproduced nine times, each time in a different color. A Warhol
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Marilyn among old lithographs of Yorkshire cows with butcher’s cuts mapped out on them. “It was my idea, I brought the photo and a graphic artist friend of mine transformed it.” Simple. Even more than by the serial rib roast I’m struck by Franz Marc’s Yellow Cow: I didn’t expect to find a reproduction of it here of all places; I think the painting, celebrated among Blaue Reiter artists, “primitive” and “spiritual” as the German admirers of the Douanier Rousseau intended to be, offers a very rare breach between contemporary art and stalling, what’s more in puzzle format. “I bought it at the Guggenheim in Bilbao”, Riccardo Stiaccini, the owner, rightly tells me. His grandfather, Riccardo Stiaccini senior, opened the butcher shop in 1932. (Biologie und Kubismus: perhaps those frowning expressionist exegetes of Marc were not exactly thinking about a placement between stuffed chicken necks and spicy salamis - Marc was even proclaimed a national hero after being killed in the war, at Verdun in 1916. But anyway). To enter the bathroom, which the bar shares with the cinema (they’re showing Norbit, Eddie Murphy’s latest film: gigantic posters of him, the comic; him-her, the same comic dressed as a fat woman), one descends a stairway, passing by a smoke-filled room for card players. A sequence of associations of images, an iconographic divertissement: I am tempted. Let’s see. Cézanne’s Card Players. Soffici’s dark-faced peasants, devotees and “hooligans”, presented at Volpaia in the exhibition’s first edition, almost as if to invoke a peevish, unfulfilled genius loci. And naturally Duchamp’s door, in the Sargentini collection, that reveals two openings, two “insides” (or “outsides”?) to choose from, like a rotating stage-setchanging mechanism (a carillon of the mind). Located in a narrow a poorly-lit space beneath the stairs, in the face of the card players’ cursing, coughing and sarcastic remarks, the bathroom door of the Radda cafe is an infernal device: more vernacular or sulfuric I couldn’t say, probably both, it opens onto
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the “low,” the “corporeal.” “We had to replace it, I don’t remember why – maybe the health inspectors, it wasn’t up to standard. I wouldn’t know.” Maia Ferretta was a child in 1988, but she was already working in the bar, and she remembers Pietroiusti. “The bar changed,” she adds, I would say with relief, “we had to update the decor, create a more elegant, modern atmosphere.” With regard to the Volpaia exhibitions and the series of catalogues that documents them. An arbitrary and (completely) emotional playlist: New polverone, exhibition curated by Corrado Levi for the fifth edition, Ultime, 1986; Il cielo e dintorni, installation with flags by Giulio Paolini, 1988; Da zero all’infinito, exhibition curated by Giacinto di Pietrantonio and Loredana Parmesani for the seventh edition, 1988; the conversation between Alighiero Boetti and Cesare Pietroiusti for Arca. Dieci capitoli di realtà (1989), with Boetti unusually aggressive and acerbic (a conversation that also counts as a generational boundary-marker); Giuliano Briganti’s text on art merchants. The lamas sometimes get outside the boundaries of the park, go up a hill, and then go down to a large meadow where they graze. I spot them from the car, going around a curve. Soft white profiles, as in a dream: Andean versions of Hellenic horses (for me once again – this time postcolonial – Pierre Puvis de Chavannes?).
Questionario sulla produzione di site-specific: 77
a) descriveresti preferibilmente la tua attività di artista impegnato nella produzione di site-specific come l’attività di [barrare la casella scelta]: ° un etnografo in ricognizione sul campo ° un operatore sociale ° una locusta b) nel proporre progetti che implicano spostamento e mobilità, ti definiresti piuttosto ° un cosmopolita dello shopping ° un internazionalista con motivazioni di advocacy ° un aspergico freak c) osservi le delicate tonalità turchesi del cielo e ° elabori una teoria sullo spostamento planetario dei semi di ortica, via marittima, via eolica ° pensi alla grande città asiatica dove inaugurerai dopodomani ° ti chiedi quante ore ti separino dalla cena e) che cosa ti attrae di più nello spostarti di luogo in luogo? ° il movimento in sé ° la possibilità di coltivare ampi spazi di solitudine ° la certezza di trovare comunque una palestra f) incontri nella sua città un curatore|una curatrice che desidera invitarti a lavorare sul territorio. Fissi l’appuntamento ° all’acquario ° in cattedrale ° all’aereoporto g) nel muoverti sul territorio ascolti musica? se sì, preferiresti inserire nel tuo walkman o i-pod: ° dido ° pachelbel ° peaches
Questionnaire on site-specific production: 78
a) would you prefer to describe you artistic activity involving the site-specific production as the activity of [mark one box]: ° an ethnographer doing field research ° a social worker ° a locust b) in proposing projects that involve movement and mobility, would you define yourself as: ° a cosmopolite shop-a-holic ° an internationalist with advocacy motivations ° an aspergic oddity c) you observe the delicate turquoise tones of the sky and ° you develop a theory on the planetary shift of nettle seeds ° you think about the large Asian city where you have an inauguration the day after tomorrow ° you wonder how long it is until dinner e) what attracts you most about moving from place to place? ° the movement in itself ° the opportunity to cultivate broad spaces of solitude ° the certainty of finding a gym f) in your city you have a meeting with a curator who wants to invite you to work in his territory. you make an appointment ° at the aquarium ° in the cathedral ° at the airport g) when moving through the territory do you listen to music? if yes, would you prefer on you walkman or i-pod: ° dido ° pachelbel ° peaches
piccolo dispositivo per ammirare le malerbe | small device to appreciate weeds, 2007
baedeker # 4, 2007